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| << | < | > | >> |Indice1 Premessa 9 1. Comportamenti e intenzioni 10 Il pulcino di Peirce 11 1.1 Un modello standard 13 1.2 Piante e insetti 18 1.3 Piante, farfalle e ghiandaie azzurre 21 2. Il mondo e le sue etichette 22 Fatti trasparenti? 23 2.1 La conoscenza come adattamento e costruzione 24 2.2 Il "problema di Galilei" 28 2.3 Le cose e l'animale senziente 31 2.4 Forma e numero: etichette? 33 2.5 Guardare e capire 37 3. Il teatro cartesiano 38 Organi di senso e proprietà 39 3.1 La base biologica del sentire 42 3.2 L'anima giudicante e le etichette 43 3.3 Newton, i colori e il sensorio 48 3.4 Il rasoio di Berkeley 53 4. Guardare e capire 54 Significati e segnali 55 4.1 Tradurre stimoli in segnali 59 4.2 Alla periferia del sistema visivo 64 4.3 Percepire: valutare contrasti 68 4.4 Percepire: agire in parallelo 74 4.5 Percepire e capire senza stazione terminale 75 4.6 Il cervello categorizza 79 5. Che cosa catturano gli orologi? 80 L'ordine e l'impronta 81 5.1 Modi di dire sul tempo 83 5.2 La clessidra, il tempo e la gravità 85 5.3 L'argomento di Weyl 87 5.4 Ora vedo che ora... 89 5.5 Prima e dopo 91 5.6 Eventi: dove e quando? 94 5.7 Scindere gli eventi, con naturalezza 96 5.8 Eventi non scissi: un problema di logica? 98 5.9 Percezioni e cose 103 6. I sensi e l'evoluzione degli strumenti 104 Nuovi supporti evolutivi 105 6.1 Osservare e misurare 107 6.2 La scoperta del neurone: parte prima 110 6.3 La scoperta del neurone: parte seconda 114 6.4 Manufatti e non intenzionalità 117 6.5 I manufatti come oggetti culturale 120 6.6 Evoluzione senza progetto 127 Conclusione 135 Bibliografia 143 Indice dei nomi |
| << | < | > | >> |Pagina 1PremessaIl primo passo verso il linguaggio si ebbe col collegamento delle impressioni sensoriali con segnali, acustici o d'altro genere, che potevano essere scambiati tra individui diversi. Albert Einstein, 1941 L'uomo sa parlare più o meno nello stesso senso in cui il ragno sa tessere la sua tela. Steven Pinker, 1994Questo libro è dedicato all'esame di un'abitudine, un pregiudizio e una constatazione, e l'esame mi è parso necessario in quanto l'abitudine, il pregiudizio e la constatazione sono tra loro collegati. Ecco l'abitudine: gli esseri umani tendono a descrivere il proprio ambiente dicendo che esso è formato da cose corporee disposte qua e là nello spazio e nel tempo. D'altra parte, descrizioni di questo tipo sono possibili solo in quanto possiamo usare un linguaggio fatto di parole, fonemi, gesti, incisioni rupestri e così via. E qui si innesta il pregiudizio. Esso consiste nel credere che il linguaggio sia un veicolo grazie al quale la mente umana cattura idee e significati, nell'ipotesi che le idee o i significati siano enti non materiali, trasportabili da una mente all'altra per mezzo di parole o segni d'altro genere. La constatazione è, infine, questa: le sensazioni che abbiamo nell'esplorare l'ambiente e le descrizioni di quest'ultimo, insieme alla molteplicità di comportamenti che ciascuno di noi esibisce per adattarsi alla propria nicchia, si realizzano grazie a processi che avvengono nei nostri corpi e che, nella stragrande maggioranza dei casi, sfuggono completamente alla nostra consapevolezza. Per quanto riguarda l'abitudine, va ricordato che essa si colloca alla base del senso comune ed è anche presente in interi settori della scienza. Intendo riferirmi alla scienza del secolo in cui vissero Galilei e Cartesio. In quel periodo, infatti, Newton sostenne che lo spazio è immobile e ha proprietà indipendenti dalla presenza o assenza di cose più o meno mobili al suo interno, e che il tempo, invece, non è immobile ma fluisce con una velocità costante, senza mai indicare, però, quale valore abbia questa velocità e rispetto a che cosa il tempo fluisca. Nel senso comune e nella scienza newtoniana è effettivamente radicata l'opinione che "spazio", "tempo" e "materia" ("collezione di cose") siano i nomi di tre entità reali e tra loro autonome. Un simile modo di dividere il mondo sembra addirittura conforme alla maggior parte delle nostre sensazioni. L'abitudine in questione è, insomma, ostinata, e ha una lunga storia alle spalle. L'ostinazione, però, non è necessariamente una virtù, e la lunghezza delle storie non garantisce la validità dei punti di vista: basti ricordare il numero di secoli durante i quali abbiamo immodestamente creduto che la Terra fosse immobile al centro dell'Universo o che i nostri corpi fossero animati da una qualche vis vitalis. È pertanto legittima una domanda: come mai ci sembra naturale che il mondo sia proprio fatto così, e cioè diviso in cose, spazio e tempo? Per quanto riguarda il pregiudizio, va sottolineato che esso contrasta, in modo ormai acuto, con ciò che da decenni stiamo imparando a proposito del linguaggio. Steven Pinker ha recentemente ricordato che «il linguaggio non è un artefatto culturale che impariamo così come impariamo a leggere l'ora o a capire come funziona il governo federale. Il linguaggio è invece un pezzo a sé del corredo biologico del nostro cervello». Il punto di vista di Pinker assimila pertanto la capacità linguistica umana alla capacità dei ragni di tessere tele: La ragnatela non è stata inventata da uno sconosciuto aracnide geniale e non dipende dall'educazione ricevuta o da un'attitudine all'architettura e alla costruzione. In realtà il ragno tesse ragnatele perché ha un cervello da ragno, che gli fornisce la spinta a tessere e la competenza per farlo. Questo modo di intendere il comportamento linguistico incontra molte resistenze. Esse si fondano quasi sempre sull'opinione comune che Homo sapiens occupi una posizione di grande privilegio rispetto ad altre forme di vita, e che il privilegio sia di tipo culturale e connesso al linguaggio: noi, come spesso si dice, siamo superiori in quanto abbiamo forme di apprendimento che ci portano al di là dei limiti codificati da quella cornice biologica all'interno della quale, invece, resterebbero confinati gli animali e i vegetali. | << | < | > | >> |Pagina 212. Il mondo e le sue etichetteFatti trasparenti? Attorno alla metà del Cinquecento uno scienziato sostiene che i funghi e i tartufi non sono vegetali ma umidità superflue della terra e del legno marcio. A suo avviso questa conclusione è suffragata dai fatti: tutti gli osservatori sono in grado di vedere che i funghi e i tartufi nascono in prossimità di sostanze terrose e lignee variamente imputridite a causa dei tuoni e del cielo piovoso. Lo studioso si chiama Hieronymus Bock e le sue opinioni sono discutibili. L'appello ai fatti è, comunque, una ricetta popolare per costruire un sapere che trovi buone garanzie nell'esperienza e nell'osservazione. Sotto questo profilo non dobbiamo dunque essere ingenerosi nei confronti della teoria suggerita, pochi anni prima della nascita di Galileo Galilei, dal botanico e medico Bock. Possiamo tuttavia imparare, da questo esempio, che il ricorso ai fatti non gode di una trasparenza automatica, poiché ci rende propensi ad accettare conoscenze erronee. Basti qui ricordare che è un fatto la circostanza per cui i nostri sensi ci danno informazioni conformi all'opinione che la Terra sia immobile. Vale dunque la pena di esaminare non tanto i fatti, quanto il funzionamento dei nostri organi di senso e dei nostri cervelli, per analizzare sia le sensazioni, sia le procedure che si compiono nei corpi quando gli esseri umani cercano di assegnare un significato a ciò che irrita i loro sensi. E ne vale la pena soprattutto perché sono ormai disponibili alcuni argomenti che rimettono in discussione un gruppo di punti di vista sulla conoscenza lasciatici in eredità dalla grande scienza del Seicento. | << | < | > | >> |Pagina 36Il problema di Galilei consiste però nell'accettare o nel respingere il punto di vista secondo cui esiste una scissione tra il sentire qualcosa e il capire ciò che si è sentito. Egli ritiene che la scissione esista, e questo rende la sua posizione più difficile di quanto si possa credere. L'impiego di un manufatto come il telescopio non sposta infatti di un solo millimetro l'intera faccenda, se quest'ultima resta tra le braccia dell'ipotesi che i sensi ci possono trarre in inganno (anche se accoppiati con un paio di lenti o con una boccia di vetro piena d'acqua). Solo la mente ci può allora aiutare ad evitare i trabocchetti.Si profila in tal modo un modello galileiano di come gli esseri umani giungano a conoscere. In un primo tempo agiscono gli organi di senso, ai quali spetta il compito materiale di essere irritati da stimoli luminosi, tattili, sonori e d'altro tipo, e l'irritazione traccia nel cervello una qualche immagine della sorgente degli stimoli. In un secondo tempo, l'immagine viene letta e interpretata dalla mente, che, grazie alla matematica, agisce per evitare agli uomini di aggirarsi in oscuri labirinti. Un programma ambizioso, al quale tuttavia manca una teoria capace di rappresentare il tragitto che parte dagli stimoli e giunge all'atto del giudicare e capire. Tocca a Cartesio il compito di porre le fondamenta di questa teoria. | << | < | > | >> |Pagina 373. Il teatro cartesianoOrgani di senso e proprietà L'eredità seicentesca è importante. Galilei, Cartesio, Locke e Newton banno impostato un programma di lavoro finalizzato allo sviluppo della scienza e al formarsi di un rapporto ottimale fra scienza e filosofia. Il programma presuppone che il mondo sia rappresentabile, con precisione, a patto che siano posti sotto controllo i dati sensoriali. La grande filosofia naturale tenta allora di garantire la ragione rispetto ai sensi. Impariamo certamente dall'esperienza, ma abbiamo bisogno di una teoria della conoscenza che spiegbi l'operato degli organi sensoriali e difenda la ragione dalle anomalie e dagli inganni. La difesa è forte: da un lato, il ragionamento matematico e le misure, dall'altro, una realtà formata di corpi dotati di proprietà indipendenti dalle percezioni degli osservatori. Sembra che la teoria della conoscenza, di cui si avverte il bisogno, non decolli senza ipotesi sulla immaterialità della mente, ma il rasoio di Berkeley lavora con intelligenza sulle congetture che riguardano le qualità primarie e lo spazio newtoniano. | << | < | > | >> |Pagina 53| << | < | > | >> |Pagina 74Schematicamente è allora giusto sostenere, sulla base di esperimenti, tre tesi generali sulla visione. La prima dichiara che il cervello opera più in parallelo che in serie, e non lavora su immagini complessive ma su sottomodalità specifiche. La seconda dice che, per i segnali, esistono almeno quattro vie preferenziali, due delle quali hanno a che fare con la forma, una con il movimento e una con il colore, e che esistono connessioni anatomiche e funzionali capaci di consentire opportune mescolanze tra segnali M e segnali P. La terza tesi sottolinea la non osservabilità di alcuna sede o stazione terminale dove il processo di elaborazione dei dati termina per lasciare il campo a qualche cartesiana attività giudicante.
Soffermiamoci ancora per poche righe su questo
punto, e passiamo poi al tentativo di capire che cosa
realmente vogliamo sostenere quando affermiamo
che esiste una via preferenziale per il colore.
Quanto finora è stato discusso ruota attorno a un solo tema che è così riassumibile: in netto contrasto con ogni schema lineare di tipo cartesiano, il cervello elabora gli stimoli con processi in parallelo e li categorizza secondo regole stabilizzatesi nell'evoluzione. Una regola fondamentale è quella secondo cui nessuna zona corticale agisce in modo passivo: ogni zona, infatti, riceve segnali e ne invia altri verso altre zone. Questa regola, come ricorda Zeki, non è affatto semplice o banale: «Essa è profonda, poiché implica che non esista alcun terminale corticale, nessuna destinazione finale dove possano risiedere, per esempio, l'anima o la coscienza».
Cade così ogni ragionevole pretesa di separare il
processo della visione in due tronconi fra loro distinti,
l'uno materiale e dedicato al sentire, l'altro immateriale e
dedicato al giudicare o all'attribuire significati. Questa
caduta, d'altra parte, riguarda anche gli
altri sistemi che l'evoluzione biologica ha costruito
per catturare altri segnali. Ciò che accade nel sistema
della visione, accade anche, in forme specifiche, nei
sistemi che ci mettono in grado di ascoltare un brano
musicale o di individuare un sapore, un odore o un
urto. Non esistono, insomma, zone della corteccia
verso le quali tutte le altre zone fanno confluire i
propri dati. Non v'è quindi motivo per distinguere la
percezione dal giudizio, e resta il problema di come
faccia il cervello, per esempio, ad assegnare un colore (una
forma geometrica, un odore, uno stato di moto ecc.).
[...] Va soprattutto ricordato, a questo proposito, che tale invarianza è fondamentale per garantire che la percezione del colore svolga davvero la propria funzione biologica di segnalare all'organismo alcune importanti proprietà dell'oggetto osservato. La costanza cromatica è la garante biologica della stabilità del mondo visivo, in quanto assicura, per esempio, che un frutto verde non si trasformi, al tramonto, in un frutto rosso. In generale, quindi, la costanza cromatica è la radice grazie alla quale il mondo permane riconoscibile al variare della luce che lo illumina. Negli ultimi anni il paradosso della costanza cromatica si è avviato a soluzione per mezzo di alcuni esperimenti progettati e realizzati da Edwin Land. Tali esperimenti hanno mostrato, infatti, che il cervello, dovendo elaborare l'informazione relativa alla lunghezza d'onda della luce riflessa dalla superficie di una cosa, opera in modo tale da tenere conto della luce riflessa dall'intera scena in cui quella specifica cosa è collocata. L'operazione, come scrive Zeki, si realizza per mezzo di confronti che il cervello compie indipendentemente dalla quantità totale di luce uscente da una superficie. Il cervello è infatti organizzato in modo da paragonare tra loro le varie luci riflesse da superfici diverse e da scartare le informazioni che non riguardano il confronto: il cervello costruisce una conoscenza di quelle specifiche caratteristiche fisiche delle superfici che sono invarianti al mutare della luce incidente e riflessa. Così, sin da bambini, parliamo con disinvoltura ogni volta che dobbiamo descrivere un frammento di nicchia in termini di colori. | << | < | > | >> |Pagina 795. Che cosa catturano gli orologi?L'ordine e l'impronta Risale al 1920 la pubblicazione di un libro che appartiene ormai alla cultura "alta" del nostro secolo e che fu scritto da Arthur Eddington: Space, Time and Gravitation. An Outline of the General Relativity Theory. Nel divertente Prologo al testo, Eddington immagina che uno studioso di relatività stia conversando con un fisico sperimentale e con un matematico puro. Per spiegare alcune anomalie apparenti fra la tradizione e l'emergere di nuove categorie scientifiche, il relativista ricorda la storia egiziana del cannone-orologio: «L'uomo incaricato del cannone faceva fuoco all'ora indicata dall'orologío, e l'uomo incaricato dell'orologio regolava quest'ultimo in base all'ora fornita dal cannone». Qualche decina di pagine dopo Eddington poteva allora scrivere: «L'affermazione che il tempo è una quarta dimensione può prospettare difficoltà non necessarie, che una definizione più precisa può evitare. È nel mondo esterno che le quattro dimensioni sono unite, non nelle relazioni del mondo esterno con l'individuo che costruisce la sua diretta conoscenza dello spazio e del tempo. Proprio in questo processo di relazione con un individuo, l'ordine si spezza nelle manifestazioni distinte dello spazio e del tempo. Un individuo è un oggetto quadridimensionale di forma molto estesa; nel linguaggio ordinario diciamo che possiede una grande estensione nel tempo e un'estensione insignificante nello spazio. Praticamente è rappresentato da una linea: la sua traiettoria attraverso l'Universo. Quando il mondo viene riferito a un tale individuo, è l'asimmetria di quest'ultimo che viene introdotta nella relazione; e quell'ordine di eventi che è parallelo alla sua traiettoria, vale a dire a "lui", appare nella sua esperienza differenziato da tutti gli altri ordini di eventi». | << | < | > | >> |Pagina 90Così stanno le cose per quanto riguarda sia il tempo soggettivo, sia quei frammenti di linguaggio in cui disinvoltamente piazziamo espressioni circa la percezione o la sensazione del tempo. Dovremmo forse credere che assegniamo tempi così come assegniamo colori o sapori? La risposta è negativa. Il cervello categorizza per assegnare colori o sapori in quanto i corpi hanno recettori che sono stimolati da fotoni o da molecole. I nostri corpi, tuttavia, non sono arredati con recettori di segnali emessi dall'entità tempo, così come non sono arredati con recettori di segnali emessi dall'entità spazio.La soluzione del nostro problema sta altrove. Proviamo allora a vedere che cosa facciamo quando informiamo qualcuno del verificarsi di un evento. | << | < | > | >> |Pagina 1036. I sensi e l'evoluzione degli strumentiNuovi supporti evolutivi Alcuni decenni or sono fu scoperto il neurone e sorsero interrogativi a proposito del suo ruolo. Oggi esiste un forte consenso attorno alle interpretazioni delle funzioni neuronali che presero l'avvio con gli studi pionieristici di Ramon y Cajal. Il consenso si regge su una base sperimentale la cui ampiezza e solidità sono paragonabili a quelle che garantiscono l'accettabilità della teoria della relatività generale. Ma si hanno pesanti problemi non appena ci si rende conto che lo sviluppo delle conoscenze sul neurone e, quindi, sul cervello, portano ad accettare la tesi che Eric Kandell ha recentemente esposto con queste parole: «Il nucleo dottrinario che emerge dagli studi moderni di neuroscienze può essere riassunto nell'affermazione che ogni comportamento è l'espressione di una funzione cerebrale. Secondo questo modo di vedere [...] ciò che noi chiamiamo, con espressione generica, mente, deve essere considerato come il risultato di un gruppo di funzioni cerebrali». A questa tesi si accompagna la seguente presa d'atto: la quantità di informazioni e di operazioni che sono necessarie affinché i nostri corpi riescano a sopravvivere continua a crescere, e Homo sapiens ha trovato, evolutivamente, sia il modo di depositare gruppi sempre più estesi di dati su supporti materiali sia il modo di produrre manufatti che consentono modalità nuove di adattamento alla nicchia. | << | < | > | >> |Pagina 119Siamo da secoli abituati a credere che non esista pensiero senza linguaggio. Seguendo Cartesio, abbiamo conseguentemente creduto che la comprensione del pensiero richiedesse non tanto una conoscenza sempre più raffinata dei nostri corpi, intesi come macchine, quanto una sempre più raffinata conoscenza dei mezzi linguistici, intesi come veicoli grazie ai quali una mente non corporea trasmette idee o significati ad altre menti non corporee. Siamo così entrati in un vicolo cieco. Se esibiamo un'espressione linguistica e qualcuno ci chiede quale sia il suo significato o l'idea che esse esprime, allora ricorriamo a un'altra espressione linguistica e diciamo che essa è il significato o l'idea che l'espressione precedente veicolava. E così di seguito: offriamo sul mercato linguistico solo frammenti di linguaggio. Eppure ci illudiamo, così facendo, che sia ragionevole credere di rendere accessibili ad altre menti quei significati o quelle idee che la nostra mente ha fabbricato. Il vicolo è cieco perché non trasmettiamo mai quelle cose speciali - come direbbe Quine - che dovrebbero essere i significati o le idee. Trasmettiamo solo sequenze di parole. Un chiacchiericcio senza fine, insomma. Forse è questa la ragione di quella particolare forma di scetticismo secondo la quale i parlanti si scambiano solo interpretazioni. In realtà, se commettiamo errori gravi durante lo scambio, possiamo anche morire: il che accade quando facciamo confusione tra qualche interpretazione di un sintomo osservabile e la presenza di un virus che si è installato da qualche parte nel nostro corpo. La realtà è cosa ben diversa dalle nostre parole, e i nostri corpi non sono macchine animate da una mente.6.6 Evoluzione senza progetto Mi rendo ovviamente conto dello scetticismo che può circondare l'opinione sin qui sostenuta riguardo la natura evolutiva e ampiamente non intenzionale dei manufatti. Lo scetticismo deriva, in buona parte, dalla convinzione che i manufatti siano ottusamente obbedienti alle nostre aspettative. Strumenti e nient'altro, insomma. Oggetti inerti e docili fra le nostre mani guidate da intenzioni, progetti e aspettative. Cosí pensano coloro che, quando parlano di manufatti, si riferiscono ai mantelli o ai cacciavite. Essi ritengono che questo genere di dispositivo sia, per l'appunto, d'uso puramente strumentale. Non incontrano difficoltà ad ammettere che vi sia stata una serie di miglioramenti, come quelli che hanno per esempio trasformato una pietra, impiegata alcuni millenni or sono per eseguire semplici ma utili compiti legati alla percussione, in un martello dei nostri tempi. Ritengono tuttavia che questi miglioramenti siano solo pratici e che un termine impegnativo come "evoluzione" sia applicabile solo con molta cautela. Questo modo di vedere è troppo riduttivo. Ce ne rendiamo conto non appena estendiamo, con un minimo di generosità o di tolleranza, il nostro campo d'osservazione. Basti pensare a quei manufatti che da molto tempo fabbrichiamo per depositare in essi la massa crescente di istruzioni di cui abbiamo sempre più bisogno per controllare i nostri variegati rapporti sia con l'ambiente esterno, sia con quello interno ai nostri corpi. Abbiamo imparato a deporre le istruzioni su supporti materiali: incisioni rupestri, rotoli di papiro, codici miniatí, libri a stampa, nastri magnetici e così via. Quale necessità ha spinto Homo sapiens a muoversi in tale direzione? La risposta non è difficile: nessuna singola assemblea di neuroni e di sinapsi ha, ormai da parecchie generazioni, la potenza sufficiente a raccogliere in se stessa tutti i dati di cui il singolo cervello necessita per risolvere i problemi di nicchia (ambiente esterno) o per tutelare la salute dei corpi (ambiente interno). Stiamo infatti depositando su supporti materiali la massa crescente di dati che riguardano il sistema immunitario e il sistema nervoso centrale, così da migliorare l'operato. [...] Ecco, dunque, che cosa affermiamo nel sostenere la natura non intenzionale di quei manufatti specialissimi che sono le nostre teorie. Ecco, anche, che cosa diciamo quando affermiamo che le teorie sono manufatti. Qualcuno deposita su un supporto materiale - un libro, un articolo per una rivista specializzata - una data sequenza iniziale di segni, di regole per manipolare i segni cosí introdotti e di conseguenze. A partire da questa sequenza è, a volte, possibile avviare l'esplorazione di una serie di nuove conseguenze: ma tutte le conseguenze sono già date in quanto deducibili secondo criteri prestabiliti, anche se i cervelli sono necessari per esplorarle, trovarne qualcuna ed estendere così il manufatto. Come molti decenni or sono aveva sottolineato Gottlob Frege, quando un cartografo disegna una mappa e scrive, in una certa zona della mappa, il nome di un mare, non succede che il mare divenga improvvisamente reale. Succede, molto più semplicemente, che si dia un nome a ciò che già esiste. Scoprire un enunciato nuovo in seno a qualche geometria non è diverso da scoprire una galassia o una nuova forma di vita su un fondale marino. Tutto dipende dalle forme specifiche dell'interazíone che si stabilisce tra i cervelli e le cose, e queste interazioni sono comprensibili solo in una cornice evolutiva. Possono trascorrere poche settimane o molti anni tra due tappe per noi successive nell'estensione di un manufatto teorico, e può anche succedere, come scriveva Popper, che certe tappe non siano mai raggiunte. Ma soprattutto succede che, non di rado, si inneschi una variante inattesa in qualche porzione di un dato apparato teorico in via di estensione. La variante può consistere, per esempio, nella libera sostituzione di uno o più assiomi con altri. Può accadere, ed effettivamente accade con notevole frequenza. Matematici come Gauss o Riemann elaborarono varianti di questo tipo. Né Gauss né Riemann, però, erano in grado di prevedere quali nuove forme di conoscenza si sarebbero sviluppate, nei successivi decenni, come conseguenze delle varianti che essi stessi avevano fabbricato. La storia delle scienze e delle tecniche è ostinata nel porci di fronte all'evidenza: molte scoperte sono indubbiamente il frutto di previsioni ragionevolmente confortate da ipotesi teoriche preesistenti, ma moltissimi eventi notevoli di scoperta sono, invece, il risultato inatteso di programmi di ricerca che erano stati pensati per scoprire altre cose o per controllare risultati già ottenuti da altri studiosi con altre condizioni al contorno. Siamo dunque costretti a prendere atto dell'evoluzione non intenzionale dei dispositivi teorici e sperimentali che noi costruiamo. Nel momento in cui ne prendiamo atto, dobbiamo anche ammettere un altro aspetto della questione: la non intenzionalità implica che il processo evolutivo si realizza senza un progetto. L'evoluzione dipende infatti da circostanze accidentali, imprevedibili a priori. Una variante è, spesso, una mutazione casuale, anche se le sue conseguenze, essendo esplorate secondo regole prefissate, sono di tipo deterministico. I nostri corpi, le nostre teorie e i nostri manufatti evolvono dunque senza la guida provvidenziale di un progetto precostituito. Siamo solo in grado di ricostruire le varie fasi dello sviluppo: il successo delle ricostruzioni consente, a volte, un migliore adattamento alla nicchia che ci ospita, e chiamiamo allora "progresso" la presa d'atto dei nostri successi. Spesso si accendono dispute sul tema se i nostri progressi siano o non siano rappresentabili come forme di ricerca verso la verità. Dovremmo essere più sobri e ammettere, con Helmholtz, che i criteri per giudicare della verità hanno radici nella conformità o meno delle nostre congetture e delle nostre azioni ai problemi che la nicchia ci presenta. La verità è concreta: è selezione e sopravvivenza. | << | < | > | >> |Pagina 127Conclusione[...] Se ora torniamo a quanto ho esposto nella Premessa, vediamo facilmente che nulla vi è di strano o di filosoficamente profondo nella nostra abitudine a suddividere il mondo in tre parti: cose, spazio e tempo. Facciamo così perché l'evoluzione biologica ci ha così forgiati. Ben più difficile da realizzare è, invece, l'impresa di abbandonare la credenza secondo cui il singolo rappresentante di Homo sapiens ha sia la mente, sia l'accesso alle menti dei suoi simili, sia uno strumento - il linguaggio - per concretizzare questo accesso. La resistenza ad ammettere la fondatezza dell'impresa non poggia tanto su argomenti scientifici e filosofici, quanto su pregiudizi negativi nei confronti dei corpi e della loro meravigliosa capacità di sentire e giudicare. Per quanto infine riguarda la constatazione della circostanza per cui nessuno di noi ha consapevolezza della stragrande maggioranza dei processi corporei mediante i quali l'organismo percepisce e valuta, impariamo che il problema da risolvere non si basa sulla comprensione di quale sia il significato della parola "consapevolezza". Impariamo invece che le scienze sempre meglio esplorano l'universo di eventi grazie ai quali intercettiamo stimoli e li traduciamo in segnali e comportamenti. La parola "consapevolezza" dovrebbe pertanto essere sostituita dall'espressione "conoscenza dei rapporti tra sensori, corpi e comportamenti": scomparirebbero, in tal modo, molti presunti misteri, e potremmo accostarci con maggior confidenza a quel mondo biologico di valori che Charles Darwin aveva cominciato ad analizzare nelle classiche pagine di The Descent of Man. [...] L'analisi qui condotta su una abitudine, un pregiudizio e una constatazione non elimina certamente il contrasto fra le tre circostanze esposte in questo libro. La prima riguarda la nostra struttura biologica: essa contiene in sé norme inferenziali che sono il frutto dell'evoluzione darwiniana e che categorizzano i dati sensoriali secondo le griglie della causalità, dello spazio e del tempo. Le ingerenze innate dei nostri organismi ci spingono dunque a descrivere l'ambiente come se esso fosse una popolazione di oggetti corporei, bene etichettati, fluttuanti nello spazio assoluto e variabili nel tempo assoluto. La seconda circostanza è il frutto della crescita delle nostre conoscenze: stiamo imparando a usare griglie diverse, abbandonando opinioni plurisecolari sulle etichette e sulle nozioni spaziali e temporali. La terza ci obbliga a far cadere l'ultimo privilegio che ancora sembrava caratterizzare Homo sapiens rispetto agli altri organismi viventi: quel ruolo centrale della consapevolezza che, a lungo, abbiamo ipotizzato come base mentale e radice intenzionale dei nostri comportamenti. Il contrasto che sorge è tuttavia superabile perché non è una patologia della ragione, ma un conflitto tra senso comune e sviluppo scientifico. Questi conflitti sono tipici nell'evoluzione del sapere. Basti ricordare la contraddizione che nacque e sembrò insuperabile quando, nei primi decenni del Novecento, le comunità dei fisici e dei filosofi si resero conto dell'insufficienza ormai plateale degli usuali concetti di onda e di corpuscolo. Come quell'esempio insegna, le dispute si affievoliscono con adeguati riaggiustamenti dei rapporti fra tradizione e innovazione. Aveva dunque ragione Galilei nell'insistere sulla necessità di modificare le nostre idee tenendo conto della natura, senza cedere alla presuntuosa e sterile tentazione di modificare, a parole, la natura, pur di difendere le nostre parole. |
| << | < | > | >> |RiferimentiI testi ai quali si fa riferimento sono qui riportati in un ordine che corrisponde all'ordine della citazione nelle varie sezioni del volume. Quando è possibile, si cita l'edizione italiana, ponendo tra parentesi l'anno della pubblicazione originale. Premessa Einstein A., Il linguaggio comune della scienza (1941), in Albert Einstein. Opere Scelte, a c. di E. Bellone, Bollati Boringhieri, Torino 1988. Pinker S., L'istinto del linguaggio (1994), Arnoldo Mondadori, Milano 1997. Darwin Ch., L'espressione delle emozioni nell'uomo e negli animali (1872), edizione critica a c. di P. Ekman, Bollati Boringhieri, Torino 1999. Celada F., La logica della risposta immunitaria, in La nuova immunologia, Le Scienze, Milano 1992. Quine W., From Stimulus to Science, Harvard University Press, Cambridge 1995. Hebb D., L'organizzazione del comportamento (1949), Franco Angeli, Milano 1975. Changeux J.-P., Dehaene S., Neuronal Models of Cognitive Functions, in "Cognition", 33, 1989. Boncinelli E., I nostri geni, Einaudi, Torino 1998. Gazzaniga M., La mente nella natura (1992), Garzanti, Milano 1997. Cohen R., Elkana V. (a c. di), Hermann Von Helmholtz. Epistemological Writings, Boston Studies in the Philosophy of Science, Boston 1977. [...] | << | < | |