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| << | < | > | >> |IndiceVII Introduzione XIII Ringraziamenti Il meraviglioso mondo dei numeri 3 0. Una testa per i numeri 43 I. La cont(r)o-cultura 87 II. Guarda! 135 III. Qualcosa a proposito di niente 173 IV. La storia di Pi 219 V. Il fattore x 265 VI. Ricreazione 319 VII. I segreti della successione 355 VIII. Gold Finger 381 IX. Forse che sí, forse che no 443 X. Situazione normale 487 XI. Al capolinea 525 Glossario 533 Appendici 547 Note ai capitoli 561 Indice analitico |
| << | < | > | >> |Pagina XIIl libro comincia con il capitolo zero per evidenziare che l'argomento lí trattato precede la matematica. Vi è descritta infatti la nascita dei numeri. All'inizio del capitolo primo i numeri avevano ormai fatto la loro comparsa e si poteva andare al sodo. Da quel momento alla fine del capitolo undicesimo si parla di aritmetica, algebra, geometria, statistica e di tutti gli altri campi che sono riuscito a infilare in meno di 600 pagine. Ho cercato di ridurre al minimo il materiale tecnico, anche se talvolta non è stato possibile e ho dovuto riportare equazioni e dimostrazioni. Se sentite che il vostro cervello soffre, passate all'inizio del paragrafo successivo e andrà subito meglio. Ogni capitolo è indipendente, vale a dire che per capirlo non è necessario aver letto quelli che lo precedono. Potete leggere i capitoli nell'ordine che preferite, anche se spero che li leggerete dal primo all'ultimo perché seguono grossomodo una cronologia delle idee e di tanto in tanto faccio riferimento a concetti già illustrati. Il libro è destinato a lettori privi di conoscenze matematiche e copre argomenti che vanno dalla scuola elementare alla fine di un corso di laurea triennale.Ho incluso una buona quantità di informazioni storiche, perché la matematica è la storia della matematica. A differenza delle discipline umanistiche, che sono reinventate di continuo, mano a mano che idee o mode nuove si sostituiscono alle vecchie, e a differenza delle scienze applicate, dove le teorie sono continuamente perfezionate, la matematica non invecchia. I teoremi di Pitagora e di Euclide sono validi oggi come sempre, ed è per questo che Pitagora ed Euclide sono i nomi piú antichi studiati a scuola. La matematica contenuta nel programma di studi del biennio della scuola superiore non va oltre quella conosciuta a metà del Seicento, mentre per il triennio si arriva a metà del Settecento. (Quando mi sono laureato, la matematica piú moderna che avevo studiato risaliva agli anni Venti del Novecento). Nello scrivere questo libro il mio intento è sempre stato quello di comunicare l'eccitazione e la meraviglia della scoperta matematica (e di dimostrare che i matematici sono simpatici. Siamo i re della logica, il che ci permette di cogliere ciò che è illogico). La matematica ha la cattiva reputazione di essere arida e difficile. Spesso è cosí. Eppure può anche ispirare ed essere accessibile e, soprattutto, molto creativa. Il pensiero matematico astratto è una delle grandi conquiste dell'umanità e, si potrebbe dire, il fondamento di ogni progresso umano. Il mondo dei numeri è un posto straordinario. Raccomanderei una visita. | << | < | > | >> |Pagina 43Capitolo primoLa cont(r)o-cultura int 3
Nel Lincolnshire medievale, un
pimp
piú un
dik
dava un
bumfit.
Non c'era niente di male. Le parole significavano
semplicemente cinque, dieci e quindici in un gergo usato dai
pastori per contare le pecore. L'intera sequenza recitava:
È un modo di contare diverso da quello odierno e non solo perché nessuna di quelle parole ci è familiare. I pastori del Lincolnshire organizzavano i numeri in gruppi di venti, cominciando a contare con yan e finendo con piggot. Se un pastore aveva piú di venti pecore - e sempre che non si fosse addormentato nel frattempo - prendeva nota di aver completato un ciclo mettendosi un sassolino in tasca, facendo un segno per terra o incidendo una riga sul suo bastone. Poi ricominciava da capo: «Yan, tan, tethera...» Se aveva 80 pecore, alla fine avrebbe avuto quattro sassi in tasca o tracciato quattro segni. Il sistema funziona a meraviglia per il pastore, che con quattro piccoli oggetti ne rappresenta 80 grossi. Nel mondo moderno, ovviamente, raggruppiamo i nostri numeri in decine, perciò il nostro sistema numerico ha dieci cifre: 0, 1, 2, 3, 4, 5, 6, 7, 8, 9. La dimensione del gruppo con cui si conta, che spesso è anche il numero dei simboli usati, è chiamato la base di un sistema numerico, perciò il nostro sistema decimale è in base 10, mentre quello dei pastori è in base 20. Senza una base sensata, i numeri sono ingestibili. Immaginate che il pastore avesse un sistema in base uno, il che avrebbe significato che aveva una sola parola a indicare un numero: yan per uno. Due sarebbe stato yan yan. Tre yan yan yan. Ottanta pecore sarebbero state yan ripetuto 80 volte. È un sistema inutile per contare qualunque cosa vada oltre il tre. In alternativa, immaginate che ogni numero fosse una parola unica, cosicché per contare fino a 80 fosse necessario ricordare 80 parole diverse. Adesso provate a contare in questo modo fino a mille! Molte comunità isolate utilizzano ancora basi non convenzionali. Gli arara dell'Amazzonia, per esempio, contano per coppie, con i seguenti numeri da uno a otto: anane, adak, adak anane, adak adak, adak adak anane, adak adak adak, adak adak adak anone, adak adak adak adak. Contare a due a due non è un gran progresso rispetto a contare per uno. Per esprimere 100 è necessario ripetere adak 50 volte di seguito: contrattare al mercato richiederebbe un enorme dispendio di tempo. In Amazzonia si trovano anche sistemi in cui i numeri sono raggruppati per tre o quattro. Il trucco di un buon sistema numerico è che il numero base deve essere abbastanza grande da esprimere numeri come 100 senza rimanere senza fiato, ma non cosí grande da richiedere un eccessivo esercizio di memoria. Le basi piú comuni nel corso della storia sono state cinque, dieci e venti, e il motivo è ovvio. Questi numeri derivano dal corpo umano. In una mano abbiamo cinque dita, perciò cinque è il primo punto ovvio in cui riprendere fiato contando da uno. La successiva pausa naturale arriva a due mani, o dieci dita, e dopo di quella alle mani e ai piedi, o venti dita (alcuni sistemi sono compositi. Il lessico del Lincolnshire per contare le pecore, per esempio, contiene la base cinque, dieci e venti: i primi dieci numeri sono unici e i successivi dieci sono raggruppati per cinque). Il ruolo svolto dalle dita nel far di conto si riflette in molti vocaboli relativi ai numeri, non da ultimo digit dal latino digitus, dito. Per esempio, cinque in russo è piat e la parola per la mano tesa è piast. Analogamente, cinque in sanscrito, pantcha, è simile al persiano pentcha, mano. | << | < | > | >> |Pagina 56La campagna per la numerazione in base 12 non va confusa con la crociata contro il sistema metrico da parte dei sostenitori di quello imperiale. Alle persone che preferiscono piedi e pollici a metri e centimetri non importa che un piede sia di 12 pollici o di 10, come sarebbe con la numerazione duodecimale. Storicamente, però, la campagna in favore della base 12 sottintendeva uno sciovinistico anti-francesismo. Forse l'esempio migliore di un simile punto di vista era un pamphlet scritto nel 1913 dall'ingegnere e contrammiraglio George Elbrow, il quale, definendo «retrogrado» il sistema metrico francese, pubblicava un elenco di date, in base 12, dei re e delle regine d'Inghilterra. Osservava inoltre che la Gran Bretagna era stata invasa poco tempo dopo ciascun millennio decimale: dai romani nel 43 d.C. e dai normanni nel 1066. «E se all'inizio del [terzo millennio], - profetizzava, - questi due [paesi] avanzassero di nuovo con le stesse intenzioni, e questa volta in congiunzione?» L'invasione da parte della Francia e dell'Italia si sarebbe potuta scongiurare, sosteneva, semplicemente riscrivendo l'anno 1913 come 1135, secondo la numerazione duodecimale, ritardando cosí il terzo millennio di svariati secoli.La piú famosa chiamata alle armi duodecimalista, tuttavia, fu un articolo comparso sul «The Atlantic Monthly» nell'ottobre 1934 a firma Frank Emerson Andrews, che portò alla formazione della Duodecimal Society of America, o DSA (successivamente il nome fu cambiato in Dozenal Society of America, dal momento che «duodecimal» pareva richiamare troppo il sistema che i suoi membri intendevano sostituire). Andrews sosteneva che la numerazione in base dieci fosse stata adottata con «imperdonabile miopia» e si chiedeva se sarebbe stato «un cosí tremendo sacrificio» abbandonarla. Inizialmente, la DSA insisteva che gli aspiranti membri sostenessero quattro test di aritmetica duodecimale, ma si rinunciò ben presto a quel requisito. Il «Duodecimal Bulletin», tuttora esistente, è un'ottima pubblicazione e l'unico posto, all'infuori della letteratura medica, in cui si trovino articoli sull'esadattilia, la condizione di chi nasce con sei dita (una malformazione piú comune di quanto non si creda. Circa una persona su 500 nasce con almeno un dito in piú di una mano o di un piede). Nel 1959 fu fondata un'organizzazione gemella, la Dozenal Society of Great Britain, e un anno dopo si tenne in Francia la I Conferenza internazionale duodecimale, che fu anche l'ultima. Eppure, le due società continuano a battersi per un futuro duodecimale, concependosi come militanti oppressi che si mobilitano contro la «tirannia del dieci». L'infatuazione giovanile di Michael de Vlieger per la numerazione in base 12 non era passeggera; è lui l'attuale presidente della DSA. In effetti, la sua dedizione a quel sistema è tale che lo usa nel proprio lavoro di progettista di modelli architettonici digitali.
La numerazione in base 12 facilita sicuramente l'apprendimento delle
tabelline, ma il suo maggior vantaggio è il modo in cui mette ordine nelle
frazioni. La base dieci spesso
è ingarbugliata quando si vuole dividere. Per esempio, un
terzo di 10 è 3,33..., laddove i tre continuano all'infinito.
Un quarto di 10 è 2,5, che necessita di una cifra decimale. In base 12, invece,
un terzo di 10 è 4 e un quarto di 10 è 3. Che bello! Espresso in percentuale, un
terzo diventa il 40 per cento; e un quarto il 30 per cento. In effetti, se
si va a guardare il modo in cui 100 è diviso dai numeri da
1 a 12, la base 12 fornisce numeri piú concisi (si noti che
il punto e virgola nella colonna di destra sta per la virgola «duodecimale»).
Frazione di 100 Decimale Duodecimale --------------------------------------------------- Uno 100 100 Mezzo 50 60 Un terzo 33,333... 40 Un quarto 25 30 Un quinto 20 24;97... Un sesto 16,666... 20 Un settimo 14,285... 18;635... Un ottavo 12,5 16 Un nono 11,111... 14 Un decimo 10 12;497... Un undicesimo 9,09... 11;11... Un dodicesimo 8,333... 10 È questa maggiore precisione che rende la base 12 piú adatta alle esigenze di Michael. Anche se i suoi clienti gli forniscono le misure nella numerazione decimale, lui preferisce convertirle in duodecimale. «Mi offre maggiore scelta quando devo dividere in proporzioni semplici», dice. «Evitare frazioni [complesse] aiuta a garantire che le cose vadano bene. A volte, per i tempi ristretti o per cambiamenti dell'ultimo momento, devo apportare rapidamente un sacco di modifiche che non corrispondono alla griglia che ho elaborato all'inizio. Perciò è importante avere proporzioni semplici e prevedibili. Dispongo di scelte piú pulite e abbondanti con la numerazione duodecimale, che è anche piú rapida». Michael è perfino convinto che usare la base 12 gli dia un vantaggio professionale che paragona a quello di nuotatori e ciclisti che si depilano le gambe. La DSA era nata con l'intento di sostituire il sistema decimale con quello duodecimale e la sua ala fondamentalista lo vuole ancora, ma le ambizioni di Michael sono piú modeste. Lui desidera semplicemente dimostrare alla gente che esiste un'alternativa al sistema decimale che potrebbe essere piú adatta alle loro esigenze. Sa che le chance che il mondo abbandoni dix per douze sono inesistenti. Il passaggio produrrebbe confusione e costi enormi. E poi il sistema decimale funziona sufficientemente bene per i piú, soprattutto nell'era dei computer, in cui le abilità aritmetiche mentali sono ormai generalmente meno richieste. «Ritengo che il sistema duodecimale sia la base ottimale per il comune calcolo quotidiano, - ha aggiunto, - ma non intendo convertire nessuno». Un obiettivo immediato della DSA è l'inserimento delle cifre per dek ed el in Unicode, il repertorio dei caratteri di testo usati dalla maggioranza dei computer. | << | < | > | >> |Pagina 60La forma piú semplice di notazione numerica è la spunta, utilizzata in forme diverse nel mondo intero. Gli inca tenevano il conto facendo nodi su una corda, mentre i cavernicoli dipingevano segni sulle rocce e, dall'invenzione dei mobili in legno, le colonne dei baldacchini sono state segnate - almeno figurativamente - con delle tacche. Il «manufatto matematico» piú antico giunto fino a noi si ritiene sia una "taglia": una fibula di babbuino vecchia di 35 000 anni rinvenuta in una grotta dello Swaziland. L'«osso di Lebombo» reca incise 29 linee a indicare forse un ciclo lunare.Come abbiamo visto nel capitolo precedente, gli esseri umani sanno immediatamente distinguere tra un oggetto e due, tra due e tre, ma oltre il quattro le cose si complicano. Ciò vale anche per le tacche. Perché un sistema di spunta sia comodo, le tacche devono essere raggruppate. In Gran Bretagna, si usa tracciare quattro linee verticali e la quinta che le attraversa in diagonale, il cosiddetto «cancelletto a cinque sbarre». In Sud America di solito si dispongono le prime quattro linee a formare un quadrato e la quinta è una diagonale all'interno di esso. Giapponesi, cinesi e coreani usano un metodo piú elaborato, costruendo il carattere [...], che significa «corretto» o «giusto» (la prossima volta che andate a mangiare il sushi, chiedete al cameriere di mostrarvi come spunta i vostri piatti). Intorno all'8000 a.C. s'impose in tutto il mondo antico la pratica di ricorrere a pezzetti di argilla con dei segni per indicare gli oggetti. Questi simboli registravano principalmente numeri di cose, per esempio pecore da acquistare e vendere. Pezzi d'argilla diversi si riferivano a oggetti o numeri di oggetti diversi. Da quel momento fu possibile contare le pecore senza averle lí, il che rendeva molto piú semplice commerciare e gestire le scorte. Era la nascita dei numeri come li intendiamo oggi. Nel quarto millennio a.C., in Mesopotamia, un'area che rientra nell'odierno Iraq, i sumeri trasformarono questo sistema di simboli in scritte impresse con una canna appuntita sull'argilla fresca. In un primo tempo i numeri venivano rappresentati da cerchi o forme simili a unghie. Intorno al 2700 a.C. lo stilo aveva un'estremità piatta e i simboli impressi assomigliavano maggiormente a impronte di uccelli, con segni diversi a indicare i diversi numeri. Quella scrittura, chiamata cuneiforme, segnava l'inizio della lunga storia del sistema di scrittura occidentale. È una meravigliosa ironia pensare che la letteratura sia un sottoprodotto di una notazione numerica inventata dai contabili sumeri. La scrittura cuneiforme aveva simboli solo per 1, 10, 60 e 3600, il che significa che il sistema era un misto di base 60 e base 10, dal momento che gli insiemi fondamentali di numeri cuneiformi si traducono in 1, 10, 60 e 60 X 60. Perché i sumeri raggruppassero i loro numeri per sessanta è stato definito uno dei piú grandi misteri irrisolti della storia dell'aritmetica. Alcuni hanno ipotizzato che fosse il risultato della fusione di due sistemi precedenti, con base 5 e 12, ma non si sono trovate prove definitive. I babilonesi, che fecero grandi progressi in matematica e astronomia, abbracciarono la numerazione sessagesimale dei sumeri; successivamente gli egizi, seguiti dai greci, basarono i propri metodi per misurare il tempo sul sistema babilonese; ecco perché, ancor oggi, ci sono 60 secondi in un minuto e 60 minuti in un'ora. Siamo talmente abituati alla misurazione del tempo in base 60 che non ci sogniamo di metterla in discussione, anche se è davvero inspiegabile. La Francia rivoluzionaria, tuttavia, pensò di eliminare quella che appariva come un'incoerenza nel sistema decimale. Quando la Convenzione nazionale introdusse il sistema metrico per i pesi e le misure nel 1793, tentò di convertire al sistema decimale anche il tempo. Fu firmato un decreto che stabiliva che ogni giorno sarebbe stato diviso in dieci ore, ciascuna di 100 minuti contenenti 100 secondi. Il metodo funzionava, dando 100 000 secondi in un giorno, contro gli 86 400 (60 X 60 X 24) precedenti. Il secondo rivoluzionario era quindi di una frazione piú corto di quello normale. L'ora decimale divenne obbligatoria nel 1794 e si produssero orologi con i numeri fino a dieci. Tuttavia il nuovo sistema disorientava completamente la gente e fu abbandonato dopo poco piú di sei mesi. Un'ora di 100 minuti, inoltre, non è comoda quanto una di 60, perché 100 non ha tanti divisori quanto 60. Lo si può dividere per 2, 4, 5, 10, 20, 25 e 50, mentre 60 è divisibile per 2, 3, 4, 5, 6, 10, 12, 15, 20 e 30. Il fiasco dell'ora decimale segnò una piccola vittoria per il pensiero duodecimale. A essere divisibile per 12 non è soltanto il 60, ma anche il 24, il numero di ore del giorno. Una campagna piú recente di conversione del tempo al sistema decimale è fallita anch'essa miseramente. Nel 1998 la svizzera Swatch ha lanciato lo Swatch Internet Time che divideva il giorno in 1000 parti chiamate «beat» (equivalenti a 1 min. e 26,4 sec.). La società ha messo in commercio orologi con la sua «rivoluzionaria visione del tempo» per circa un anno, dopo di che, visto l'imbarazzante insuccesso, li ha eliminati dal proprio catalogo. | << | < | > | >> |Pagina 75Mentre certi aspetti dei numeri - come la base, lo stile delle cifre o le forme delle parole usate per esprimerli - differivano molto tra le varie culture, le prime civiltà erano sorprendentemente uniformi nel modo di contare e calcolare. Il metodo generalmente utilizzato è chiamato «valore posizionale» ed è il principio secondo il quale posizioni diverse vengono utilizzate per rappresentare ordini diversi di numeri. Consideriamo cosa significa questo per i pastori del Lincolnshire medievale. Come ho già scritto, questi avevano venti numeri, da yan a piggot. Una volta che un pastore aveva contato 20 pecore, metteva da parte un sassolino e ricominciava a contare da yan a piggot. Se aveva 400 pecore, avrebbe avuto 20 sassi, dal momento che 20 x 20 = 400. Immaginiamo ora che il pastore avesse mille pecore. Se le contava tutte avrebbe avuto 50 sassolini, dal momento che 50 x 20 = 1000. C'era però un problema: se il pastore aveva 50 sassi, non aveva modo di contarli, visto che sapeva contare solo fino a 20!Un modo di risolvere il dilemma è quello di tracciare sul terreno dei solchi paralleli, come nella figura della pagina a fianco. Quando il pastore conta 20 pecore, mette un sasso nel primo solco. Quando ne conta altre 20, mette un altro sasso nel primo solco. A poco a poco il primo solco si riempie di sassi. Quando è il momento di mettere nel solco il ventesimo sasso, tuttavia, ne mette uno solo nel secondo solco e toglie tutti i sassi dal primo. In altre parole, un sasso nel secondo solco significa 20 sassi nel primo - proprio come un sasso nel primo solco significa 20 pecore. Un sasso nel secondo solco rappresenta 400 pecore. Un pastore che ha mille pecore e ricorre a questa procedura avrà due sassi nel secondo solco e venti nel primo. Utilizzando un sistema posizionale come questo - mediante il quale ogni solco attribuisce un valore diverso ai sassi che contiene - ha usato soltanto 12 sassi per contare 1000 pecore, invece dei 50 che gli sarebbero serviti altrimenti. I sistemi di calcolo con il valore posizionale sono stati utilizzati in tutto il mondo. Anziché dei sassi nei solchi, gli inca usavano fagioli o chicchi di granturco su vassoi. Gli indiani del Nord America infilavano perle o conchiglie su spaghi di colori diversi. I greci e i romani usavano dischetti di osso, avorio o metallo su tavole sulle quali erano segnate diverse colonne. In India si usavano segni sulla sabbia. I romani avevano realizzato anche una versione meccanica, chiamata abaco, con palline che scorrevano in scanalature. Queste versioni portatili si diffusero in tutto il mondo civilizzato, anche se paesi diversi ne preferivano modelli diversi. Lo schoty russo ha dieci palline per asta (a eccezione della fila con quattro palline, utilizzata dai cassieri per indicare i quarti di rublo). Il suan-pan cinese di palline ne ha sette, mentre il soroban giapponese, come l'abaco romano, soltanto cinque. In Giappone un milione circa di bambini ogni anno impara a usare l'abaco frequentando uno dei ventimila club pomeridiani dell'abaco. Una sera ne ho visitato uno nella periferia occidentale di Tokyo. Il club si trovava a pochi passi dalla fermata di un treno locale, all'angolo di un isolato residenziale. All'esterno erano parcheggiate trenta biciclette dai colori vivaci. In una grossa vetrina erano in mostra trofei, abachi e una fila di tavolette con incisi in bella grafia i nomi degli allievi piú illustri. L'equivalente giapponese di «leggere, scrivere e far di conto» è yomi, kaki, soroban, leggere, scrivere, abaco. La frase risale al periodo della storia giapponese compreso tra il XVII e il XIX secolo, quando il paese era quasi totalmente isolato dal resto del mondo. Con l'avvento di una nuova classe di commercianti, che richiedeva abilità diverse dalla capacità di maneggiare una spada da samurai, nacquero anche le prime scuole private gestite dalla comunità, dove s'imparava la lingua e l'aritmetica, incentrata sull'abaco. Il club dell'abaco di Yuji Miyamoto è un moderno discendente di queste istituzioni piú antiche. Quando vi sono entrato, Miyamoto, che indossava un abito blu e una camicia bianca, era in piedi davanti a una piccola classe di cinque ragazze e nove ragazzi. Stava leggendo i numeri in giapponese con la concitazione di chi commenta una corsa di cavalli. Mentre i bambini li addizionavano, il picchiettio delle palline ricordava il suono di uno sciame di cicale. In un soroban ci sono esattamente dieci posizioni delle palline per ogni colonna, a rappresentare i numeri da O a 9 come illustrato nella pagina a fianco. Quando sul soroban è mostrato un numero, ciascuna cifra di quel numero è rappresentata su una colonna separata, usando una delle dieci posizioni. L'abaco fu inventato come un modo di contare, ma in realtà mostrò il proprio reale valore come metodo di calcolo. L'aritmetica divenne molto piú facile con l'aiuto delle palline scorrevoli. Per esempio, per calcolare 3 piú 1 si comincia con 3 palline, se ne sposta un'altra e la risposta è proprio sotto gli occhi: 4 palline. Per calcolare, diciamo, 31 piú 45 si comincia con due colonne che segnano 3 e 1, si alzano 4 palline nella colonna di sinistra e 5 in quella di destra. Adesso sulle colonne si legge 7 e 6, che è la risposta, 76. Con un po' di pratica e di applicazione, diventa facile addizionare numeri di ogni lunghezza, fintantoché ci sono abbastanza colonne per accoglierli. Se su una delle colonne i due numeri dànno una somma superiore a dieci, si dovranno spostare di una posizione le palline sulla colonna a sinistra. Per esempio, 9 piú 2 su una colonna diventa 1 sulla colonna a sinistra e 1 sulla colonna originaria, esprimendo cosí la risposta, 11. Sottrazioni, moltiplicazioni e divisioni sono un po' piú complicate, ma una volta apprese si possono effettuare con estrema rapidità.
Prima che, negli anni Ottanta del Novecento, diventassero disponibili le
calcolatrici a buon mercato, gli abachi
erano comuni sui banconi dei negozi da Mosca a Tokyo.
Anzi, durante la transizione dall'era manuale a quella elettronica, in Giappone
si vendeva un prodotto che combinava
calcolatrice e abaco. Di solito l'addizione è piú rapida con
l'abaco, dal momento che si ottiene la risposta non appena s'immettono i numeri.
Con la moltiplicazione la calcolatrice elettronica è un po' piú veloce (l'abaco
era anche un modo, per gli scettici abituati a quel metodo, per verificare
il risultato della calcolatrice, nel caso non ci credessero).
L'uso dell'abaco è diminuito in Giappone dagli anni Settanta, quando, nel suo momento di maggiore popolarità, tre milioni e duecentomila allievi sostenevano ogni anno l'esame nazionale di soroban. Rimane comunque un aspetto importante dell'infanzia, una tradizionale attività extracurricolare al pari del nuoto, del violino o del judo. In effetti, l'insegnamento dell'abaco ricalca quello delle arti marziali. I livelli di abilità si misurano in dan e si tengono gare locali, provinciali e nazionali. Una domenica mi sono recato ad assistere a un evento regionale. Quasi 300 bambini, di età compresa tra i 5 e i 12 anni, sedevano nei banchi di una sala per conferenze con una schiera di speciali accessori per soroban, tra cui eleganti astucci per i loro abachi. Di fronte a loro, un annunciatore declamava, con l'intonazione di un muezzin impaziente, numeri da addizionare, sottrarre o moltiplicare. Era una gara a eliminazione diretta che si è protratta per diverse ore. Mentre ai vincitori venivano assegnati i trofei - tutti con una figura alata che alzava un abaco - gli altoparlanti trasmettevano a tutto volume una musica suonata da una banda militare di ottoni. Alla sua scuola, Miyamoto mi ha presentato uno dei suoi allievi migliori. Naoki Furuyama, che ha 19 anni, è un ex campione nazionale di soroban. Vestiva casual, una leggera camicia a quadri sopra una maglietta nera, e aveva l'aria di essere un teenager tranquillo e assennato, tutt'altro che il classico secchione imbranato. Furuyama è in grado di moltiplicare due numeri da sei cifre in quattro secondi circa, che è piú o meno il tempo necessario per enunciare il problema. Gli ho chiesto quale fosse lo scopo di calcolare cosí in fretta, dal momento che nella vita di tutti i giorni tali abilità non sono necessarie. Mi ha risposto che lo aiutava a potenziare la concentrazione e l'autodisciplina. Miyamoto, che era lí presente, è intervenuto. «A che serve correre 40 chilometri?» mi ha domandato. Non c'è mai bisogno di correre quaranta chilometri, ma la gente lo fa per arrivare al limite della performance umana. Analogamente, ha aggiunto, addestrare il piú possibile il proprio cervello aritmetico aveva una sua nobiltà.
Alcuni genitori mandano i figli nei club dell'abaco perché vadano meglio in
matematica a scuola, ma questo non
basta a spiegarne la popolarità. Altri doposcuola offrono
lezioni di matematica piú mirate; per esempio il Kumon,
un metodo basato sull'esecuzione di una grande mole di
lavoro, introdotto negli anni Cinquanta del Novecento e
seguito ora da piú di quattro milioni di bambini in tutto il
mondo. L'abaco è divertente. L'ho visto sui volti dei bambini alla scuola di
Miyamoto, chiaramente contenti della
loro destrezza nello spostare le palline con rapidità e precisione. Il retaggio
giapponese del
soroban
è causa di orgoglio nazionale. Eppure la vera gioia dell'abaco, pensavo, è
piú primitiva: lo si usa da migliaia di anni e, in alcuni casi,
è ancora il modo piú rapido di eseguire addizioni.
Dopo qualche anno che si usa l'abaco, quando ormai si padroneggia il posizionamento delle palline, diventa possibile calcolare visualizzando semplicemente un abaco nella propria testa. Questa tecnica si chiama anzan e gli allievi migliori di Miyamoto l'hanno appresa tutti. L'impresa era stupefacente da osservare - anche se non c'era niente da vedere. Miyamoto leggeva ad alta voce i numeri a una classe assolutamente silenziosa e immobile e nel giro di qualche secondo gli studenti alzavano la mano per rispondere. Naoki Furuyama mi ha detto che visualizza un abaco con otto colonne. In altre parole, il suo abaco immaginario può rappresentare qualsiasi numero da 0 a 99 999 999. | << | < | > | >> |Pagina 173Capitolo quarto
La storia di Pi
All'inizio del XIX secolo, alla regina Charlotte giunse notizia di un ragazzino prodigio, George Parker Bidder, figlio di uno scalpellino del Devonshire, e volle rivolgergli questa domanda: «Da Land's-end, in Cornovaglia, a Farret's-head, in Scozia, ci sono, secondo le misurazioni fatte, 838 miglia; quanto impiegherebbe una lumaca a percorrere strisciando quella distanza a una velocità di 8 piedi al giorno?» Lo scambio e la risposta — 553 080 giorni - sono riportati in un libro popolare a quel tempo, A short Account of George Bidder, the celebrated Mental Calculator: with a Variety of the most difficult Questions, Proposed to him at the principal Towns in the Kingdom, and his surprising rapid Answers!, nelle cui pagine sono elencati i calcoli piú difficili eseguiti dal ragazzino, compresi classici come «Qual è la radice quadrata di 119 550 669 121?» (345 761, risposto in mezzo minuto) e «Quante libbre di zucchero ci sono in 232 barili, ciascuno del peso di 12 hundredweight (pari a 112 libbre) 1 quarter (pari a 28 libbre) e 22 libbre?» (323 408 libbre, risposto di nuovo in mezzo minuto). I numeri arabi rendevano i calcoli piú facili per tutti, ma una conseguenza imprevista fu la scoperta dell'esistenza di persone dotate di abilità aritmetiche davvero sbalorditive. E spesso questi prodigi eccellevano esclusivamente nella loro destrezza con i numeri. Uno dei primi esempi conosciuti fu un bracciante del Derbyshire, Jedediah Buxton, il quale stupiva i suoi compaesani per l'abilità nel moltiplicare pur essendo semianalfabeta. Era in grado, per esempio, di calcolare il valore di un quarto di penny raddoppiato 140 volte (la risposta è di 39 cifre, con un resto di 2 scellini e 8 pence). Nel 1754, la curiosità per il suo talento fece sí che Buxton fosse invitato a Londra, dove fu esaminato da membri della Royal Society. Pare che presentasse alcuni sintomi dell'autismo high-functioning perché quando fu portato ad assistere al Riccardo III di Shakespeare rimase alquanto sconcertato, tuttavia notificò ai suoi ospiti che gli attori avevano compiuto 5202 passi e pronunciato 14 445 parole. Nel XIX secolo, i «calcolatori lampo» erano stelle internazionali del palcoscenico. Alcuni erano straordinariamente precoci. Zerah Colburn, del Vermont, aveva cinque anni quando dette la sua prima dimostrazione in pubblico e otto quando salpò per l'Inghilterra sognando un grande successo (Colburn aveva un'esadattilia, ma non si sa se le dita in piú lo avessero avvantaggiato nell'imparare a contare). Un suo contemporaneo fu il ragazzino del Devonshire, George Parker Bidder. Le strade dei due prodigi s'incrociarono nel 1818, quando Colburn aveva 14 anni e Bidder 12, e l'incontro, in un pub londinese, portò inevitabilmente a un duello matematico. A Colburn fu domandato quanto avrebbe impiegato un pallone a circumnavigare il globo se avesse percorso 3878 piedi al minuto e la circonferenza della Terra fosse stata di 24 912 miglia. Era un quesito giustamente internazionale per il titolo non ufficiale di sapientone del pianeta. Dopo aver riflettuto per nove minuti, però, il ragazzo non seppe rispondere. Un giornale di Londra riferí con grande enfasi che il suo avversario, invece, ci aveva messo soltanto due minuti a dare la risposta esatta: «23 giorni, 13 ore e 18 minuti, accolta con grandi applausi. Al ragazzo americano furono poste molte altre domande, alle quali si rifiutò di rispondere, mentre il giovane Bidder rispose a tutte». Nella sua deliziosa autobiografia, A memoir of Zerah Colburn; written by himself, l'americano dà una versione diversa della gara. «[Bidder] dimostrava una grande forza e potenza di mente nelle branche superiori dell'aritmetica, - diceva, prima di aggiungere sprezzante, - ma non era capace di estrarre le radici né di trovare i fattori dei numeri». Il titolo non fu assegnato. In seguito, l'università di Edimburgo si offri di farsi carico dell'istruzione di Bidder, che divenne un importante ingegnere e lavorò dapprima nelle ferrovie e poi come supervisore della costruzione dei Victoria Docks di Londra. Colburn, invece, tornò in America, divenne un predicatore e morí a trentacinque anni. La capacità di calcolare rapidamente non è correlata con l'intelligenza o la creatività matematica. Soltanto pochi grandi matematici hanno dimostrato di saper calcolare fulmineamente, e molti invece erano sorprendentemente scarsi in aritmetica. Alexander Craig Aitken era un calcolatore lampo noto nella prima metà del XX secolo; il fatto insolito è che fosse docente di matematica all'università di Edimburgo. Nel 1954 Aitken tenne una conferenza alla Society of Engineers di Londra in cui spiegò alcuni metodi del suo repertorio, come certe scorciatoie algebriche e - cosa fondamentale - l'importanza della memoria. Per dimostrare la sua tesi, snocciolò l'espansione decimale di 97, che si ripete soltanto dopo 96 cifre. Aitken concluse la sua conferenza commentando in tono dolente che da quando aveva acquistato la prima calcolatrice da tavolo le sue abilità avevano iniziato a deteriorarsi. «I calcolatori mentali potrebbero essere destinati a estinguersi, come i nativi della Tasmania o i moriori, - predisse. - Perciò... proverete forse un interesse quasi antropologico nell'osservarne un curioso esemplare e qualcuno di quelli che mi hanno ascoltato oggi magari nel 2000 dirà: "Sí, ne ho conosciuto uno" ». Questo, però, è un calcolo che Aitken ha sbagliato. | << | < | > | >> |Pagina 222Algebra è il termine generico usato per indicare la matematica delle equazioni, in cui operazioni e numeri sono scritti sotto forma di simboli. La parola stessa ha una storia curiosa. Nella Spagna medievale, i barbieri esponevano un'insegna che diceva Algebrista y Sangrador. L'espressione significa «Riparatore di ossa e salassatore», due attività che al tempo facevano parte del repertorio di un barbiere (ecco perché fuori dei negozi di barbiere ci sono colonnine a strisce rosse e bianche: il rosso simboleggia il sangue, il bianco le fasciature).Algebrista viene dalla radice araba al-gabr che, oltre a riferirsi a grossolane tecniche chirurgiche, significa anche ripristino o completamento. Nella Baghdad del IX secolo, Muhammad ibn Musa al-Khwarizmi scrisse un manuale di matematica intitolato Hisab al-gabr wa-al-muqabala, o Calcoli mediante ripristino e riduzione, in cui esponeva due tecniche per la soluzione di problemi aritmetici. Al-Khwarizmi enunciava i suoi problemi in modo retorico, ma qui, per facilitarne le comprensione, sono espressi con terminologia e simboli moderni. Considerate l'equazione A = B — C. A1-Khwarizmi descriveva al-gabr, o il ripristino, come il processo mediante il quale l'equazione diventa A + C = B. In altre parole, si può rendere positivo un termine negativo ripristinandone la posizione dall'altra parte del segno di uguaglianza. Consideriamo adesso l'equazione A = B + C. La riduzione è il processo che trasforma l'equazione in A — C = B. Grazie alla notazione moderna, adesso vediamo che tanto il ripristino quanto la riduzione sono esempi della regola generale per cui qualunque cosa si faccia da una parte di un'equazione la si deve fare anche dall'altra. Nella prima equazione abbiano addizionato C ad ambo le parti. Nella seconda equazione abbiamo sottratto C da ambo le parti. Poiché per definizione le espressioni dalle due parti di un'equazione sono uguali, devono continuare a esserlo quando un altro termine viene simultaneamente addizionato o sottratto da ambo le parti. Ne consegue che se moltiplichiamo una parte per una certa quantità, dobbiamo moltiplicare l'altra per un'uguale quantità, e lo stesso vale per la divisione e altre operazioni. L'uguale è come uno steccato che separa i giardini di due famiglie molto competitive. Qualunque cosa i Rossi facciano al loro giardino, i Bianchi della porta accanto li imiteranno. Al-Khwarizmi non è stato il primo a usare il ripristino e la riduzione: queste operazioni si ritrovano anche in Diofanto; ma quando il libro di Al-Khwarizmi fu tradotto in latino, l' al-gabr del titolo divenne algebra. Quel testo, insieme a un altro sul sistema decimale indiano, ebbe una tale diffusione in Europa che il nome del matematico iracheno fu immortalato come un termine scientifico: Al-Khwarizmi divenne Alchoarismi, Algorismi e, infine, algoritmo. | << | < | > | >> |Pagina 236Nel 1620, il matematico inglese Edmund Gunter fu il primo a segnare una scala logaritmica su un righello; si accorse cosí che poteva moltiplicare addizionando le lunghezze di quel righello. Se si posizionava un compasso con la punta sinistra su 1 e la destra su a, quando la punta sinistra veniva spostata in b, quella destra indicava a x b. Il disegno nella pagina a fianco mostra il compasso posizionato su 2 e poi spostato con la punta sinistra su 3, cosicché la destra viene a trovarsi su 2 x 3 = 6.Non molto tempo dopo, William Oughtred, un ministro anglicano, perfezionò l'idea di Gunter. Eliminò il compasso e mise due scale logaritmiche di legno l'una accanto all'altra, creando uno strumento noto come regolo calcolatore. Oughtred ideò due tipi di regolo. Una versione utilizzava due righelli diritti, l'altra un disco circolare con due cursori. Per ragioni a noi sconosciute, però, Oughtred non pubblicò la sua invenzione. A farlo fu uno dei suoi allievi, Richard Delamain, nel 1630. Oughtred s'indignò e accusò Delamain di essere un «borseggiatore»; la contesa sull'origine del regolo calcolatore andò avanti sino alla morte di Delamain. «Questo scandalo, - si lamentava Oughtred verso la fine della sua vita, - mi ha procurato molti danni e svantaggi». Il regolo era una macchina calcolatrice straordinariamente ingegnosa e benché sia ormai superato ha ancora dei sostenitori. Sono andato a far visita a uno di loro, Peter Hopp a Braintree, nell'Essex. «Tra il Settecento e il 1975 ogni innovazione tecnologica è stata inventata con l'ausilio di un regolo», mi ha detto quando mi è venuto a prendere alla stazione. Hopp, un ingegnere elettrico in pensione, è un uomo estremamente affabile, con sopracciglia rade, occhi azzurri e guance floride. Mi stava portando a vedere la sua collezione di regoli, una delle piú grandi al mondo, che contiene oltre un migliaio di questi eroi dimenticati del nostro retaggio scientifico. Strada facendo abbiamo parlato di collezionismo. Hopp mi ha spiegato che la roba migliore è messa all'asta direttamente in Internet, dove la competizione per aggiudicarsela fa inevitabilmente salire i prezzi. Un regolo raro, mi ha detto, può costare facilmente centinaia di sterline. Quando siamo arrivati a casa, sua moglie ci ha offerto una tazza di tè e ci siamo ritirati nel suo studio, dove mi ha fatto dono di un regolo Faber-Castell in legno degli anni Settanta, rifinito in plastica bianco-rosata. Il regolo aveva le dimensioni di un normale righello da 30 cm, con una sezione scorrevole al centro. Sopra erano segnate diverse scale in caratteri minuscoli. Aveva anche un cursore mobile trasparente con una linea di riferimento. La forma e la sensazione tattile di quell'oggetto evocavano una sorta di imbranataggine post-bellica, quando i cervelloni di prima dell'era dei computer indossavano camicie, cravatte e astucci da taschino anziché magliette, scarpe da ginnastica e iPod. Ho frequentato la scuola secondaria negli anni Ottanta, quando i regoli ormai non si usavano piú, cosí Hopp mi ha tenuto una breve lezione. Mi ha raccomandato, in quanto principiante, di usare la scala logaritmica da 1 a 100 sul corpo principale e quella adiacente da 1 a 100 sull'asta centrale scorrevole. | << | < | > | >> |Pagina 244Per tutti gli anni Cinquanta e Sessanta, il Curta fu l'unica calcolatrice tascabile esistente in grado di dare risultati esatti. Sia il Curta sia il regolo, però, si estinsero in seguito a un evento che rappresentò per la storia degli strumenti aritmetici una catastrofe pari al meteorite che si dice abbia annientato i dinosauri: la nascita della calcolatrice elettronica.È difficile pensare a un altro oggetto scomparso tanto repentinamente quanto il regolo dopo aver dominato cosí a lungo. Aveva infatti regnato supremo per trecento anni, fino a che, nel 1972, Hewlett-Packard lanciò la sua HP-35. Lo strumento fu reclamizzato come un «regolo elettronico portatile di estrema precisione», ma non assomigliava affatto a un regolo. Aveva le dimensioni di una piccola scatola con un display a LED rossi, 35 tasti e un interruttore on-off. Nel giro di pochi anni non fu piú possibile acquistare un regolo multiuso se non di seconda mano e gli unici interessati erano i collezionisti. Anche se la calcolatrice elettronica ha eliminato il suo amato regolo, Peter Hopp non serba rancore. Gli piace collezionare anche i primi modelli di calcolatrici. Quando siamo passati a questo argomento mi ha mostrato la sua HP-35 e ha cominciato a rievocare la prima volta che ne aveva vista una all'inizio degli anni Settanta. A quel tempo era stato assunto da poco alla Marconi, la società di comunicazioni elettriche. Un suo collega aveva acquistato una HP-35 che gli era costata 365 sterline, equivalenti all'epoca a circa metà della retribuzione annua di un giovane ingegnere. «Era cosí preziosa che la teneva sotto chiave nella sua scrivania e non permetteva a nessuno di usarla», mi ha raccontato. Il collega, però, aveva anche un altro motivo per tanto riserbo. Credeva di aver trovato un modo di usare la calcolatrice che avrebbe potuto far risparmiare all'azienda l'1 per cento sulle spese. «S'incontrava in gran segreto con i capi», ha detto Hopp. Tuttavia il suo collega aveva commesso un errore. Le calcolatrici non sono strumenti perfetti: immettete 10 e dividetelo per 3. Otterrete 3,3333333. Se però moltiplicate il risultato per 3 non tornerete al punto di partenza; otterrete invece 9,9999999. Il collega di Hopp aveva usato un'anomalia delle calcolatrici digitali per creare qualcosa dal nulla. Hopp ricordava l'incidente con un sorriso: «Quando il piano fu verificato da qualcuno che usava un regolo, il risparmio fu giudicato illusorio». La storia dimostra perché Hopp lamenta la scomparsa del regolo. Quello strumento forniva una comprensione visiva dei numeri, il che significa che ancor prima di aver elaborato il risultato se ne aveva un'idea approssimativa. Oggigiorno, diceva Hopp, la gente immette numeri in una calcolatrice senza alcun senso intuitivo dell'esattezza o meno del risultato. Eppure, la calcolatrice elettronica digitale rappresentò un progresso rispetto al regolo analogico. La calcolatrice tascabile era piú facile da usare, dava risposte precise e nel 1978 costava ormai meno di cinque sterline, il che la rendeva accessibile a tutti. Sono trascorsi piú di tre decenni dall'uscita di scena del regolo, perciò sorprende che ci sia una situazione nel mondo moderno in cui è ancora comunemente usato. I piloti se ne servono per guidare gli aerei. Il regolo di un pilota è circolare, è chiamato «whizz wheel» e misura la velocità, la distanza, il tempo, il consumo di carburante, la temperatura e la densità dell'aria. Per ottenere il brevetto di volo bisogna saperlo usare, il che può apparire davvero strano, se si pensa alla sofisticata strumentazione attualmente impiegata nelle cabine di pilotaggio. La conoscenza del regolo è richiesta perché i piloti devono saper guidare anche piccoli aerei privi di computer di bordo. Eppure spesso anche i piloti dei jet piú moderni lo preferiscono. Avere un regolo a portata di mano significa che si possono eseguire stime molto veloci e farsi un'idea piú visiva dei parametri numerici del volo. Volare sui jet è piú sicuro grazie all'abilità dei piloti nell'usare una macchina calcolatrice dell'inizio del XVII secolo. | << | < | > | >> |Pagina 266L'idea che i numeri possano intrattenere è antica quanto la matematica stessa. Il papiro egizio di Rhind, per esempio, contiene la seguente lista come parte della risposta al problema 79 che, a differenza degli altri contenuti nel papiro, non sembra avere alcuna applicazione pratica.Case 7 Gatti 49 Topi 343 Spighe 2401 Hegat 16807 Totale 19607 Questo elenco è l'inventario di sette case, ciascuna delle quali aveva sette gatti, ciascuno dei quali mangiò sette topi, ciascuno dei quali mangiò sette spighe, ciascuna delle quali proveniva da un diverso heqat. I numeri formano una progressione geometrica, cioè una sequenza in cui ogni termine è calcolato moltiplicando il precedente per un numero fisso, in questo caso sette. Ci sono sette volte piú gatti che case, sette volte piú topi che gatti, sette volte piú spighe che topi e sette volte piú heqat che spighe. Potremmo riscrivere il totale di articoli come 7 + 7^2 + 7^3 + 7^4 + 7^5.
Non erano soltanto gli egizi, comunque, a trovare irresistibile questa
sequenza. La somma ricompare quasi identica
in una filastrocca di Mamma Oca dei primi dell'Ottocento:
La poesia rappresenta il piú famoso indovinello a trabocchetto della letteratura inglese, dal momento che, presumibilmente, l'uomo e il suo seguito di donne e felini rinchiusi venivano da St Ives. A prescindere dalla direzione di viaggio, tuttavia, il totale di mici, gatti, sacchi e mogli è 7 + 7^2 + 7^3 + 7^4, che fa 2800. Un'altra versione, meno nota, dell'indovinello compariva nel Liber Abaci di Leonardo Fibonacci del XIII secolo e riguardava sette donne in viaggio per Roma con un numero crescente di muli, sacchi, pagnotte, coltelli e foderi. L'aggiunta di un 7^6 portava la serie a 137256. Cos'hanno di cosí affascinante le potenze crescenti di sette per ricorrere in epoche e contesti cosí diversi? Ogni caso dimostra l'accelerazione turbo delle progressioni geometriche. La filastrocca è un modo poetico di dimostrare con che velocità numeri piccoli possano portare a numeri molto grandi. Quando la sentite la prima volta, pensate che ci debba essere una discreta quantità di mici, gatti, sacchi e mogli, ma non quasi 3000! Analogamente, i problemi giocosi riportati nel papiro di Rhind e nel Liber Abaci esprimono lo stesso concetto matematico. E il numero 7, anche se si potrebbe pensare che abbia qualche peculiarità per comparire in tutti questi problemi, è in realtà piuttosto irrilevante. Se si moltiplica qualunque numero per se stesso alcune volte, il totale raggiunge rapidamente un ammontare inaspettatamente elevato. Anche quando si moltiplica per se stesso il numero piú basso possibile, cioè 2, il totale sale a un passo vertiginoso. Mettete un chicco di grano sul quadrato d'angolo di una scacchiera. Mettetene due su quello adiacente e poi cominciate a riempire la scacchiera raddoppiando i chicchi a ogni quadrato. Quanto grano ci vorrà per riempire l'ultimo qúadrato? Qualche camionata, o magari un container? In una scacchiera ci sono 64 quadrati, perciò abbiamo raddoppiato 63 volte, il che significa che il numero 2 è stato moltiplicato per se stesso 63 volte, o 2^63. In chicchi, il numero è circa 100 volte maggiore dell'attuale produzione mondiale annua di grano. O, se vogliamo vederla in un'altra prospettiva, se aveste cominciato a contare un chicco di grano per secondo dal momento del Big Bang tredici miliardi di anni fa, adesso non sareste arrivati a contarne nemmeno un decimo di 2^63. Le filastrocche, i giochi e gli indovinelli matematici sono ora noti con il nome collettivo di matematica ricreativa. È un campo vasto e vivace, una cui caratteristica essenziale è che gli argomenti trattati sono accessibili ai non addetti ai lavori anche se possono fare riferimento a teorie complicatissime. Oppure potrebbero non comportare alcuna teoria, ma semplicemente suscitare apprezzamento per la meraviglia dei numeri, come l'eccitazione di collezionare foto di targhe automobilistiche.
Una pietra miliare nella storia della matematica ricreativa è rappresentata
da un evento che si sarebbe verificato
sulle rive del fiume Giallo, in Cina, intorno al 2000 a.C.
Secondo la leggenda, l'imperatore Yu vide una tartaruga
che usciva dall'acqua. Era una tartaruga divina, con pallini bianchi e neri sul
ventre. I pallini denotavano i primi
nove numeri e formavano una griglia sulla pancia dell'animale che (immaginando
che i pallini fossero scritti come numeri arabi) era simile ad A:
Un quadrato come questo, che contiene tutti i numeri consecutivi a partire
da uno, disposti in modo tale che
le file, le colonne e le diagonali da angolo a angolo dànno
tutte la stessa somma, è noto come
quadrato magico.
I cinesi lo chiamarono
lo shu
(le sue file, colonne e diagonali davano tutte 15); credevano che simboleggiasse
le armonie interne all'universo e lo usavano per la divinazione e
il culto. Per esempio, se partite da uno e tracciate una linea a congiungere, in
ordine, i numeri del quadrato, ottenete lo schema che potete vedere in B e nella
figura della pagina accanto, che mostra le istruzioni per i movimenti dei
sacerdoti taoisti all'interno del tempio. Lo schema, chiamato
yubu,
è anche alla base del
feng shui,
la filosofia estetica cinese.
Quella cinese non è stata l'unica cultura a scorgere l'aspetto mistico del lo shu. I quadrati magici erano oggetti spirituali per gli indú, i musulmani, gli ebrei e i cristiani. La cultura islamica è quella che ne ha scoperto gli usi piú creativi. In Turchia e in India alle vergini veniva chiesto di ricamare quadrati magici sulle tuniche dei guerrieri. E si credeva che un quadrato magico posto sul ventre di una donna in travaglio facilitasse il parto. Gli indú indossavano quadrati magici come talismani e gli astrologi del Rinascimento li associavano ai pianeti del nostro sistema solare. È facile prendersi gioco della predisposizione dei nostri antenati per l'occulto, eppure l'uomo moderno può capire il fascino esercitato dai quadrati magici. Semplice e sottilmente complesso al contempo, un quadrato magico è come un mantra numerico, un oggetto che si può contemplare all'infinito, un'espressione isolata di ordine in un mondo disordinato. Uno dei piaceri dei quadrati magici è che non sono limitati alla matrice 3 x 3. Un esempio famoso di un quadrato 4 x 4 ci viene dall'opera di Albrecht Dürer. In Melencolia I (riprodotto nella pagina seguente), l'artista ha incluso un quadrato magico di ordine 4 che, com'è risaputo, riporta l'anno dell'incisione: 1514. Il quadrato di Dürer, in effetti, è supermagico. | << | < | > | >> |Pagina 289Nonostante il tangram sia ormai sinonimo di tutti i rompicapi del genere, non è stato il primo puzzle al mondo basato sulla disposizione di tessere. Nell'antica Grecia, un gioco simile, lo stomachion, divideva un quadrato in 14 pezzi (si pensa che il nome derivi dal mal di stomaco indotto dal puzzle, anche se non per averne ingeriti i pezzi). Archimede scrisse sullo stomachion un trattato di cui si conserva soltanto un frammento. Sulla base di questo si è ipotizzato che Archimede volesse tentare di calcolare il numero dei possibili posizionamenti delle tessere dello stomachion per ottenere un quadrato perfetto. Questo antico problema è stato risolto solo in tempi recenti. Nel 2003 l'informatico Bill Cutler ha scoperto che i modi sono 536 (escludendo le soluzioni identiche ruotate o speculari).Fin dai tempi di Archimede, molti matematici hanno condiviso la passione per i puzzle ricreativi. «L'uomo non è mai tanto ingegnoso quanto nella creazione di giochi», diceva, per esempio, Gottfried Leibniz il cui amore per il peg solitaire rifletteva la sua ossessione per i numeri binari: un foro ha un piolo oppure no, è o 1 o 0. Tuttavia, il piú giocherellone tra tutti i grandi matematici fu Eulero il quale, per risolvere un rompicapo del XVIII secolo, inventò una branca completamente nuova della matematica. A Königsberg, la capitale della Prussia che è ora la città russa di Kaliningrad, c'erano un tempo sette ponti che attraversavano il fiume Pregel. Gli abitanti del luogo volevano sapere se sarebbe stato possibile percorrerli tutti tornando al punto di partenza senza averne attraversato nessuno piú di una volta. Per dimostrare che un circuito del genere non era possibile, Eulero creò un grafo in cui ogni distesa di terra era indicata con un punto, o nodo, e ogni ponte con una linea, o arco. Elaborò poi un teorema che collegava il numero di archi che toccavano ogni nodo alla possibilità di fare del grafo un circuito e dimostrò che nel caso specifico ciò era impossibile.
Il balzo concettuale compiuto da Eulero fu capire che la
cosa importante per risolvere il problema non era l'informazione circa la
posizione esatta dei ponti, bensí il modo in
cui erano collegati. La mappa della metropolitana di Londra
ha preso in prestito questa idea: non è precisa da un punto
di vista geografico, ma riflette fedelmente il modo in cui le
varie linee sono collegate tra loro. Il teorema di Eulero introdusse la teoria
dei grafi e precorse la topologia, un'area
ricchissima della matematica che studia le proprietà degli
oggetti che restano immutate quando questi sono schiacciati, torti o allungati.
Il fascino esercitato dal tangram nel 1817 non era niente in confronto ai livelli straordinari di eccitazione suscitati dal secondo rompicapo divenuto una mania mondiale. Da quel giorno di dicembre del 1879 in cui, in un negozio di Boston, fu lanciato il gioco del quindici, la domanda fu tale che i produttori non riuscivano a soddisfarla. «Né la fronte rugosa della vecchiaia, né quella angelica dell'infanzia resistono al contagio», dichiarò il «Boston Post». Il gioco del quindici era formato da 15 blocchi quadrati di legno posti in una scatola, anch'essa quadrata, cosí da comporre una matrice 4 x 4 con un quadrato mancante. I blocchi erano numerati da 1 a 15 e messi nella scatola alla rinfusa. Scopo del gioco era quello di far scorrere i blocchi all'interno del quadrato 4 x 4 usando lo spazio vuoto e terminando con il loro posizionamento in ordine numerico. Il gioco del quindici era cosí appassionante e divertente che la moda si diffuse ben presto dal Massachusetts a New York e poi in tutti gli USA. «Si è propagato da est a ovest con la violenza dello scirocco, bruciando il cervello degli uomini e rendendoli, a quanto pare, temporaneamente pazzi», Si agitava il «Chicago Tribune». Secondo il «New York Times», nessuna pestilenza «ha mai colpito questo o un altro paese diffondendosi con tale spaventosa rapidità». Il gioco arrivò subito anche oltreoceano e c'era un negozio di Londra che, a quanto si diceva, non vendeva altro. Nel giro di sei mesi il rompicapo aveva raggiunto l'altra parte del mondo. «Non pochi sono già impazziti», sosteneva una lettera del primo maggio 1880 pubblicata sull'«Otago Witness» della Nuova Zelanda. Il gioco del quindici era stato inventato da Noyes Chapman, direttore di un ufficio postale dello Stato di New York, che quasi due decenni prima aveva tentato di realizzare un modello fisico di quadrato magico 4 x 4 fabbricando dei blocchetti di legno per ciascuno dei 16 numeri e inserendoli in una scatola quadrata. Quando si era accorto che lasciando fuori un blocchetto si aveva uno spazio in cui era possibile far scorrere i blocchetti adiacenti, aveva intuito che cercare di risistemare i numeri sarebbe stato particolarmente divertente. Chapman realizzò alcune versioni del gioco per amici e parenti, ma non sfruttò mai economicamente la sua invenzione. Fu soltanto quando un falegname di Boston che la sapeva lunga decise di commercializzarlo, che il gioco finalmente diventò popolare. Il gioco del quindici aveva una particolarità che tormentava quanti ci si cimentavano: non sempre riusciva. Una volta che i blocchi erano disposti a caso, sembravano esserci due soli risultati: o era possibile ricollocarli in ordine numerico, oppure le prime tre righe risultavano in ordine, ma nell'ultima si aveva 13-15-14. La moda era alimentata, in parte, dal desiderio di scoprire se fosse possibile passare da 13-15-14 a 13-14-15. Nel gennaio 1890, qualche settimana dopo la messa in vendita del primo gioco, un dentista di Rochester, New York, pubblicò su un giornale locale un'inserzione in cui offriva una ricompensa di cento dollari e una dentiera a chiunque fosse stato in grado di dimostrarne quella possibilità o impossibilità. Era convinto che fosse impossibile, ma gli serviva una mano con la matematica. Ben presto lo sconcerto suscitato dal gioco del quindici si diffuse dalle case di tutto il mondo alle aule universitarie, e una volta coinvolti i professionisti la sua insolubilità anziché far impazzire divenne motivo di soddisfazione. Nell'aprile del 1890 Hermann Schubert, uno dei matematici piú illustri del suo tempo, pubblicò su un giornale tedesco la prima dimostrazione dell'irrisolvibilità della posizione 13-15-14. Gli fece seguito l'«American Journal of Mathematics», da poco fondato, che pubblicò anch'esso una dimostrazione confermando che le posizioni di partenza producevano per metà una soluzione finale di 13-14-15 e per l'altra metà si concludevano con 13-15-14. Il gioco del quindici rimane l'unico rompicapo in voga a livello internazionale che non sempre ha una soluzione. Non c'è da meravigliarsi che facesse impazzire la gente. Come il tangram, il gioco del quindici non è totalmente scomparso. È stato il precursore dei puzzle a blocchi scorrevoli che ancora si trovano nei negozi di giocattoli, tra i regalini di Natale e negli omaggi aziendali. Nel 1974 un ungherese stava studiando delle migliorie al gioco quando gli venne l'idea di reinventarlo in tre dimensioni. L'uomo, Ernö Rubik, realizzò un prototipo, il Cubo di Rubik, che sarebbe diventato il rompicapo di maggior successo della storia. | << | < | > | >> |Pagina 356La sezione aurea è il numero che descrive il rapporto preciso tra due segmenti di una retta quando la proporzione dell'intera retta rispetto al segmento piú grande è uguale alla proporzione del segmento maggiore rispetto al minore. In altre parole, quando il rapporto tra A + B e A è uguale al rapporto tra A e B:[...] Una retta divisa in due mediante il rapporto aureo è nota come sezione aurea, e phi, il rapporto tra sezione maggiore e minore, può essere calcolato come (1+√5)/2. Questo è un numero irrazionale, la cui espansione decimale inizia con: 1,61803 39887 49894 84820...
I greci erano affascinati da phi. Lo scoprirono nella
stella a cinque punte, o pentagramma, che era un simbolo riverito della
Fratellanza pitagorica. Euclide lo chiamava il «rapporto estremo e medio» e
forní un metodo per costruirlo con squadra e compasso. Almeno dal Rinascimento,
il numero ha conquistato gli artisti quanto
i matematici. La principale opera sul rapporto aureo fu
De divina proportione,
scritta da
Luca Pacioli
nel 1509 e illustrata da
Leonardo da Vinci
, che elencava le apparizioni del numero in molte costruzioni geometriche.
Pacioli concludeva che il rapporto fosse un messaggio di
Dio, una fonte di segreta conoscenza della bellezza interiore delle cose.
L'interesse matematico per phi deriva dal suo nesso con la sequenza piú famosa della matematica: la sequenza di Fibonacci , quella che inizia con 0, 1 e ogni termine successivo è la somma dei due precedenti: 0, 1, 1, 2, 3, 5, 8, 13, 21, 34, 55, 89, 144, 233, 377 ...
Ecco come si trovano i numeri:
0+1=1 1+1=2 1+2=3 2+3=5 3+5=8 5+8=13 ...
Prima che vi mostri in che modo sono connessi phi e
Fibonacci, esaminiamo i numeri della sequenza. Il mondo naturale ha una
predilezione per i numeri di Fibonacci.
Se guardate in giardino, scoprirete che per la maggioranza
dei fiori il numero dei petali è un numero di Fibonacci:
3 petali giglio e ireos 5 petali garofano e ranuncolo 8 petali speronella 13 petali calendola ed erba di San Giacomo 21 petali astro 55/89 petali margherita I fiori possono anche non avere sempre questo numero di petali, ma il numero medio di petali sarà un numero di Fibonacci. Per esempio, di solito un trifoglio ha tre foglie, un numero di Fibonacci. Di rado ne ha quattro ed è per questo che consideriamo speciali i quadrifogli, che sono rari perché 4 non è un numero di Fibonacci. I numeri di Fibonacci ricorrono anche nella disposizione a spirale sulla superficie di pigne, ananas, cavolfiori e girasoli. Come mostra l'immagine qui sotto, è possibile contare le spirali in senso orario e antiorario. I numeri di spirali che si possono contare in entrambe le direzioni sono numeri consecutivi di Fibonacci. Gli ananas di solito hanno 5 e 8 spirali, o 8 e 13. Le pigne dell'abete rosso tendono ad avere 8 e 13 spirali. I girasoli possono averne 21 e 34, o 34 e 55, anche se sono stati trovati esemplari con ben 144 e 233 spirali. Piú semi ci sono, piú le spirali saliranno nella sequenza. La sequenza di Fibonacci è cosí chiamata perché i termini compaiono nel suo Liber Abaci, in un problema relativo ai conigli. Tuttavia, ha ricevuto questo nome soltanto sei secoli dopo la pubblicazione del libro, quando, nel 1877, il teorico dei numeri Édouard Lucas, che la stava studiando, decise di rendere omaggio a Fibonacci dando alla sequenza il suo nome. | << | < | > | >> |Pagina 492Uno dei piú determinati tra quanti aspiravano a dimostrare il postulato delle parallele partendo dai primi quattro postulati, provando cosí che non era affatto un postulato bénsí un teorema, fu János Bolyai, uno studente d'ingegneria originario della Transilvania. Suo padre Farkas, da buon matematico, era consapevole dell'entità della sfida avendo lui stesso tentato invano e supplicava il figlio di lasciar perdere: «Per l'amor di Dio, ti supplico, rinuncia. Temila non meno della passione sensuale, perché anch'essa può assorbire tutto il tuo tempo e privarti della salute, della pace mentale e della gioia di vivere». János però ignorò caparbiamente il consiglio del padre, e quella non fu la sua unica ribellione: osò supporre che il postulato fosse falso. Per i matematici Gli Elementi erano ciò che la Bibbia era per i cristiani, un libro di verità sacre e indiscutibili. Benché si dibattesse sul fatto che il quinto postulato fosse un assioma o un teorema, nessuno aveva mai avuto la temerarietà di ipotizzare che potesse non essere vero. Come si vide, farlo fu la chiave per un nuovo mondo.Il postulato delle parallele afferma che per una data retta e un punto fuori di essa c'è al massimo una retta parallela che passa per quel punto. L'audacia di János fu quella di ipotizzare che per una data retta e un punto fuori di essa, per quel punto passi piú di una parallela. Benché non fosse per niente chiaro come visualizzare una superficie per la quale era valida quell'affermazione, János capi che la geometria che ne derivava, unitamente ai primi quattro postulati, era ancora coerente da un punto di vista matematico. Fu una scoperta rivoluzionaria e lui ne riconobbe l'importanza. Nel 1823 scrisse al padre annunciando che «Dal nulla ho creato un nuovo universo». János fu probabilmente aiutato dal fatto di lavorare isolato da importanti istituzioni matematiche, per cui era meno indottrinato dalle opinioni tradizionali. Anche dopo quella scoperta, non volle fare il matematico. Una volta laureato si arruolò nell'esercito austro-ungarico, dove, a quanto si diceva, fu lo spadaccino e il ballerino migliore tra i suoi commilitoni. Fu anche un ottimo musicista e si racconta che una volta sfidò a duello tredici ufficiali ponendo come condizione che, se avesse vinto, avrebbe potuto suonare allo sconfitto un brano sul suo violino. All'insaputa di János, un altro matematico, in un avamposto ancora piú lontano della Transilvania dai centri accademici europei, stava compiendo per proprio conto progressi analoghi ai suoi, anche se il suo lavoro era stato respinto dall'establishment matematico. Nel 1826 Nikolaj Ivanovic Lobacevskij , docente all'università di Kazan', in Russia, presentò uno studio che metteva in discussione la verità del postulato delle parallele all'Accademia delle Scienze di San Pietroburgo, rinomata a livello internazionale, che glielo rifiutò. Lobacevskij decise allora di pubblicarlo sul giornale locale «Kazanski Vestnik» («Il messaggero di Kazan'»), ma nessuno gli prestò attenzione. L'ironia piú grande a proposito dello spodestamento del quinto postulato di Euclide dal piedistallo della verità inviolabile, tuttavia, è che vari decenni prima qualcuno ben inserito nell'establishment matematico aveva fatto la stessa scoperta di János Bolyai e Nikolaj Lobacevskij, ma se l'era tenuta per sé. Non si capisce bene perché Carl Friedrich Gauss , il massimo matematico del suo tempo, avesse deciso di mantenere segreti i suoi studi sul postulato delle parallele, anche se la spiegazione piú accreditata è che volesse evitare di impegolarsi in una disputa con i docenti suoi colleghi circa la supremazia di Euclide.
Fu soltanto dopo aver letto dei risultati di János, pubblicati nel 1831
sotto forma di appendice a un libro del
padre Farkas, che Gauss rivelò a tutti di aver considerato anche lui la falsità
del postulato delle parallele. Gauss
scrisse a Farkas, un vecchio compagno di università,
una lettera in cui descriveva János come un «genio di
prim'ordine», aggiungendo però di essere impossibilitato a lodarne i progressi:
«Perché lodare lui equivarrebbe a lodare me stesso. L'intero contenuto del
saggio [...] coincide con le mie scoperte, alcune delle quali risalgono
a 30-35 anni orsono [...] Intendevo scriverne un giorno
perché tutto questo non scomparisse con me. È perciò
una piacevole sorpresa che mi venga risparmiato l'incomodo e mi allieta
particolarmente che sia proprio il figlio
del mio vecchio amico a precedermi in questa materia».
János ci rimase male quando seppe che Gauss ci era arrivato per primo. E quando,
anni dopo, apprese che anche Lobacevskij lo aveva preceduto, cominciò a essere
ossessionato dall'idea ridicola che questi fosse un personaggio
di fantasia, un astuto espediente di Gauss per privarlo
dei meriti del suo lavoro.
L'ultimo contributo di Gauss alla ricerca sul quinto postulato giunse poco prima della sua morte allorché, già gravemente malato, decise il titolo della dissertazione per l'abilitazione alla libera docenza del suo allievo piú brillante, il ventisettenne Bernhard Riemann: «Sulle ipotesi alla base della geometria». Riemann, figlio di un pastore luterano, era oppresso da una timidezza paralizzante ed ebbe quasi un esaurimento nervoso mentre s'interrogava su cosa dire, ma alla fine trovò una soluzione che avrebbe rivoluzionato la matematica e successivamente anche la fisica, dal momento che Einstein ebbe bisogno delle sue innovazioni per formulare la teoria generale della relatività. La dissertazione che Riemann tenne nel 1854 consolidò la nuova interpretazione della geometria derivante dalla caduta del postulato delle parallele introducendo una teoria onnicomprensiva, che abbracciava la geometria euclidea e quella non-euclidea. Il concetto chiave su cui si reggeva la teoria di Riemann era quello della curvatura dello spazio. Se una superficie ha curvatura zero, è piana, o euclidea, e tutti i risultati degli Elementi reggono. Se una superficie ha una curvatura positiva o negativa, è curva, o non-euclidea, e i risultati degli Elementi non valgono piú. Il modo piú semplice di comprendere la curvatura, continuava Riemann, è quello di considerare il comportamento dei triangoli. Su una superficie a curvatura zero, gli angoli di un triangolo, sommati, dànno 180 gradi. Su una superficie a curvatura positiva la somma degli angoli di un triangolo è maggiore di 180 gradi. Su una superficie a curvatura negativa, la somma degli angoli di un triangolo è minore di 180 gradi.
Una sfera ha curvatura positiva. Lo possiamo vedere
considerando la somma degli angoli del triangolo nel disegno qui sotto, formato
dall'equatore, dal meridiano di
Greenwich e dal meridiano a 73 gradi a ovest di Greenwich (che passa per New
York). Entrambi gli angoli nel
punto in cui i meridiani incontrano l'equatore sono di 90 gradi, perciò la somma
di tutti e tre gli angoli deve essere maggiore di 180.
Che tipo di superficie ha una curvatura negativa? In altre parole, dove esistono triangoli i cui angoli, sommati, dànno meno di 180 gradi? Aprite un tubo di Pringles e lo scoprirete. Tracciate un triangolo sulla parte a sella della patatina (possibilmente con della buona mostarda francese) e il triangolo apparirà «risucchiato» rispetto al triangolo «gonfiato» che vediamo su una sfera. I suoi angoli sono chiaramente minori di 180 gradi. Una superficie a curvatura negativa è chiamata iperbolica. Perciò, la superficie di una Pringle è iperbolica. La nostra patatina, tuttavia, è soltanto un antipasto nella comprensione della geometria iperbolica, perché ha un margine. Mostrate un margine a un matematico e vorrà oltrepassarlo. Mettiamola in questi termini. È semplice immaginare una superficie a curvatura zero e senza margini: per esempio questa pagina, appiattita sulla scrivania ed estesa all'infinito in tutte le direzioni. Se vivessimo su una superficie del genere e cominciassimo a camminare in linea retta in una qualsiasi direzione non raggiungeremmo mai un margine. Analogamente, abbiamo un esempio ovvio di una superficie con curvatura positiva e nessun margine: una sfera. Se vivessimo sulla superficie di una sfera, potremmo camminare per sempre e sempre in un'unica direzione senza mai incontrare un margine (ovviamente, viviamo piú o meno su una sfera; se la terra fosse completamente liscia, senza oceani né montagne a ostacolarci, per esempio, e cominciassimo a camminare, torneremmo al punto di partenza e continueremmo ad andare in cerchio). Ora, che aspetto ha una superficie con curvatura negativa e senza margini? Non può assomigliare a una Pringle, perché se vivessimo su una Pringle delle dimensioni della Terra e cominciassimo a camminare in un'unica direzione, alla fine cadremmo immancabilmente fuori. I matematici si sono interrogati a lungo sull'aspetto che potrebbe avere una superficie iperbolica «senza margini», una superficie su cui sia possibile camminare quanto si vuole senza arrivare alla fine e senza che perda le sue proprietà iperboliche. Sappiamo che deve essere sempre curva come una Pringle. E se allora attaccassimo tante Pringles una all'altra? Purtroppo non funzionerebbe, perché le Pringles non combaciano perfettamente e se riempissimo gli spazi con un'altra superficie queste nuove aree non sarebbero iperboliche. In altre parole, le patatine ci permettono di visualizzare soltanto uno spazio circoscritto con proprietà iperboliche. La cosa incredibilmente difficile da immaginare - anche per le menti matematiche piú brillanti - è una superficie iperbolica che continui all'infinito. Le superfici sferiche e iperboliche sono opposti matematici ed ecco un esempio pratico che dimostra perché. Tagliate un pezzo di una superficie sferica, come un pallone da basket. Se lo schiacciate a terra per appiattirlo, si allungherà o si strapperà, perché non c'è materiale sufficiente per distendersi in piano. Ora immaginate una Pringle di gomma. Se cercate di appiattirla, avrà troppo materiale, per cui un po' si arriccerà. Mentre la sfera si chiude su se stessa, la superficie iperbolica si espande. Torniamo al postulato delle parallele, che ci offre un modo molto conciso di classificare superfici piane, sferiche e iperboliche. Per una retta e un punto non appartenente a essa: Su una superficie piana esiste una e una sola retta passante per il punto e parallela alla retta data. Su una superficie sferica ci sono zero parallele passanti per il punto. Su una superficie iperbolica c'è un numero infinito di parallele passanti per il punto. Possiamo capire intuitivamente il comportamento delle linee parallele su una superficie piana o sferica, perché non ci è difficile visualizzare una superficie piana che continui all'infinito e sappiamo tutti che cos'è una sfera. È molto piú arduo capire il comportamento delle parallele su una superficie iperbolica, dato che non è affatto chiaro quale aspetto possa avere una simile superficie che si espanda all'infinito. Le parallele in uno spazio iperbolico si allontanano sempre piú le une dalle altre. Non si piegano, perché due linee per essere parallele devono anche essere rette, ma divergono perché la superficie iperbolica curva costantemente via da se stessa e cosí facendo crea uno spazio sempre maggiore tra due linee parallele. Di nuovo, si tratta di un'idea difficile da afferrare e non sorprende che Riemann, nonostante il suo genio, non fosse riuscito a trovare una superficie con le proprietà che descriveva. | << | < | > | >> |Pagina 507Quando lo spazio iperbolico è stato concepito per la prima volta, sembrava contrario a ogni senso della realtà, eppure alla fine è stato accettato come «reale» al pari delle superfici piane o sferiche. Ogni superficie ha la sua geometria ed è necessario scegliere quella che piú le si addice o, come diceva Poincaré: «Una geometria non può essere piú vera di un'altra; può soltanto essere piú idonea». La geometria euclidea, per esempio, è la piú adatta agli scolari armati di righelli, compassi e fogli di carta piani, mentre la geometria sferica è la piú appropriata per i piloti di aerei che percorrono le rotte di volo.
Anche i fisici sono interessati alla questione della geometria piú adatta ai
loro scopi. Le idee di Riemann sulla
curvatura delle superfici hanno fornito a Einstein gli strumenti per uno dei
suoi piú grandi progressi. La fisica newtoniana presumeva che lo spazio fosse
euclideo, quindi piano. La teoria della relatività generale di Eistein,
tuttavia, sosteneva che la geometria dello spazio-tempo (lo spazio
tridimensionale piú il tempo considerato la quarta dimensione) non fosse piana
ma curva. Nel 1919 una spedizione scientifica britannica a Sobral, una città nel
Nord-est del Brasile, scattò foto delle stelle dietro al sole durante
un'eclissi solare e scopri che queste risultavano leggermente spostate rispetto
alla loro posizione reale. Il fenomeno
venne spiegato con la teoria di Einstein secondo cui la luce
proveniente dalle stelle curva intorno al sole prima di raggiungere la Terra.
Benché la luce sembrasse curvare intorno al sole quand'era vista in uno spazio
tridimensionale, che è l'unico modo in cui possiamo vedere le cose, in realtà
seguiva una linea retta secondo la geometria curva dello
spazio-tempo. Il fatto che la teoria di Einstein permettesse di prevedere
correttamente la posizione delle stelle avvalorava la sua teoria generale della
relatività e fu ciò che lo rese famoso in tutto il mondo. Il «Times» di Londra
titolava a grandi lettere:
Rivoluzione nella scienza, nuova teoria dell'universo, il rovesciamento delle
idee newtoniane.
Einstein
Più o meno nello stesso periodo in cui i matematici esploravano il regno contrario al senso comune dello spazio non euclideo, un uomo stava rivoluzionando la nostra comprensione di un altro concetto matematico: l'infinito. Georg Cantor era docente all'università di Halle, in Germania, dove sviluppò una teoria pionieristica dei numeri secondo la quale l'infinito poteva avere piú di una dimensione. Le idee di Cantor erano cosí poco ortodosse che all'inizio molti colleghi le schernirono. Henri Poincaré , per esempio, descriveva il suo lavoro come «una malattia, un'affezione perversa da cui un bel giorno la matematica guarirà», mentre Leopold Kronecker, che aveva insegnato a Cantor ed era professore di matematica all'università di Berlino, lo liquidava come un «ciarlatano» e un «corruttore di giovani». Questa guerra verbale contribuí probabilmente al crollo nervoso che Cantor ebbe nel 1884, all'età di 39 anni, il primo di molti episodi di malattia mentale e di molti ricoveri in ospedale. Nel suo libro su Cantor, Tutto, e di piú, David Foster Wallace scrive: «Il Matematico Malato di Mente sembra essere oggi ciò che in altre epoche sono stati il Cavaliere Errante, il Santo Penitente, l'Artista Tormentato e lo Scienziato Pazzo: una specie di Prometeo, colui che va nei luoghi proibiti e ne fa ritorno con doni che noi tutti utilizziamo ma dei quali solo lui paga il prezzo». La letteratura e il cinema sono colpevoli di romanzare un nesso tra la matematica e la follia. È un cliché che ben si addice alle esigenze narrative di un copione hollywoodiano (primo fra tutti A Beautiful Mind) ma è, ovviamente, un'ingiusta generalizzazione. Tuttavia, il grande matematico per il quale potrebbe essere stato inventato questo archetipo è Cantor. Lo stereotipo gli si addice particolarmente bene proprio perché si occupava di infinito, un concetto che collega matematica, filosofia e religione. Non soltanto il matematico tedesco metteva in discussione la dottrina matematica, ma stava introducendo anche una teoria nuova di zecca della conoscenza e, nella sua mente, della comprensione umana di Dio. Non c'è da meravigliarsi che strada facendo abbia fatto arrabbiare qualcuno. L'infinito è uno dei concetti matematici che piú fanno scervellare. Abbiamo visto in precedenza, discutendo i paradossi di Zenone, che immaginare un numero infinito di distanze sempre minori è pieno di trappole matematiche e filosofiche. I greci cercarono di evitare l'infinito piú che poterono. Euclide si pronunciò sull'infinito facendo asserzioni negative. La sua dimostrazione dell'esistenza di un numero infinito di numeri primi, per esempio, è in realtà la dimostrazione che non esiste il numero primo piú alto di tutti. Gli antichi rifuggivano dal trattare l'infinito come un concetto a sé stante, ed è per questo che la serie infinita insita nei paradossi di Zenone era cosí problematica per loro. Nel XVII secolo i matematici erano ormai disposti ad accettare le operazioni che comportavano un numero infinito di passaggi. Il lavoro di John Wallis , che nel 1655 introdusse il simbolo dell'infinito per i suoi studi sugli infinitesimi (cose che diventano infinitamente piccole), spianò la strada al calcolo infinitesimale di Isaac Newton. La scoperta di equazioni utili che comportavano un numero infinito di termini, come π/4 = 1 — 1/3 + 1/5 — 1/7 + ... dimostrò che l'infinito non era un nemico, ma ciò nonostante continuò a essere trattato con cautela e sospetto. Nel 1831 Gauss dava voce all'opinione prevalente quando affermò che l'infinito era «semplicemente un modo di dire» per indicare un limite irraggiungibile, un'idea che esprimeva semplicemente la possibilità di andare avanti per sempre. L'eresia di Cantor fu quella di trattare l'infinito come un'entità in sé.
Il motivo per cui i matematici prima di Cantor erano
a disagio nel trattare l'infinito come un numero qualsiasi
erano i molti enigmi che conteneva, il piú famoso dei quali è quello di cui
parlava
Galileo
nel suo
Discorsi e Dimostrazioni Matematiche Intorno a Due Nuove Scienze
e che è noto come il paradosso di Galileo:
1. Alcuni numeri sono quadrati, come 1, 4, 9 e 16, e alcuni non lo sono, come 2, 3, 5, 6, 7, ecc. 2. La totalità di tutti i numeri deve essere maggiore del totale dei quadrati, poiché la totalità di tutti i numeri comprende i quadrati e i non quadrati.
3. Eppure, per ogni numero possiamo trarre una corrispondenza biunivoca tra
i numeri e i loro quadrati, per esempio:
1 2 3 4 5 ... n ... ⇓ ⇓ ⇓ ⇓ ⇓ ⇓ 1 4 9 16 25 ... n^2 ...
4. Quindi, esistono in realtà tanti quadrati quanti sono i numeri. E questa
è una contraddizione, dal momento che abbiamo affermato, al punto 2, che ci sono
piú numeri che quadrati.
La conclusione di Galileo era che, quando si tratta
dell'infinito, i concetti numerici di «maggiore», «uguale»
e «minore» non hanno senso. Questi termini possono essere comprensibili e
coerenti quando si discutono quantità
finite, ma non per quelle infinite. Non ha senso dire che ci
sono piú numeri che quadrati, o che c'è un'uguale quantità
di numeri e di quadrati, dal momento che la totalità tanto
dei numeri quanto dei quadrati è infinita.
Georg Cantor escogitò un modo nuovo di concepire l'infinito che rendeva superfluo il paradosso di Galileo. Anziché pensare a singoli numeri, Cantor considerò collezioni di numeri, che chiamò «insiemi». | << | < | > | >> |Pagina 522Per quanto le idee di Cantor fossero state difficili da accettare all'inizio, la storia ha poi dato ragione alla sua invenzione dell'aleph; non soltanto è oggi quasi universalmente accolta nell'ovile matematico, ma le dimostrazioni con zigzag e diagonali sono generalmente considerate tra le piú folgoranti dell'intera matematica. David Hilbert diceva: «Nessuno ci caccerà dal paradiso creato per noi da Cantor».
Purtroppo per Cantor, questo paradiso gli è costato
la salute mentale. Dopo essersi ripreso dal primo esaurimento, iniziò a
concentrarsi su altri argomenti, come la
teologia e la storia elisabettiana e fini per convincersi che
l'autore delle opere di
William Shakespeare
fosse in realtà lo scienziato
Francis Bacon.
Dimostrarlo divenne una
sua personale crociata e la causa di comportamenti sempre
piú bizzarri. Nel 1911, a una conferenza alla St Andrews
University, dove era stato invitato per parlare di matematica, discusse invece
le sue opinioni su Shakespeare, con
grande imbarazzo dei suoi ospiti. Cantor soffrí di molti
altri esaurimenti nervosi e fu spesso ricoverato in ospedale fino alla sua morte
nel 1918.
Cantor, che era un luterano devoto, scrisse molte lettere a vari ecclesiastici sull'importanza dei risultati conseguiti. Era convinto che il suo approccio all'infinito dimostrasse che poteva essere contemplato dalla mente umana e quindi avvicinare a Dio. Cantor aveva antenati ebrei, il che - ha sostenuto qualcuno - potrebbe aver influenzato la sua scelta dell'aleph come simbolo per l'infinito, perché doveva sapere che nella tradizione mistica ebraica della Cabala l'aleph rappresenta l'unicità di Dio. Cantor si diceva fiero di aver scelto l'aleph perché, essendo la prima lettera dell'alfabeto ebraico, era il simbolo perfetto di un nuovo inizio. L'aleph è anche il luogo perfetto dove terminare il nostro viaggio. La matematica, come ho scritto nei capitoli iniziali di questo libro, è comparsa come un'espressione del desiderio dell'uomo di dare un senso al proprio ambiente. Incidendo tacche sul legno o contando con le dita, i nostri antenati hanno inventato i numeri. Questi li hanno aiutati nell'agricoltura e nel commercio e hanno avviato la «civiltà». Poi, con lo sviluppo della matematica, l'enfasi è passata dalle cose reali a quelle astratte. I greci hanno introdotto concetti come il punto e la retta, gli indiani hanno inventato lo zero, che ha aperto le porte ad astrazioni ancora piú radicali, come i numeri negativi. Benché questi concetti siano apparsi dapprima contrari al senso comune, sono stati rapidamente assimilati, e oggi ce ne serviamo ogni giorno. Verso la fine del XIX secolo, tuttavia, il cordone ombelicale che legava la matematica alla nostra esperienza personale è stato tagliato una volta per tutte. Dopo Riemann e Cantor, la matematica ha perso ogni nesso con una comprensione intuitiva del mondo. Dopo aver scoperto c, Cantor è andato avanti, dimostrando che ci sono infiniti ancora piú grandi. Come abbiamo visto, c è il numero di punti su una retta. È anche uguale al numero di punti su una superficie bidimensionale (ecco un altro risultato sorprendente, a proposito del quale dovrete fidarvi di me). Chiamiamo d il numero di tutte le possibili linee, curve e ghirigori che si possono tracciare su una superficie bidimensionale (queste linee, curve e ghirigori possono essere continue, come se fossero tracciate senza mai staccare la penna dal foglio, o discontinue, come se la penna fosse stata staccata dal foglio almeno una volta, lasciando uno spazio tra sezioni diverse della stessa retta). Usando la teoria degli insiemi possiamo dimostrare che d è maggiore di c. E possiamo spingerci oltre, dimostrando che deve esistere un infinito maggiore di d. Tuttavia, nessuno finora è stato in grado di trovare in natura un insieme di cose con una cardinalità maggiore di d.
Cantor ci ha condotti al di là dell'immaginabile. È un
luogo alquanto sorprendente; la cosa buffa è che è l'opposto della situazione
della tribú amazzonica di cui vi ho
parlato all'inizio del libro. I munduruku hanno molte cose, ma non abbastanza
numeri per contarle. Cantor ci ha provvisto di tutti i numeri che vogliamo, ma
non abbiamo piú abbastanza cose da contare.
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