Copertina
Autore Stefano Benni
Titolo Saltatempo
EdizioneFeltrinelli, Milano, 2001, I Narratori , pag. 268, dim. 140x222x19 mm , Isbn 978-88-07-01602-8
LettoreRenato di Stefano, 2001
Classe narrativa italiana
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Pagina 11

Quand'ero molto piccolo ho visto un Dio. Scarpagnavo verso la Bisacconi. Scarpagnare vuole dire camminare a saltelli per via del dislivello, io abitavo in montagna, la scuola era in basso. Si scarpagna senza pause, con l'inerzia della discesa che impedisce di fermarsi, un continuo scuotimento nei giovani marroni e un piccolo ansito nei polmoncini. Le Bisacconi sono le scuole elementari del paese, un cubo giallo vomito dentro un giardino di erbacce barbare, e devono il loro nome a un uomo di nome Lutilio Bisacconi ricordato per essere morto sull'uscio di casa, ucciso dal cugino fascista.

Sulla lapide infatti c'è scritto:

Lutilio Bisacconi, caduto.

Poi si vede che non hanno pagato lo scalpellino o c'è stato un litigio ideografologico ma è finita lì: caduto. Non è specificato se in guerra, per la Resistenza, nel fiore degli anni, niente: caduto e basta.

Che a noi venne da pensare che allora nessuno cadeva come Tadeo, che a otto anni già non ci vedeva un cazzo come un anziano e aveva i piedi cavallerizzi storti in dentro e voleva andare lo stesso in bicicletta e aveva una bicicletta che sembrava masticata da uno squalo e in più non distingueva un paracarro da un precipizio e soffriva anche di un tic che gli storceva la testa fuori strada, perciò cadeva quasi tutti i giorni e aveva la fronte bozzuta e un polso sempre fasciato, e le ginocchia egizie con i geroglifici di ghiaietto.

Perciò si poteva anche intitolare la scuola a lui: Tadeo, caduto, oppure cadente, oppure tanto prima o poi cade ancora.

Parlai di questo in un tema e mi fecero un culo come una tinozza.

Ma quel giorno di fine inverno era così bello da andar fuori tema con ogni pensiero. I prati eran zuccherati di brina e il sole se li beveva mentre io cantavo a bassa voce: se mi vuoi lasciare dimmi almeno perché. Cantavo e correvo verso l'obiettivo formativo della scuola, la cartella mi sbatteva contro le gambe, i piedi mi dolevano per il gelo, c'era la galaverna e voli alti di uccelli. La valle, giù in fondo, sembrava una tavolozza di pittore.

Mi fermai a bere e a specchiarmi al lavatoio, ed ero brutto. Pieno di brufoli di ogni colore e forma, cuspidati, col craterino, a fico spremuto, a capezzolo (enumero). Poi avevo il naso adunco come quello di una galina e una testa di capelli a propulsione verticale, uno scopino da cesso alla rovescia. Tutte le volte che sorridevo a una principessa, quella cercava rifugio presso il drago. Tutte le volte che andavo in giro coi miei amici moschettieri, loro mi nascondevano sotto i mantelli per non spaventar la gente.

A metà circa del tragitto dello scarpagnamento mi fermai a una vigna e rubai un grappolo di schizzozibibbo. Ogni chicco era grande come la mia testa (esagero), un grappolo di teste di me stesso, ognuna che gridava non mi mangiare. Per gustar meglio il bottino tirai fuori di tasca una crosta di paneterno. Niente, nella vita, ho incontrato che fosse duro come quella crosta. Neanche i denti di una mietitrebbia o di un caimano famelico lo avrebbero scalfito. La crosta sembrava forgiata nell'acciaio. La mollica aveva la consistenza di certe pietre, porose ma solidissime.

Così mi sedetti, poiché albeggiava e il sole infuocava la brina di strisce di brace e la linea delle montagne sembrava un gigante assopito messo un po' di gallone. Il rumore del fiume mi teneva compagnia poiché sapevo che dentro c'erano cavedani e lucci e barbi e acquadelle, tutte creature meravigliose nel loro guizzare ed esplorare pozze buie che noi non conosceremo mai, per non parlare degli scoiattoli, del tasso dormione, della talpa rugagna e del falco che planava sul mio zenit. E di due mucche pezzate che ruminavano sotto un albero e gli cadevano i marroni d'India in testa e loro erano felici.

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Pagina 14

- Questa è vita - dice il Dio stirandosi, e con lo sguardo divino individua un fungo boledro, e sì che lì non è zona, lo coglie e se lo pappa metà lui e metà il cane.

- Buon appetito - dico io.

- Grazie - dice lui - è una giornata meravigliosa per andare a pescare, o anche perché accada uno stromenamento temporale e si crei uno spazio di Filler-Gauss oppure che uno si innamora di colpo e se ne accorge il giorno dopo.

- Proprio cosi - dico io.

- Bene, come ti chiami, ragazzo che non vuole andare mai a scuola?

- Mi chiamano Lupetto.

- Piccolo lupo del bosco - dice il Dio alzando al cielo un dito sozzo e magnifico - goditi la libertà e un giorno avrai l'onore di uccidere l'imperatore. Hai un pezzo di paneterno?

Glielo do.

- Tu non sai quanto ci mangerò con questo - dice l'omone - e cosa ti darò in cambio. Dunque Lupetto, mettiti sotto quel nocciolo umido di brina, e fai in modo di ascoltare il rumore delle stille che cadono. Fatto? Ora ti spiegherò una cosa fondamentale. Questo - dice - è un orologio per il mondo di fuori.

E tira fuori una cipolla meravigliosa, di acciaio brunito con un disegno di stelle e pesci. Lo apre e dentro c'è un carillon, dodici ballerine che girano e quando ti passano davanti si inchinano e in mezzo uno gnomo che batte i secondi su un'incudine.

- È meraviglioso - dico io.

Il diavolo ne ha di più belli, con le lancette incandescenti e il cucù che ti becca gli occhi. Ma anche questo non è male. Questo è l'orologio che segna il tuo giorno cosiddetto normale: quello del far tardi a scuola, dell'alzarsi presto, delle ore che non passano mai, dei calendari, del lei guarirà in dieci giorni, del lei morirà tra sei mesi, dei moti stellari, delle maree e delle partite di calcio. Ma attenzione!

Il signor Dio ingoia l'orologio in un boccone.

- Niente paura - dice - l'ho ingoiato, è sparito, ma il tempo non si è fermato. Vedi, la gazza non è ferma in volo, le gocce cadono, e tu invecchi. Ora ascolta.

E io ascoltai il ticchettio delle gocce che cadevano dal nocciolo.

- Ecco, questo è il rumore dell'orologio dentro. Questo misura un tempo che non va dritto, ma avanti e indietro, fa curve e tornanti, si arrotola, inventa, rimette in scena. È un tempo che non puoi misurare né coi cronometri né col più sofisticato astromacchinario. È il tempo tuo, misura la tua vita che è unica, e quindi è diverso dal mio e da quello di Gabriele, il mio emerito cane.

Il cane si inchinò e vidi che aveva un orologio alla zampa.

- Non ti spaventare, ma tu vivrai sempre con due orologi, uno fuori e uno dentro. Quello fuori ti sarà utile per non fare tardi a scuola, quando aspetti la corriera e il giorno che muori, per calcolare quanto hai vissuto. L'altro, che comprende centosettantasei tempi protologici, novanta escatologici e trentasei tempi romanzati caotici, l'hai ingoiato da piccolo, anche se non ricordi. Chiamalo pure secondo orologio, anzi orobilogio. Ogni volta che sentirai il suo ticchettio, il gocciolare dell'acqua, le crome di un grillo, qualsiasi ritmo e balbettio del mondo, potrà succedere che l'orobilogio parta, non potrai fermarlo, e tu correrai avanti o scapperai indietro e vedrai cose e altre ne rivedrai.

- E come è fatto un orobilogio?

- Non si può vedere, è fatto di tante parti insieme che mescolandosi diventano invisibili. Vuoi un esempio? La tua casa, la guardi dal di fuori e dici: questa è la mia casa. Ma la casa ha sotto la cantina, la tinaia buia con le botti, la muffa sulle pareti e quell'odore di anni e secoli ma in quel passato oscuro fermenta il vino e i formaggi maturano. Sopra c'è il granaio, con la farina, le mele, le noci e i pomodori secchi, e ci frullano i topi rosicchioni e i ghiri ladruncoli, lì ci sono le provviste per il tuo futuro. Poi c'è la casa dove abiti, col camino caldo, la cucina che fuma e il cesso che scroscia, e il letto che ti accoglie e prepara i sogni, ma anche gli incubi, e le lenzuola gelate d'inverno, e la febbre e le ore che non dormi la notte. E a volte tutto cambia: dal camino entra la notte, le faville dei fantasmi del passato, o la paura di ciò che sta dietro la porta, nella cantina il vino e il buio ti fanno immaginare viaggi e abbordaggi, nel granaio sbattono la testa gli uccelli imprigionati, come brutti pensieri. Ecco, questa è la tua casa, non quella che vedi dal di fuori, con le finestre, il portone e l'edera sul muro.

- È complicato - dico io.

- Niente è complicato, se ci cammini dentro. Il bosco visto dall'alto è una macchia impenetrabile, ma tu puoi conoscerlo albero per albero. La testa di un uomo è incomprensibile, finché non ti fermi a ascoltarlo. La storia, be', la storia, lasciamo perdere. Tutta questa solfa per dirti che da oggi ti chiamerai Saltatempo. Adesso vai perché sento la campanella della scuola, Selene è preoccupata, e le schiene dei pesci brillano.

- Amen - dice il cane.

E il Dio si allontana e sparisce tra i meli cotogni e i cipressi, e io ho le lacrime agli occhi perché ho visto una divinità, non so se pagana o chierica o boschiva, ma non succede a tutti, qualche volta a quelli buoni, figurarsi a un malfattore cialtrone ritardatario come me. Scarpagno giù di corsa e piango e piango e scarpagno, inciampo e cado e lo schizzozibibbo mi esplode in tasca. Mentre son disteso a terra, ascolto una cicala canterina, frinisce ritmica, zic zic zic, e sento come nella pancia partissero delle rotelline, oh dio, sta già succedendo. Mi tiro su, vedo il cielo basso e il paesaggio che si storce come se avesse un elastico dentro, come l'acqua quando riflette l'immagine dei pesci e in un attimo tutto si trasforma. Al posto della cavedagna c'è una strada circondata da case, e una puzza come se il Dio avesse lasciato il gas acceso. Giù nella valle, dal paese sale una scia di fumo nero, e il fiume è secco, scavato e succhiato, lo attraversa una strada lunga e larga che si infila in un buco nella montagna, ed è tutta piena di macchine che ci entrano di corsa, speriamo che il buco l'abbiano fatto anche dall'altra parte se no è un macello. E le macchine non sono millecento o giardinette, sono lunghe e acuminate, sembrano le astronavi del libro di Verne, e saranno migliaia, ma evidentemente la carrozzeria si è sviluppata mentre la motoristica è regredita, perché procedono lente, in fila come i bachi peloni, suonano e fanno fumo dal culo, e in cielo c'è una libellula enorme mostruosa, che fa un rumore assordante. Mamma mia, dico, cosa mi succede, poi di colpo tutto torna normale compreso lo schizzozibibbo che mi cola giù per le gambe e i geloni malefici e anche una gran libertà dentro, la sensazione di aver ancora tante scoperte da fare e pagine da leggere.

Scarpagno e scarpagno ed entro nel paese e nella piazzetta. Sulla panchina Selene non c'è, sono in ritardo di forse dieci minuti.

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Son passati due anni nell'orologio e due canzoni di grillo nell'orobilogio. Scarpagno giù dal bosco dove una volta c'era la mia casa. Ho sottobraccio un cesto pieno di funghi. Porcino grasso fratino, protettore dei risotti. Boledro aranciato, ovetto con l'ombrello. Cappelline che vivete in branchi e chiacchierate all'ombra dei fili d'erba. Candido prataiolo dalla sottoveste di seta viola. Mazza di tamburo, cazzaccio tutto bugni. Chiodini piantati a uno a uno dal martello degli gnomi. Galletto stortignaccolo e delizioso, vescia scoreggiona, fungacci sguinci attaccati agli alberi come malattie, e magari siete anche buoni. Amanita bella e traditrice come una vampira. Satanasso verdastro e bavoso, che annodi gli intestini e fai sudare bile. Scarpagno col cestino pieno di funghi buoni, anche se li farò controllare, perché come diceva mio nonno basta un bastardo nel cesto per rovinar tutto, proprio come tra gli uomini. Mi fermo a guardare delle cavallette verdi che sembran dei draghi, una volta riuscii a mettere un guinzaglio di refe a una e la storpiai, mi dispiacque molto, la notte sognai una fata gambalunga che piangeva, era la regina delle cavallette. Cammino tra l'erba alta e non vedo più i macaoni, solo qualche cavolaia. E ci sono meno ragnatele. Papà dice che quando il bosco è malato si vuota, dal ramo più alto alla vita sottoterra. A me sembra più o meno uguale, solo che non è più silenzioso, si sentono i rumori dell'autostrada in lontananza. Decido di passare dove una volta c'era la mia casa. Devo rompere un ramo e usarlo come un machete, che si pronuncia maciete. In un anno sono nati rovi e felci e erbe fantasma, la pietà del bosco ha coperto le ferite dello scavo. Riconosco le pietre che recintavano il poggetto, un disegno a prua di nave, ma non trovo più la panchina dove mio padre conversava coi cani.

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Sento lo schiaffo di un fulmine che spacca un albero giù in basso. La luce diventa di piombo. Vedo una chiazza di fango che si allarga nella vasca, forse il terreno sopra la grondaia è smottato, ma l'acqua schiarisce subito e io mi specchio. Però non vedo nulla, la pioggia increspa la superficie. Guardo meglio e forse sono ancora un bambino, il giorno che sul poggetto ho visto Dio. O forse son cresciuto e sto per prendere la corriera verso il fondovalle, dove frequento le scuole medie. Forse il camino di casa mia è acceso, potrei correre a rifugiarmi là, ma forse là c'è solo un abisso di rovi e ortiche, e tra una settimana inaugurano l'autostrada. Non vedo il mio volto, la pioggia cade in giù ma qualche volta sembra che il vento la porti a folate verso l'alto, i ragni scappano sotto le foglie e non so più se è mattina o sera. I funghi si infradiciano e mi sembra che qualcuno di loro cerchi di scappare dal cesto. Nella vasca di pietra ora c'è un'ombra sul fondo, qualcosa di enorme che nuota, e all'improvviso balza fuori, è il luccio più grosso della pozza, lungo come una spada, con la bocca incrostata di ami, i denti aguzzi da lupo. Tira una gran codata e poi ricade e si mette storto, a mezz'acqua. Io capisco che la pozza è secca, è venuto a morire lì, ha percorso i fiumi sotterranei in salita, come un salmone. Buona fortuna, lucciolupo. Mi piove anche dentro le braghe, il rumore della pioggia è interrotto dal clacson di un camion, giù nell'autostrada. Una cornacchia strilla. Allora mi sembra di capire.

Capisco che ci sono due tempi o forse mille dentro cui vivo, uno corre lento e riesco a vederlo e misurargli la testa e la coda, l'altro procede a balzi e bufere, le cose cambiano in fretta, appaiono i destini e le conclusioni e io non vorrei conoscere il futuro, ma il futuro mi chiama, mi ammonisce, mi dice che forse posso cambiarlo, mi dice che i ragazzi nati nel bosco passano troppo tempo da soli a fantasticare, è la loro miracolosa fortuna e il loro maledetto segreto. Come dice lo gnomo, non si guarisce. Così guardando nell'acqua vidi il mio volto di vecchio, magro e sofferto, e una croce in un cimitero di campagna. Vidi Selene che partiva per la città e io non c'ero a salutarla. Vidi un fiume torbido che correva in mezzo al paese, e dentro rami spezzati e pesci morti, e mani avide che spartivano una manciata di terra. Vidi una luna di cenere. Ma una parte di me ascoltava il rumore di quel bosco e diceva: esiste anche questo, ciò che non verrà mai toccato né visto da tutti gli uomini. Solo da quelli che vivono davvero.

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Pagina 171

Si stava avvicinando un anno che sarebbe rimasto impresso nella storia del secolo ma anche nella storia di Saltatempo. Durante questo anno, le cose che mi accaddero a un passo mi sembrarono a volte più importanti di ciò che si trasformava tutto intorno. Solo dopo, riguardando indietro, capii che vivevo al centro di una grande galassia di trasformazioni e scoperte, e nel mio pianetino ne avvenivano altrettante. Dalle stelle venivano segnali per me e io li rimandavo alle stelle. Di una sola cosa ero consapevole: la forza fondamentale di quell'universo era l'attrazione per la libertà, che risucchiava tutti a velocità folle. C'era chi resisteva attaccandosi alla zavorra delle vecchie idee o alla catena della paura, ma altri, a migliaia, volavano in questo nuovo spazio, alcuni imbarcati su comode astronavi, altri cavalcando comete e allucinazioni, altri in missione di guerra contro gli alieni del Sistema. I miei due orologi funzionarono molto quell'anno, a volte alleati, a volte conficcando le lancette appuntite uno nel quadrante dell'altro, in un duello tra i miei terremoti e quelli del mondo. Se quell'anno durò molti anni nella storia, altrettanto a lungo durò nei miei dolori e nelle mie passioni.

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Pagina 188

Per due giorni camminammo insieme dalla mattina alla sera, senza toccarci senza baciarci. Era come far tornare il sangue in un corpo freddo, come far ricrescere un bosco bruciato. Ma ogni ora ci riavvicinavamo di nuovo, non c'era nulla da fare, era come una calamita.

Una sera eravamo sdraiati sul prato, come la volta della prima baceria. Lei disse:

- Domani parto.

- Lo so - dissi, ma non era vero.

Si alzò in piedi, col volto acceso.

- Non fare finta di niente. Lo sai che cosa sta succedendo. Chiamala magia, chiamalo sortilegio o maledizione. Quando ti vedo, ricomincia tutto.

Non sapevo cosa dire. Avevo paura.

- Ho avuto un ragazzo - disse lei.

- Ci andavi sempre in moto, sul lungomare. Era bello come un attore ed elegante, usava il dopobarba anche se non si faceva la barba.

- Come fai a saperlo?

- Poi una sera siete andati in ballotta in una pizzeria, e lui parlava di macchine e cilindrate e tu hai pensato cosa ci sto a fare con questo cretino, hai detto vado a vedere il mare e sei sparita.

- Tu sei un maledetto stregone - disse lei.

- E io cosa ho fatto secondo te?

- Hai sbaciucchiato e scopato a destra e a manca, immagino.

- Ti sono sempre stato quasi fedele - risposi.

- Non sono gelosa - disse e fece la smorfia che faceva sempre quando diceva una bugia.

E io risposi:

- Io si, molto.

Le carezzai i capelli. Fu un bacio breve, morbido. Poi lei mi respinse con dolcezza.

- No, non vale, qua sei in vantaggio. È il tuo terreno, tu sei un ragazzo del bosco e io ormai un'indifesa ragazza cittadina. Hai tutti che lavorano per te, i grilli, i tramonti, le farfalle. Logico che non possa resisterti. Questa volta ti sfido. Vieni al mare, nel mio terreno. Non è brutto. Passereremo due giorni insieme. Se mi conquisti lì, sarò tua per... facciamo due anni.

- Cinquanta - dissi io.

- Si può trattare - disse lei.

Ci accordammo su quindici.

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Pagina 236

Lo zio si sistemò sotto la Venere, che lo guardò con interesse. Era visibilmente un po' ubriaco. Con una mano sul fianco e l'altra al megafono disse:

- Avremmo potuto far costruire questa fontana a qualche famoso architetto o scultore, ma non l'abbiamo fatto perché qui nel paese c'era gente altrettanto brava, e col loro lavoro abbiamo fatto una fontana che modestamente lo mette nel culo a parecchie fontane di città.

Avremmo potuto fare un monumento alla Resistenza ma io so che non abbiamo bisogno di monumenti per ricordare i nostri fratelli e padri e nonni, il vero monumento è dentro di noi, è la nostra libertà.

Avremmo potuto dedicarlo a un uomo illustre del paese, ma qui siamo tutti illustri e importanti.

Avremmo potuto fare una fontana moderna con uno scaraffone di cemento e di acciaio, ma a edificare scaraffoni ci pensano tutti qua intorno.

Avremmo potuto fare una Venere tutta coperta, ma non abbiamo niente da nascondere, posso anche dirvi chi è la modella, l'operaia Mediga, pardon Marina Roda, fresca sposa.

Per finire qualcuno ha detto, ma perché una fontana marina? Anzitutto in omaggio al nostro fiume, che tanto amiamo, e che come tutti i fiumi per bene sfocia nel mare. E poi c'è la nostra voglia di acqua pulita, che lavi via le brutture che abbiamo visto e speriamo di non rivedere. Ma soprattutto a noi piacerebbe avere il mare, ci piacerebbe alzarci la mattina e andare in barca, e se questo non c'è allora lo sognamo, perché grazie a Dio in questo paese siamo ancora matti e ci immaginiamo le cose, perciò abbiamo fatto la fontana che noi tutti abbiamo sognato e se qualcuno ha qualcosa da dire, si becchi questo. Uno due e tre, via.

E da cento fori sgorgarono gli zampilli. Piangevano Venere e i tritoni, pisciavano i lucci e i tonni, sputava la rana. Scrosciò una cascata di applausi.

- Chissà che bolletta - disse Balduino, ma era commosso anche lui.

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Pagina 242

Non lo so quanti eravamo, trentamila disse la televisione, ottantamila dissero gli organizzatori, io non avevo mai visto tanta gente riunita, la piazza della Cittàgrande era piena, e anche le strade intorno, e dalla stazione continuavano a arrivare, era come il fiume quando trova un letto nuovo, riempie le pozze e dilaga nel canneto e dove c'era la sabbia, ora scorre un torrente, o un filo d'acqua. Io ero una goccia nel fiume, triste, eccitato e impaurito, troppe cose insieme, la speranza e la disperazione, la rabbia e la gioia di stare insieme a tanti. Mi colpivano le cose grandi, il palco con gli oratori, le centinaia di striscioni, i cortei compatti delle fabbriche, gli universitari che gridavano gli slogan uno sull'altro in una canea guerresca. Ma ancora di più mi colpivano i particolari. Forse avevo bisogno di ritagliare qualcosa in quel grande quadro semovente, come quando vedi il dipinto di una battaglia enorme che ti stordisce, e devi soffermarti su un dettaglio, la testa di un cavallo, un soldato caduto, un albero sullo sfondo.

Ricordo un gruppo di operai silenzioso, in mezzo a tutto quel rumore, e un vecchio in tuta che reggeva un cartello con la foto di una delle vittime. Ricordo vicino a me Baruch che cercava di camminare al ritmo del corteo, ma zoppo di gotta faceva fatica e io Fred ogni tanto lo sostenevamo e lui protestava.

- Quando ero in montagna - disse - una volta mi feci trasportare dai miei amici partigiani, ma mi avevano sparato a una gamba. Adesso faccio da solo.

Ricordo due donne in tuta gialla che spingevano un carrello con sopra dei thermos di caffè e tè e lo offrivano, era freddo quel giorno. Ricordo che guardavo i doni natalizi nelle vetrine e pensavo che dovevo comprare ancora il regalo per Selene.

E poi uno sbandamento, una voce preoccupata: "la polizia carica", e uno del servizio d'ordine che diceva al megafono "calmi e tranquilli, oggi siamo in tanti, sarebbe più facile per noi caricare loro". Ricordo Loris e Tamara che si erano rivisti, dopo il loro breve interludio, e camminavano a braccetto. E una madre con un bambino, lo portava via di corsa, come fosse in pericolo, e un ragazzo che gridava "non deve avere paura di noi, signora". E un tale che da un bar di lusso fece il saluto romano e il servizio d'ordine fermò due che gli stavano per saltare addosso. Una vetrina che andò in frantumi e dei ragazzi che rubavano delle scarpe, e altri incazzati che dicevano, cosa c'entra questo con i morti?

Ricordo una ragazza bellissima, con un cappotto rosso, di cui incrociai lo sguardo e le lacrime. La sensazione di gelo che provai vedendo l'avvocato D'Intesa sul palco. E quando chiusi gli occhi, tutto quel rumore diventò una cascata dentro una gola. Vidi la piazza vuota, di notte, piena di barattoli e cartacce, dopo un comizio o un concertone come tanti altri. Dove siete finiti, tutti voi che c'eravate quel giorno? pensai. Lo rifareste? Eravate diversi, ci credevate in un altro modo, oppure vi avevano detto di crederci e obbedivate soltanto? Potevate immaginare, quel giorno, che non ci sarebbe stata giustizia per nessuno, ma che le ingiustizie sarebbero cresciute una sull'altra, come le muffe su un tronco morto?

Vidi nell'orobilogio la città cambiare in modo cosi repentino e profondo che pensai: quel giorno si è spaventata, anche le città hanno bisogno di pace e tranquillità, ha ingoiato la nostra rabbia nel suo sottosuolo, l'ha imprigionata, e ora fa brillare i suoi negozi e le vetrine, per non farcene ricordare. Dimenticate per favore, dice, io sono una vecchia città, ho visto le guerre medievali e la peste, e duelli e invasioni nemiche e poi gli spari nelle strade e i carri armati, lasciatemi invecchiare in pace.

E quando aprii gli occhi, un oratore parlava ma non capivo nulla, dietro di me un gruppo urlava slogan feroci. Mi raggiunse mio zio Nevio, aveva il fiatone, si era impillolato di cardiotonici come un cavallo da corsa. Ho visto Verdolin, ansimò, mi ha detto che ha incontrato Selene, in fondo al portico. Dice che ti aspetta dopo la manifestazione, davanti alla libreria.

Era tornata con il primo aereo. Non l'ho fatto per te, disse. L'ho fatto per quei poveri morti, e anche per te. A hard situation and a dark future for Italy, aveva detto il commentatore della tivù inglese, e sembrava davvero preoccupato. Ci baciammo, mentre la piazza si vuotava. Forse non era il caso, ma non potevamo fare altro, io la tenevo abbracciata e non la lasciavo, neanche quando salutammo gli amici.

- Vuoi una corda per legarla? - disse Fred.

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