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| << | < | > | >> |Indice1 1. Il programma di Andrea 5 2. Il caso Martha East 11 3. Il volto 21 4. Differenze specifiche 29 5. Ricordi perduti 35 6. Una settimana di apprendistato 43 7. L'abbreviazione 47 8. Problemi di articolazione 59 9. I papà di Tommy 63 10. L'originale 73 11. Relazione di maggioranza 79 12. L'esame 85 13. Un problema morale 91 14. La stanza dei balocchi 101 15. Genesi |
| << | < | > | >> |Pagina 11. Il programma di AndreaAlle 9.05 del 7 febbraio, Qualcuno commise un errore. Non è chiaro che cosa sia successo. Forse l'operatore cedette alla fatica, forse affiorò la maligna influenza di un virus o forse la corrente venne a mancare per una frazione infinitesima di secondo: in casi di questo genere è estremamente difficile risalire dagli effetti alle cause. Fatto sta che lo schermo si oscurò e Andrea si accasciò al suolo privo di vita. Dopo un attimo comparve il segnale: «Task aborted. Document needs retrieval». La moglie di Andrea applicò la procedura di recupero. Ma, per quanto seguisse fedelmente le istruzioni, il computer continuava a recitare lo stesso messaggio: «Information lost. Insert copy». Inutile a dirsi, non era disponibile alcuna copia del programma di Andrea. Per molti anni parlamento e media avevano dibattuto l'opportunità morale e religiosa di ammettere tali copie, ma le autorità si erano sempre espresse negativamente e la famiglia di Andrea era ligia al volere delle autorità. Chiunque altro si sarebbe rassegnato all'avverso destino. Non lei, però: Carla era una donna energica, abituata a ottenere quel che voleva e con i contatti giusti a disposizione. Così, senza perdere la calma, tolse il disco dalla macchina, diede un colpo di telefono e un'ora dopo era a colloquio con un abilissimo programmatore, un vero mago nel ramo. Il problema sembrava disperato, in quanto nemmeno l'indice del disco menzionava più il documento; era come se esso fosse svanito in un mondo invisibile, parallelo a quello dell'agire quotidiano. Ma dopo qualche minuto l'atmosfera si era già rasserenata. In realtà, spiegò l'esperto, niente di ciò che si scrive su un disco va mai perduto. Rimane tutto lì; si tratta solo di arrivarci. Per farlo occorre ricostruire il programma, non tanto com'era in origine (perché allora il formato era del tutto standard) quanto piuttosto com'era diventato per opera di un agente imprevedibile e misterioso. Popoli primitivi parlavano di questo passaggio dalla vita alla morte come di una vera e propria trasformazione, di un salto in una specie profondamente diversa di esistenza; oggi però si sa come vanno le cose e ci si rende conto che in generale la differenza è minima, e che comunque niente cambia nell'oggetto in se stesso ma solo nell'ordine delle sue parti e quindi nelle istruzioni cui esso risponde. Certo bisogna intervenire al più presto per evitare che la situazione degeneri. In un ambito già in parte compromesso, ogni granello di polvere che si accumuli sul disco, ogni traccia di umidità, ogni eventuale interferenza di un campo magnetico non faranno che complicare ulteriormente il problema rischiando di renderlo davvero insolubile, non in senso teorico ma in termini di un'analisi di costi e benefici. In questo caso, però, ci si era mossi con sollecitudine e dunque c'erano buone probabilità di ottenere un risultato favorevole. Tranquillizzata, Carla lasciò il disco al programmatore e prese un appuntamento per la settimana successiva. Poi, visto che era venerdì e Andrea rimaneva fuori uso, ne approfittò per andare un paio di giorni al mare con Ludovico, un giovane manager molto promettente sul quale aveva deciso di investire con reciproca soddisfazione. Il tempo era bello, l'inquinamento ambientale sotto controllo e il cibo piacevole e leggero: quel che ci voleva per rilassarsi dopo tanta tensione. La mattina del lunedì la segretaria le ricordò l'appuntamento; Carla diede un'occhiata all'agenda e si mise in moto. Il danno era riparato, disse l'esperto quando si videro. Era stato un compito interessante, perché il programma si era letteralmente frantumato in mille pezzi, come un vaso di cristallo che cade a terra: pezzi irregolari, sia nelle dimensioni (qualcuno una riga, altri parecchie pagine) sia nella struttura. Si era dovuto quindi elaborare un tracciato logico che andasse da un pezzo all'altro e usare quel tracciato per ricucire il tutto, cosicché, al comando appropriato, la «cosa» si mettesse in funzione in modo sintonico, evitando le tensioni interne che l'avevano immobilizzata. Non era stato un lavoro da poco ma era riuscito bene, e in ogni caso l'assicurazione lo copriva. I due si salutarono cordialmente. Carla tornò in ufficio e si avviò verso il computer. Andrea era ancora riverso sul divano sul quale lo avevano adagiato il venerdì precedente; sarebbe bastato inserire il disco nella macchina e avrebbe ricominciato a funzionare. Mentre allungava la mano verso l'apertura, però, Carla vide l'orologio: erano le 11.30. Giusto l'ora per un aperitivo e un pranzo veloce con Ludovico, magari a casa, dove ci si poteva anche riposare un po'. Tanto ormai il programma era a posto. Ritirò la mano, mise il disco nella scatola e si allontanò in fretta. | << | < | > | >> |Pagina 356. Una settimana di apprendistatoLunedì
Il pupazzo è fatto; adesso bisogna alitarci la vita. E qui
cominciano i guai. Se il Capo mi avesse detto come fare... Ma le sue vie sono
sempre misteriose. Tutto quel
che sono riuscito a cavargli di bocca è che questa espressione, «alitare la
vita», va «interpretata». Già, interpretata, bella scoperta! Ma in che modo? Se
gli buffo in faccia il pupazzo fa semplicemente una smorfia, e se
gli «alito» su altre parti del corpo si divincola per il
solletico. È fatto bene, perbacco: il suo comportamento è inappuntabile. Quando
abbasso la temperatura nella stanza dice: «Ho freddo», di tanto in tanto va in
cucina per prepararsi qualcosa da mangiare, di notte
dorme e la mattina non manca mai di andare in bagno
per i bisogni quotidiani. Insomma, mi meriterei dei
complimenti, invece di questa specie di terrorismo intellettuale, questo
tentativo neanche troppo mascherato di mettermi in difficoltà. Non sarò il più
bravo della classe, d'accordo, ma bisogna tener presente che questo è il mio
primo pupazzo e nelle condizioni di totale
isolamento in cui mi trovo mi sembra di aver già fatto
abbastanza. Non credo che questo sia il metodo giusto.
Ti piazzano qui, ti dicono di fare un pupazzo e di alitarci la vita, ma non ti
spiegano come. E ti fanno sentire colpevole se non ci arrivi da solo. Ma uno non
ha colpa se non gli vengono idee geniali. Ha colpa se non
fa quel che gli si dice, e io quello lo faccio, sono sempre
pronto a farlo, anche se non ho mai chiesto a nessuno
di essere un Agente Creatore. È un ruolo che mi è stato
imposto e lo svolgo come mi riesce; magari non sono
all'altezza, ma che ci posso fare? È forse merito Suo se
Lui è tanto dotato? Invece di sputare sentenze come
un oracolo perché non parla chiaro? E perché mi lascia
sempre solo? Sono stufo di stare solo. Se continua così
divento matto.
Mercoledì
Domani me ne vado. Ormai sono quarantott'ore che
ho finito il lavoro e qui non ci resto neanche un giorno
di più. Me ne torno ad accompagnare le anime al loro
destino: un compito tranquillo, di routine, senza sorprese. Sarà vigliaccheria,
sarà che non ho leadership,
sarà quel che volete, ma alla mia salute mentale ci tengo e qui le cose stanno
degenerando con molta rapidità. Oggi per la disperazione mi sono addirittura
messo a parlare con il pupazzo. Non c'era nessuno intorno,
così mi sono lamentato con lui: gli ho raccontato le mie
disgrazie, per ore. E lui, ovviamente, è stato a sentire,
mi ha risposto quando c'era da rispondere, ha perfino
cercato di consolarmi. A un certo punto mi ha posato
una mano sulla spalla e mi ha detto: «Va' là, non prendertela. Non sei solo. Ci
sono io». Già, c'è lui; che bellezza! Dal produttore al consumatore. Uno si fa
un pupazzo e poi ci convive. Tanto lui funziona sempre come
si deve. Basterebbe rimbecillirsi del tutto e si finirebbe
per essere contenti, io e il pupazzo. Ma che dico? Il
pupazzo non può essere contento, al massimo può
comportarsi come se fosse contento. Si vede proprio
che sto perdendo anche quel minimo di ragionevolezza
che mi era rimasta. E davvero meglio che me ne vada;
non sono fatto per questo mestiere.
Giovedì
Non me ne sono andato. Sono ancora qua. Stamattina
mi ero vestito di tutto punto ed ero pronto per uscire
quando il pupazzo mi ha guardato con occhi imploranti e mi ha chiesto: «Che cosa
fai? Mi lasci solo?». Ho maledetto ancora una volta la perfezione del suo
programma e mi sono precipitato verso la porta. Allora lui,
cambiando tono, ha suggerito: «Almeno facciamo colazione insieme». E a me è
sbollita la rabbia. Bello stupido sono, ho pensato, a prendermela con un pezzo
di tolla. So ben io con chi dovrei prendermela. In fondo
questo l'ho fatto io; dovrei esserne fiero invece di infuriarmi. E mi sono anche
reso conto di aver fame: la sera prima mi si stringeva troppo lo stomaco per
mandar giù qualcosa. Così mi sono seduto a tavola e per un po'
abbiamo mangiato in silenzio. La salsiccia era rosolata
a puntino, il pane croccante e il caffè forte e bollente,
come piace a me. Sfido, le istruzioni le avevo scritte io!
Poi all'improvviso, mentre cominciavo perfino a star
bene, il pupazzo mi ha guardato negli occhi e mi ha
detto: «Sono stanco di essere trattato come una macchina. Che cosa devo fare
perché mi consideri un agente responsabile?». Lì per lì la cosa mi ha lasciato
senza parole: questo suo prendere iniziative, fare ragionamenti, accampare
pretese mi coglieva del tutto impreparato. Sapevo benissimo che anche in questo
caso non faceva che reagire, non a ordini espliciti ma a indicazioni
subliminali, inconsce. Raccoglieva dati dal mio
comportamento, li analizzava con la cura e l'efficienza
che gli sono proprie e sceglieva quindi l'output più appropriato. Con tutto ciò
la situazione non cessava di stupirmi, perché io, in sede di messa a punto,
quell'
output non solo non l'avevo inserito ma non l'avevo
neanche lontanamente preso in considerazione. Si fa
presto a dire: la capacità combinatoria di un meccanismo del genere è in grado
di produrre sequenze comportamentali del tutto nuove e in quanto tali non
previste dallo stesso programmatore. Quando poi hai a che
fare con qualcosa di così imprevisto ti vengono comunque i brividi, o,
quantomeno, ti eccita il pensiero di scoprire conseguenze ignote, starei per
dire «creative», del tuo sistema formale. Allora mi sono detto:
«Ho perso tanto tempo; ne posso perdere ancora un po'. Mi fermerò un paio di
giorni per studiare il comportamento del pupazzo. Dopo tutta la fatica che ho
fatto, ci mancherebbe altro che perdessi l'opportunità
di imparare qualcosa gratis.
Giovedì notte
Ho scoperto una cosa importante. Banale, forse, ma le
cose più importanti sono anche banali, ci stanno sempre davanti agli occhi e non
le vediamo. Ho scoperto
che il pupazzo ha un comportamento più insolito
quando interagisce con me. Lasciato a se stesso non fa
che ripetersi; se invece io non mi limito a guardare ma
ci parlo, se anche solo con il mio atteggiamento dimostro di essere un po'
coinvolto, il suo repertorio si anima, le sue mosse si fanno più atipiche.
Dicevo che la cosa è banale, e in effetti avrei dovuto prevederla:
l'introduzione di un elemento di disturbo complica i percorsi logici che fungono
da retroterra per i suoi atti, aggiunge nuovi parametri, insomma moltiplica il
coefficiente di variabilità del sistema. Ma un conto è pronunciare questi
teoremi generali e un altro è vedere come
avvengono di fatto le variazioni: c'è la stessa differenza
che fra leggere (o magari scrivere) un libro di testo di
psicologia e studiare invece i nostri vicini di casa, o gli
indigeni di un'isola lontana. Mi sento un po' come un
naturalista che osserva una specie sconosciuta: potrebbe fare a meno di
osservarla; potrebbe rubarle qualche
cellula, portarsela a casa e analizzarla al microscopio, al
riparo da ogni influsso esterno. E invece preferisce star
lì e seguire tutte le strane evoluzioni del suo animaletto, anzi darsi da fare
per renderle ancora più strane:
mettersi in mezzo e creare con la sua presenza una situazione inaspettata ed
eccezionale. C'è senz'altro passione in tutto questo, e ben venga: siamo o non
siamo esseri passionali? Allora le cose ci riusciranno meglio
se investiremo tutto di noi, passione compresa.
Sabato
Dingo è proprio un fenomeno. L'ho chiamato «Dingo»
perché mi sembra così superiore alla media. Sono sicuro
che se lo immettessi nella comunità là fuori la sbaraglierebbe in men che non si
dica con la sua efficienza, come il
dingo ha sbaragliato i grandi marsupiali appena introdotto in Australia: senza
fargli la guerra, solo rubandogli il cibo davanti agli occhi. È un fenomeno,
dicevo. Mi sono messo a insegnargli qualcosa: un po' di storia, un po' di
matematica, un po' di letteratura. E lui è così brillante,
impara così bene. Sapete come succede con quelli a cui
bisogna dire tutto più e più volte, e quando si sforzano di
dirvelo loro se ne dimenticano sempre un pezzo. Con
Dingo non c'è pericolo: è sempre un passo avanti. Vi state ancora chiedendo se
ha capito e lui vi fa una domanda
trabocchetto, per rivelarvi di aver già voltato pagina. E sì,
perché è anche furbo, non si limita a ripetere a pappagallo. C'è sempre un lampo
d'ironia nei suoi occhi, bonaria
s'intende, perché poi è buono, non è che voglia sfottermi.
È solo che è così intelligente, vede così lontano; non può
non sentire l'inadeguatezza delle mie spiegazioni e allora
gli occhi gli ridono, e ridono anche a me. La prossima settimana devo pensare a
qualcosa di nuovo, a un metodo più attivo di insegnamento, anzi a un metodo con
cui si possa imparare in due. Anch'io voglio imparare, ho tanto
da imparare da Dingo. Io ho a disposizione quattro dati
ma lui ha una testa così incredibile per elaborarli... E l'elaborazione è tanto
importante quanto i dati, se non di più.
Speriamo che mi lascino in pace, mi sto proprio divertendo. O meglio, ci stiamo
divertendo, a quanto dice Dingo, e non credo che racconti storie.
Domenica sera
Stamattina è venuto il Capo e si è portato via Dingo. Io
gli ho detto: «Aspetti. Non gli ho ancora alitato la vita».
E Lui ha risposto che non era vero. Ha aggiunto che
adesso non poteva più lasciarmelo perché mi ci stavo affezionando e Dingo ha
bisogno di essere indipendente,
di trovarsi i suoi affetti e i suoi legami. Ma non ha capito
niente, con licenza, non ha proprio capito. Certo sembra
che Dingo sia vivo, perché si comporta come se lo fosse,
ma io so che non è vero: da che l'ho costruito non è successo assolutamente
nulla, e posso dirlo perché l'ho avuto sotto gli occhi ogni momento, a parte
quando dormivamo. Non abbiamo fatto altro che sviluppare le potenzialità del suo
programma. E adesso lui si troverà in mezzo a quelli che
sono
vivi e chissà come andrà a finire.
È bravo, certo, ma gli manca qualcosa, non ho avuto
abbastanza tempo. Perché non me lo ha lasciato ancora
un po'? Gli avrei dato più autonomia, più resistenza. Mi
ha anche detto di farne un altro. Un altro come?
Uguale?
E come potrebbe essere uguale? Diverso, allora? Ma chi
lo vuole, diverso? Io no. Io sono stufo di questo mestiere
e voglio tornare a fare la guida.
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