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| << | < | > | >> |Indice7 Introduzione Parte prima Una lacerazione europea: dalla partition al post-11 settembre 15 Capitolo primo La questione irlandese dal Government of Ireland Act alla proclamazione della Repubblica d'Irlanda (1920-1948) 43 Capitolo secondo L'Irlanda del Nord dal secondo dopoguerra alla sospensione del Parlamento dello Stormont (1945-1972) 63 Capitolo terzo L'Irlanda del Nord dagli Accordi di Sunningdale all'Accordo Anglo-Irlandese (1973-1985) 121 Capitolo quarto La questione nordirlandese negli anni Novanta 141 Capitolo quinto La questione nordirlandese dal GFA al post-11 settembre Parte seconda Natura del conflitto e strategie di accomodamento 153 Capitolo sesto Natura del conflitto. Teorie a confronto 173 Capitolo settimo L'impossibile accomodamento del conflitto nordirlandese 193 Conclusione (con alcuni suggerimenti e uno scenario) 203 Bibliografia |
| << | < | > | >> |Pagina 7Introduzione- Ma lei sa cosa significa una nazione? dice John Wyse. - Sì dice Bloom. - Cos'è? Dice John Wyse. - Una nazione? Dice Bloom. Una nazione è la stessa gente che vive nello stesso posto. - Perdio, allora, dice Ned, ridendo, se la cosa sta così sono una nazione anche io perché è da cinque anni che vivo nello stesso posto. Joyce, Ulisse Alla fine della prima guerra mondiale, s'impose prepotentemente la convinzione che la sconfitta degli Imperi centrali e della loro politica imperialistica non fosse sufficiente ad assicurare un futuro di pace e di tranquillità alla comunità internazionale (Mac Millan 2003). Occorreva rimuovere le cause che avevano portato alla prima guerra totale. E poiché tali cause risiedevano, nell'opinione corrente, nell'esistenza di imperi multinazionali che si opponevano alle "legittime" (oltreché "legali", di lì a poco) aspirazioni dei "popoli", la giustizia sarebbe stata ristabilita – e la pace avrebbe trovato solido fondamento – solo consentendo una libera autodeterminazione dei popoli, come, del resto, lo stesso Woodrow Wilson si era premurato di sottolineare con il suo quattordicesimo punto. Il Presidente statunitense, osserva Franco Gaeta: come pochi altri credeva al pacifismo della democrazia e agli effetti pressoché taumaturgici dell'autodecisione e della nazionalità. Tutta la storia dell'ultimo secolo stava a testimoniare l'aggressività dei nazionalismi, ma era opinione largamente diffusa che essa fosse stata generata dalla compressione delle nazionalità e che, una volta soddisfatte le aspirazioni nazionali, sarebbe venuto meno il carattere turbolento e bellicista dei movimenti nazionalistici (Gaeta 1989, pp. 33-34). Di fatto, a dimostrazione dei limiti del "democraticismo wilsoniano", il Presidente americano riteneva il principio di autodeterminazione dei popoli applicabile ai territori degli ex nemici e non anche a quelli degli imperi – anch'essi multi-etnici – inglese e francese (Salvadori 1990, pp. 521 sgg.), dato che nell'Europa occidentale l'unità tra Stato e nazione costituiva una premessa per un tipo di politica "democratica e progressiva", senza dimenticare che il problema delle minoranze, come quelle degli indiani negli Stati Uniti, degli scozzesi e dei gallesi nel Regno Unito, era nei fatti sdrammatizzato dalla garanzia di partecipazione negli organi legislativi. Così, se l'Impero britannico, archiviata la prima guerra mondiale, poteva ritenersi al riparo da un'applicazione del principio di autodecisione dei popoli, le elezioni generali del Parlamento inglese del dicembre del 1918 furono per Londra un'amara sorpresa. Se la vittoria elettorale del liberale Lloyd George, colui che dal 1916 al 1918 si era imposto quale leader di una coalizione comprendente quasi tutti partiti, mantenendo il posto di ministro della Guerra e dando vita a una sorta di repubblica presidenziale, era un segnale di forza per l'Impero, al contempo il trionfo del Sinn Féin, neonato partito indipendentista irlandese che colse un clamoroso successo elettorale conquistando ben 73 seggi nella parte meridionale dell'isola (quasi i tre quarti dei 105 seggi parlamentari che spettavano all'Irlanda) fu un vero shock. Con queste elezioni, il vecchio Irish Parliamentary Party (IPP), il Partito Nazionalista parlamentare di John Redmond, venne pressoché annientato, avendo conquistato solo 6 seggi. I nazionalisti repubblicani del Sinn Féin, però, si rifiutarono di occupare i seggi a Westminster, assecondando in questo modo con lineare coerenza quella che era la loro imprescindibile convinzione: che l'Act of Union del 1801 doveva continuare a essere considerato un atto illegale, e che pertanto quei deputati irlandesi che avessero occupato i seggi a Westminster avrebbero perpetuato un crimine. I deputati eletti nelle file del Sinn Féin (ma non tutti, visto che alcuni erano ancora agli arresti a causa del "complotto tedesco") non si recarono così a Westminster (cfr. O'Leary, McGarry, a cura, 1996, p. 98), decidendo invece di istituire a Dublino il "Dàil Éireann" (Parlamento irlandese). Il 21 gennaio del 1919 giurarono fedeltà alla Repubblica Irlandese sovrana e indipendente, che a loro dire era stata proclamata nel 1916 dall'Irish Republican Army, che avrebbe agito per conto del popolo irlandese, proclamando primo Presidente Eamonn De Valera, il più importante dei capi della rivolta del 1916 sopravvissuto alla repressione britannica, e Arthur Griffith come VicePresidente. La prima mossa del Governo britannico fu non opporsi, consapevole che proclamare l'indipendenza non significava averla. A questo punto per i nazionalisti repubblicani irlandesi la questione divenne "come rendere effettiva al cospetto della forza dell'impero inglese questa indipendenza" (Kee 1982, p. 152). Quando il Dàil si riunì per la prima volta nel municipio di Dublino, la folla sventolava, oltre al tricolore irlandese, bandiere americane, "esprimendo così la speranza che alla Conferenza di pace di Parigi, il Presidente americano Wilson si sarebbe battuto per il riconoscimento delle piccole nazioni, Irlanda compresa" (p. 152). Ma, come visto, premura del Presidente americano era, in primo luogo, non incrinare i rapporti con l'ex madre patria. Nel frattempo Lloyd George si era convinto che qualcosa andasse fatto per risolvere un conflitto che ormai si perdeva nella notte dei tempi. A tal fine, nell'ottobre del 1919, decise di istituire un Comitato di Gabinetto, sotto la presidenza di Walter Long (il vecchio leader irlandese unionista), che in poco tempo redasse il "Government of Ireland Act". Sfortunatamente, alla fine del 1920, il confronto tra il governo britannico e il Sinn Féin, che cercava di costituire quello Stato irlandese sovrano e indipendente tanto agognato, era degenerato in una guerriglia permanente. La proposta, giudicata tardiva, del governo britannico di una nuova Home Rule e della creazione di un doppio Parlamento con sede a Belfast, non poteva ormai sortire alcun effetto. Gli scontri tra l'IRA e i Tans (rinforzi inviati a riempire i ranghi della Royal Irish Constabulary, la Gendarmeria Reale dell'Ulster) si fecero sempre più cruenti. Il principale leader della rivolta armata irlandese in corso era Michael Collins, un rivoluzionario irlandese di Cork, noto soprattutto per le azioni terroristiche con le quali intendeva piegare gli inglesi e trasformare quella che a molti poteva sembrare ordinaria guerriglia in "guerra di liberazione nazionale". Il 9 luglio 1921 Eamonn De Valera e altri rappresentanti del Sinn Féin si incontrarono con i rappresentanti inglesi. A questo incontro seguì una tregua. Adesso bisognava trattare. La questione irlandese richiedeva una soluzione. | << | < | > | >> |Pagina 173Capitolo settimo
L'impossibile accomodamento del conflitto nordirlandese
L'antagonismo deve avere la sua importanza per gli esseri viventi: altrimenti, perché l'evoluzione ne avrebbe tollerato tanto? Robert Ardrey
Un conflitto etnico-nazionale
Il termine "etnico" è tra i più vaghi che la sociologia conosca. Lo usiamo qui solo per designare uno stato di fatto, senza addentrarci minimamente nel problema di spiegare il fatto. Vilfredo Pareto Quando si affronta un conflitto come quello nordirlandese occorre sgomberare il campo da tutta una serie di argomentazioni fallaci. L'idea che esso sia dovuto alla situazione economica precaria dei cattolici e che dunque la soluzione risieda nella diffusione del benessere tra i cattolici; l'idea che si tratti di un conflitto primordiale che rimanda a odi antichi e dunque che la pacificazione sia conseguibile solo attraverso la rimozione di quella primitività che ancora contraddistingue le culture che si scontrano; che alla segregazione delle due comunità si debba rispondere puntando fortemente su un processo di nation-building, cioè di integrazione/assimilazione, di melting pot ulsteriano; infine, l'idea che il conflitto sia anche la conseguenza del comportamento estremista di élite estremiste e che, pertanto, la soluzione del dilemma nordirlandese consista nell'educare queste èlites alla democrazia. L'accettazione acritica di queste considerazioni comporterebbe un profondo fraintendimento della peculiare natura del conflitto tra cattolici e protestanti nelle sei contee dell'Ulster. Il dato cruciale per capire la vera natura del conflitto nordirlandese e per rendersi conto delle difficoltà legate a un suo accomodamento consiste nel ricordare che quello nell'Ulster non è un semplice conflitto di religione o culturale, ma un conflitto etnico-nazionale. Come si è potuto capire nelle pagine precedenti, non si tratta di un conflitto religioso: cattolico e protestante sono solo l'etichetta con cui si indicano i due gruppi, ma la componente religiosa è solo uno degli elementi con cui si connotano le due comunità (oggi non è neppure più quello decisivo). Gli stessi leader politici durante le campagne elettorali professano di fatto programmi secolari, e i loro slogan sono tutti all'insegna di nazionalismo, repubblicanesimo, socialdemocrazia. Il DUP, che una volta era il PUP (Protestant Unionist Party), una volta cambiato nome ha visto le sue percentuali salire. I preti, per intenderci, non sono oggetto di attentati. Ciò che maggiormente contraddistingue i conflitti etnico-nazionali come quello nordirlandese è che investono questioni come la lealtà nazionale o l'esistenza dello Stato-regione in questione. La domanda su cui verte la contesa è: è giusto che il paese esista? Le parti in campo lottano su questioni concernenti la lealtà nazionale in un contesto privo di alcuna legittimità e dove la mancanza assoluta di un'identità nazionale rende impossibile trovare un vitale terreno comune di incontro tra i gruppi in lotta. Mentre i conflitti di classe e di religione sono conflitti di organizzazioni, nel caso di un conflitto etnico-nazionale non è necessaria un'organizzazione per iniziare scontri, perché a un gruppo si appartiene indipendentemente dalla propria volontà (non ci si iscrive); mentre un conflitto di religione o di classe verte su come il paese deve essere governato, nel caso dei conflitti etnico-nazionali la posta in gioco è l'appartenenza (o meno) a uno Stato. Non solo. I conflitti etnico-nazionali sono sistematicamente intrappolati nel più classico dei dilemmi della sicurezza (ogni concessione alla minoranza diventa concessione allo Stato nazionale esterno cui essa fa costante riferimento), senza tralasciare il fatto che presentano problemi di doppia cittadinanza tuttora irrisolvibili. Ma altri fattori si aggiungono a complicare il raggiungimento di un'intesa tra le parti in conflitto: l'intensità del conflitto è tale per cui atti di ferocia sono frequenti, la violenza tra i due gruppi in lotta è altissima; esiste tutta una serie di cleavages (altri da quello etnico) che vanno a rinforzare quello principale, sì da formare una massa inestricabile di concause che si alimentano reciprocamente; infine, quello nei contesti afflitti da conflittualità etnico-nazionale è un tipo di conflitto che si situa a cavallo di civiltà, e come tale presenta i classici problemi delle doppie maggioranze, e questo fa sì che la stabilità del paese dipenda spesso più dal contesto internazionale e regionale (reticolato di vulnerabilità) che dalla predisposizione delle élite all'accordo o dalle virtù del meccanismo istituzionale escogitato e adottato. Da ultimo, non si tralasci il fatto che realtà come l'Ulster traggono profitto da quella che è di fatto un'economia di guerra, dal momento che le organizzazioni paramilitari gestiscono il proprio territorio in modo capillare e particolarmente efficente grazie anche ad arsenali bellici di tutto rispetto. Ciò fa sì che quella che si verifica nelle segmented societies è, nei fatti, una sorta di "democratizzazione degli strumenti bellici". Nell'Ulster qualunque governo non godrebbe realmente del monopolio della coercizione a causa della presenza di forti organizzazioni paramilitari, prontissime a sfidare il potere costituito nel mantenimento dell'ordine. La realtà dell'Ulster non è, poi, così dissimile da realtà come la Somalia. Questo tipo di premesse fa sì che i leader siano cronicamente impossibilitati al compromesso: quando lo cercano vengono sconfessati. Non solo. Quei leader che assumessero posizioni moderate perderebbero il lavoro o altro. Ciò che non va mai dimenticato è che il voto in contesti di conflittualità etnico-nazionale è di tipo settario: partiti come l'AP prendono al massimo il 5% dei consensi, mentre sistematicamente frustrati sono gli opinion poll (così spesso utilizzati dai premier britannici per sondare le intenzioni di voto) che tendono a esagerare la moderazione e a sottovalutare l'estremismo (la gente vota Paisley ma non lo dice). Questo tipo di situazione ha indotto alcuni a suggerire una internazionalizzazione del conflitto, ad esempio predisponendo un intervento umanitario (sempre che Londra accetti una tale opzione), che avrebbe come unico effetto quello di alimentare la guerra tra le parti in gioco. Questo perché gli interventi delle Nazioni Unite tendono di frequente a creare una sorta di pausa di ricreazione, durante la quale gli antagonisti riproducono la loro capacità di combattere, si sforzano di coinvolgere nuovi attori, estendendo così il conflitto, senza tralasciare il fatto che la pacificazione attraverso l'occupazione umanitaria richiede decenni, cosa non sempre gradita alle potenze coinvolte. Ciò che qui si vuole mettere in evidenza è che occorre partire da un dato fondamentale: dalla sua formazione, la popolazione dell'Irlanda del Nord si è stabilmente divisa in due gruppi etnico-nazionali. Ancora oggi, una maggioranza dell'Ulster tende a ritenersi di cittadinanza britannica e desidera restare nel Regno Unito, mentre un'ampia minoranza si definisce irlandese e desidererebbe appartenere costituzionalmente e istituzionalmente alla Repubblica d'Irlanda. Questo tipo di background storico fa sì che l'attuale stato di salute del conflitto nelle sei contee dell'Ulster risenta ancora oggi del problema della "doppia minoranza" e della "doppia maggioranza". I nazionalisti nell'Ulster sono una minoranza, mentre gli unionisti sono una minoranza nel Regno Unito, così come in un'eventuale Irlanda unita; i nazionalisti irlandesi sarebbero una maggioranza in un'Irlanda unita, così come gli unionisti sono una maggioranza nell'Ulster. Il duplice fallimento alla base della questione nordirlandese – di nation-building e state-building – ha fatto della società nordirlandese una "società segmentata" (letteralmente divisa in segmenti), che, nei fatti, non andrebbe considerata propriamente una società (McGarry, O'Leary 1995), dal momento che è praticamente divisa in due società parallele. Nell'Ulster si è sì verificato un processo di acculturazione, cioè di interazione tra due gruppi che, pur avendo culture differenti, nel corso del tempo hanno avuto modo di recepire alcuni tratti dell'altra, eventualmente con riformulazioni e riadattamenti. Ma tale processo non va esagerato perché le vicende politiche del XIX e del XX secolo hanno indotto le due comunità a chiudersi in un autoisolamento, e quella cattolica in particolare quasi ad autoghettizzarsi. Il contatto tra le due comunità ha continuato ovviamente a esserci, ma più a un livello societario che comunitario: sul posto di lavoro, in rari casi di matrimoni misti, all'università. Ma i cattolici e i protestanti nell'Ulster frequentano le loro rispettive scuole, si sposano quasi esclusivamente tra di loro e fondano la maggior parte delle loro relazioni entro le rispettive comunità; perfino nelle attività ludiche esistono notevoli differenze tra cattolici e protestanti. Ogni comunità ha i rispettivi rituali, le proprie festività e ricorrenze: nell'Irlanda del Nord, probabilmente, l'unica ricorrenza comune alle due comunità è il Natale. Come scrive Rian Malan, la stragrande maggioranza della gente vive un'esistenza separata. Un protestante fa la spesa tra i protestanti, beve con loro, prega accanto a loro la domenica e seppellisce i suoi morti in cimiteri per soli protestanti (...). Va e torna dal lavoro in taxi protestanti, gestiti da società protestanti. Può avere degli amici cattolici sul posto di lavoro, ma non si scambiano mai visite a casa per paura di essere sospettati di "stare dall'altra parte" e finire con la testa rotta (Malan 1993, p. 5) E prosegue, dal momento che non possono riconoscere il nemico guardandolo in faccia, a tal fine si sono inventati tutta una serie di oscuri codici e enigmi per distinguere l'amico dal nemico: un appassionato di colombi probabilmente è protestante, mentre un tifoso dei Rangers è un orangista. La popolazione cattolica, in particolare, è prigioniera delle proprie vicende passate, che cerca di enfatizzare agli occhi delle nuove generazioni, sperando che simili verità non vadano perdute. Se si cerca di spiegare ad un cattolico che il quartiere in cui vive non è poi così male, ti risponde che sì, è probabile, ma lo si doveva vedere vent'anni fa; se gli si fa notare come le forze di polizia siano oggi corrette al limite del premuroso, lui ti ricorda che però vent'anni fa l'hanno picchiato selvaggiamente (p. 5).
Dunque è senz'altro possibile affermare che nell'Irlanda del
Nord vi sono due distinte
comunità,
due distinte
religioni,
due
tradizioni,
due
culture,
due
lingue
(il gaelico, poco parlato ma ancora presente e del resto oggi recuperato, e
l'inglese). In altre parole, due comunità etniche che oltre a condurre vite
separate desiderano appartenere a due Stati nazionali diversi. Qui, e
soprattutto qui, sta la peculiarità del conflitto nordirlandese.
L'esistenza di una spaccatura simile nella società nordirlandese va poi a
incidere profondamente sulla possibilità per la
martoriata Provincia di dare vita a una compiuta identità nazionale in grado di
trascendere le divisioni interne. La possibilità anche solo di
inaugurare
la fase di
nation-building,
in un contesto come quello nordirlandese, è qualche cosa di
estremamente arduo. Stando ad alcune tra le più recenti statistiche condotte
nell'Irlanda del Nord, a proposito del diverso senso di
identità nazionale
che caratterizzerebbe i due gruppi etnici, risulterebbe che quasi due terzi dei
cattolici si definisce di nazionalità irlandese (rispetto al 76% del 1968),
solo il 10% britannico e il 28% si definisce nordirlandese (nel 1968 questa
percentuale era pressoché nulla); al contrario il 71% dei protestanti si
definisce di nazionalità britannica, mentre il 15% nordirlandese, l'11%
"ulsteriano" e solo il 3% irlandese. Questi dati sono di un'importanza cruciale
per capire l'evoluzione del senso di identità nazionale entro le due
comunità nordirlandesi. Se analizziamo questi risultati, il primo dato che si
evince è che a fronte dei 2/3 di cattolici che si
definiscono di nazionalità irlandese, il 28% si definisce nordirlandese. Questo
indica che la comunità cattolica nordirlandese
ha sviluppato semplicemente un comprensibile sentimento di
"attaccamento alla propria terra", alla propria patria se si vuole, cioè
l'Ulster. Da qui l'alta percentuale di
nordirlandesità
tra i cattolici. Il secondo dato che merita di essere messo in evidenza è l'alta
percentuale di protestanti che si definiscono britannici (il 71%) a conferma di
una solida necessità di questa comunità di continuare a dirsi appartenenti alla
nazione britannica.
Le
leali genti dell'Ulster
continuano a rifiutare fermamente non solo l'ipotesi di un Ulster nell'Eire ma
anche di un Ulster indipendente.
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