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| << | < | > | >> |Pagina 9A Windsor quella sera c'era il banchetto ufficiale, e mentre il presidente francese si affiancava a Sua Maestà la famiglia reale si schierò alle loro spalle, e la processione si avviò lentamente verso la sala Waterloo.«Adesso che possiamo parlarle a quattrocchi,» disse la regina sorridendo a destra e a sinistra mentre avanzavano fra gli ospiti sfolgoranti «vorremmo tanto chiederle la sua opinione sullo scrittore Jean Genet». «Ah» disse il presidente. «Oui». La Marsigliese e l'inno nazionale li costrinsero a interrompersi, ma una volta seduti Sua Maestà riprese da dove era rimasta. «Omosessuale e avanzo di galera... ma era davvero come l'hanno dipinto? E il suo talento» e sollevò il cucchiaio da consommé «era davvero così straordinario?». Non essendo stato ragguagliato sul glabro drammaturgo e romanziere, il presidente si guardò attorno stravolto in cerca del ministro della Cultura. Ma costei era immersa in conversari con l'arcivescovo di Canterbury. «Jean Genet,» ripeté premurosa la regina «vous le connaissez?». «Bien sùr» disse il presidente. «Il nous intéresse» ribadì Sua Maestà. «Vraiment?».
Il presidente posò il cucchiaio. Lo attendeva una lunga serata.
Fu tutta colpa dei cani. Di norma, dopo aver scorrazzato in giardino salivano da veri snob i gradini dell'ingresso principale, e generalmente li faceva entrare un valletto in livrea. E invece quel giorno, per qualche ragione, si precipitarono di nuovo giù dai gradini, girarono l'angolo e la regina li sentì abbaiare a squarciagola in uno dei cortili. La biblioteca circolante del distretto di Westminster, un grande furgone come quelli dei traslochi, era parcheggiata davanti alle cucine. Era un'ala del palazzo che a Sua Maestà non era molto familiare, e certo non aveva mai visto la biblioteca parcheggiata lì, vicino ai bidoni della spazzatura, e neppure l'avevano mai vista i cani, il che spiegava tutto quel baccano; così la regina, non essendo riuscita a zittirli, salì gli scalini del furgone per andare a scusarsi. L'autista, seduto di spalle, stava attaccando un'etichetta su un libro, e sembrava che l'unico frequentatore della biblioteca fosse un ragazzo magrolino coi capelli rossi e un grembiule bianco, che leggeva rannicchiato nel passaggio. Poiché nessuno dei due aveva notato la nuova arrivata, lei tossicchiò e disse: «Mi spiace per questo tremendo chiasso». Al che l'autista si alzò di scatto e batté la testa contro lo scaffale dei Dizionari, mentre il ragazzo balzò a sua volta in piedi ribaltando Fotografia & Moda. La regina si affacciò allo sportello. «Zitte, sciocche creature» disse; una mossa mirata a dare all'autista-bibliotecario il tempo di ricomporsi e al ragazzo di raccogliere i libri, come puntualmente accadde. Poi aggiunse: «Non l'abbiamo mai vista da queste parti, signor...». «Hutchings, Maestà. Tutti i mercoledì, signora». «Davvero? Ne eravamo all'oscuro. Viene da lontano?». «Solo da Westminster, Maestà». «E lei...?» domandò rivolta al ragazzo. «Norman, Maestà. Seakins». «E dove lavora?». «Nelle cucine, Maestà». «Oh. Lei ha molto tempo per leggere?». «Non proprio, Maestà». «Nemmeno noi, sa. Anche se adesso che siamo qui, immaginiamo sia il caso di prendere in prestito un libro». Il signor Hutchings sorrise con aria premurosa. «Ci saprebbe dare un consiglio?» disse la regina. «Cosa le piace, Maestà?». La regina esitò, perché a dire il vero non lo sapeva. Non aveva mai avuto molto interesse per la lettura. Leggeva, naturalmente, ma la passione per i libri la lasciava agli altri. Era un hobby e la natura del suo mandato non prevedeva hobby. Il jogging, il giardinaggio, gli scacchi, l'alpinismo, l'aeromodellismo, la decorazione delle torte... No. Gli hobby implicavano predilezioni e le predilezioni andavano evitate; prediligere significava anche escludere. Quindi lei non prediligeva. Il suo mandato le richiedeva di manifestare interesse, non di provarlo. Inoltre, leggere non era agire, e lei era una donna d'azione. Così perlustrò con lo sguardo il furgone tappezzato di libri e temporeggiò. «Occorre una tessera per prendere libri in prestito?». «Non c'è problema» disse il signor Hutchings. «Noi siamo in pensione» dichiarò la regina, non sapendo bene se facesse differenza. «Può prendere in prestito fino a sei libri, Maestà». «Sei? Oh, santo cielo!». Intanto il ragazzo coi capelli rossi aveva fatto la sua scelta e diede il libro al bibliotecario perché timbrasse le schede all'interno. Sempre per prendere tempo, la regina guardò il volume. «Cos'ha scelto, signor Seakins?» aspettandosi, be', non sapeva cosa – ma non quello. «Oh. Cecil Beaton. L'ha conosciuto?». «No, Maestà». «Già, certo, lei è troppo giovane. Veniva sempre qui a fare foto. Un po' prepotente. Si metta lì, si metta là. Clic, clic. E adesso c'è un libro su di lui?». «Diversi, Maestà». «Davvero? Si vede che prima o poi scrivono un libro su tutti quanti». Lo sfogliò. «Ci sarà un mio ritratto da qualche parte. Eccolo qui. Però lui non faceva solo il fotografo, disegnava anche scenografie. Oklahoma, cose del genere». «Penso che fosse My Fair Lady, Maestà». «Ah sì?» disse la regina, poco avvezza a esser contraddetta. «Dove ha detto che lavora, lei?». Rimise il libro nelle manone arrossate del ragazzo. «Nelle cucine, Maestà». | << | < | > | >> |Pagina 20[...] La regina sorrise. Che fortuna aver trovato Norman! Sapeva di incutere soggezione; pochi domestici riuscivano a essere spontanei con lei. Ma Norman, per quanto strambo, era solo e soltanto se stesso. Una vera rarità.Sua Maestà avrebbe moderato l'entusiasmo se avesse saputo che Norman non era intimidito perché la vedeva talmente decrepita che il suo status finiva per essere cancellato dal peso degli anni. Sarà anche stata la regina, ma era pur sempre una vecchietta, e dato che la prima esperienza lavorativa di Norman era stata in un ospizio di Tyneside, gli anziani gli apparivano ben poco temibili. La regina era la sua principale, ma per lui era quasi una paziente, e andava blandita sia come paziente sia come regina. Salvo poi ricredersi quando si rese conto di quant'era sveglia, e quanto sprecata. Ma Sua Maestà era anche molto convenzionale, e quando aveva cominciato a leggere aveva ritenuto di doverlo fare, almeno in parte, nel luogo deputato, vale a dire la biblioteca. Ma anche se si chiamava così e le pareti erano tappezzate di libri, era rarissimo che qualcuno vi andasse a leggere. Lì si proclamavano ultimatum, si disegnavano confini, si compilavano libri di preghiere e si decidevano matrimoni, ma per chi volesse raccogliersi a leggere un libro, la biblioteca non era il posto giusto. Non era facile allungare la mano e prendere un libro, nemmeno dai cosiddetti scaffali aperti, che in realtà erano sequestrati dietro grate dorate chiuse a chiave. Il fatto che molti di essi fossero di valore inestimabile costituiva un ulteriore deterrente. No, se proprio si voleva leggere, meglio farlo in un posto non allestito allo scopo. Così la regina si sentì legittimata a tornarsene ai piani superiori. Dopo aver finito anche il seguito di Nancy Mitford, Amore in climi freddi, la regina esultò nell'apprendere che ce n'erano altri; alcuni sembravano un po' datati, ma li inserì ugualmente nella lista di letture (appena iniziata) che teneva nello scrittoio. Nel frattempo andò avanti con il libro che le aveva preso Norman, La mia cagna Tulip di J.R. Ackerley. (Chissà se aveva mai incontrato l'autore? Le pareva di no). Il libro le piacque, se non altro perché, come le aveva detto Norman, il cane di cui si narrava era ancora più pestifero dei cani reali e quasi altrettanto inviso. Vedendo che Ackerley aveva scritto anche un'autobiografia, la regina chiese a Norman di andarla a prendere in prestito alla London Library. Sua Maestà patrocinava la biblioteca, ma non ci aveva quasi mai messo piede; figurarsi Norman, che però tornò pieno di meraviglia e di entusiasmo. Quel luogo era un pezzo d'antiquariato, il tipo di biblioteca di cui aveva letto sui libri e che si era immaginato relegata al passato. Aveva vagato in quel labirinto di scaffalature senza capacitarsi che tutti quei libri fossero lì perché lui (o piuttosto Lei) potessero prenderli in prestito a proprio piacimento. Il suo entusiasmo fu talmente contagioso che Sua Maestà meditò di accompagnarlo la volta successiva. La regina lesse il racconto della vita di Ackerley; provò una modica sorpresa nell'apprendere che, pur lavorando per la BBC, era omosessuale; le pareva che nell'insieme la sua vita doveva esser stata triste. Il suo cane la incuriosiva, anche se la sconcertavano le intimità quasi veterinarie che l'autore elargiva alla creatura. Si stupì anche che le guardie reali si concedessero così di buon grado come rivelava il libro, e a prezzi davvero ragionevoli. A corte ce ne erano parecchie, di guardie reali, e le sarebbe piaciuto saperne di più, ma nonostante la curiosità non si sentì di far domande. Nel libro compariva anche E.M. Forster , con cui la regina ricordava di aver passato un'impacciata mezzora conferendogli il titolo di Companion of Honour. Timido e con la faccia da topo, aveva detto due parole in tutto e con una vocina talmente sommessa che le era stato quasi impossibile comunicare con lui. Ma quell'uomo riservava delle sorprese. Seduto con le dita intrecciate come un personaggio di Alice nel Paese delle Meraviglie, non lasciò trapelare cosa gli passasse per la testa: così Sua Maestà, leggendo la sua biografia, fu piacevolmente sorpresa nello scoprire che, molto tempo dopo, Forster aveva dichiarato che se la regina fosse stata un ragazzo si sarebbe innamorato di lei. Naturalmente Forster non avrebbe potuto dirglielo di persona, questo la regina lo capiva, ma più leggeva più le rincresceva intimidire tanto le persone; le sarebbe piaciuto che gli scrittori, in particolare, avessero il coraggio di dirle quello che poi avrebbero scritto. Stava anche scoprendo che un libro tira l'altro; ovunque si voltava si aprivano nuove porte e le giornate erano sempre troppo corte per leggere quanto avrebbe voluto. Ma era dispiaciuta, e anche mortificata, al pensiero di tutte le occasioni che si era lasciata sfuggire. Da bambina aveva incontrato Masefield e Walter de la Mare; era ovvio che allora non potesse avere molto da dirgli, ma si era trovata davanti anche T.S. Eliot , oltre a Priestley, Philip Larkin e perfino Ted Hughes. Per Hughes si era presa una piccola cotta, anche se lui non era riuscito a spiccicare una parola in sua presenza. Ed era andata così perché all'epoca aveva letto talmente poco di quello che avevano scritto da non avere argomenti; e loro del resto non avevano detto molto che avesse suscitato il suo interesse. Che spreco! La regina fece l'errore di lamentarsene con Sir Kevin. «Ma qualcuno l'avrà pure ragguagliata, Maestà?». «Certamente,» disse la regina «ma ragguagliare non è leggere. Anzi, è l'esatto contrario. Il ragguaglio è succinto, concreto e pertinente. La lettura è disordinata, dispersiva e sempre invitante. Il ragguaglio esaurisce la questione, la lettura la apre». «Se mi consente, sarebbe il caso di tornare alla visita al calzaturificio, Maestà» disse Sir Kevin.
«La prossima volta» tagliò corto la regina. «Dove ho messo il mio libro?».
Adesso che aveva scoperto le gioie della lettura, Sua Maestà era impaziente di trasmetterle agli altri. «Lei legge, Summers?» chiese all'autista sulla strada per Northampton. «Se leggo, Maestà?». «Libri». «Quando posso, Maestà. Non è che abbia molto tempo». «Dicono tutti così. Ma il tempo bisogna ritagliarselo. Prenda stamattina: dovrà star seduto ad aspettarmi fuori dal municipio. Potrebbe approfittarne per leggere». «Devo sorvegliare l'auto, Maestà. Quelle sono le Midlands. Il vandalismo è all'ordine del giorno». Non appena la regina fu consegnata incolume nelle mani del rappresentante della Corona, Summers fece un giro precauzionale attorno all'auto prima di accomodarsi sul sedile. Leggere? Certo che leggeva. Tutti leggono. Aprì il vano portaoggetti e prese la sua copia del «Sun». Altri, specialmente Norman, erano più disponibili, e la regina non gli nascondeva l'inadeguatezza del proprio bagaglio culturale. «Lo sa,» gli disse un pomeriggio mentre leggevano nel suo studio «lo sa dov'è che potrei veramente eccellere?». «No, Maestà». «Nei quiz a premi dei pub. Sono stata ovunque, ho visto tutto e anche se posso avere delle lacune nella musica pop e in certi sport, quando si tratta della capitale dello Zimbabwe, per esempio, o delle principali esportazioni del New South Wales, non ne sbaglio una». | << | < | > | >> |Pagina 28«È importante» disse Sir Kevin «che Sua Maestà non perda di vista gli obiettivi».«Quando dice "non perdere di vista gli obiettivi", Sir Kevin, immagino intenda stare sulla palla. Be', dopo esserci stata per sessant'anni, penso di potermi guardare un po' intorno». La regina si accorse di aver un po' stiracchiato la metafora, ma tanto Sir Kevin non se ne era accorto. «Capisco» disse lui. «Sua Maestà deve passare il tempo». «Passare il tempo?» esclamò la regina. «I libri non sono un passatempo. Parlano di altre vite. Di altri mondi. Altro che far passare il tempo, Sir Kevin; non so cosa darei per averne di più. Per passare il tempo si può sempre andare in Nuova Zelanda». Sentendo tirare in ballo due volte il proprio nome, e una volta la Nuova Zelanda, il segretario si ritirò offeso. In ogni caso aveva detto quello che pensava, e magari si sarebbe fregato le mani se avesse saputo che la regina ne era rimasta turbata: non capiva come mai, proprio in quella fase della sua vita, all'improvviso avesse sentito il richiamo dei libri. Da dove le veniva quella smania? In fondo erano in pochi ad aver girato il mondo come lei. Si contavano sulle dita di una mano i paesi che non aveva visitato, le personalità che non aveva incontrato. Perché mai lei, che faceva parte del Gotha del mondo, adesso era allettata dai libri, che del mondo erano solo un riflesso, o una riproduzione? I libri? Lei aveva già visto le cose dal vero. «Forse» disse a Norman «leggo perché sento di dover indagare la natura degli esseri umani», un'osservazione piuttosto trita che Norman non degnò di particolare attenzione; lui si sentiva esentato da quell'obbligo e leggeva per puro piacere e non per trarne una rivelazione. Parte del piacere, è vero, era la rivelazione, ma non aveva niente a che fare con il dovere. Tuttavia, per una persona come la regina, il piacere era sempre venuto dopo il dovere. Se si sentiva in obbligo di leggere, poteva farlo con la coscienza pulita, col piacere, se ne provava, come valore aggiunto. Ma perché adesso la lettura la assorbiva così tanto? Non sottopose la questione a Norman, perché era evidente che c'entrava con chi era lei e con la posizione che ricopriva. L'attrattiva della letteratura, rifletté, consisteva nella sua indifferenza, nella sua totale mancanza di deferenza. I libri se ne infischiavano di chi li leggeva; se nessuno li apriva, loro stavano bene lo stesso. Un lettore valeva l'altro e lei non faceva eccezione. La letteratura, pensò, è un commonwealth; le lettere sono una repubblica. In realtà quell'espressione, la repubblica delle lettere, l'aveva già sentita nei discorsi dei rettori, alle lauree ad honorem e simili, senza aver mai capito bene cosa significasse. All'epoca aveva ritenuto leggermente offensivo qualsiasi riferimento a una qualunque repubblica; se poi il riferimento avveniva in sua presenza, come minimo lo considerava una mancanza di tatto. Solo adesso afferrava il senso di quell'espressione. I libri non sono per nulla ossequiosi. Tutti i lettori sono uguali, e questo le risvegliò un ricordo di quand'era bambina. Uno dei momenti più elettrizzanti della sua infanzia era stata la Notte della Vittoria, quando lei e sua sorella erano sgattaiolate fuori dai cancelli e si erano mescolate alla folla in incognito. Leggere le dava una sensazione simile: la gioia dell'anonimato; della condivisione; della normalità. Lei, che aveva vissuto una vita diversa dalle altre, scopriva di avere un estremo bisogno di tutto questo. Fra le pagine e dentro le copertine poteva passare inosservata. Questi dubbi e interrogativi, però, se li pose solo all'inizio. Una volta preso l'avvio, la voglia di leggere non le sembrò più strana e i libri, a cui si era accostata con tanta cautela, a poco a poco divennero il suo elemento. | << | < | > | >> |Pagina 62Intanto a palazzo tutto procedeva liscio come sempre; gli spostamenti da Londra a Windsor, nel Norfolk o in Scozia non comportavano grande impegno, perlomeno da parte della regina, che a volte finiva per sentirsi superflua, come se in quelle continue traslazioni non ci fosse alcuna considerazione per la persona che ne era al centro. Era un rituale di partenze e di arrivi in cui lei era solo un bagaglio; il più importante, nessuno lo negava, ma sempre e comunque un bagaglio.Comunque quelle peregrinazioni andavano meglio che in passato, perché lei era sempre sprofondata in un libro. Sua Maestà saliva in auto a Buckingham Palace e scendeva a Windsor senza abbandonare un attimo il Capitano Crouchback nell'evacuazione di Creta. Volava in Scozia felicemente accompagnata da Tristram Shandy (che a tratti la esasperava) e se si annoiava c'era sempre Trollope a portata di mano. A furia di leggere, la regina era diventata una viaggiatrice remissiva e per nulla esigente. Certo, non spaccava più il minuto come un tempo, e l'auto in attesa sotto il baldacchino in cortile, con il duca sempre più stizzito sul sedile di dietro, era ormai uno spettacolo familiare. La regina invece, quando alla fine si decideva a salire in auto, non era mai stizzita; dopotutto aveva il suo libro. A palazzo, però, non avevano quel conforto, e gli attendenti diventavano sempre più critici e spazientiti. L'attendente, per quanto squisitamente educato, resta in sostanza un direttore di scena; sempre pronto a porgere i suoi ossequi, sa che si tratta di una recita: lui (raramente una lei) si ocupa della regia e Sua Maestà interpreta il ruolo principale. Anche gli spettatori - e quando si tratta della regina sono tutti spettatori - sanno che è una recita, ma cercano di convincersi che non lo sia fino in fondo, e di pensare che, al di là della finzione, ogni tanto sia dato sorprendere un comportamento più «naturale», più «reale», per esempio cogliendo casualmente una frase («Muoio dalla voglia di un gin tonic» detto dalla regina madre, o «Maledetti cagnacci» dal duca di Edimburgo) o intravedendo Sua Maestà che si siede a una festa in giardino e si toglie le scarpe con grande soddisfazione. Anche se, a ben vedere, quei momenti in apparenza più spontanei sono pur sempre una messinscena, come quella della famiglia reale nella sua veste più ieratica. Questo spettacolo, o meglio teatrino, si potrebbe chiamare la simulazione della normalità, ed è artefatto quanto la più solenne apparizione pubblica, anche se chi vi assiste o capta qualche discorso crede di vedere la regina nella sua versione più umana e genuina. Formalità e informalità, tutto rientra in quella rappresentazione allestita dagli attendenti e che, tranne i momenti che paiono fuori dal copione, agli occhi del pubblico è di fatto impeccabile. A poco a poco però gli attendenti notarono che gli scorci di «verità» erano sempre più rari. Pur essendo ligia ai suoi doveri, Sua Maestà a quello si limitava: non fingeva più, per così dire, di uscire dai ranghi e ormai di rado si lasciava andare ai suoi commenti estemporanei («Attento,» diceva magari appuntando una medaglia sul petto di un giovanotto «non vorrei infilzarle il cuore»), tutte frasi di cui far tesoro, insieme al biglietto d'invito, al permesso speciale di parcheggio e alla cartina del palazzo. Ultimamente la regina era formale e sorridente, ma evitava le sortite pseudospigliate con cui era solita animare gli eventi. «Brutto spettacolo» pensavano gli attendenti in senso letterale, un «brutto spettacolo» in cui Sua Maestà aveva recitato male. Ma non potevano certo farglielo notare, perché complici nella finzione che quei momenti fossero genuini sprazzi d'umorismo da parte di Sua Maestà. Un giorno fu la volta di un'investitura. «È stata meno spontanea, stamattina, Maestà» si azzardò a dire uno degli attendenti più audaci. «Davvero?» si stupì lei, che un tempo non avrebbe nemmeno accettato una critica così blanda, mentre adesso non le faceva né caldo né freddo. «Credo di sapere perché. Vede, Gerald, quando sono inginocchiati e vedo le loro teste chine, non posso non trovare commoventi anche i personaggi più sgradevoli: un accenno di pelata, i capelli sul colletto. Vengono quasi dei sentimenti materni». L'attendente, col quale la regina non si era mai confidata in quel modo e che avrebbe dovuto sentirsene lusingato, provò solo disagio e imbarazzo. Era un lato davvero umano della sovrana di cui non si era mai reso conto e che (a differenza delle versioni contraffatte) non gradiva molto. E se da parte sua la regina riteneva che potessero essere le letture a suscitarle quei sentimenti, il giovanotto sospettò che fosse il passare degli anni, e fu così che i primi cedimenti emotivi vennero scambiati per un principio di senilità. Da sempre refrattaria all'imbarazzo, anche a quello che poteva suscitare negli altri, la regina una volta non avrebbe fatto caso alla confusione dell'attendente. Ma adesso la notò, e decise che in futuro si sarebbe guardata dall'esprimere i suoi pensieri in maniera così intima – anche se era un peccato, perché era quello che gran parte della nazione voleva da lei. Decise invece di affidare le sue confidenze ai taccuini, dove non potevano nuocere a nessuno. La regina non era mai stata espansiva; l'avevano educata a non esserlo, ma negli ultimi anni, in particolare dopo la morte della principessa Diana, sempre più spesso le veniva chiesto di esternare dei sentimenti che avrebbe preferito tenere per sé. All'epoca, però, non aveva ancora cominciato a leggere, e solo ora si rendeva conto di condividere con altri quelle difficoltà; per esempio con Cordelia. La regina scrisse sul taccuino: «Anche se Shakespeare non lo capisco sempre, quando Cordelia dice "non riesco a trarre il cuore in bocca" condivido appieno il suo sentimento. Il suo problema è il mio». La regina cercava di non farsi notare quando scriveva sul taccuino, ma questo non bastò a rassicurare il suo attendente. Un paio di volte l'aveva sorpresa a prendere appunti, e aveva pensato che anche questo fosse indice di turbe psichiche. Cos'aveva da scrivere Sua Maestà? Non si era mai comportata così, e il cambiamento venne attribuito all'età.
«Avrà l'Alzheimer» disse un altro giovanotto.
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