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| << | < | > | >> |Pagina 17Non vi è una pagina di questo libro in cui non siamo indotti a porci, in un modo o nell'altro, apertamente o per una scala segreta, domande che si riporteranno in definitiva sempre a questo unico interrogativo: qual è, in un uomo del XVII secolo, il rapporto tra la persona e la funzione? Che cos' è un re? In che modo si è re? Il re, di cui non un gesto, non un'azione può compiersi, non una parola essere pronunciata senza che un rituale la inquadri, che un cerimoniale la circondi, senza che sia accompagnata da un omaggio, da un inchino, da un segno di rispetto e talvolta, soprattutto quando esce o viaggia, di venerazione: come si sviluppa in lui la coscienza di sé, che oggi non possiamo immaginare se non ipertrofica, esaltata dagli onori? Perché di tutti gli onori che gli vengono resi, ciascuno sottolinea, per l'appunto, che lui non c'entra per nulla, e che ci si sta rivolgendo al figlio di suo padre e all'erede di una stirpe. Come si intrecciano e si separano in lui la corona e la persona? La domanda può e deve essere ampliata. Che civiltà è quella in cui ci si tramanda di padre in figlio non soltanto lo Stato, ma tutto: una casa, un mulino, un mestiere, uno statuto, una professione, un titolo? In cui Molière è tappezziere perché lo era suo padre, in cui Francesco Couperin suona a undici anni il grande organo di Saint-Gervais perché lo faceva suo padre quando lo ha lasciato orfano? Dove il Primo cameriere Du Bois viene al Lever du roi a presentargli il figlio, poi, vent'anni dopo, arriva un mattino tenendo per mano il nipotino, che, uno dopo l'altro, prenderanno il suo posto? Un figlio riceve dal padre un posto determinato nella società, un ruolo e una funzione, così come la forma del naso o la tendenza alla pinguedine: che coscienza può avere di se stesso? Questa domanda si porrà a ogni pagina, e sarà sempre intrigante ai nostri occhi. Ciò che il mondo di oggi ci insegna, ciò che costruisce intorno a noi e in noi, mira a convincerci che siamo responsabili di ciò che siamo e che siamo i soli ad esserlo. Cos'è che un figlio deve al padre? Il meno possibile, crediamo noi. Si tratta, beninteso, di un'illusione poiché la sociologia e la psicologia, per una volta d'accordo, ci hanno dimostrato che è falso: e questo è anche uno dei maggiori contributi del XX secolo alla conoscenza dell'uomo. Eppure tutto, intorno a noi, vorrebbe farci credere il contrario, mette in risalto ciò che può spingerci a crederlo e nasconde il resto, per dilatare in noi la convinzione che ciò che siamo può coincidere con le nostre azioni. Come comprendere il modo in cui si ordinavano e si ripartivano, negli uomini di quell' epoca, la coscienza di essere se stessi e la coscienza di non essere altro che un passaggio, una cinghia di trasmissione, un' eredità ricevuta e da trasmettere?Chi siete, quando vostro padre vi chiede: «Come vi chiamate?» e voi rispondete all'età di quattro anni: «Mi chiamo Luigi XIV»? E quando, per di più, vostro padre replica: «Non ancora, figlio mio, non ancora». Cercheremo di seguire, attimo per attimo, quella che poteva essere la giornata del Re Sole. Lo prendiamo al risveglio, per accompagnarlo fino al suo ingresso nei sogni della notte, perché sogna come tutti gli uomini e dal diario dei suoi medici sappiamo anche che ha degli incubi. È possibile, attraverso lo stupefacente apparato, come si diceva, di questa giornata, in cui tutto (quasi tutto) avviene in pubblico, in cui bere un bicchiere di vino, calzare le pantofole, indossare i calzoni è un atto pubblico, nel senso più stretto della parola, vale a dire destinato per natura ad essere mostrato e condiviso, è possibile dipanarvi la matassa della coscienza di una persona, Luigi, Dieudonné ('Diodato'), e quella di una istituzione, Luigi, re di Francia? Ma già, insidiosamente, i fili si sono intrecciati nella semplice enunciazione del nome di quest'uomo, perché Luigi, Dieudonné, ha già in sé il marchio di sua madre e di suo padre e i loro ventitré anni di attesa di un delfino... | << | < | > | >> |Pagina 5227 luglio 1683: il Primo medico del re e il Primo medico della regina, le due eminenze del loro tempo, si azzuffano sul salasso e sull'emetico, con la serietà, la testardaggine, lo slancio e l'animosità di due accademici della Sorbona, di due ideologi, di due teologi, di due politologi, sociologi, tecnocrati, tattici, strateghi, metodologi, di fronte al corpo sofferente e miserevole della regina, che sta per morire mentre loro discutono.Il povero Moreau, terzo medico presente, molto imbarazzato, fa ciò che deve fare. Semplice consulente, dice quello che bisogna dire e si rimette al giudizio di quello tra i suoi colleghi che è gerarchicamente superiore. Settembre 1669, Il signor di Pourceaugnac Sì, signore, voi avete dipinto assai graficamente, "graphice depinxisti", tutto ciò che appartiene a codesta malattia; non può esserci nulla di più dottamente, saggiamente, ingegnosamente concepito, pensato, immaginato, di ciò che avete profferito sul tema di codesto male, sia riguardo alla diagnosi sia riguardo alla terapia...
Luglio 1683: Moreau dà ragione a D'Aquin, secondo l'ordine gerarchico. Due
contro uno, si prescrive il salasso.
Ma ecco che, quasi subito, entra in scena un quarto personaggio, il seminatore di dubbi. Perché se è stato prescritto il salasso, bisognerà pur praticarlo. Il che è di competenza e di responsabilità del Primo chirurgo. Il suo vero nome è Dionis. La realtà supera la fantasia: si direbbe che l'abbia inventato Molière. Bisogna sapere che cos'è un chirurgo nel XVII secolo. Parlo di rango, beninteso. Avrete capito tutto, non appena vi avrò detto che è della stessa corporazione dei barbieri. Esattamente come, in questa società di antiche istituzioni inscatolate le une nelle altre, un musicista del re fa parte della stessa corporazione dei giocolieri del Pont-Neuf, che si chiama "Comunità de' maestri di danza e suonatori di strumenti, sia alti che bassi", così allo stesso modo il Primo chirurgo del re porta il titolo di "Capo e custode delle carte e privilegi della chirurgia e barbieria del regno". Per via del suo rango, il Primo chirurgo non può intervenire che con l'appoggio dell'autorità del Primo medico: non può fare nulla né prescrivere nulla, né un colpo di bisturi o di lancetta, senza il suo consenso, pena "la radiazione dal servizio". Non è che un barbiere che ha fatto strada, uno che sa maneggiare il rasoio diventato esperto di bisturi. A questo modesto scalpellatore di carne, dunque, viene dato l'incarico di eseguire la sentenza, vale a dire il salasso, cosa che deve fare con destrezza, in punta di dita e senza tremare. Ne avrà tutto il tempo più tardi, come lo sfortunato Felix che, dopo l'insostenibile sforzo che fece su se stesso nell' operare il re di una fistola, a rischio di ucciderlo, manterrà fino alla morte, diciassette anni più tardi, un tremore alla mano. Dionis era il re del bisturi, senza nessuna dottrina in testa, senza teoria, né sul salasso né sull'emetico, senza ideologia né dogmi, senza posizioni di principio. Stava per incidere e raccogliere una o due pinte di sangue: i rudimenti del mestiere per un chirurgobarbiere. Sfortunatamente, anche lui era dotato di spirito di osservazione e commise 1'errore di occuparsi di cose che non lo riguardavano. Attirò l'attenzione di quei signori su un piccolo rigonfiamento sotto l'ascella di Sua Maestà. Si permise di insistere: lì, e solo lì, era il male di cui soffriva la regina. Bastava incidere lì. Non se ne fece nulla. La struttura gerarchica, non solo degli uomini, ma delle discipline e degli incarichi, la priorità accordata a quei tempi al ragionamento logico e deduttivo sull'esperienza, insomma, tutto ciò che caratterizza la medicina di allora toglieva parola e credibilità a Dionis, se anche avesse avuto ragione. Aveva torto poiché la sua posizione faceva sì che non potesse aver ragione, e in ogni caso non aveva il diritto di dirlo. Sventura volle che avesse ragione. Forse, incidendo quell' ascesso, sarebbe stato possibile salvare la regina. Cosa che sarà constatata con l'autopsia. E tramandata per iscritto, ecco perché conosciamo questa storia in tutti i dettagli. Maria Teresa è morta, il 30 luglio 1683, per un ascesso non curato, che si è propagato all'interno del torace, ha attraversato la pleura, ha invaso il polmone e provocato 1'asfissia. Uomini e donne muoiono così perché siano applicati dei principi; le civiltà, d'altra parte, muoiono allo stesso modo. E altrettanto i regni: la monarchia, in Francia, sparirà nel 1789 per lo stesso male della povera regina Maria Teresa: rifiuto di una diagnosi, perché eseguita da persone che non hanno l'autorità per formularla. Ma chi non ha sentito, dalle nostre televisioni, o letto sui nostri giornali la frase che aveva ridotto al silenzio il chirurgo Dionis: «Quest'uomo ha torto, poiché non è in una posizione tale da avere il diritto di avere ragione». Ancora ieri... Molière è sempre tra noi, e anche Tomès; e Tartufo, come no... Scusate, sto divagando... Ma non è forse vero che la cecità degli uomini, quelli di ieri, quelli dell' altro ieri, quelli di oggi, deriva loro dal fatto che ragionano in base a quello che sanno? E se sanno poco, bisogna che ragionino di più: chi potrebbe rimproverarglielo? La disgrazia arriva quando, ragionando in base al poco che si sa, si costruisce un mondo tanto ragionevole che lo si crede vero, mentre è immaginario. E se ne deducono, ragionando, delle leggi assolute, e le si leviga e le si affina e, quando sono finalmente diventate perfette e irrefutabili, le si applica al mondo reale. E così si salassano gli uomini per applicare le leggi d'Ippocrate e di Galeno, li si mette in prigione per applicare le leggi del grande corpus politico che farà la loro felicità, e Molière ha sempre ragione: «Un uomo morto non è che un uomo morto, e non fa testo; ma una forma non rispettata reca un serio pregiudizio a tutta la classe medica». Ma non prendiamocela troppo con questi poveracci. La stupidità è di tutte le epoche, e loro facevano del loro meglio con quello che avevano. La medicina, al tempo di Luigi XIV, si trova a una difficile svolta. Si dibatte su Galeno e su Ippocrate, che hanno dimostrato, ormai secoli addietro, che il temperamento e la salute umana non hanno altra causa che non sia l'equilibrio dei quattro umori, il sangue, la bile, il flemma e l'atrabile. Se uno di questi umori è "viziato", o in eccesso, ci si ammala. Che fare, se non dei salassi, se l'umore "viziato" è nel sangue, prescrivere 1'emetico se è nella bile, o dei clisteri per eliminare il male colpendolo lì dov'è? È questo che si insegna alla Sorbona, da cui escono Vallot e D'Aquin. A Montpellier, le idee sono altre, si pensa a degli scambi, a delle fermentazioni, delle effervescenze, delle acrimonie, dei ribollimenti e degli scontri di acidità e di alcalinità. Forse, è il futuro, questa chimica, ma vallo a sapere... Fagon viene da Montpellier, prima o poi farà fuori D'Aquin, e che importa se il malato muore secondo le regole! Non bisogna mai rimproverare agli uomini la loro ignoranza, ma solo la loro ostinazione a costruire dei sistemi su ciò che non sanno. | << | < | > | >> |Pagina 63La parrucca può avere due funzioni, che ha sempre svolto nel corso della Storia, una alla volta ma mai contemporaneamente.La più frequente consiste nel supplire alla scomparsa parziale o totale dei capelli dalla testa degli uomini: perché la chioma, sia d'oro o di giaietto, resta un segno distintivo della condizione di uomo, che solo il leone ha il diritto di rivendicare. La donna - che, curiosamente, sembra più di rado colpita dalla calvizie - ha mille modi di rimediarvi: cuffie, cuffiette, berretti, veli, tricorni, falsi chignon, acconciature e tutto ciò che è stato possibile inventare dopo Eva. L'uomo ha più difficoltà a dissimulare che è inferiore al leone. Porta la sua vergogna sulla fronte. Già al tempo di Cicerone cercava di risolvere il problema con i posticci. Ma la parrucca può, in certi momenti particolari della Storia, dotarsi di una vera autonomia. Smette allora di essere utile. Non ha più la missione di nascondere ciò che manca, ma di abbellire quello che c'è. Uomo o donna, non vi sono più distinzioni. Tutti i Chefren, tutti i Tutmosi e i Ramsete si ritrovano con le Nofret, le Nefertari e le Hatshepsut sotto la stessa parrucca, grazie alla quale proclamano uniti che, se i capelli veri indicano che si appartiene all'umanità, solo quelli finti manifestano che si fa parte della civiltà. I capelli sono un segno di natura, la parrucca di cultura. Fu destino di Luigi XIV abbinare queste due funzioni. Visto che aveva perso i capelli a trentacinque anni, come suo padre, fece ricorso, come lui, alla parrucca. E immediatamente, la parrucca cambiò ragion d'essere. Date un'occhiata al ritratto di qualche gentiluomo, verso il 1660. Impossibile dire se ha una bellissima chioma, o se è falsa. La funzione del posticcio è, a quell'epoca, di imitare il taglio naturale, di arricchirlo, ma senza snaturarlo. Quando Luigi XIV, costretto, si decise a portare una parrucca, la sua natura cambia. La parrucca si vede, deve vedersi. Cessa di essere un ripiego, un riempitivo, diviene un ornamento. Si afferma come parrucca e non si dissimula più come capelli finti. Poiché Luigi XIV era il Re Sole, avrebbe fatto della parrucca il segno della sua grandezza e il suo lascito al mondo. Poiché il re diventava calvo, i capelli naturali diventavano indegni di un uomo perbene. Poiché il cranio del re era calvo, tutti avrebbero rasato il loro per potersi adornare di un artificio, ormai promosso al rango di attributo solenne e grandioso della qualità di uomo. Di un trucco, Luigi faceva una verità, e ogni uomo degno di questo nome avrebbe portato ormai sulla sua testa un giardino all'italiana invece di un semplice orto. A parte Monsieur, i due Vendòme e il principe di Conti, non si sarebbe trovato più nessuno che osasse mostrare il cranio che gli aveva dato la natura: l'imperatore, il re di Spagna, Newton, Bach, Voltaire, Federico II, tutti avrebbero portato la parrucca per un secolo e mezzo. Tutti, anche Robespierre. E dato che il re d'Inghilterra imitava il re di Francia, i lord portano la parrucca. E poiché i lord portano la parrucca, la porteranno anche i giudici. E siccome in Inghilterra una tradizione s'inscrive nell'eternità, i giudici inglesi la portano ancora oggi, per potersi fregiare del titolo di "Vostro Onore", come Charles Laughton quando è di fronte a Marlene Dietrich. Honni soit qui mal y pense. | << | < | > | >> |Pagina 65Il re si è alzato, in vestaglia e parrucca corta, e si siede su una delle due poltrone sistemate da una parte e dall'altra del letto. Il Primo gentiluomo chiama allora le Premières Entrées. Noteremo, senza stupircene troppo, l'illogicità di queste denominazioni derivanti da vecchie tradizioni: il Petit Lever sarà seguito dal Grand, le Grandes Entrées, invece, non sono seguite dalle Petites, ma dalle Premières, che sono in realtà le seconde, e anche le terze se si contano quelle par les derrières... Si procede allora alla delicata operazione che consiste nel vestire la parte inferiore della persona reale senza togliere la vestaglia. Si infilano le calze e le brache (che prenderanno il nome di calzoni un po' più tardi, verso il 1680). Siamo al Grand Lever. Il re, in vestaglia, con le brache appena sollevate sulle cosce, fa chiamare le Secondes Entrées. Appaiono i Camerieri-barbieri, i Camerieri-tappezzieri, il Medico "ordinario", i Segretari di gabinetto, i Camerieri del Guardaroba, i principi del sangue, che entrano solo ora, e un certo numero di gentiluomini che aspettavano in anticamera. | << | < | > | >> |Pagina 75La presenza continua di Molière nella vita quotidiana di Luigi XIV non è stata abbastanza notata né sottolineata, forse perché sembrava troppo lontana dalle nostre abitudini, troppo estranea alle nostre idee sulla letteratura e sul potere. Fare il letto del re! Quale umiliazione per il genio! Ebbene, no. Sono le nostre idee che bisogna cambiare, se vogliamo comprendere sia Molière sia il re, e la connivenza che esiste tra i due. Come l'aneddoto famoso dello spuntino notturno, che Ingres ha raffigurato in un quadro in cui si vede Luigi XIV che invita Molière a mangiare un boccone e insieme si rivolge al pubblico: «Voi mi vedete, signori, occupato a far mangiare Molière, poiché i miei Camerieri non lo trovano una compagnia abbastanza buona per loro». Questo aneddoto potrebbe ben avere una qualche credibilità. È stato molto discusso: lo si è definito falso, inverosimile. Non è affatto certo; la verità, d'altronde, come disse Boileau, può qualche volta non essere affatto verosimile.| << | < | > | >> |Pagina 131La storia dei divertimenti somiglia agli scavi degli archeologi: è sempre lo strato di sotto che è interessante. Di quella che era stata l'occupazione impellente per procurarsi il cibo degli uomini dell'era precedente, si trattiene il piacere che essi avevano ricavato, dopo tante traversie e miserie, a perfezionarla. Dal momento in cui l'agricoltore aveva cominciato a delimitare i campi, a piantare siepi, a rivoltare la terra per seminarvi fave e frumento, ad allevare vacche nelle praterie, polli nei cortili e conigli nelle conigliere, non era più necessario correre dietro alle bestie selvagge per mangiarsele: ed è allora che 1'occupazione dell'uomo preagricolo ha cominciato a diventare passione. Braccare cerve e cervi, cinghiali e volpi, è diventato un rituale, un'arte, con il cerimoniale di un rituale e le regole di un'arte, con gli stessi obblighi gratuiti che l'artista s'impone per comporre una fuga o strutturare una sinfonia, e con le finezze che solo gli amanti dell'arte sanno apprezzare. Sarebbe molto interessante sapere se gli uomini del neolitico si divertivano ripetendo i gesti, divenuti inutili, dei loro predecessori, degli Eyzies e di Cro-Magnon, se sognavano una vita nomade, libera dagli obblighi dell'agricoltura, come si sogna un'età dell'oro, sempre immaginata tra le brume di un lontano passato, come i contemporanei di Virgilio sognavano l'Arcadia o, forse, come i nostri simili, stanchi dei trasporti urbani, sognano di allevare capre sulle colline e di fare il formaggio.Ma le civiltà sono sempre totalitarie: sopportano male l'esistenza degli altri, "oi barbaroi", come dicevano i greci, perché le loro usanze e il modo in cui vivono sono inconciliabili con ciò che le fonda. Il contadino non ama il nomade, non per quello che è, ma perché non rispetta i confini dei suoi campi, che sono il fondamento della sua vita. È per questo che un'attività passata trasfigurata in divertimento senza scopo non può essere che lo svago proprio di coloro che hanno la libertà e il potere di trasgredire le norme della civiltà alla quale appartengono. La caccia era così destinata, per sua natura, a diventare il divertimento dei nobili. Lo fu per secoli. E dato che ogni ruota gira, la caccia fu uno dei primi privilegi che con urgenza primaria la Rivoluzione abolì per permetterla a tutti. E dato che la ruota continua a girare, sarà presto concesso al nostro tempo di togliere agli uomini ciò che la precedente liberazione ha dato loro, e di dare il colpo finale a un'occupazione divenuta incomprensibile e dunque intollerabile. Ci vogliono molte migliaia di anni per cancellare ciò che sono stati, un giorno, gli uomini. | << | < | > | >> |Pagina 142Quello che si chiama "ballo", nel corso dei tempi, ha finito per identificarsi in modo così stretto con il semplice concetto di divertimento che, fatta eccezione per quello delle debuttanti o per qualche cerimonia viennese ancora circondata da un cerimoniale, ha perduto persino il suo nome: quale ragazza oggi oserebbe dire «Vado al ballo»?Con i suoi riti, le sue regole, il suo cerimoniale, è al contrario una delle migliori e più profonde rappresentazioni che il XVII secolo possa darci di sé. È lì che si svelano nel modo più limpido i tratti inconsapevoli della sua concezione dell'uomo, dei rapporti tra l'uomo e la donna, degli uomini tra loro e delle donne tra loro, il loro comune ideale di perfezione fisica e morale. Se i sociologi e i filosofi fossero meno snob riguardo alla musica e a ciò che l'accompagna, potrebbero scoprire mille segreti altrettanto rivelatori, da un punto di vista strutturalista, di quelli dei Nambikwara e dei Tupi-kawahib che appassionano Lévi-Strauss, e penetrare nel cuore della società di corte più intimamente di Norbert Elias. Il ballo è allora il momento assoluto dell'uomo nella sua rappresentazione, vale a dire, si pensava allora, nella sua perfezione. Se potessimo immaginare i danzatori in coppie (perché non si danza che a due a due, nell'ordine di gerarchia discendente, sotto gli sguardi convergenti e senza indulgenza di quella società riunita al completo), i loro saluti (al partner, poi al re, poi a quelli che assistono), di cui non c'è l'equivalente ai giorni nostri, se non forse negli schermidori con i loro fioretti; se potessimo raffigurarci il passaggio impercettibile dal passo all'inchino, alla danza, la delicatezza e la difficoltà delle figure, degli atteggiamenti, dei movimenti della mano, degli sguardi; se sapessimo mettere in rapporto tra loro quei movimenti, quelle espressioni e la situazione personale e sociale di quei personaggi tra loro, non solamente cominceremmo a capire ciò che quella società voleva dall'uomo, il suo ideale (difficile, fisicamente difficile...) di perfezione umana, ma anche le stranezze della vita "spettacolare" del re ci diventerebbero comprensibili - e oltretutto, senza parole.
Danzare, diceva l'abate di Pure, è esporsi e librarsi, ma trasfigurando «con l'arte» ciò che la natura ci ha dato. È ciò che egli definiva «mostrarsi con onore».
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