Copertina
Autore Leonardo Benevolo
CoautoreRoberto D'Agostino, Mariolina Toniolo
Titolo Quale Venezia
SottotitoloTrasformazioni urbane 1995-2005
EdizioneMarsilio, Venezia, 2007 , pag. 176, ill., cop.fle., dim. 17x24x1,4 cm , Isbn 978-88-317-9026-0
LettoreFlo Bertelli, 2007
Classe citta': Venezia , urbanistica
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Indice


    QUALE VENEZIA
    Trasformazioni urbane 1995-2005

  8 PRESENTAZIONE
    Leonardo Benevolo, Roberto D'Agostino e Mariolina Toniolo

 11 VENEZIA, GLI ANNI DUEMILA
    Leonardo Benevolo

 37 DIECI ANNI DI TRASFORMAZIONI URBANE
    Roberto D'Agostino

     37 La crisi della politica
     39 La crisi della città
     49 La crisi della disciplina
     54 La strada veneziana
     56 Il nuovo disegno urbano
     59 La pianificazione strategica

 65 IL PROGETTO, L'ATTUAZIONE, I RISULTATI
    Mariolina Toniolo

     65 Dieci anni memorabili
     69 Pianificare realizzando
     81 Portomarghera: un piano singolare
     89 La città antica: un coraggioso compromesso
     99 Le isole e l'acqua
    107 Ricomporre la terraferma
    121 Le trasformazioni avvengono
    141 Muoversi!
    148 Non un bilancio

159 PER UN PIANO DELLA CITTΐ ANTICA
    Pierluigi Cervellati

171 RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI



 

 

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Pagina 11

VENEZIA, GLI ANNI DUEMILA

Leonardo Benevolo


Diesem Anboss vergleich ich das Land, den Hammer dem Herrscher und dem Volke das Blech, das im der Mitte sich kruemmt Wehe dem armen Blech! Wenn nur willkuerliche Schlaege Ungewiss treffen und nie fertig der Kesser erscheint.

A quest'incudine paragono il paese, al signore il martello, e al popolo la lamiera che nel mezzo si accartoccia. Guai alla povera lamiera! Quando solo colpi arbitrari e incerti le toccano, e mai appare il calderaio rifinito. (Wolfgang Goethe, Epigrammi veneziani, 1790, n. 14)


Nell'ultimo decennio del secolo scorso – con precisione, nel dibattito precedente alle elezioni comunali del 1993, nella tornata amministrativa 1993-1997 e nella successiva, dal 1997 al 2000 – è stato ideato e reso vigente un nuovo Piano regolatore di Venezia, associato a un programma politico e amministrativo individuato negli anni precedenti, recato nell'ambito comunale da Cacciari come consigliere, elaborato durante la progettazione e l'esecuzione simultanea del Piano nei sette anni in cui Cacciari è stato sindaco, ma gradualmente accantonato negli anni successivi.

Non è questo il luogo per descrivere e valutare l'arresto di questa esperienza, momentaneo o durevole. Chi ha continuato a operare sul posto può dare una valutazione ravvicinata della situazione presente, dando il giusto rilievo alle operazioni importanti che restano in corso. Io che dal 2000 ho perso contatto con gli avvenimenti locali posso invece fare altre due cose:

- abbozzare una riflessione distanziata nel quadro della lunga storia passata, che conferma ancora una volta il ruolo dominante del fattore politico nella sorte di questa città, come avverte l'epigramma di Goethe citato al principio;

- individuare le carenze del lavoro svolto dal 1993 al 2000, con lo scopo ambizioso di precisare a futura memoria – ora che non contano le cautele di ordine tattico – quello che dovrebb'essere il giusto modello di sviluppo di Venezia moderna.

Mentre noi fabbricavamo il Piano regolatore, è stato pubblicato il lungo e silenzioso lavoro di Wladimiro Dorigo – lo sfortunato protagonista del precedente progetto urbanistico fallito negli anni sessanta, scomparso mentre prepariamo questo volume – sulla storia urbana più antica della città (Dorigo, 2003), promosso dall'Istituto Veneto di Scienze, Lettere ed Arti e dalla Regione Veneto.

Dorigo descrive così, in modo storicamente appropriato, l'origine di Venezia:

Diversamente da centinaia di centri urbani in Europa e nel Mediterraneo, Venezia non fu una città romana [...] né una città di fondazione quali furono molte altre fiorite nel Medioevo; eppure fu con i metodi della tradizione antica che genti diverse, provenienti dal territorio di almeno tre municipia costruirono ancor prima del secolo X, attorno a modestissime chiese sorte su frammenti di incroci centuriati alcune piccole patrie, in diuturno contrasto con l'inclemenza degli elementi e l'incertezza di un futuro; e fu un processo analogo a quello di tante agglomerazioni demiche dell'Europa franca e germanica a coagulare infine accanto a un insediamento castrense bizantino, ampliato nella piccola civitas murata del 901, una città grande e inedita, che assorbì Rivoalto nella dimensione delle Venecie (vol. I, p. XIII).

Dorigo ricorda gli eventi geografici che dal principio hanno trasformato il supporto territoriale: l'abbassamento del livello marino nel I secolo a.C. (2,3 metri sotto il livello attuale) che ha consentito per un lungo periodo la colonizzazione agricola del territorio dietro ai lidi; le alluvioni fra il VI e l'VIII secolo che hanno accentuato il successivo abbassamento del terreno di circa tre metri e mezzo, impaludando vaste zone e rendendo rilevanti i luoghi connotati come «alti» o «duri», protetti dalle contese degli stati di terraferma e segnalati ancor oggi nella toponomastica. Mentre le città importanti alle due estremità del golfo, Ravenna e Aquileia, erano coinvolte e indebolite dalle vicende del retroterra, s'è aperta la competizione fra le isole autonome nella striscia intermedia. Lane ricorda ad esempio la rivalità fra Venezia e Comacchio:

Comacchio era più vicina a Ravenna di Venezia, e vicina altresì alle mutevoli foci del Po, e minacciava di diventare la principale erede di Ravenna, [...] anche perché era favorita da quei governanti. Nell'866 i veneziani la presero d'assalto e la misero a sacco; da quel momento ebbero il controllo delle foci dei fiumi che penetravano nell'Italia settentrionale [...]. Se fosse stata Comacchio a sconfiggere i veneziani, avrebbe potuto diventare essa invece di Venezia la Regina dell'Adriatico e oggi Venezia sarebbe forse un paesetto di poco conto in una laguna stagnante [...] (Lane, 1978, p. 9).

La civitas di Rialto formata dopo il 901 primeggia in questo scenario ancora labile. Dorigo, nell'atlante allegato al suo libro, colloca le notizie finora accertate sul supporto cartografico attuale, e ottiene un quadro congetturale altamente suggestivo, che cerca e in parte rintraccia gli umili inizi di un futuro tanto glorioso (negli stessi anni Niccolò Carandini, cogli ultimi scavi sul Palatino, documenta i primi insediamenti, fra cui il «palazzo» dei re di Roma, sopra cui sorgerà la zona di comando dell'Impero universale). Nel secolo IX i due mercanti veneziani che annunciano di aver portato da Alessandria il corpo dell'evangelista Marco sono già convinti di onorare una delle città più illustri della cristianità. Intorno a quel sepolcro si comincia a costruire, accanto al palazzo dogale, la basilica dove poi verranno accumulati i tesori raccolti in tutto il mondo.

Il controllo delle foci dei fiumi è finalizzato, in un primo tempo, al trasporto dei prodotti locali o ricevuti dagli intermediari verso l'entroterra padano e i paesi transalpini. Più tardi inizia l'avventura della navigazione marittima – nell'alto Adriatico e nello Jonio – dove i veneziani incontrano le flotte dell'Impero bizantino, dei normanni, degli stati musulmani e delle altre repubbliche marinare italiane, facendo valere, oltre alle loro risorse politiche, economiche e militari, l'accesso alle riserve di legname delle Alpi orientali, senza paragone nel mondo mediterraneo. Il confronto si amplia poi nello spazio «Oltremare», solcato dopo il 1098 dalle crociate dirette in Terra Santa.

Nel 1172 l'incontro a Venezia fra il doge, il papa e l'imperatore e nel 1204 la partecipazione decisiva alla Quarta Crociata stabiliscono il ruolo internazionale primario di Venezia nel mondo europeo. Dopo l'ultima contesa navale con Genova, superata nel 1381, Venezia

si erge sola, per più di un secolo, al di sopra delle altre città e degli altri Stati d'Europa [...]. Regge nelle sue mani tutte le fila: è la capitale del ducato e dello zecchino, dell'oro africano e dell'argento dell'Europa centrale, la regina del pepe, delle spezie, delle droghe, della seta, la capitale del cotone che vi arriva dalla Siria in enormi balle che occupano intere navi (Braudel, 1985, p. 256).

Il ritorno trionfale di Vasco de Gama dall'India a Lisbona, nel 1498, apre un'altra sfida che mette in gioco le rotte oceaniche. Il viceré portoghese Albuquerque sconfigge la flotta araba nel 1509, fonda le basi portoghesi nell'oceano Indiano e arriva a Canton già nel 1513. Venezia intanto studia il grandioso progetto di tagliare l'istmo di Suez e di mandare una sua flotta in Oriente, ma la sconfitta terrestre ad Agnadello del 1509 impegna altrove le sue risorse. Da allora la contesa economica e politica in campo mondiale avviene fuori dalla sua portata, sugli oceani e nelle nuove terre americane spartite fra spagnoli e portoghesi dalla mediazione papale del 1494. Venezia conserva il suo primato nel mondo mediterraneo fino alle guerre di successione settecentesche. Per due secoli e mezzo, da Lepanto in poi, contiene con successo la pressione turca sul mare e si permette di conservare con enormi fortificazioni il possesso di Corfù, a guardia del canale di Otranto, a due chilometri e mezzo dalla sponda orientale tenuta dal nemico.

Dal secolo XVI in poi il possesso dei fiumi e il sapere acquisito dai suoi ingegneri idraulici sono utilizzati sia per scongiurare l'insabbiamento della laguna (che avviene contemporaneamente per l'insenatura dello Zwin, pregiudicando l'accesso al porto di Bruges) sia per difendere il privilegio veneziano su ogni approdo nel bacino adriatico. Il Piave, il Brenta e l'Adige vengono canalizzati in mare aperto, con imponenti modifiche del quadro geografico circostante. Al delta del Po, già ripetutamente deviato verso sud, viene aggiunto un ramo meridionale, il Po di Goro, che seppellisce nell'entroterra il porto artificiale progettato dagli Estensi a Mesola.

Il dominio politico ed economico della solitaria città isolata nella laguna — comprendente lo Stato di mar esteso dal mar Nero e dal Mediterraneo orientale all'Atlantico e al mare del Nord, e lo Stato di terra creato nel secolo XV fino alle Alpi e all'Adda — si confronta alla pari con le grandi potenze europee fino al 1706, quando decade il suo privilegio riconosciuto sull'Adriatico e gli Asburgo aprono il loro scalo a Trieste. La sua costituzione fissata nel 1297, ammirata per lungo tempo e poi divenuta estranea all'Illuminismo europeo, sopravvive fino alle soglie del mondo contemporaneo e cade senza rumore quando i suoi fondamenti economici e sociali sono già estinti.


Il filo conduttore di questa storia è una tensione intellettuale fuori del comune, che gestisce i molteplici rapporti interni ed esterni con prontezza e lungimiranza del tutto speciali. Il successo tanto prolungato di queste capacità umane doveva incontrare, nell'ordine normale delle cose, l'«invidia degli dei», cioè una serie di insuccessi a loro volta inusuali. La fine della Repubblica veneziana, imposta dall'esercito di Bonaparte e pattuita nel 1797 a Campoformio – un episodio secondario nella tempesta politica e militare fra la Rivoluzione francese e la Restaurazione – segna uno spartiacque decisivo per la città, che dopo aver perso l'impero commerciale e politico diventa da soggetto a oggetto di chi da lontano governa il suo territorio. La breve dominazione napoleonica produce alcuni interventi di alto livello: la modernizzazione dell'Arsenale e la modifica dell'area marciana comprendente il palazzo reale e i giardini, che celebra, in questo caso, la magnificenza della corte vicereale. Dopo il congresso di Vienna la dominazione austriaca, che pure accorda a Venezia e al retroterra una rappresentanza distinta, punisce in sostanza la città e smonta l'antico apparato delle istituzioni preindustriali – parrocchie, confraternite, scuole ecc. – sicché gli interventi edilizi, riportati sulla cartografia, segnalano una prevalenza di demolizioni (le iniziative importanti ideate a Vienna sono riservate allo sviluppo dello scalo alternativo di Trieste).

L'integrazione nel nuovo Stato unitario italiano avrebbe potuto condurre a una trasformazione più significativa, se non avesse incontrato alcune circostanze controproducenti:

– la data (1866), prossima alla fine del ventennio di congiuntura ascendente – gli anni cinquanta e sessanta – che, nel nostro campo, è il presupposto delle grandi iniziative urbanistiche europee (la trasformazione di Parigi avviata da Haussmann nel 1853, il Ring di Vienna dopo il concorso del 1859, l'ampliamento di Barcellona iniziato da Cerda nello stesso anno). In Italia gli unici interventi organici sono, in ordine decrescente, quelli di Milano intorno al Duomo ideati subito dopo l'annessione e la sistemazione di Firenze capitale dopo il 1864; tutti, negli anni successivi, incontrano gravi ostacoli finanziari per il loro proseguimento;

– la crisi politica del nuovo Regno fra l'unificazione del 1861 e la morte di Cavour pochi mesi dopo, che conducono alla rinuncia del disegno istituzionale autonomista studiato dal suo ministro Minghetti, e alla scelta di estendere dovunque l'ordinamento gerarchico piemontese: comuni e province sotto il controllo dei prefetti emissari del governo centrale, con l'obiettivo di deprimere in ogni campo le iniziative locali che potrebbero mettere in pericolo la recente unificazione.

A Venezia sarebbe stato essenziale far rivivere nelle nuove istituzioni l'ordinamento speciale e autonomo ricevuto dalla storia, com'è avvenuto in altre importanti città-stato europee (Ginevra e Basilea in Svizzera per un'antica tradizione; Amburgo e Brema in Germania per la maggior solidità della contemporanea unificazione tedesca, che consente a Bismark di trasferire testualmente nell'Impero il variegato mosaico di stati tradizionali). Venezia diventa così un comune come tutti gli altri, eccezionale solo per l'ampiezza del territorio comprendente una breve testa di ponte in terraferma e la maggior parte della laguna. L'Amministrazione comunale s'accontenta di una sede appena dignitosa in uno dei tanti palazzi nobiliari, mentre il Palazzo del governo occupa l'edificio regale di Ca' Corner; il complesso marciano resta riservato alle funzioni museali e rappresentative. Le opere pubbliche italiane vanno incontro alle prime necessità: case popolari, scuole, servizi pubblici, trasporti urbani collettivi, fognatura, acquedotto, elettricità, gas di città. Creano i collegamenti territoriali con lo Stato unitario: completano l'attacco ferroviario iniziato dagli austriaci e costruiscono gradualmente un'attrezzatura portuale moderna. Questi manufatti hanno un nuovo carattere di «normalità» secondo gli standard modesti dell'Italia di allora, che contrasta vivamente con l'esclusività e la grandiosità delle attrezzature storiche. Θ diverso solo l'ampliamento dell'Arsenale fra il 1875 e il 1880, pensato in grande e compreso fra le spese militari del Regno, nella prospettiva dei futuri conflitti con l'Austria.

Tutto ciò altera gradualmente ma sostanzialmente la delicata macchina antica, e compromette nel tempo uno dei suoi requisiti fondamentali, l'equilibrio fra i collegamenti pedonali e acquatici.

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Lo storico Braudel ritiene che è stata «la decadenza di Venezia [...] a salvaguardare in parte i suoi sortilegi»; sogna il passato dai tavolini all'aperto del caffè del Todaro, dove insieme ai rumori dell'acqua e ai profumi del vento arriva «l'appuntamento con la gioia di vivere» (Braudel, 1985, p. 250). Venezia infatti «non appartiene più a se stessa, è bene nostro, nostra città, nostro sogno, nostro rifugio di silenzio. Non deve mutare, non deve muoversi. [...] Per lei e per noi, grazie a lei, il tempo non deve passare più. Passa già tanto in fretta» (p. 266).

Restando nel nostro campo, riteniamo invece di aver individuato un varco fra il passato e il futuro:

Quel che non avviene da sé, ma è indispensabile far avvenire, è la creazione di una città moderna integrata a cavallo fra laguna e terraferma. [...] Per quanto incomparabilmente importante, Venezia antica non può essere il centro di tutta l'agglomerazione moderna; deve entrare a far parte di un centro articolato. Se si riconosce questo modello, da un lato la conservazione dell'insediamento antico acquista un significato preciso e tecnicamente praticabile, dall'altro la sua qualità può agire come termine di paragone per la riqualificazione del resto della città.

Questo programma annunciato nel 1993 e argomentato in un libro apposito (Benevolo, 1996) è stato tradotto puntualmente entro il 2000 in una serie di varianti parziali per le parti del territorio comunale, attivate in ragione dell'urgenza e accompagnate per quanto possibile dai provvedimenti esecutivi. Pensavamo di aver avviato, in quei dieci anni, un processo condiviso e potenzialmente irreversibile, che infatti non ha incontrato alcuna contestazione fondata. Θ stato fermato precocemente da una dirigenza politica che si è chiamata fuori per un motivo estraneo, adesso (nel 2006) facile da riconoscere: la svolta conservatrice dei DS in scala nazionale che riguarda in special modo l'urbanistica ed è stata accolta con favore da una serie di interessi locali spiazzati in precedenza. Ogni proposta che esca dalla gestione abituale è considerata pericolosa, sicché gli interessi dell'amministrazione si trovano conformi a quelli dei soggetti privilegiati. Ho avuto l'opportunità di avvertire con precisione la data di questa svolta durante un'altra esperienza: il nuovo Piano regolatore di Rimini, promosso nel 1993 in sede regionale dalla dirigenza DS per venire a capo della sfrenata speculazione fondiaria in quella città. Il nuovo Piano adottato nel 1996 ha incontrato al momento dell'approvazione (1999) il veto delle medesime amministrazioni superiori, sempre DS ma formate da altre persone. L'Amministrazione comunale in carica e i progettisti sono stati allontanati, e la gestione urbana è stata riconsegnata all'ufficio locale responsabile della crisi precedente. La stessa vicenda si è ripetuta in molte altre città, governate dai DS, dalla DC e da altre forze politiche, ed è interessante rilevare, oltre all'analogia dei risultati, una caratteristica metamorfosi della sua conduzione amministrativa. In passato un Piano regolatore sgradito veniva revocato e sostituito da un altro gradito. A Rimini il Piano indesiderato è stato "approvato" dalla Provincia di nuova istituzione, ma il testo della decisione ha bocciato la gran maggioranza dei suoi contenuti, evitando così un nuovo iter progettuale complessivo e consentendo all'ufficio comunale una serie indefinita di manipolazioni parziali. A Firenze la Regione, dopo aver sospeso a lungo la sanzione del Piano regolatore basato sulla vecchia legge urbanistica, lo ha approvato nel 1998 all'indomani della nuova legge regionale, con la prescrizione di adattarlo immediatamente alla nuova forma prescritta; ma l'adattamento è tuttora sospeso perché nessuno osa concluderlo, per paura d'interferire con gli interessi avviati. A Venezia gli amministratori DS, tenuti a bada da Cacciari finché è rimasto sindaco, una volta autorizzati dai loro referenti politici, hanno rallentato o fermato l'esecuzione del Piano, ma si sono guardati bene dal modificarlo, rimandando all'infinito anche le correzioni già istruite come la correzione delle tipologie storiche di cui si parlerà più avanti; invece hanno smantellato gli uffici, spostato i funzionari temibili e spinto i più capaci a cercar nuove occupazioni altrove. Non recando nuovi apporti, hanno offerto indirettamente la dimostrazione del ruolo primario della dirigenza politica in questa speciale città totalmente artificiale. Il ruolo del calderaio è tornato vacante e nessuno si è fatto avanti per ricoprirlo.

Se si guarda il quadro nazionale, la crisi veneziana è sopraffatta dalla mutazione generale che negli anni successivi ha coinvolto l'intera classe politica, la cultura e l'opinione pubblica italiana, per un accumulo di cause ancora da valutare nell'insieme: l'interruzione delle esperienze urbanistiche comunali in pareggio economico, la dispersione dei loro risultati tangibili, la rivincita della speculazione fondiaria e la sua crescente importanza in un nuovo quadro economico e finanziario fondato sulla rendita e non sul profitto, la rassegnazione o la complicità degli specialisti, la degenerazione del quadro normativo, il distacco dell'utenza e l'indifferenza dei mass media. La progettazione intelligente dello scenario fisico è scomparsa dal dibattito politico e dalle aspettative della gente, proprio mentre si concreta il grande avvenimento epocale a cui tutta la vicenda converge: la distruzione del paesaggio italiano, col suo ruolo primario nella cultura mondiale.

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VI. Perché la parte centrale della laguna, così trasformata, ospiti la città bipolare, il provvedimento decisivo è la modernizzazione complessiva del trasporto acquatico, comprendente le vie d'acqua e i natanti. I canali antichi e moderni e le imbarcazioni che li percorrono sono un lascito del passato, con un debito crescente di manutenzione ordinaria e straordinaria, sempre messo in coda ad altri interventi. Così l'handicap di questo settore cresce per una specie di circolo vizioso, imparentato alla retorica della decadenza e della morte a Venezia. L'acqua da risorsa diventa un ostacolo, che allunga gli itinerari pedonali, rende complicato il trasporto delle cose e peggiora lo scenario quotidiano.

Tutto questo non è ragionevole in una città nata per funzionare sull'acqua, e conformata in funzione di questo elemento. La modernizzazione dei percorsi e delle imbarcazioni è sicuramente alla portata della tecnica e della pianificazione moderna. In più a Venezia esistono le risorse potenziali per far questo. L'azienda comunale dei trasporti acquatici (ACTV) è un organismo serio, tecnicamente agguerrito. Il Centro Internazionale Città d'Acqua è un efficiente istituto di ricerca e documentazione, con un'ampia rete di collegamenti internazionali. Nell'Arsenale nuovo è insediato un importante laboratorio industriale su questi temi. Se il Governo italiano non fosse influenzato dalla natura dei suoi apparati tecnici, potrebbe individuare questo come il tema di gran lunga più importante del suo intervento per Venezia.

Un esempio internazionale viene dalla Norvegia. Questo paese di soli quattro milioni di abitanti ha ben 65.000 chilometri di coste frastagliate, lungo cui sono collocate tutte le città importanti. Da quando le condizioni economiche del paese sono migliorate, sono stati riorganizzati i trasporti acquatici a breve raggio, che consentono di far funzionare intorno a ogni città una rete di collegamenti giornalieri estesa per decine di chilometri, con navi modernissime grandi e piccole che scivolano a forte velocità senza neppure increspare gli specchi d'acqua. Inoltre il lungo arco oceanico è frequentato dalla navigazione a lungo raggio, turistica e commerciale, che trova nei fiordi i varchi profondi per penetrare all'interno del paese.

In Norvegia l'obiettivo è consentire la residenza sparsa a bassa e bassissima densità, ma ben collegata ai centri di servizio. A Venezia la doppia circolazione, nella città antica e nelle penetrazioni in terraferma, richiede l'invenzione di barche individuali apposite, partendo dai modelli storici aggiornati, ma anche una nuova attrezzatura delle rive per l'ormeggio, i trasporti, la raccolta dei rifiuti; la circolazione collettiva richiede tipologie aggiornate, adatte sia ai tragitti nella laguna aperta sia ai percorsi secanti in città. Il successo di questo rinnovamento migliorerebbe in modo decisivo la vivibilità di una città diversa da tutte, e dimostrerebbe che non è inevitabile uniformare fra loro le città di tutto il mondo.

La modernizzazione dei percorsi acquatici, in Norvegia come nella laguna veneta, ha sugli altri interventi viabilisti il vantaggio decisivo della capillarità, adatta a servire tessuti insediativi minutamente articolati. Altre vie di comunicazione terrestri a maglia più larga possono coesistere col reticolo acquatico, con caratteristiche adatte caso per caso ai luoghi attraversati, e non copiate dagli stereotipi convenzionali. In laguna è insensato proporre (come è avvenuto negli ultimi anni) una metropolitana sotterranea, che con le sue risalite sconvolgerebbe il quadro funzionale della città antica, e passerebbe sott'acqua a costi enormi solo per non esser veduta. In un assetto futuribile della laguna sarà possibile realizzare collegamenti pedonali lunghi, visibili e attrezzati in diversi modi: il primo sarà la navetta meccanica prevista fra piazzale Roma e il Tronchetto. Un termine di paragone interessante, che si sta costruendo in Francia, è il pontile lungo 950 metri percorribile da un apposito trenino per portare i visitatori a Mont Saint Michel, che ridiventa un'isola. La convenienza rispetto ai tragitti navigabili andrebbe ragionata senza pregiudizi, con lo spirito obiettivo proprio della tradizione veneziana.

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IL PROGETTO, L'ATTUAZIONE, I RISULTATI

Mariolina Toniolo


DIECI ANNI MEMORABILI

Le città, finché sono vive, continuano a cambiare. Ci sono, però, periodi in cui il cambiamento si fa più veloce e, soprattutto, periodi in cui il cambiamento è guidato da una volontà chiaramente riconoscibile. Alla fine del Novecento, Venezia ha conosciuto uno di questi periodi, in entrambi i sensi. Θ presto per darne un giudizio, che in ogni caso potrà essere più equilibrato se verrà da persone che non siano state personalmente coinvolte negli eventi che qui si raccontano. Toccherà a loro stabilire se le trasformazioni siano state fedeli alle intenzioni dichiarate e – per Venezia questa è la domanda che tutto il mondo si pone – se, cambiando, la città sia rimasta fedele a se stessa. Θ invece il momento giusto per tracciare un resoconto di quegli anni, finché sono disponibili i documenti e i testimoni: ripercorrendone gli avvenimenti, ricostruendo le intenzioni che guidavano i molti attori che vi hanno partecipato e, per quanto possibile, collocando il racconto sullo sfondo di un contesto, locale e nazionale, che nel frattempo è cambiato.

Qui si prende in esame un periodo racchiuso convenzionalmente tra il 1995 e il 2005: un po' per il gusto di dargli la lunghezza di un decennio, spartito in due dal passaggio del millennio, ma anche per partire da quando, messe a punto le condizioni di partenza, il progetto comincia davvero a formarsi e inizia la collaborazione tra i tre autori di questo libro. Nel periodo, la città è stata retta da tre amministrazioni comunali: la prima e la seconda guidate da Massimo Cacciari (rispettivamente: 1993-1997 e 1997-2000), la terza (2000-2005) da Paolo Costa; Roberto D'Agostino partecipa a tutte tre, anche se con ruoli diversi; la collaborazione di Benevolo e mia, invece, cessa prima.

In questo periodo a Venezia si è progettato e realizzato molto, smentendo la fama che la rappresentava immersa in una laguna di chiacchiere. Alcune realizzazioni hanno riguardato luoghi emblematici proprio di questa fama: il Molino Stucky, chiuso dal 1956, e lo scavo dei rii, che non avveniva da vent'anni. La legislazione speciale per Venezia esisteva da trent'anni, ma è a partire da questo decennio che la manutenzione urbana, sia a opera del Comune, attraverso la sua società Insula, sia da parte del Magistrato alle Acque, attraverso il Consorzio Venezia Nuova, ha assunto un carattere sistematico. Molte altre opere erano attese da tempo: gli insediamenti universitari a San Giobbe e Santa Marta, il restauro di numerosi edifici pubblici tra cui Ca' Pesaro e Ca' Rezzonico, il Parco San Giuliano, il Bosco di Mestre, il Centro culturale Candiani. Qualche significativo episodio di architettura contemporanea ha infranto la tradizione, che aveva visto ripetutamente e clamorosamente respinti tutti i progetti per Venezia dei grandi maestri. Sono iniziati la riconverssione e il il risanamento di Portomarghera, il recupero fisico e funzionale di isole abbandonate della laguna. La Fenice, sciaguratamente bruciata nel 1996, è stata inaugurata «com'era e dov'era» nel 2003. Soprattutto, è stato avviato e in buona parte condotto a termine un vasto programma di trasformazione urbana, riconquistando alla città aree degradate e male utilizzate. Tra le aree riconquistate c'è l'Arsenale, luogo in cui si addensa la storia della città. Inspiegabilmente poco pubblicizzato, lo spostamento del mercato all'ingrosso ha permesso l'allargamento dell'area fruibile (e godibile) a Rialto, con la riapertura dell'affaccio sul Canal Grande.

Questa attività è abbastanza nota: inutile tornare a farne un resoconto punto per punto. A ben vedere, molte delle opere realizzate erano state pensate o iniziate prima del periodo che prendiamo in considerazione. Alcune, tuttavia, erano state fermate prima di iniziare, altre interrotte, di altre si era solo parlato a lungo: in questi dieci anni, invece, molte sono state compiute o avviate irreversibilmente. Ma il periodo esaminato non si caratterizza solo per la quantità dei risultati. Certo questo fatto è importante: a Venezia in particolare, per smentire la sua fama di immobilismo un po' bizantino. Ma sarebbe riduttivo esaminare i singoli episodi senza vedere il quadro complessivo: non solo la massa di risorse umane e finanziarie che sono state attivate, ma il disegno coerente e meditato, che con questi progetti si andava compiendo. Le realizzazioni sono state possibili proprio perché una visione strategica comune, autorevolmente sostenuta, ha consentito di assumere decisioni rapide.

Questo disegno si è espresso in un nuovo Piano regolatore, che ha riguardato tutta la città per la prima volta dopo quello del 1959; anzi, si è esteso ad aree che, di fatto, erano state sottratte alla giurisdizione dell'amministrazione locale, come Portomarghera e la laguna. Così il governo locale è tornato ad essere protagonista delle scelte per la salvaguardia di Venezia, dialogando autorevolmente con lo Stato e la Regione. A sua volta, il Piano regolatore è stato concepito come proiezione sulla forma urbana di una strategia che riguardava la collocazione della città nel contesto globale e nell'intorno territoriale prossimo, dunque l'assetto amministrativo, la base economica e i servizi alla popolazione.

Venezia aveva conosciuto un momento di radicale trasformazione nei primi anni del Novecento, quando erano state urbanizzate Marghera e il Lido, ma, a differenza di allora, gli interventi di fine millennio non sono stati frutto della volontà di un solo o pochi imprenditori, bensì di un'amministrazione democraticamente eletta, che le ha discusse e condivise con i cittadini. Al Piano strategico, che si è innestato sul Piano regolatore, partecipano tutti gli attori rilevanti sulla scena locale.

Nel corso del decennio questa strategia si è necessariamente modificata: sono cambiati i problemi ma anche le condizioni esterne, dunque gli strumenti a disposizione; sono cambiati in parte i soggetti, dunque le volontà. Non bisogna stupirsi che alcune idee iniziali e molti progetti siano stati modificati o lasciati cadere, sia durante il decennio che esaminiamo sia in seguito. Del resto, la flessibilità e il realismo facevano parte proprio del discorso strategico preannunciato. Non è sulla base della coerenza o meno con il disegno iniziale che si deve valutare quanto è avvenuto in seguito. Nemmeno ci si può stupire che lo slancio innovatore non sia stato costante nel tempo. Chi vorrà, in futuro, esprimere un giudizio dovrà domandarsi piuttosto se così si sia meglio risposto ai problemi della città, che sono quelli di lunga durata, eppure nel tempo si sono presentati aspetti di volta in volta diversi; è giusto chiedersi, però, se nel tempo a un disegno ne sia subentrato un altro, ugualmente coerente, o solo un operare episodico.

Il resoconto di quanto è stato progettato e realizzato non può prescindere da un richiamo, per quanto sintetico, al contesto politico, economico, istituzionale in cui si è operato. La vicenda prende l'avvio negli anni in cui, in Italia, i partiti apparivano delegittimati dalla vicenda di Tangentopoli ed erano diffuse aspettative di rinnovamento della politica sia nelle persone e nei metodi di governo, sia negli assetti istituzionali. Da molte parti si chiedeva alla pubblica amministrazione di alleggerire la propria presenza nella società e allo Stato di riformarsi in senso federale, assegnando a questa espressione significati diversi, che comunque rappresentavano per gli enti locali una nuova sfida.

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PORTOMARGHERA: UN PIANO SINGOLARE

Il nuovo Piano regolatore comincia da Portomarghera, con un Piano urbanistico insolito anche negli obiettivi. In quest'area di oltre 2.000 ettari, che ha inquinato circa una volta e mezza la superficie direttamente occupata e ospita tuttora, in fregio alla laguna, lavorazioni pericolose nei cui confronti sta crescendo l'ostilità dell'opinione pubblica, l'occupazione è passata dai 35.000 addetti del 1975 agli attuali 12.000, in un periodo in cui il resto del sistema produttivo veneto conosceva il suo massimo successo. Rispetto a questi fatti, la necessità, che pure esiste, di un riordino fisico, poteva apparire un problema minore.

La decisione, presa fin dall'inizio dall'Amministrazione comunale, di puntare sulla riconversione produttiva anziché guidarne la dismissione era dettata proprio dalla gravità dei problemi: bisognava prefigurare un futuro in cui trovare le risorse necessarie per riparare ai danni del passato. D'altra parte, Portomarghera è anche una grande risorsa: per la chimica di gran parte dell'Italia settentrionale, di cui innesca la filiera; per il sistema produttivo Veneto che, dopo averla vista crescere come un corpo estraneo, l'ha assimilata e ne dipende; per la città, di cui rappresenta — con il porto, di cui è estensione e che in parte contiene — l'unica alternativa alla deriva della base economica veneziana verso la monocultura turistica.

Perché, dunque, un Piano urbanistico? Effettivamente questa prima VPRG, che nasce con tutto lo slancio da cui partiva la coraggiosa decisione del Piano regolatore, deborda immediatamente dai propri confini in senso sia fisico che disciplinare: ha l'ambizione di essere strumento di politica urbana, unendo disegno e gestione; si proietta oltre il perimetro dell'area assegnata collegandosi al ridisegno delle aree adiacenti e prefigurando uno schema degli accessi all'intera città.

Portomarghera, se nasce da Venezia, resta tuttavia un'enclave sottratta fisicamente e giuridicamente alla città: creata con una legge dello Stato e successivamente, anche dopo la fine del fascismo, pianificata da parte di soggetti diversi dagli enti locali, accettata dal PRG del 1962 come indiscutibile, è difficilmente accessibile e tuttavia contigua ad aree residenziali pregevoli – la città giardino degli anni venti, che si era intanto provveduto a tutelare con una VPRG apposita – e, soprattutto, a quelle destinate alla nuova centralità metropolitana nel disegno del Progetto preliminare al PRG che si andava delineando. La Variante per Portomarghera è dunque un'occasione per riconciliare anche fisicamente la zona industriale con il resto della città, ridisegnandone i margini in coerenza con i progetti per la riqualificazione delle aree adiacenti, ai quali si sta contemporaneamente lavorando.

Quando si comincia a pensare di redigere la nuova VPRG, non è nemmeno chiaro se l'Amministrazione comunale abbia la competenza giuridica per farlo. Per molti anni si era trascinata una controversia tra il Comune, da un lato, che sosteneva di avere il diritto-dovere di pianificare tutto il proprio territorio e dall'altro la Regione e l'Autorità portuale, che ritenevano l'area di Portomarghera sottratta alla legislazione urbanistica ordinaria e dunque alle competenze del Comune. D'altra parte, la Regione si era già espressa con il PALAV e il Comune è da sempre protagonista nella politica per Portomarghera: con i finanziamenti della legge speciale per Venezia aveva acquisito un importante patrimonio di aree libere o dismesse, che potevano ora essere messe in gioco per innescare la riconversione. La nuova Amministrazione comunale decide di superare l'impasse affidando la redazione del Piano urbanistico a un gruppo di lavoro cui partecipano la Regione e l'Autorità portuale. All'interno del gruppo, superate le iniziali diffidenze, si sono trovate abbastanza facilmente soluzioni condivise.

Gli obiettivi, si è detto, non sono solo urbanistici né lo sono gli strumenti: al progetto di riordino fisico – che comporta, come di consueto, il ridisegno della viabilità, la classificazione dei manufatti di pregio, l'individuazione delle necessarie aree verdi e di quelle da sottoporre a eventuali strumenti attuativi – sono collegate le operazioni immobiliari che il Comune avvia, utilizzando le aree di sua proprietà; le norme subordinano il riuso delle aree al disinquinamento dei suoli. Parallelamente, altri uffici del Comune mettono a punto il Piano per la gestione del rischio industriale. A sua volta, la Regione interviene nella riconversione e urbanizzazione delle aree mettendo a disposizione i fondi strutturali europei. Il Porto accetta di collocare il proprio Piano regolatore all'interno del quadro delineato dalla VPRG, che ha contribuito a definire; tutto il processo è condiviso da un apposito tavolo di concertazione, al quale partecipano sindacati e associazione industriali. Si tenta, inutilmente, di coinvolgere lo Stato attraverso la task force del Ministero del Lavoro: alla fine si dimostrerà una buona idea quella di aver puntato soprattutto su forze locali.

D'altro canto, il disegno strettamente urbanistico diventa premessa alla pianificazione dell'intera città. Si comincia da un'intesa tra tutti i soggetti interessati, che riguarda gli interventi infrastrutturali da considerare prioritari per l'accessibilità alla zona industriale ma anche a tutta l'area urbana.

Sul margine nord, lungo la strada che immette al ponte transalgunare, al posto delle industrie più vecchie di Marghera, da tempo dismesse, sta già nascendo il Parco Scientifico e Tecnologico, alla cui società il Comune partecipa insieme alla Provincia e alle università locali. Il primo edificio viene realizzato nel 1996 e due anni dopo il secondo. Scriviamo mentre è stato da poco approvato il Piano per l'ulteriore estensione all'area dismessa dai depositi costieri dell'Agip, dove potranno trovar posto altri 1.800 lavoratori che si aggiungeranno ai 1.500 già insediati.

Non lontano, altri progetti cominciano a dare corpo al nuovo centro: oltre la ferrovia, le università veneziane vogliono creare i loro primi insediamenti in terraferma; il Comune sta per realizzare il Parco San Giuliano, che verrà inaugurato nel 2002; gli strumenti urbanistici attuativi, ai quali si lavora contemporaneamente (cfr. tabella 2), consentiranno presto la riconversione di due aree sul lato sud della stazione di Mestre: un insediamento terziario privato e un parco (via Ulloa), di cui si è recentemente approvata l'estensione, e un incubatore per aziende artigiane (ex Vidal).

La bella strada alberata — via Fratelli Bandiera — che delimita la zona industriale a ovest, separandola dalla città giardino, deve essere liberata dal traffico industriale e restituita all'uso urbano: la VPRG, nel ridisegnare tutta la viabilità di adduzione e interna a Portomarghera, crea un asse parallelo, ampliando l'esistente via dell'Elettricità; la realizzazione è prevista per tratti come opera di urbanizzazione risultante dalla riconversione, ormai economicamente matura, degli insediamenti che la fronteggiano a usi terziari e direzionali. Questa previsione è oggi in corso di realizzazione, anche se con strumenti giuridici diversi da quelli inizialmente ipotizzati. La nuova strada prosegue nel ponte strallato, progettato da Alberto Novarin e ora quasi ultimato (fig. p. 48), che immette nella cosiddetta isola portuale, dove, a seguito di uno scambio di aree con il Comune, il porto ha concentrato l'attività commerciale, in modo da dedicare al solo traffico passeggeri l'area della vecchia Marittima.

La VPRG dilata i suoi effetti anche sulla città antica, dove lo scambio di aree tra il Comune e il porto dovrebbe restituire alla città l'area di San Basilio, che si vorrebbe riportare a un assetto più coerente con il resto della città prenapoleonica, di cui fa parte. Le cose sono poi andate diversamente: comunque l'area di San Basilio, per tanto tempo punto franco inaccessibile, è tornata a far parte della città frequentabile dagli abitanti: alcuni dei magazzini portuali sono stati acquistati dalle due università ed è stato abbattuto il muro che toglieva il sole al quartiere retrostante.

La riconversione di Portomarghera si è rivelata un percorso accidentato, forse più di quanto si prevedesse allora. Nel tempo sono diventati sempre più evidenti la gravità dell'inquinamento dei suoli e la pericolosità di certe lavorazioni. Alcune delle aree di proprietà del Comune non sono ancora utilizzate proprio perché troppo inquinate. Le risorse messe in campo per le bonifiche sono poche in confronto ai danni emersi e agli standard più rigorosi definiti successivamente dallo Stato, ma il processo è avviato, probabilmente in modo irreversibile: il 35% dei terreni è oggi risanato e sul 44% la bonifica è in corso. La riconversione avviene a piccoli passi: il Porto, accordandosi con le Ferrovie e l'amministrazione doganale, ha razionalizzato il proprio insediamento; da poco ha preso avvio la realizzazione di un importante centro per la logistica; altre aziende stanno riconvertendo le lavorazioni; la cantieristica si sta espandendo e molto più le attività connesse alla ricerca e innovazione. La tabella 3 mostra i piani attuativi messi a punto per Marghera dopo l'approvazione della VPRG: riguardano quasi tutti la zona industriale e il loro numero testimonia un'intensa attività orientata alla riconversione.

Permangono, è vero, attività pericolose nei cui confronti cresce la preoccupazione, ma se questo problema troverà una soluzione che non sia la chiusura repentina delle lavorazioni chimiche, si può credere a un futuro in cui l'area industriale sarà risanata.

Se questo è il bilancio, si può dire che il Piano per Portomarghera è un esempio di come l'urbanistica, quando si fa non solo disegno e regole ma anche gestione, coordinandosi con strumenti e poteri diversi, può dare un contributo alla soluzione di problemi che non sono urbanistici in senso stretto. Da tempo la teoria della pianificazione mette in guardia dal confondere il Piano disegnato con il Piano strategico, affidando al primo compiti che non può assumersi. La Variante al PRG per Portomarghera è stata efficace perché, pur con i limiti dello strumento urbanistico, era un tassello di una più ampia politica urbana, costituita da molti strumenti coordinati e resa possibile da quel clima, non facilmente ripetibile, di coesione all'interno dell'amministrazione, che a sua volta rendeva il Comune forte abbastanza per collaborare pariteticamente con altri poteri.

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LA CITTΐ ANTICA: UN CORAGGIOSO COMPROMESSO

La tutela dettagliata del tessuto edilizio antico con regole certe – esigenza così ovviamente primaria – nel 1995 era ancora irrisolta. Tra le prime città per cui il problema era stato posto, Venezia restava tra le ultime in Italia ad averlo ancora aperto. Già il PRG del 1959 aveva rimandato la soluzione a un grande Piano particolareggiato, mai redatto. Poi, la legge speciale per Venezia del 1973 aveva imposto un complicato meccanismo a cascata: piani particolareggiati per tutta la città, all'interno dei quali dovevano inserirsi piani di comparto: solo la prima delle due fasi era stata espletata e, trascorso il tempo fissato dalla legge, ne era decaduta l'efficacia senza che il processo fosse portato a compimento. La tutela generale posta dalla legge speciale impediva, attraverso la commissione di Salvaguardia, gli interventi incongrui – ancora praticati negli anni sessanta, quando si sopraelevavano palazzi e si edificava nei giardini – ma, in assenza di un Piano, le decisioni avvenivano caso per caso, senza regole certe.

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LE ISOLE E L'ACQUA

Venezia nasce come arcipelago e così è stata vissuta dagli abitanti, fino alla caduta della Repubblica. Questo evento, catastrofico per la città, lo è stato molto più per la laguna. Le isole minori, che prima ospitavano monasteri frequentati quotidianamente, vengono riconvertite a usi militari o sanitari e si chiudono alla generalità della popolazione. Quando a Venezia ci si spostava in barca, le isole erano vicine; oggi appaiono distanti, anche se ci abitano complessivamente 35.000 persone.

Alcune isole hanno origini più antiche di quella che chiamiamo correntemente Venezia e hanno goduto in passato di autonomia amministrativa; ognuna, tra quelle ancora abitate, ha cultura e problemi propri, tutte hanno quello dell'accessibilità. Il Piano regolatore era lo strumento giusto per affrontare i problemi di ogni isola in un contesto adeguato. Per quasi tutte lo spazio edificabile era saturo: bisognava escludere nuove espansioni e lavorare solo sulla riconversione dell'esistente, valorizzandolo.

«Valorizzare» è un verbo chiave in urbanistica, che può assumere vari significati.

Murano è un singolare caso di città preindustriale giunta fino a noi senza discontinuità: non solo come spazi fisici antichi oggi usati per funzioni nuove, ma proprio nella coincidenza di spazi e usi originari. La duplice dimensione di questa continuità è l'oggetto prezioso che il Piano cerca di tutelare e, naturalmente, valorizzare. Per fortuna oggi l'industria del vetro è orientata all'alta qualità e può solo trarre vantaggio dalla tutela dell'ambiente costruito. La presenza nel nucleo antico di tipi edilizi analoghi a quelli presenti in tutta Venezia è stata l'occasione per sperimentare una classificazione tipologica innovativa e norme che coniugassero la valorizzazione dei caratteri originari dei manufatti con le esigenze funzionali della produzione. A nord dell'abitato, nella grande Sacca San Mattia, finora usata come discarica di inerti, il Piano colloca un punto d'interscambio con la terraferma. Questo terminal, pensato in un primo tempo per i mezzi d'acqua, nel PRUSST per il recupero dell'Arsenale è destinato a diventare una piattaforma logistica e una stazione della sublagunare: in ogni caso, permetterà a Murano di valorizzare la propria vicinanza all'aeroporto.

Per il Lido, la puntuale ricognizione degli edifici di pregio – nei piccoli nuclei preottocenteschi ma soprattutto nella città-giardino novecentesca, che caratterizza l'isola – e dei valori naturalistici presenti alle due estremità, poi incluse tra i siti tutelati dall'Unione Europea, portò a constatare che non c'era sostanzialmente più spazio per nuove edificazioni.

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