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| << | < | > | >> |IndiceMateriali per la vita 9 Introduzione. Gulliver e i lillipuziani 17 1. «Lei infilerebbe uno di questi casi negli occhi di suo figlio?» Biocompatibilità 33 2. Hamburger. Hot dog. Gelato. Bioattività 51 3. HeLa: le cellule immortali di Henrietta Lacks. Citotossicità 69 4. Pianto e stridor di denti. Osteointegrazione 88 5. Questioni di cuore. Metalli dalla memoria lunga 109 6. Tutto un problema d'attrito. Protesi d'anca 126 7. «Per strada gli uomini mi guardavano tutti». Silicone 146 8. Il miracolo di Montreal. Acido ialuronico e collagene 165 9. L'eredità dell'Auricolosauro. Ingegneria dei tessuti e cellule staminali 190 Conclusioni. Più potenti, più giovani, migliori 199 Ringraziamenti 201 Bibliografia essenziale 207 Indice dei nomi |
| << | < | > | >> |Pagina 9Introduzione
Gulliver e i lillipuziani
La storia racconta che Lemuel Gulliver si imbarcò come chirurgo di bordo sulla nave Antelope, salpata da Bristol il 4 maggio 1699 e diretta verso i mari del Sud. Dopo sei mesi di navigazione, giunti nei paraggi delle Indie Orientali, il vascello finì nel bel mezzo di una tempesta e naufragò sulle coste di Lilliput, un'isola sconosciuta agli uomini. Gulliver, unico superstite, vagò lungo la riva senza incontrare nessuno, prima di crollare e addormentarsi, sopraffatto dalla stanchezza. Al suo risveglio lo aspettava una brutta sorpresa: si ritrovò legato da sottilissime funicelle e circondato da un esercito di omuncoli alti una quindicina di centimetri, che parlavano una lingua incomprensibile. Quando provò a districarsi, gli omini gli scagliarono addosso una pioggia di frecce minuscole, che pur non facendo danno risultavano piuttosto fastidiose. Così, il nostro eroe decise di rimanere immobile dov'era, in attesa di tempi migliori.
Così inizia il romanzo
I viaggi di Gulliver
di
Jonathan Swift.
Potrà sembrare curioso, ma la situazione in cui viene a trovarsi lo
sfortunato navigatore inglese ha molto a che fare con quanto accade ai
protagonisti di questo libro, i biomateriali, quando vengono impiantati nel
nostro corpo per riparare qualche guasto. Succede che il mondo inerte della
materia e quello brulicante di vita
nell'organismo umano proprio non riescano a intendersi, per mancanza di una
lingua in comune. Come nei bisticci che affliggono
una convivenza male assortita, è tutto un problema di dialogo e
relazioni positive che faticano a instaurarsi tra universi differenti.
Eppure, alla base c'è sempre lo stesso parlare: quello della chimica.
È lei che dà voce tanto alla moltitudine di cellule
lillipuziane
di cui siamo fatti, quanto alle plastiche, ai metalli e alle ceramiche - i vari
Gulliver
dell'esotico regno dei biomateriali -, che la mano
del chirurgo o dell'odontoiatra colloca dentro di noi, nel buio di
un tormentato arcipelago biologico.
I biomateriali sono sostanze o combinazioni di sostanze - farmaci esclusi - sviluppate con l'intento di riparare gli acciacchi dei nostri corpi che, si sa, vengono al mondo col timbro del tempo e dell'imperfezione. Possono essere sia materiali tradizionali come il silicone, che quando vengono usati per produrre dispositivi da impianto acquistano l'altisonante etichetta «bio», sia materiali innovativi, cioè progettati specificatamente per interfacciarsi con l'organismo umano. Alcuni sono frutto di sintesi e hanno nomi impronunciabili (vogliamo mettere avere dentro di sé un po' di polimetilmetacrilato?), altri sono di origine naturale, come il collagene e l'acido ialuronico, noti alla platea femminile perché usati nei filler che attenuano gli inestetismi della pelle dovuti all'invecchiamento. I biomateriali migliorano la qualità delle nostre vite, ancor di più oggi che, almeno nei paesi occidentali, tutti possiamo aspirare a raggiungere e superare il traguardo degli ottant'anni, prospettiva senz'altro invidiabile, non fosse per le patologie cronico-degenerative tipiche della terza età. Da bambino mi capitava spesso di vedere persone anziane camminare a fatica, aiutandosi con un bastone. Oggi quest'immagine è molto più rara e il motivo si chiama protesi d'anca. Parliamo di un favoloso concentrato di biomateriali che operano in sinergia, liberando dal dolore le anche affette da artrosi e ripristinando quella mobilità che tanti di noi avrebbero irrimediabilmente perduto da un certo punto dell'esistenza in poi. La funzionalità di questi dispositivi ha dell'incredibile. Pensate che, nel 2010, un americano sessantacinquenne salì sulla vetta dell'Everest, realizzando un sogno che covava fin dall'infanzia e diventando uno degli statunitensi più vecchi ad aver raggiunto il tetto del mondo; qualche tempo prima, l'articolazione malmessa di una delle sue anche era stata sostituita da un impianto in titanio, ceramica e polietilene, un tipo di plastica che, curiosamente, venne scoperta per puro caso non una, ma due volte a distanza di anni. Ne parleremo. I biomateriali si prendono cura del nostro sorriso e ci concedono di continuare a mangiare di gusto anche se i denti si ammalano o cadono per l'età. Pescando ancora tra i miei ricordi d'infanzia, quando andavo dal dentista per curare una carie, ero sicuro di tornare a casa col dente sfigurato da un'orribile ma efficiente otturazione metallica, realizzata in amalgama di argento e mercurio. Oggi, invece, l'odontoiatra ha a disposizione dei biomateriali di un colore che si adatta ai denti, con risultati molto migliori da un punto di vista estetico. In parallelo, l'impianto di protesi dentali fisse in titanio e ceramica ci ha liberato dalla condanna certa alla dentiera. Sono sempre i biomateriali che vengono in soccorso a tanti di noi quando la vista si fa meno acuta. Sto parlando delle lenti a contatto. Vengono prodotte con un materiale chiamato idrogel, una plastica morbida contenente acqua. Se esistono le comode lenti usa e getta, dobbiamo ringraziare un anonimo oculista che incontrò in treno lo scopritore di certi idrogel e gli suggerì l'idea rivoluzionaria, dato che lui non sapeva proprio che cosa farsene. La carrellata dei materiali pensati per dare una mano al nostro corpo quando qualcosa si inceppa comprende davvero un po' di tutto: dalle plastiche per protesi di ginocchio all'armamentario di chiodi, placche e viti metalliche con cui gli ortopedici aggiustano le nostre povere ossa fratturate; dal gel di silicone per protesi al seno alle leghe di titanio a memoria di forma, sviluppate grazie alla depressione post-divorzio di un ricercatore che si seppellì in laboratorio da mattina a sera per dimenticare i suoi problemi di cuore. Ironia della sorte, questi metalli, dalle proprietà tanto favolose che qualche complottista parlò di tecnologia aliena, trovano impiego proprio per trattare problemi cardiovascolari: si usano negli stent coronarici, quei geniali tubicini a maglie capaci di espandersi e impiegati per mantenere aperta un'arteria che tende a ostruirsi. Ancora, ci sono biomateriali nei pacemaker, nei fili per sutura «che si sciolgono» e nei sistemi per il rilascio controllato di farmaci, che permettono di liberare sostanze biologicamente attive nell'organismo non solo quando è necessario, ma anche come e dove serve. In questo caso, particelle di plastica riassorbibile diventano minuscoli container che veicolano un farmaco verso un certo target, ad esempio un tumore, schivando tutto il resto e rilasciando il loro carico terapeutico alla giusta velocità. La storia dei biomateriali è vecchia quanto i nostri malanni. I medici dell'antichità modellavano protesi in legno, impiantavano frammenti di conchiglia nelle gengive sdentate, suturavano le ferite con materiali di derivazione animale o fibre vegetali, sagomavano otturazioni in oro per trattare le devastazioni della carie. Purtroppo, gli interventi erano spesso infruttuosi per mancanza di mezzi e conoscenze. Le conquiste più importanti sono avvenute solo a partire dalla seconda metà del Novecento, grazie allo sviluppo di materiali sempre più avanzati, nuovi protocolli chirurgici accanto a quelli per valutare la biocompatibilità di una certa sostanza e, non ultimo, il diffondersi degli antibiotici e di procedure che garantivano la sterilità dell'impianto e del campo operatorio. Si tratta di un percorso tortuoso, costellato di vittorie e dolorosi insuccessi, i cui protagonisti, almeno negli anni più recenti, fanno capo a tante discipline diverse: non solo medici, ma soprattutto chimici, fisici, biologi e ingegneri. Scorrendo le pagine di questo libro, scopriremo perché il titanio è così speciale, se l'amalgama dentale è pericolosa come saremmo portati a credere e che cosa succede se si rompe una protesi mammaria (su questo tema, alcuni anni fa circolava una leggenda metropolitana un po' splatter, secondo la quale le protesi al seno potrebbero esplodere in aereo per una turbolenza); capiremo se collagene e acido ialuronico fanno davvero ringiovanire la pelle, se i test in animale sono necessari o si tratta di un'inutile crudeltà e perché aggiungere polvere di vetro al dentifricio dovrebbe curare i denti sensibili. In parallelo, incontreremo i protagonisti delle scoperte: scienziati, imprenditori, rappresentanti commerciali, studenti e gente comune, che il più delle volte stava lavorando ad altro e si è invece ritrovata tra le mani, per pura serendipità, qualcosa in grado di cambiare le sorti della medicina. Ci sono storie di scrittori per bambini che rivoluzionano l'ortopedia, piloti abbattuti in volo grazie ai quali i pazienti hanno vinto la cecità, stacanovisti, truffatori, uomini scomunicati dalla Chiesa perché gli è stato riparato il cranio con ossa di cane e donne che accettano di fare da cavia, ma solo in cambio di un intervento gratis per correggere le orecchie a sventola. Illustrando gli sviluppi più avanzati della ricerca, approderemo infine all'ingegneria dei tessuti, un settore spiccatamente multidisciplinare e tecnologico della medicina rigenerativa. L'ingegneria dei tessuti ha l'obiettivo di rigenerare, a partire da cellule del paziente, un tessuto che vada a sostituire o riparare quello danneggiato. Pensiamo, ad esempio, alla cute coltivata in laboratorio per trattare i grandi ustionati. Produrre un costrutto ingegnerizzato di tale complessità richiede, oltre alle cellule che ne costituiscono l'elemento vitale, anche un'impalcatura tridimensionale su cui seminarle, che fornisca un supporto temporaneo. Questa struttura, generalmente riassorbibile e porosa per garantire un'adeguata perfusione di nutrienti, si chiama scaffold. Può essere realizzata utilizzando biomateriali di origine biologica o sintetica. Grazie a opportuni trattamenti, le cellule proliferano, eventualmente si trasformano in altri tipi cellulari e, intanto, dissolvono lo scaffold, organizzandosi in un tessuto funzionale. Un approccio di questo tipo va ben oltre la logica dei trapianti: il tessuto che si origina dal complesso cellula-biomateriale è infatti prodotto su misura per il paziente a partire da una sua biopsia, quindi una volta impiantato si integrerà perfettamente nel corpo dell'ospite, senza richiedere costosi trattamenti farmacologici per evitare il rigetto. Gli scaffold sono solo i protagonisti più recenti dell'avventura che stiamo per raccontare e ci riconducono di nuovo a Gulliver, legato da funi sottilissime sulla spiaggia di Lilliput. Gli abitanti dell'isola accorrono in massa e ammirano con orrore quel gigante arrivato dal mare; capiscono subito di non poterlo uccidere, quindi lo immobilizzano perché non faccia danni. Quando Gulliver si sveglia la situazione non migliora, dato che lui e i lillipuziani non si capiscono. Non hanno modo di dialogare. Se Gulliver fosse un biomateriale inerte impiantato nel nostro corpo, la scena a cui assisteremmo sarebbe simile a quel che accade nel romanzo di Jonathan Swift. Quando materia e vita non si intendono, nell'organismo scatta la reazione da corpo estraneo, analoga, per certi versi, a quella che coinvolge una scheggia di legno finita sottopelle. Sulla superficie del biomateriale si depositano spontaneamente proteine e varie specie chimiche, che richiamano un esercito di cellule che accorrono per sbarazzarsi dell'intruso. In che modo? Divorandolo come fosse un batterio. Si tratta di macrofagi, che trasposti sul piano letterario diventano un primo manipolo di battaglieri lillipuziani. Il problema è che, pur riconoscendo il biomateriale come una specie aliena, non hanno né le dimensioni per fagocitarlo, né gli enzimi per digerirlo. Pertanto, devono ripiegare sul piano B: chiamare rinforzi per isolare il clandestino dal resto dell'organismo. I macrofagi liberano sostanze che reclutano particolari cellule chiamate fibroblasti, e ne stimolano l'attività. I fibroblasti producono collagene, la stessa proteina dei tessuti connettivi e dei filler antinvecchiamento, che formerà una capsula di tessuto fibroso attorno al dispositivo; immaginiamola pure come l'intrico di funicelle che alla fine immobilizza il povero Gulliver. E adesso, che ne sarà del biomateriale impiantato? Nulla, se non che dovrà svolgere la sua funzione nonostante il tessuto fibroso che lo avvolge e il turbolento regno biologico che gli sta attorno. Il nostro organismo, infatti, è pervaso da fluidi salini in continuo rimescolamento, che lo rendono un posto ben poco accogliente per i materiali: quelli metallici tenderanno a corrodersi, quelli plastici a degradarsi. E tutto ciò complica le cose, come vedremo. Chiediamoci invece che cosa sarebbe successo se Gulliver avesse conosciuto la lingua dei lillipuziani. Pacifico com'era, nonché reduce da un naufragio e bisognoso di tutto, probabilmente si sarebbe presentato, raccontando la propria storia e chiedendo aiuto. Forse, vinta la diffidenza iniziale, gli abitanti di Lilliput lo avrebbero accolto con un benvenuto, invece di immobilizzarlo a terra con le loro corde. Riuscire a comunicare è fondamentale per tessere relazioni positive e sublimare i conflitti, figuriamoci quando si interfacciano realtà per natura così diverse come i materiali inanimati e gli esseri viventi. A questo punto, la domanda cruciale è: i materiali possono dialogare con la vita? Esistono sostanze di sintesi capaci di interagire positivamente con l'organismo, liberando specie chimiche che inducono reazioni favorevoli da parte dei tessuti? Oppure tutti gli impianti sono biologicamente muti, condannati a finire dentro una rete di collagene come il povero Gulliver e lentamente consumati dai fluidi mefitici del nostro corpo? Esplorando il mondo dei biomateriali scopriremo che sì, la materia non è necessariamente inerte come saremmo portati a credere, ma può parlare la lingua delle cellule e orientarne il destino. È stata anche questa favolosa scoperta che ha condotto allo sviluppo degli scaffold per ingegneria tissutale a partire dalla seconda metà degli anni novanta. Con una sfida in più: riuscire a dialogare con le cellule progenitrici, le celebri staminali da cui derivano tutti i tessuti del nostro corpo. Padroneggiare questi diffidenti lillipuziani, sfruttando la loro poderosa energia creativa, potrebbe essere la chiave non solo per coltivare organi di ricambio in laboratorio, ma anche per trattare finalmente patologie incurabili come il diabete, la sclerosi laterale amiotrofica, la malattia di Alzheimer e quella di Parkinson, oltre ai danni tissutali derivanti da traumi alla colonna vertebrale e infarto. In altre parole, avremmo a disposizione una fonte di nuova vita, per di più personalizzata, a cui abbeverare i nostri fragili corpi, insieme a una parvenza di eterna giovinezza. | << | < | > | >> |Pagina 1659. L'eredità dell'Auricolosauro
Ingegneria dei tessuti e cellule staminali
Nel 1997 un'immagine tra il bizzarro e il raccapricciante fece il giro del mondo e turbò l'opinione pubblica, paventando scenari che sembravano partoriti dalla mente del dottor Frankenstein. La foto ritraeva un topolino da laboratorio che portava, attaccato sul dorso, un orecchio umano. Lo chiamarono «Auricolosauro» oppure «Vacanti mouse», dal nome dei suoi due creatori, i fratelli Charles e Joseph Vacanti, medici e ricercatori americani. L'animaletto era protagonista di un articolo sulla rivista scientifica «Plastic and Reconstructive Surgery», frutto di una ricerca iniziata alcuni anni prima. Nonostante l'obiettivo non fosse quello di creare una nuova e mostruosa specie animale, l'impatto mediatico fu enorme, anche grazie a un programma della BBC che portò il topo-orecchio sul piccolo schermo, scuotendo le famiglie dal torpore dei loro divani. Apriti cielo: gli scienziati stavano giocando a fare Dio, magari pure coi soldi dei contribuenti. L'11 ottobre 1999, quasi due anni dopo, l'Auricolosauro era ancora ben presente nell'immaginario collettivo, visto che gli attivisti del gruppo Turning Point Project scelsero di piazzare la foto incriminata a corredo dei loro strali contro l'ingegneria genetica, in un annuncio a tutta pagina sul «New York Times». Solo che, come spesso accade, le foto diventano virali senza tirarsi dietro la didascalia originale. Così, anche in quella riportata sul quotidiano, che parlava di un topo «geneticamente modificato» con un «orecchio umano» sul dorso, c'erano due errori madornali. Primo, l'ingegneria genetica non c'entrava nulla; secondo, l'orecchio sul topolino non conteneva cellule umane, ma bovine. Piuttosto, il fine dei creatori dell'Auricolosauro era quello di mostrare tutte le potenzialità di una nuova branca della scienza: l'ingegneria dei tessuti. Detta anche ingegneria tissutale, l'ingegneria dei tessuti è un settore della medicina rigenerativa, a sua volta un campo di ricerca innovativo, multidisciplinare e spiccatamente tecnologico, che mira a rigenerare piuttosto che a sostituire tessuti e organi danneggiati, inducendo processi di autoguarigione, e a correggere difetti genetici. A tal fine, la medicina rigenerativa si avvale di strumenti come la terapia genica (l'inserzione di materiale genetico all'interno delle cellule), quella cellulare (ad esempio, l'innesto di cellule staminali) e l'uso di biomateriali in grado di stimolare la ricrescita del tessuto, riparando lesioni e lacune tissutali. L'ingegneria dei tessuti utilizza gli strumenti delle scienze della vita e di quelle dei materiali per produrre, a partire da cellule prelevate dal paziente o da un donatore, un tessuto che vada a sostituire o riparare quello compromesso, ripristinandone la funzionalità. Infatti, quando un tessuto o un organo del nostro corpo vengono danneggiati, in genere i processi di rigenerazione, cioè la ricrescita della parte mancante, non avvengono spontaneamente o comunque sono molto limitati. Se perdiamo un dito, è ben noto che non ricrescerà mai più. Fa eccezione il fegato, che può ricrescere alle sue dimensioni originali dopo che ne è stata asportata una parte, come giustamente insegna il mito di Prometeo. In natura non è sempre così: ci sono esseri evolutivamente lontani da noi che possiedono una capacità rigenerativa straordinaria. Il pesce zebra, un pesciolino d'acqua dolce diffuso in Asia, ha un cuore che si autoripara anche dopo aver subito un danno esteso, condizione ben diversa da quella a cui va incontro il nostro cuore dopo un infarto, dato che nella porzione danneggiata si forma del tessuto cicatriziale meno elastico di quello cardiaco. Le salamandre possono rigenerare gli arti, la coda, il cuore, i tessuti oculari e altre parti del corpo per tutta la durata della loro vita, mentre la planaria, un invertebrato simile ai vermi, sa rigenerare la testa a partire da un pezzo di coda oppure la coda se le rimane solo la testa. In prospettiva, il sogno dell'ingegneria dei tessuti è quello di sviluppare sostituti biologici di interi organi. Questo approccio permetterebbe di superare una serie di limiti connessi alla medicina dei trapianti, le cui metodiche tradizionali prevedono l'autotrapianto, ossia l'impiego di materiale proveniente dallo stesso paziente - pensiamo all'autotrapianto di pelle per trattare le ustioni - o il classico trapianto di organi da donatore vivente o da cadavere. Nel primo caso ci sono importanti limitazioni legate alla quantità di tessuto che il paziente può autodonarsi, mentre nel secondo gli inconvenienti comprendono la ben nota scarsità di organi a disposizione, il rischio di rigetto e gli effetti collaterali della stessa terapia antirigetto. Al contrario, il costrutto biologico prodotto dall'ingegneria tissutale è fatto su misura per il paziente, visto che l'ingrediente sono le sue cellule e i suoi tessuti, quindi si integrerà perfettamente nell'organismo, senza richiedere trattamenti farmacologici costosi e debilitanti. I padri fondatori dell'ingegneria dei tessuti sono gli stessi artefici dell'Auricolosauro - i fratelli Vacanti - insieme al professar Robert S. Langer, ingegnere chimico tuttora in forze all'MIT di Boston. La famiglia Vacanti, di origini siciliane, vanta un invidiabile primato. Quattro degli otto figli di Vacanti senior e di sua moglie JoAnne sono destinati a diventare medici e ricercatori di prim'ordine: Joseph, il maggiore, e Charles getteranno appunto le basi di una nuova disciplina scientifica, che opera al confine tra ingegneria e medicina; gli altri due dottori sono Martin, un patologo, che avrebbe dato man forte a Joseph e Charles nei loro laboratori, e Francis, anestesista del Massachusetts General Hospital, che invece seguirà un percorso più indipendente rispetto a quello dei fratelli. Fin da bambini i quattro futuri dottori trascorrono molto tempo insieme, sviluppando una grande attitudine a collaborare e una certa competizione reciproca. In una famiglia di dieci persone non è facile far quadrare il bilancio, quindi i piccoli Vacanti non avranno mai troppi giocattoli. Poco male, perché imparano a costruirseli da sé, facendo volare la fantasia e coltivando una delle doti più importanti per un ricercatore: l'immaginazione. Amano smontare le cose, ripararle e mettere a punto pezzi di ricambio. Uno dei primi esperimenti di questa equipe, capitanata da Joseph, coinvolge una vecchia automobile che i fratelli smontano metodicamente, sistemandone i pezzi nel cortile. L'intento è di aggiustarla, ma l'auto non avrebbe camminato mai più. Un'altra volta fabbricano un aliante e lo usano per far volare la sorellina dal tetto di casa. È forse questo amore per la meccanica e la sperimentazione, unito all'interesse per i magici ingranaggi che animano le macchine, che avrebbe segnato il destino di Joseph e Charles, portandoli a condividere lo stesso sogno: riparare tessuti viventi e non più cose inerti. Negli anni ottanta il dottor Joseph Vacanti è chirurgo pediatrico al Massachusetts General Hospital. Prima di trovarsi faccia a faccia con la cruda realtà, aveva sempre considerato gratificante questa branca della chirurgia: lo riempiva di orgoglio l'idea di curare i bambini, lenire le loro sofferenze e infine restituirli alle famiglie e a una lunga vita. Il fatto è che troppe volte non andava così. Tanti piccoli pazienti finivano nella penosa lista d'attesa dei trapianti. Servivano cuori, fegati, reni, vesciche... E spesso non arrivavano in tempo. Così, Joseph cominciò a pensare a come risolvere il problema. Si chiese se fosse davvero da scartare, per via della sua assurda complessità, l'ipotesi di ricostruire un tessuto da zero in laboratorio, partendo da un pugno di cellule. La prima linea cellulare immortalizzata di origine umana, le famose HeLa che abbiamo avuto modo di incontrare, era stata sviluppata solo trent'anni prima. Già quello, ai tempi, era sembrato un miracolo. È noto che le cellule, una volta prelevate dall'organismo, muoiono in breve tempo se non vengono collocate nello specifico terreno di coltura, che fornisce loro le sostanze nutritive necessarie; il tutto va messo in un incubatore dove umidità, temperatura e percentuale di anidride carbonica nell'aria sono mantenute in condizioni ottimali. A questo punto, se non ci sono intoppi, le cellule aderiscono al fondo del recipiente e proliferano fino a occupare tutto lo spazio a disposizione, arrivando a contatto l'una con l'altra. Si ottiene così una specie di tappeto cellulare, che i biologi chiamano coltura monostrato. Inutile sottolineare quanto un sistema di questo tipo sia completamente diverso da un qualsiasi tessuto del nostro organismo, anche il più semplice, dove cellule simili e specializzate, immerse nella matrice extracellulare, assolvono in sinergia un compito specifico. Gli organi sono unità funzionali ancora più complesse, costituite da vari tessuti associati. Tra le tante difficoltà da affrontare per produrre questo capolavoro biologico, citiamone per ora tre, le stesse su cui probabilmente ragionava ai tempi il dottor Vacanti, senza sapere bene dove andare a parare. | << | < | > | >> |Pagina 190Conclusioni
Più potenti, più giovani, migliori.
«Steve Austin, astronauta, un uomo vivo per miracolo. Signori, lo possiamo ricostruire». Iniziavano con queste parole gli episodi di una serie televisiva degli anni settanta, L'uomo da sei milioni di dollari, molto apprezzata anche in Italia dai ragazzini di allora. La storia raccontava di un astronauta della NASA che, durante un'esercitazione in volo, si schianta al suolo, rimanendo gravemente ferito. I medici non si limitano a salvarlo, ma fanno di più. Sostituiscono le gambe, l'occhio sinistro e il braccio destro del militare, perduti nell'incidente, con delle protesi sofisticate che trasformano il protagonista del telefilm in un uomo bionico, un «essere nuovo, diverso dagli altri». Così tecnologicamente dopato, Austin acquisisce delle capacità eccezionali: riesce a correre a velocità impensabili, ha la forza di un bulldozer e il suo occhio artificiale gli permette di ingrandire oggetti lontani e vedere l'infrarosso. Il tutto per un costo di sei milioni di dollari - da cui il titolo della serie - che equivarrebbero a circa trentacinque milioni di oggi, cifra che renderebbe interventi di questo tipo insostenibili per qualsiasi sistema sanitario nazionale. Ancora più radicale fu l'intervento a cui venne sottoposto il povero poliziotto Alex Murphy, massacrato in uno scontro a fuoco. Gli scienziati lo trasformarono in RoboCop, l'organismo cibernetico dell'omonimo film, un'osmosi tra elettronica, titanio e un pizzico di biologia residua. Al di là delle suggestioni cinematografiche, ancora per un po' non sarà possibile realizzare cyborg di tale complessità e forse non è neanche del tutto auspicabile - pensiamo solo al già citato Terminator, tanto per restare al cinema. Ciononostante, stiamo comunque assistendo a un cambio di paradigma in quella lunghissima storia che vede, nella manipolazione del nostro corpo attraverso innesti, impianti e protesi di vario genere, un modo per trattare menomazioni e patologie. Per millenni e fino al recente passato si è intervenuto con l'intento di salvare la vita al paziente o restituirgli una qualche forma di benessere. L'obiettivo è stato messo anche nero su bianco in una delle tante definizioni di «biomateriale» che gli scienziati hanno cercato di dare, a partire dalla fine degli anni sessanta. Infatti, il solo mettersi d'accordo su che cosa fosse un biomateriale si è rivelato più difficile del previsto, dato che venivano sviluppati prodotti e dispositivi sempre nuovi e la definizione di turno doveva in qualche modo includerli, se erano impiegati in campo biomedicale. Una delle definizioni più citate afferma che i biomateriali vanno a sostituire parzialmente o totalmente un certo tessuto, organo o funzione del corpo, col fine di mantenere o migliorare la qualità della vita dell'individuo. È chiaro che in una società come la nostra, dove benessere e longevità sono drasticamente aumentati rispetto a tempi non troppo lontani, anche le mere questioni di natura estetica hanno il proprio peso e impattano sulla qualità della vita; pertanto quando il silicone viene impiegato in una protesi mammaria sta sicuramente svolgendo la propria missione di biomateriale, aiutando la paziente a vivere meglio (a suo giudizio) la propria femminilità. Negli ultimi anni, le conquiste della medicina rigenerativa e lo sviluppo di impianti sempre più avanzati, specialmente grazie alla stampa 3D, hanno fatto sì che alle classiche finalità di sopravvivenza o qualità della vita del paziente, si affianchi il tema del potenziamento funzionale del nostro corpo insieme a quello, vecchio come il mondo, dell'eterna giovinezza. O, almeno, di una giovinezza protratta il più a lungo possibile. Come abbiamo visto, gli sforzi di tanti ricercatori sono volti a imparare a rigenerare in laboratorio sezioni sempre più complesse dell'organismo umano. In parallelo, si sta cercando come riprogrammare le nostre cellule somatiche, «ringiovanendole» fino a ricondurle allo stadio di staminale pluripotente, dunque con la capacità di specializzarsi in qualsiasi tipo di cellula del corpo. Avremmo a che fare con cellule adulte che tornano bambine e che potremmo usare per curare diverse patologie cronico-degenerative legate alla terza età. Detto questo, il ricchissimo novantenne che forse un giorno potrà permettersi un ricambio d'organi, articolazioni nuove di zecca e una mente che non scivoli nelle nebbie dell'Alzheimer, non sarebbe di fatto un giovane. L'invecchiamento non è tanto legato all'età delle nostre cellule, che vengono regolarmente sostituite, ma a un insieme di concause che comprendono, tra l'altro, il deterioramento dei sistemi con cui l'organismo assicura il turn over cellulare, che diventa via via meno efficiente. Né le cellule della mia pelle, né i globuli rossi del mio sangue hanno quarantaquattro anni, eppure in ogni tessuto del mio corpo si sono accumulati errori e imperfezioni, parte dei quali vengono trasmessi da una generazione cellulare alla successiva. È difficile immaginare, anche in un lontano futuro, che la scienza sia in grado di rigenerare tutti gli apparati dell'organismo a mano a mano che si logorano, visto che parliamo di architetture complesse, formate da più organi che operano insieme per uno scopo comune. L'apparato cardiovascolare di un vispo novantenne, con la sua labirintica trama di arterie, vene e capillari che irrora ogni distretto dell'organismo, potrà anche vantare un cuore prodotto con stampa 3D e cellule staminali riprogrammate, ma sarà pur sempre un sistema usurato e soggetto a guasti. Diversa è la questione della tecnologia che non si accontenta di riparare ma punta a potenziare, come accade ne L'uomo da sei milioni di dollari, dove il protagonista esce dalla sala operatoria «più forte, più veloce, migliore». In questo caso il ripristino delle funzioni perdute e la tutela della salute del paziente passano in secondo piano rispetto all'opportunità, invidiabile o meno, di vedere ampliata la propria sfera percettiva e venire sottratti ai limiti imposti dalla fisicità. [...] Sono quasi tremila gli anni di storia che separano questi straordinari costrutti bionici dalle più antiche protesi rinvenute. Una di queste è il Cairo Toe, rinvenuta in un sito archeologico egizio. È una parte del piede destro, alluce incluso, realizzata in legno e pelle e assemblata in modo da potersi piegare. Apparteneva a una donna, forse affetta da un diabete che le aveva causato necrosi al piede, e con ogni probabilità la aiutava davvero a camminare. Gli storici hanno datato il reperto tra il 950 e il 710 a.C. Risaliva invece al 300 a.C. la «gamba di Capua», la più antica gamba artificiale mai rinvenuta. Venne trovata in Italia ed era fatta di bronzo, con un'anima ancora in legno. Se invece parliamo di problemi ai denti, tragica costante nella storia dell'umanità, uno dei più antichi esempi di terapia implantare andata a buon fine è un frammento di mandibola di un individuo vissuto tra il VII e l'VIII secolo dopo Cristo, appartenente alla civiltà Maya. In esso, al posto di tre incisivi inferiori, sono conficcati e osteointegrati altrettanti pezzi cuneiformi di conchiglia. Con ogni probabilità, questo paziente rimase soddisfatto per la perizia del suo dentista, che speriamo abbia potuto rendere l'intervento di impianto più sopportabile grazie all'uso di qualche sostanza anestetizzante o con proprietà allucinogene. Bronzo, ferro, acciaio e metalli in genere, accanto a materiali di origine naturale, come osso e conchiglie, quindi le ceramiche e infine le prime plastiche e il silicone, nel dopoguerra. Alcuni di questi materiali sono solo per uso esterno, ad esempio il legno del Cairo Toe o delle protesi d'arto indossate da tante persone in passato, pirati inclusi; altri, biocompatibiii, possono essere impianti nel nostro corpo. Si tratta per lo più di biomateriali inerti, pensati per convivere con l'ambiente biologico senza scatenare reazioni avverse, rimanendo integri e funzionali il più a lungo possibile tra fluidi corrosivi e sollecitazioni varie. Gli scienziati li chiamano biomateriali di prima generazione; anche se sono i più vecchi, rimangono usatissimi. In seguito, tra gli anni settanta e ottanta del secolo scorso, abbiamo imparato a sviluppare materiali nuovi, con una chimica capace di interagire positivamente coi tessuti circostanti e indurre una specifica attività biologica. Nascevano così i biomateriali di seconda generazione, bioattivi, dove il tessuto vivente si lega alla superficie dell'impianto. Fanno parte di questo gruppo non solo i biovetri e i bioceramici basati su calcio e fosforo, come l'idrossiapatite, ma anche i materiali riassorbibili, come l'acido poliglicolico per i fili da sutura, e quelli per il drug delivery. Con queste sostanze la materia comincia timidamente a dialogare coi guardinghi lillipuziani dell'organismo, accorsi per dare addosso all'intruso col loro armamentario di collagene. A partire dalla seconda metà degli anni novanta, l'obiettivo si è fatto ancora più ambizioso: non più sostituire, ma riparare e rigenerare i tessuti. La procedura può avvenire in laboratorio, secondo l'approccio dell'ingegneria tissutale, con le cellule staminali o progenitrici che vengono seminate sugli scaffold, ottenendo costrutti ibridi che poi sono impiantati nel paziente. Un'alternativa è la rigenerazione tissutale in situ: il biomateriale viene collocato direttamente nella lesione e da qui, sciogliendosi, libera ioni, fattori di crescita e stimoli biochimici in grado di attivare le capacità riparative dell'organismo; sono queste sostanze che richiamano nella lesione le cellule progenitrici del tessuto e ne orientano il destino, spingendole a proliferare, differenziarsi o produrre matrice extracellulare. Insomma, tutto quel che serve. È stata così sviluppata una terza generazione di biomateriali, che supportano e stimolano la ricrescita dei tessuti mentre l'universo biologico, lentamente, li degrada. La loro chimica superficiale e i loro prodotti di dissoluzione riescono a comunicare con le cellule a livello molecolare, attivando specifici geni che influenzano il ciclo cellulare. Curiosamente, il 45S5 Bioglass del professor Hench, l'esempio paradigmatico di biomateriale di seconda generazione che si lega tanto alle ossa quanto ai tessuti molli, quand'è in polvere funziona come un prodotto di terza generazione e può essere usato per riempire una lacuna ossea, dove induce una rapida rigenerazione del tessuto. Pertanto, il fatto che un biomateriale dialoghi o meno con le cellule non dipende solo dalla sua chimica, ma anche dalla forma che gli viene data. Questo aumenta le variabili in gioco, rendendo la ricerca ancora più stimolante.
Con i biomateriali di terza generazione, in cui si fondono i concetti di
bioattività e biodegradabilità, pare che la materia diventi
finalmente terreno fecondo per la vita, quella stessa vita che oggi
riusciamo a stampare strato su strato grazie al
bioprinting
3D, l'innovativa tecnologia che opera con «inchiostri» cellulari. Davanti
alla prospettiva di stampare organi e tessuti pronti per l'impianto,
sembrano davvero remoti i tempi in cui la stampa era limitata a
carta e parole. Chissà: se
Mary Shelley
potesse riscrivere oggi la
storia di Frankenstein, forse si affiderebbe alle staminali e alla
biostampa 3D per mettere in cantiere la sua mostruosa creatura.
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