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| << | < | > | >> |Pagina 13La prima volta che la vidiLa prima volta che la vidi avevo quindici anni. Avevo lasciato la scuola e non ci volevo tornare. Se dovevo perdere tempo, avrei deciso io come. Perciò passavo i giorni e le notti a farmi del male, con la sacra stupidità della giovinezza. Leggevo solo libri di suicidi, frequentavo balordi, bevevo di tutto, dagli amari allo stravecchio, fumavo e mi gloriavo di un catarro da ottantenne. Vivevo da solo, nel garage di un vecchio zio ricco e rimbambito, circonfuso da badanti. Anche se sembravo andare di fretta, nessuno mi aspettava. Seguivo le ragazze per strada ma non avevo il coraggio di fermarle. Tre volte alla settimana facevo il cameriere in un ristorante pizzeria sporco come un accampamento barbaro. Tutti i clienti mi irritavano, se erano torvi mi deprimevano, se erano allegri mi infastidivano, le persone sole mi facevano sentire solo, invidiavo le coppiette ma ero diventato esperto nel cogliere in loro ogni indizio di noia e abitudine. Ridete, ridete, pensavo, non durerà. E una volta che vidi una bionda da sogno con un vecchio, pisciai sulla loro pizza. Quel poco che bastava per non farmi scoprire, abbastanza per aggiungere un gusto di olio piccante. Erano le mie grandi imprese. Quando uscivo dal lavoro, giravo tutta notte, nella luce diabolica dei lampioni di periferia o nel Walhalla delle vetrine del centro, qualche volta leggevo seduto su un muretto, dividevo cartoni di vino e panini gelidi con disperati, ruttavo alla luna come un rospo, ero sempre vestito nello stesso modo per giorni, per mesi. Finché una sera incontrai Delòn. Era steso sui gradini di una chiesa, col viso sporco di sangue, una scarpa sola, storto come un cadavere da film. Gli chiesi se aveva bisogno di qualcosa. – Sì. Hai un milione? – mi rispose. Lo avevano beccato mentre cercava di rubare una macchina, e l'avevano massacrato di botte. Diventammo quasi amici. Si faceva chiamare Delòn per via dell'attore, al quale pretendeva di assomigliare. Era belloccio ma con una faccia troppo rustica per il ruolo del maledetto, aveva passato la sua infanzia in orfanotrofio schivando ceffoni&cazzi di preti. Diceva di avere un trionfale successo con le donne ma al cinema bastava che vedesse un ombelico e si masturbava come un eremita, ansando e infastidendo tutti. Sparì un mese e quando lo rividi indossava un ridicolo vestito gessato, con una cravatta fritto di mare, sembrava un aspirante pappone. Mi disse che lavorava in un bel posto, una grotta fatata dove forse c'era qualcosa da fare anche per me. Il luogo magico era la sala biliardi più grande della città, l'Accademia dei Tre Principi. Fu lì che l'avrei incontrata. I Tre Principi La sala, anzi l'Accademia dei Tre Principi era un vasto sotterraneo scavato un secolo prima dai misteriosi adoratori del dio d'Avorio. Dai rumori della città si scendevano tre rampe di scale istoriate di virilia e vagine, per entrare in un mondo buio e silenzioso, al centro della terra. Quando ci misi piede la prima volta mi strabiliò. C'erano quarantatré laghi di smeraldo, illuminati da una luce fredda, quarantatré biliardi di marca: elefanti o draghi di legno, ardesia e panno soffice. Quaranta in file da dieci e tre appartati e speciali, i Tre Principi, a fondo sala. Su ogni elefante vegliavano lampade al neon impiccate a un soffitto sanguigno. Nel loro alone fluttuava una galassia di polveri e microscopici spettri, e tra una pozza di luce e l'altra si aprivano abissi di penombra, dove gli avventori camminavano, nuotavano, scomparivano. E soprattutto fumavano in continuazione. Nell'oscurità salivano le spirali di sigari e sigarette, mi sembrarono le anime di chi era caduto laggiù. | << | < | > | >> |Pagina 52L'attesa era spasmodica. C'era gente che era venuta alla prima ora di apertura e aveva occupato una sedia vicino ai Principi, per essere sicura di avere un posto. C'erano molte ragazze, mai viste prima, che avevano sentito parlare del fascino dello straniero. Scoppiarono liti e risse, finché non intervenne Sussurro. Fece alzare tutti e riservò cinquanta sedie ai vecchi clienti. Per gli altri posti, che si scannassero pure.Alle ventuno e trenta entrò Pantera. Due minuti dopo, con la sacca delle stecche sulle spalle, ecco l'Inglese. Se Pantera era la nera principessa, lui era il cavaliere bianco. Alto, biondo, con un ciuffo sulla fronte, un volto bellissimo e un po' crudele, gli occhi di colore diverso, uno azzurro e uno grigio. Vestiva un impeccabile completo di lino color panna, camicia e foulard color lavanda. Era veramente un'eleganza nuova ed esotica che illuminava l'Accademia dei Tre Principi. Ora non avevamo solo una Dea, ma anche un giovane Dio. L'Inglese diede la mano a Pantera, lei si tolse gli occhiali, si guardarono. Fu un attimo, ma qualcosa accadde, un collasso cosmico, uno scontro tra due galassie. Lei non rimise subito gli occhiali, restò a guardarlo con gli occhi verdi sulla linea di fuoco. Jones si inchinò e scivolò via, poi tirò fuori dalla sacca delle stecche una bottiglia di Black Bowmore e offrì whisky a Borges e agli altri giocatori. Sorrideva e beveva un mezzo bicchiere baby, ma il suo sguardo ogni tanto tornava su Pantera, che fumava solitaria a un tavolo lontano. Lui le si sedette vicino. Stabilirono una posta per la prima e la seconda partita. Non per l'eventuale bella. La cifra esatta non si seppe mai. Poi l'Inglese chiese una bottiglia di champagne, brindarono e parlarono per un quarto d'ora, in penombra, lontano da tutti. Cosa si dissero in quel breve tempo? Nessuno lo sa ma io lo immaginai.
Quella notte e per mille notti, io sognai ogni parola e
ogni frase di quella misteriosa conversazione perduta.
Lei gli raccontò di come le faceva compagnia il rumore dei treni notturni, quando da bambina restava ore e ore a esercitarsi nel bar chiuso, e dei volti stanchi degli operai che venivano a chiederle un caffè alle cinque di mattina, e dell'odore del pane che improvvisamente esultava nella nebbia spessa. E la voglia di andare via di lì. Lui le raccontò di un pub tutto coperto d'edera in mezzo alla campagna. E dei pomeriggi passati a un biliardo vecchio e storto con i piedi a testa di leone. E un'unica finestra sopra un fiume che si chiamava Leen, e che all'alba era quasi invisibile nella nebbia sottile, ma lui lo sentiva scorrere, come si sente scorrere il sangue. E la voglia di andare via di lì. Lei gli raccontò di come aveva colpito lo zio con una stecca, proprio in un occhio, e le urla e gli sguardi maligni dei vicini. E della foto della madre mai conosciuta che ancora teneva nel portafogli, e di quando perse la verginità a quindici anni dentro una roulotte, con un giovane zingaro che le regalò un orecchino a forma di pesce. E di quando andò al cinema la prima volta a vedere Giovanna d'Arco e ogni inquadratura la faceva star male, e quanto pianse, e quanto si sentì pronta a combattere. Lui le raccontò di una sassata in un occhio che ne cambiò per sempre il colore, delle partite di calcio in cui lui esile e biondo ruggiva su ogni pallone per stare alla pari con quelli più grandi, e di una ragazza che conquistò suonando la chitarra, e con cui fece l'amore maldestramente sulle rive del fiume, forse l'unica che aveva amato, e dei colpi di tosse del padre minatore, e di come aveva sempre pensato che non voleva finire come lui. Lei gli parlò del giorno che prese il treno insieme a Rasciomon, e andò verso la sua nuova vita piena di paura e speranza, e non si voltò indietro a guardare quel quartiere della città, dove non è mai tornata, e di quando ogni mattina al risveglio non ricordava in quale angolo del mondo fosse, e apriva gli occhi in una triste stanza d'albergo ripetendo: un giorno avrò una grande villa sul mare. Lui le parlò dei genitori che lo salutavano dalla pensilina della piccola stazione, mentre partiva per Londra con sei stecche comprate con una colletta dagli amici del pub, e dei riflessi dei lampioni in una squallida camera di Camden, e di come spediva a casa i soldi delle prime vincite per mandare il padre in riva al mare, ma niente guarisce da trent'anni di miniera, e di molte donne che aveva amato distrattamente e del dolore che provava ogni volta che leggeva della lacrima di Achab. Lei sorrise e lo prese un po' in giro dicendo che i playboy giocano alla roulette, non a biliardo, e raccontò che aveva giocato in Francia e Spagna e una volta aveva anche pensato di andare a Las Vegas dove c'era un locale con duecento biliardi tra cui uno d'oro, fessi di americani, ma non aveva mai giocato in Inghilterra, forse un giorno chissà... Lui sorrise e disse allora sarà mia ospite e le farò vedere la campagna verde e il fiume Leen, e le rive color lavanda, e il mio primo biliardo, che ora è venerato come un cimelio, il biliardo di Jones, un vecchio dinosauro di rovere che vivrà più di me. O forse non si dissero nulla di questo, ma si scambiarono banali osservazioni sulla differenza tra le regole del gioco inglese e italiano e parlarono dei Beatles, e di quanto erano belli gli occhiali Saint-Tropez di lei e le scarpe Cheaney di lui. E noi aspettavamo frementi. Una pendola immaginaria suonò le dieci, lei gli offrì una sigaretta e fumarono in silenzio. Poi Pantera si alzò di colpo e disse a voce alta, in perfetto inglese, sorprendendoci: – Is now playing. | << | < | |