Copertina
Autore Sandro Bellassai
CoautoreM.S.Bertuglia, G.Bonacchi, D.Demetrio, L.Formenti, I.Gamelli, E.Guerra, M.Lanfranco, A.Manao, B.Mapelli, al.
Titolo Vivencia
SottotitoloConoscere la vita da una generazione all'altra
EdizioneRosenberg & Sellier, Torino, 2003 , pag. 300, dim. 152x210x20 mm , Isbn 978-88-7011-891-9
PrefazioneMarina Piazza, Barbara Mapelli
LettoreRenato di Stefano, 2003
Classe scienze sociali , femminismo , storia sociale
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Indice

  7 Presentazione
    Marina Piazza

 11 Prefazione
    Barbara Mapelli

    Temi

 19 Ragazzi e ragazze anni '70 / anni '90:
    una differente esperienza storica?
    Elda Guerra

 35 Vivencia. Esperienza e saperi della vita
    Barbara Mapelli

 51 Copioni familiari e storie tramandate:
    la trasmissione intergenerazionale
    dell'identità di genere
    Laura Formenti

 73 Sulla cittadinanza delle donne
    Isabella Peretti

11O Cittadinanza elettronica e cittadinanza
    mediale
    Anna Lisa Tota

126 Sud-Sud, il pensiero meridiano
    Renate Siebert

150 Del neutro: tertium datur
    Duccio Demetrio

    Storie

161 Sulla storia delle donne: l'obiezione
    femminile alla neutralità del tempo
    Gabriella Bonacchi

195 Riders on the storm. Uomini nella storia
    Sandro Bellassai

    Pratiche

223 Il tempo per la passione
    Cristiana Massioni

225 Identità di genere e affettività
    Maria Ester Mastrogiovanni

236 Carla Accardi e le «sue» ragazzine
    Anna Rita Merico

246 Crescere cittadine e cittadini del mondo
    Maria Stella Bertuglia

258 Per una didattica della differenza
    Ivano Gamelli

263 «Viandante, non c'è la via, ma scie nel
    mare»
    Anna Manao

271 Il femminismo italiano: un percorso per
    docenti di storia
    Maria Antonietta Selvaggio

280 Le muse inquietanti. Note su un progetto
    per un Museo di storia delle donne del
    Mediterraneo
    Genoveffa Palumbo

288 Silenziose esplosioni
    Monica Lanfranco

297 Gli autori e le autrici

 

 

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Pagina 7

PRESENTAZIONE

Marina Piazza


Credo si possa dire che siamo in una fase che concepisce la differenza come cittadinanza di entrambi, uomini e donne, e che, superata la fase della disuguaglianza, impone il compito della gestione delle diversità, del «diversity managing», come dicono gli anglosassoni, o, come dice il documento di Pechino del '95, la messa in opera di pratiche o strategie di mainstreaming, del fatto cioè che tutte le politiche e le pratiche organizzative devono essere necessariamente attraversate dalla consapevolezza di genere.

Ma questo non significa affatto ritornare velocemente e con malcelata soddisfazione - degli uomini - alla casella di partenza del neutro - inteso come maschile -, significa al contrario possedere saldamente come valore condiviso il concetto e la prassi di pari opportunità, per farne lo zoccolo da cui partire per il cambiamento nelle pratiche politiche, nelle pratiche professionali delle persone, dei servizi, delle grandi organizzazioni, nelle pratiche quotidiane di condivisione della vita tra uomini e donne. Un cambiamento sia nei saperi (cioè nei quadri concettuali e nelle rappresentazioni) che nel saper fare (cioè le procedure e le competenze) e nel saper essere (cioè negli atteggiamenti e nei valori).

Un cambiamento che riguarda donne e uomini, ma soprattutto i giovani e le giovani. Perché sono soprattutto loro che devono apprendere dall'esperienza delle generazioni passate, perché sono loro che devono concretamente trasformare le politiche di pari opportunità in mainstreaming. È dunque evidente che la scuola, il settore della formazione in genere, diventa centrale in questo passaggio. Può apparire un'osservazione ovvia e banale, ma non credo lo sia perché, senz'altro in Italia, probabilmente anche nel resto d'Europa, il settore dell'istruzione è quello che meno può vantare progetti, iniziative, interventi. Vi è un'aura di falsa parità intorno alla scuola, vi è un'apparente minor visibilità dei problemi di pari opportunità, che la rendono un terreno meno praticato e forse anche meno «pensato» per iniziative innovative che facciano riferimento alle culture di genere. E tuttavia appare come assolutamente essenziale un orientamento all'identità di genere perché giovani donne e uomini devono essere preparati e sensibilizzati per affrontare il mutamento, i loro futuri impegni di nuove donne e uomini alle prese col lavoro, la famiglia, le scelte che li attendono ed è importante che lo siano proprio negli anni della scuola, quando si formano le immagini di sé, i propositi verso il futuro, i desideri del «chi si sarà». Credo che solo una sensibilizzazione precoce, una discussione, ma anche una proposta di saperi che facciano riferimento alle differenti storie e «culture» dei due generi possano avviare o proseguire un mutamento che è decisivo per le nuove qualità delle vite e delle relazioni tra donne e uomini, nell'attività professionale e nella condivisione della vita quotidiana. Dunque attenzione all'altro, al diverso da sé, al rispetto dei bisogni, direi alla sollecitudine: la trasformazione insomma della cultura scolastica da una cultura del neutro-universale in una molteplicità di proposte e di percorsi di apprendimento e scambio che sappiano testimoniare le differenze, farle convivere senza gerarchizzarle, sappiano parlare il linguaggio di diverse culture che possono convivere insieme, interrogarsi a vicenda e rispettarsi. La cultura di genere apre alla prima e fondante differenza, scopre che l'umano non è uno. Credo che il passaggio veramente difficile sia dall'uno al due. Dal due al molteplice è forse più semplice, perché si è appreso che molti punti di vista, visioni e interpretazioni del mondo, modi dello stare nel mondo possono convivere. La differenza di genere apre dunque sulle culture delle differenze, sulle culture della non semplificazione e, con parola troppo usata, della complessità.

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Pagina 35

VIVENCIA. ESPERIENZA E SAPERI DELLA VITA

Barbara Mapelli


Vi è una parola spagnola - vivencia - difficilmente traducibile in italiano. La usa la filosofa Maria Zambrano e vi attribuisce un significato denso e complesso: vivencia è l'esperienza della vita, o meglio, la vita come esperienza di se stessa, ricerca di consapevolezza, pensiero e riflessione della vita su di sé, fino a renderla un'esperienza che «pur dandosi nella relatività dell'umano, ha, qualcosa della rivelazione».

È un dirsi del soggetto, al tempo stesso intimo ed esposto alla scena del mondo, e un pensarsi che cresce e si nutre di consapevolezza attraverso la vita stessa e l'esperire, per sé, le tappe, i passaggi, gli eventi piccoli e grandi che segnano le crescite, il divenire persone di ogni donna e ogni uomo.

L'esperienza della vita - vivencia - è dunque un percorso che ciascuno fa per sé, vivendo appunto e pensandosi nel proprio vivere; un percorso che non esclude naturalmente gli altri e il mondo, ma ha bisogno, per svilupparsi, di intimità, o meglio, di un continuo e sapiente oscillare tra la ricerca e la necessità del ritorno nel territorio interiore - non meno misterioso dell'esterno, territorio di conquista, di «rivelazioni», appunto - dopo aver trovato alimento e stimoli nelle incursioni esterne, nelle esperienze di vita, che solo nel ritorno a sé possono però trasformarsi in vivencia.

Il moto pendolare tra interno ed esterno, di cui si diceva. Il soggetto si forma e cresce nel vivere nel mondo, nelle relazioni e nello sguardo degli altri, che dà senso, spessore all'esistere di ciascuno sulla scena condivisa. Nel dialogo, nelle forme dell'empatia, del conflitto e della comprensione, dell'amore, l'incontro con l'altro dà l'avvio al sentirsi esistere, alla conoscenza di sé. Ma poi il pensiero occorre si soffermi e torni alla propria intimità, rielabori quanto vissuto, detto, quanto di sé, anche sconosciuto, si è rivelato nella relazione. Questo cammino è spesso irriflesso, si esprime talvolta con un bisogno confuso di solitudine e silenzio in cui si vive pensando di non pensare nulla, ma si costruisce intanto e si vive il proprio territorio interiore.

Il bisogno di intimità si esprime anche attraverso la ricerca di un luogo fisico. Ne sono esempio particolare le e gli adolescenti con i loro comportamenti che paiono antitetici: la necessità del gruppo, di una vita in comune, che può apparire talvolta ricerca di fusionalità - pur con tutte le differenze dei due generi - e la chiusura nella solitudine, in un luogo proprio, se è possibile la propria stanza, prolungamento di sé attraverso la costruzione di un universo di riferimenti visivi, immaginari e simbolici.

L'adolescenza può essere assunta come una metafora, ingrandimento, e accelerazione di quanto avviene e si cerca per tutta la vita. È uno dei momenti apicali di una crescita che non riguarda però solo un'età, ma che compone il suo mosaico di eventi ed emozioni, incontri, nella continuità e nei cambiamenti di tutta l'esistenza: è però solo il pensiero, che non è tale «se non spazza la casa all'interno», che produce la conoscenza dell'esperienza, la vivencia, il sentirsi nella vita persona unica, irriducibile a ogni altra proprio perché il pensiero di sé scorre e si sofferma aderente ai percorsi di esperienza, vi si mantiene fedele.

Non conoscevo il calore che danno i pensieri quando hanno radici profonde e i fiori a portata di mano. (Lea Melandri, Come nasce un sogno d'amore)

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Pagina 51

COPIONI FAMILIARI E STORIE TRAMANDATE: LA TRASMISSIONE INTERGENERAZIONALE DELL'IDENTITÀ DI GENERE

Laura Formenti

[...]


Memoria e narrazione: il potere educativo delle parole

Mio nonno mi venne a fare un discorso: Riguardo all'amore, ogni persona è come un grande prato a disposizione, lo devi curare, lo devi arare e poi si pianta quello che si vuole. Tu ci pianterai dei fiori e saranno tutte le donne a cui vorrai bene e le persone a cui vorrai bene. (papà Orsi)

L'identità si impara in famiglia? Non è una domanda banale, sebbene per alcuni la risposta possa essere scontata: non si dice forse che la famiglia è responsabile delle fasi più delicate e incisive della crescita umana, quella che dà l' imprinting nell'infanzia per tutte le successive relazioni? Eppure le ricerche più recenti mostrano una tale spaccatura tra le generazioni da far ritenere che lo sviluppo individuale oggi segua altre regole. I ruoli e i valori della famiglia sembrano aver perso di importanza, le relazioni che contano sono con i coetanei, con la cultura di massa, con le agenzie formative esterne alla famiglia. La cultura dell'individualità, come valore diffuso e caratterizzante per i nostri tempi, porta a relativizzare l'importanza del sistema familiare nelle scelte di vita, nella rappresentazione di sé e degli altri, nell'apprendimento di modelli di comportamento.

Questa non è però la nostra tesi. Con Halbwachs (1925), riteniamo che «in qualsiasi modo si entri in una famiglia, per nascita, per matrimonio o in altro modo, ci troviamo a far parte di un gruppo nel quale il nostro posto è fissato non dai nostri sentimenti personali, ma da regole e costumi che non dipendono da noi e che esistevano prima di noi. Lo sappiamo bene e non confondiamo le nostre impressioni e le reazioni affettive dinanzi ai nostri cari con i pensieri e i sentimenti che essi ci impongono» (p. 29). Sulla formazione dell'identità agisce la memoria familiare, una struttura sovraindividuale e ridondante che ha la funzione di garantire la ripetizione, il mantenimento di strutture di comportamento, di linguaggi, di valori. La famiglia permane e tuttavia si trasforma; dà appartenenza e identità, ma consente anche differenziazione e individualizzazione. Un sistema educativo per eccellenza, come traspare confrontando le storie di tre generazioni:

Una parte importante della mia vita è la mia famiglia, in effetti questa mi sembra una di quelle vecchie famiglie [...] matriarcale, perché comunque la figura al centro è mia nonna [...] è quella che tiene i contatti con l'esterno, che fa e che disfa... (figlia Liberati)

Mia nonna era sempre molto combattiva, portava avanti le sue idee nonostante i tempi fossero molto più duri per una donna. (mamma Liberati)

Se paragono la mia vita a quella di mia mamma, io potrei essere una libertina perché loro... non so, anche il marito magari gli veniva imposto, non potevano pretendere niente perché non avevano niente. Però mia mamma era un po' come me, era un tipo ribelle [...] con mio papà riusciva qualche volta a reagire, che anche il papà era autoritario. (nonna Liberati)

La famiglia tramanda storie. Storie diverse eppure uguali. Storie ricche ed elaborate, o storie povere, storie di assenze, di vuoti e di solitudine. Comunque sia, storie che co-creano la realtà, l'identità di quel sistema familiare e dei suoi membri. Queste storie intrecciano ricorsivamente le dimensioni del passato, del presente e del futuro. Sono connotate dal vocabolario e dal lessico della famiglia, dai significati attribuiti agli eventi che sono raccontati, da un certo orizzonte temporale, condizionato in qualche caso dal passato, nostalgicamente o in modo rivendicativo, in altri casi condannato a un presente senza tempo, o tutto proiettato nel futuro (Boscolo, Bertrando, 1993). La struttura narrativa dei ricordi permette al passato di influenzare il presente e il futuro, al futuro di influenzare il presente e il passato, e così via. C'è una relazione ricorsiva tra le tre dimensioni temporali, per cui ognuna di esse diventa una cornice che può dare senso alle altre, e cioè ha il potere di ri-significarle attraverso conversazioni costruttive, generative.

Tempo, memoria e racconto sono diverse facce di un unico processo, che costruisce la realtà di quella famiglia.

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Pagina 161

SULLA STORIA DELLE DONNE: L'OBIEZIONE FEMMINILE ALLA NEUTRALITÀ DEL TEMPO

Gabriella Bonacchi


1. Temi, problemi, periodizzazioni

1.0. Dietro i vetri chiusi

Un'autorevole femminista italiana ha scritto recentemente che non «si può cercare nel lontano passato qualcosa - la libertà femminile - che, se possibile, avrà luogo solo qui e ora». Questa affermazione di Luisa Muraro (Muraro, 2000) sembrerebbe sospingere nel regno delle curiosità antiquarie, se non del puntiglio del vintage d'epoca, l'ansia per la ricostruzione di un'«altra storia» che ha caratterizzato la ricerca femminile degli ultimi decenni (Di Cori, 1996). È un'analisi tagliente che punta un dito implacabile su alcuni dei «sentieri interrotti» che purtroppo la storia «al femminile» si è trovata a imboccare, applicando alle tematiche cosiddette femminili, nella migliore delle ipotesi, procedure e modalità della più grande storia maschile, o addirittura limitandosi ad aggiungere, in coda ad indici preesistenti, quadretti appositamente dedicati a un femminile di genere.

[...]

Alla metà del XIX secolo ha luogo la svolta verso il materialismo e l'evoluzionismo. Ciò che è «autenticamente storico» viene ricercato nella cultura materiale dei popoli e nella sfera delle relazioni economiche. Il materialismo storico identificava le basi della storia nelle forme di produzione, e nei rapporti sociali in cui esse di volta in volta si istituzionalizzavano. L'esigenza di non ignorare le relazioni ideologiche - dette «sovrastrutturali» - ancorché ripetutamente ribadita, non impedì che la questione della loro incidenza sugli aspetti materiali della vita restasse poco chiara. In questa inadempienza è da individuare l'eredità più pesante trasmessa da questa tradizione alla storia sociale, e alla stessa storia delle donne quale è stata coltivata soprattutto dalle sostenitrici della cosiddetta «gender history».

Oggi questa impostazione è del tutto superata. Così come è superato lo smembramento dei diversi aspetti della vita in compartimenti stagni: economia, sociologia, antropologia, linguistica ecc. Altrettanto inattuale è dunque la famosa interdisciplinarietà che rappresentava l'altra faccia di questo smembramento. La centralità del linguaggio - o svolta linguistica - ci ha insegnato a costruire e ricostruire in altro modo gli oggetti di indagine. Prima della svolta linguistica e della semiotica, ovverosia il sapere preposto allo studio della natura e della trasmissione dell'informazione, gli indirizzi di ricerca prevalenti vedevano nella lingua, nelle strutture artistiche e nell'arte altrettanti vetri trasparenti attraverso cui lo studioso doveva esaminare strutture ben più profonde e sostanziali: le costruzioni filosofiche o spirituali per gli hegeliani e le strutture socioeconomiche per gli economisti e i sociologi. Il testo, la sua lingua e il suo stile erano come una stagnola di caramella da scartare e buttare via, alla scoperta del «contenuto». È la ricerca semiotica ad affermare in quanto principio incontrovertibile che il cosa è inseparabile dal come.

Ma un'operazione analoga è stata compiuta, con una consapevolezza politica molto prima che epistemica, dalle donne. Con le donne lo sguardo teorico, dopo aver sfiorato i piani alti dell'universale (teologico o materialistico), si è per così dire abbassato: a scrutare in zone più basse (cioè ad altezza di uomo e di donna) i segni della corporeità umana, della vita concreta, del «volto» e dello «sguardo» . Sono queste le tracce seguite per deidealizzare il soggetto del discorso e della storia.

[...]

«I corpi non nascono - dice Haraway - sono costruiti. I corpi sono stati completamente denaturalizzati come segno, contesto e tempo. I corpi del tardo ventesimo secolo non crescono dai principi interni armonici teorizzati nel romanticismo. Né sono scoperti come vorrebbero il realismo e il modernismo. Donne non si nasce, come Simone de Beauvoir giustamente asseriva» (Haraway, 1995).

Tra otto e novecento i corpi delle donne, dei colonizzati e degli schiavi erano gravati dalle costruzioni sessiste razziste e classiste, e considerati dal soggetto universale (bianco, occidentale, maschio) come l'altro da sé. La battaglia politica di neri e donne è dunque necessariamente partita dalla liberazione di questi corpi stigmatizzati dalla colonizzazione. Più recentemente, invece, si è tentato di sovvertire la logica stessa della naturalizzazione di razza e genere sessuale. Ci si è riappropriati dei corpi stigmatizzati rovesciando il segno dello stigma.

Da un lato il corpo è segno di identità e possibile campo di applicazione di poteri: è questo il motivo per cui il divenire soggetti non può che passare attraverso una riappropriazione del corpo. Dall'altro lato, tuttavia, illogico proseguimento del processo di riappropriazione finisce per assegnare ai corpi stessi il carattere di una processualità storica che non ha niente di naturale e di deterministicamente inscritto nella natura.

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Pagina 195

RIDERS ON THE STORM. UOMINI NELLA STORIA

Sandro Bellassai


La prima cosa che si annuncia alla nascita di ogni essere umano è il suo sesso. Che ci piaccia o no, fin dal momento stesso in cui veniamo al mondo siamo prima di tutto inseriti in una grande partizione binaria fondata sull'essere maschi o femmine. Ma essere maschi o femmine non significa soltanto, si capisce, avere degli organi genitali, degli attributi fisici e un corredo genetico dell'un tipo o dell'altro, ma implica anche (e anzi, come vedremo, soprattutto) la dotazione di un corredo simbolico tendente anch'esso al rosa o all'azzurro. All'evidenza biologica si sovrappone dunque una vocazione definitoria, classificatoria, normativa che carica il sostrato «fisico» (nel senso etimologico di «naturale») di un complesso di qualificazioni culturali, psicologiche, sociali e persino politiche; d'altro canto, questa vocazione si richiama a quella evidenza biologica pretendendo di esserne per così dire il naturale prolungamento: la logica prosecuzione morale di un originale imprinting fisico.

[...]

Dalla storia dell'uomo alla storia degli uomini

Per molto tempo, per non dire da sempre, lo sguardo degli storici sui grandi processi sociali e culturali del passato ha còlto esclusivamente elementi «neutri», in cui era del tutto assente un fondamento sessuato: la cosiddetta storia «dell'uomo» è stata in realtà una storia degli uomini e delle donne, ma veniva riassunta in una definizione (l'uomo, l'umanità) che non distingueva rispetto al genere. Solo nella dimensione privata, dei sentimenti e della sessualità, non si poteva fare a meno di registrare che i sessi sono due, che la realtà è plurale e non singolare maschile. Se la rilevanza fattuale del genere come cifra dell'agire e del pensare non era mai, o quasi mai, stata riscontrata nel mondo del passato, è proprio perché non la si era mai cercata: anche in questo caso, ciò che si riesce a vedere dipende davvero dallo sguardo di chi osserva. E chi osserva era quasi sempre, e non a caso, un uomo: un soggetto maschile che - paradossalmente, in apparenza - non era capace di vedere se stesso, o almeno un aspetto fondamentale di se stesso, appunto il proprio essere una parte dell'umanità con caratteristiche specifiche in ogni ambito pubblico e privato, in ogni prodotto della propria mente. Da una mente di parte, per così dire, non può nascere l'idea perfetta del tutto; da una voce che ha un accento ben preciso non può scaturire una lingua che sia pura e universale, che in sé non contenga prima di tutto il punto di vista di chi parla. In un certo senso, si può dire che se dalle donne nascono donne e uomini, gli uomini partoriscono creature simboliche solo e soltanto maschili: certo, per gli uomini non è mai stato e non è ancora oggi facile ammetterlo. Essendosi innalzati a rappresentanti dell'intera umanità, gli uomini hanno reso irrilevante ai propri occhi ogni distinzione fondata sul genere; avendo dato il proprio nome a tutta una specie, hanno occultato la propria parzialità; avendo nominato se stessi esseri umani per antonomasia, insomma, hanno reso invisibili le proprie caratteristiche specifiche di persone di sesso maschile.

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