Copertina
Autore Pier Luigi Berbotto
Titolo Le mille e una valle
SottotitoloViaggio in Valle d'Aosta
EdizioneL'Ambaradan, Torino, 2006, L'Approdo , pag. 224, cop.fle., dim. 140x210x17 mm , Isbn 978-88-89257-14-2
LettoreLuca Vita, 2006
Classe montagna , viaggi , regioni: Valle d'Aosta , citta'
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Indice

Il ritorno di Shahrazàd                           9

I   I POSTI

I quattro moschettieri della Regina              19
Monte Bianco, Monte Rosa, Gran Paradiso, Cervino

Il lontano profilo dei sogni                     23
Valle di Gressoney e valle d'Ayas

Verso la città Celeste                           31
Castello di Fénis

La grande Y a misura d'uomo                      36
Valle del Gran San Bernardo e Valpelline

I rintocchi del commiato                         42
Valle di Champorcher

Una torre e nulla più                            46
La Salle

Tra Manzoni e Ponzio Pilato                      51
Castello di Nus

Walt Disney è passato di qui?                    55
Saint-Pierre e Saint-Nicolas

Di curati, di volpi, di lune                     62
Valsavarenche, Val di Rhemes, Valgrisenche

Miraggio "altolucente"                           73
Valle del Piccolo San Bernardo


II   GLI INCONTRI

Buongiorno, Aosta                                83

Uno sguardo dal ponte                            89
Aosta romana

Metti una piazza                                 92
Piazza Chanoux ad Aosta

Mille, ma non li dimostra                        96
Aosta e la Fiera di Sant'Orso

Gli aostani                                     100
Aosta e i suoi abitanti

Rien ne va plus                                 113
Saint-Vincent

L'autunno è... 'na favola                       121
Saint-Vincent

Chamois, o l'infinito                           129

Clamori di battaglie, icone di salvezza         138
San Bernardo, ma anche Perloz,
e il Parco del Gran Paradiso

Impara l'arte                                   144
Pittori e scultori di valle


III   LE SEDUZIONI

Courmayeur, o l'amante ritrosa                  155

Esopo a quota 2000                              167
Val Ferret

A piedi nudi nel prato                          172
Cogne

Nel regno delle aurore intatte                  181
Lillaz, Gran Paradiso

Il silenzio di paggio Fernando                  184
Castello di Issogne

C'era una volta il Breuil                       191
Cervinia e la Valtournenche

L'incubo e la sirena                            200
Il Cervino nelle tele dei suoi pittori

I colori della leggenda                         207
Il Monte Rosa nelle tele dei suoi pittori

Finale con maschere e arcobaleno                210
Tradizioni e riti carnevaleschi

INDICE ANALITICO                                213

 

 

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Pagina 19

Monte Bianco, Monte Rosa, Gran Paradiso, Cervino
I quattro moschettieri della Regina



C'è come uno straordinario assembrarsi di masse granitiche e punte innevate che si stagliano sull'amena conca a esaltarne il fascino e a sancirne il prestigio. Montagne impervie ma di bellezza travolgente, ornate di nomi sonanti quanto suggestivi: Grande Rousse e Grande Sassière, Mont Vélan e Grand Combin, Dent d'Hérens e Les Jumeaux. E, adagiata ai loro piedi però in posizione tutt'altro che succube, semmai forte e consapevole di una sua intrinseca regalità, la grande valle con i suoi paesi, i suoi verdi appezzamenti, le sue vigne, i suoi forti, i suoi castelli, a riceverne, con naturalezza sovrana, lo svettante ossequio.

Ma, nel devoto corteo alpestre, sulle già eccelse stature partecipi, s'impongono quattro colossi, anch'essi avvinti alla valle attraverso un legame di protettiva dedizione, sebbene toccati da un carisma che ne fa, più che comprimari, degli autentici protagonisti: Monte Bianco, Monte Rosa, Gran Paradiso, Cervino. Verrebbe da pensare ai mitici "moschettieri" fedeli alla Regina, che ufficialmente erano tre, ma, in effetti, proprio in quattro finivano per ritrovarsi: non fosse che, dei quattro titani delle Alpi e della loro avvenente monarca, ancora non si è fatto avanti un Alexandre Dumas a prendersi cura. Sicché qui dobbiamo limitarci a evocare, di questi, i tratti peculiari, in attesa che qualche nuova tempra di romanziere sappia farne lievitare i ruoli in una storia del pari intrigante e felice.

Per cominciare, il Monte Bianco. Come a dire il D'Artagnan della situazione. E non tanto per la sua incontestabile supremazia, quanto piuttosto per quella complessità morfologica che è tutt'uno con l'indole sottile e proteiforme dell'eroe dumasiano.

Cinquanta chilometri di creste e guglie e pareti spettacolari e colate di ghiacciai, che si articolano da sud-ovest a nord-est, toccando quote oscillanti dai 3816 metri dell'Aiguille des Glaciers ai 4810 della vetta principale, e dai 4014 metri del Dente del Gigante ai 4201 delle Grandes Jorasses: questo è il massiccio del Bianco, incomparabile mix di armonia e vertigini.

E, vorremmo aggiungere, d'inafferrabilità: poiché, con l'osservatore che risale l'alta valle, il Monte Bianco sembra ingaggiare una lotta per sottrarsi alla sua vista. Ora eccolo nell'atto di lasciarsi intravedere. Ed eccolo adesso negarsi spietato. Da Courmayeur ancora è avaro di sé. Ma da Entrèves la gran cupola di ghiaccio decide infine di mostrarsi. Basta però spostarsi su per la Val Veny perché, aprendosi verso mezzogiorno, l'assetto delle sue punte e scoscendimenti si trasformi ancora in un mutevole gioco di prospettive: proprio come accade per le imprevedibili evoluzioni dell'equivalente romanzesco.

Poi il Monte Rosa: un Porthos volto a dispiegare tutta la sua forza erculea in quell'immagine di estrema grandiosità e potenza che si può cogliere sia a ridosso, sia, grazie all'eccezionale grado di percettibilità ottica, da uno sterminato campo di osservazione. Grandiosità e potenza quali tralucono dalle cime del massiccio attestate oltre i quattromila metri – punta Dufour, con i suoi 4633 metri la più elevata, e quindi le punte Castore e Polluce, il Breithorn, il Lyskamm, la Piramide Vincent – nonché dagli immensi ghiacciai a plateau che le incastonano.

Eppure in tanta maschia asprezza è come s'insinuasse una nota dolce, gentile: data da quel nome, Rosa, che sembrerebbe alludere, tra il candore delle nevi perenni, a un tenue riflesso d'aurora. Ma subito il demone dell'etimologia si leva a eccepire che no, col monte il colore rosa non c'entra davvero, dovendosi piuttosto ravvisare nella radice ros- il significato celtico di "picco" o "corno", oppure la deformazione dell'antico termine valdostano roise, da intendersi come "ghiacciaio". Così, sfumata la soffice allusione cromatica, il Monte Rosa ritrova, come Porthos, la sua rocciosa, iperborea solennità.

E avanti col Gran Paradiso: un romantico Athos, che trae la patina di nobiltà e cavalleria da quelle Riserve di Caccia della Real Casa d'Italia che i territori stessi un tempo inglobavano. E infatti, più ancora che alla pur ragguardevole altezza della sua maggior cima (4061 metri), l'intero gruppo deve la propria fama ai pregi dell'ambiente naturale e a un rigoglio di flora e fauna che l'omonimo Parco Nazionale tutela e alimenta.

Autentico eden di camosci e stambecchi, ermellini e marmotte, e scoiattoli, volpi, aquile reali, pernici bianche, rampichini alpestri e quant'altri animali e piante siano parte di quell'immenso brulichio di vita che vi ha luogo, il parco si snoda per oltre 450 chilometri di sentieri. Molti di questi erano già compresi nel tracciato voluto, tra il 1861 e il 1874, da Vittorio Emanuele II. E c'è ancor oggi chi giura di avervi avvertito, in certi crepuscoli, la muta presenza trasvolante del "re cacciatore".

Infine, il Cervino: 4478 metri. Osservato dalla Valtournenche, il quarto gigante dell'empireo valdostano sembra ricambiare i nostri sguardi con quella sua impronta leggiadra e inconfondibile che già sedusse, nel passato, scrittori ed esteti. «Tempio egizio», ebbe a definirlo l'inglese John Ruskin. E ancora, «obelisco triangolare», «amorosa ossessione», «incubo e sogno», «scoglio d'Europa» segnarono nel tempo altrettanti modi per dirne la bellezza e adombrarne il mistero.

Ché di mistero, infatti, è piena la sua storia: fin da quell'aura di incantamento che lo circonfuse presso gli antichi, propensi a leggervi, da lontano, la presenza inquietante di demoni e mostri, e Leviatani, e Sfingi, e leoni dormienti. Come senza spiegazione è quel suo diafano esprit de finesse che sembra contrapporlo agli altri tre compagni: una finesse già presente nell'eleganza del disegno, e ribadita dalla polifonia di echi e suggestioni sprigionati dalla sua leggenda.

Ecco così completarsi l'ideale tetrade su cui avremo ancora, e diffusamente, a tornare. Accanto all'audacia duttile di D'Artagnan-Monte Bianco, alla forza di Porthos-Monte Rosa, allo spirito aulico di Athos-Gran Paradiso, non poteva non esserci l'affiato estetizzante e mistico del Cervino a richiamare, nelle pietre, le sottigliezze gesuitiche del moschettiere Aramis.

Mirabolanti storie di fedeltà dei monti alla loro valle-regina si scambiano i venti sibilando tra le cime. Racconti di agguati, di duelli, di agnizioni folgoranti. Ma il novello Dumas continua a latitare. E il loro segreto non può che restare confinato lassù.

Ostaggio delle rupi.

Privilegio per le aquile.

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Pagina 73

Valle del Piccolo San Bernardo
Miraggio "altolucente"



I Celti, e poi i Romani, la sapevano lunga.

Dovendo dare un nome alla località, forse suggestionati dall'esplosione di luce che ancor oggi coglie appena emersi dall'orrido della Dora presso Pré-Saint-Didier, pensarono bene di chiamarla Ariolica. Che ai nostri orecchi, certo, sembra non voler dire nulla. Ma ai loro, invece, doveva significare molto, se la parola non fa che fondere la radice celtica arial, alto, e il participio latino lucens, sviluppando dunque un'idea di "luminosità irradiata dall'alto".

Concetto che, per noi smaliziati e rotti a emozioni visive di ben altro impatto, potrebbe continuare a suonare vacuamente enfatico, sostanzialmente inerte. "Altolucente": e che sarà mai? Il sole, la luna, e anche le principali fonti di luce artificiale, non usano forse "lasciar cadere" i loro raggi in forza della sopraelevatezza della loro postazione? E dovremmo dunque stupirci, fino al punto di coniare un vocabolo ad hoc, se questa luce che tanto ci affascina muova da sorgenti eccelse?

Eppure, proviamo a ripetere l'esperienza di venire a Pré-Saint-Didier: Prata ad Sanctum Desiderium secondo il toponimo medievale, già intriso, forse, di quel respiro solare che sembra muovere da questi prati posti al convergere di due valli e due Dore, quella Baltea, la principale, e quella di La Thuile, schiumante da sud. E proviamo, una volta impregnati di tanta maestà di visioni e preziosità di dettagli — il Dente del Gigante che trionfa a settentrione, il campanile di San Lorenzo come racchiuso nella sua estasi romanica... —, proviamo a voltare le spalle a tutto questo per calarci in un altro incantamento, di segno completamente opposto. È quello, misto a oppressione claustrofobica, a vertigine da discesa agli inferi, che si sprigiona nella profonda forra incisa dalla Dora, già nota in epoca romana per la sorgente termale dai benefici effetti che vi scaturisce.

Un «orrido», secondo la comune definizione. Ma da leggersi — più che in chiave spietatamente negativa — come concentrato di richiami non privi d'una loro epica, selvaggia bellezza. Le alte pareti di roccia, l'ombra sul fondo striata dalle acque precipiti, il senso di una panica ineluttabilità: ce n'è a sufficienza per chiamare in causa certi scenari d'ispirazione protoromantica, lo Sturm und Drang, o, cent'anni più tardi, l' Inferno dantesco evocato da Gustave Doré... Senza contare, non volendo allargarci troppo e scomodare eccessivi nomi, un'incisione dell'archeologo e paesaggista parigino Edouard Aubert espressamente dedicata al luogo: dove, in tratti più o meno coevi a quelli del Doré, la casa dei "Vecchi Bagni", le esigue e inermi presenze umane, il brivido metafisico che dal tutto promana, recitano un loro intatto, raggelante ruolo.

E proviamo, infine, a risalire, cedendo al richiamo di quella luce che rifulge lassù, oltre le rocce, come la promessa di un paradiso che forse non ha troppo tempo per attenderci, e che conviene di buona lena guadagnare. C'è da accorgersi allora, gli occhi ancor pieni d'ombra e restii a spalancarsi, che si tratta di una luce affatto speciale: più d'ogni altra diffusa, consolante, e soprattutto aerea. La luce di La Thuile: che non sbagliarono, dunque, gli antichi a chiamare Ariolica. Poiché, per chi vi sale, non è soltanto il pittoresco amalgama di case e tetti e campanile tipico di tutti i paeselli alpini, ma quel bagno di sole e di celesti vibrazioni che dai valloni di Rutor e Chavannes dilagano per la vasta distesa prativa su cui sorge, e che, visto dal basso, si propone davvero come l'agognato miraggio "altolucente".

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Pagina 83

Buongiorno, Aosta



[...]

Certo, Aosta è Aosta. E se l'approccio può risultare in parte deludente - dicevamo i ma, i forse... - con quella sua periferia anonima e scostante come quasi tutte le periferie, e quel suo annidarsi in una conca dominata da alte montagne che sembrano sancirne un immediato senso di oppressione se non di preclusione, d'impermeabilità ai contatti esterni: ebbene, provate un po' a superare questa prima impressione, a inoltrarvi per il ponticello romano sul Buthier con lo stesso spirito che fu dell'uomo di Augusto come del mercante medievale in arrivo da Ivrea... Vi accorgerete allora che l'opacità periferica non era che un accorto preambolo "in minore" a tanto deflagrare di meraviglie. E che, proprio in quanto "donna", Aosta ama ritardare, avvolgendola di mille mimetizzazioni e sviamenti, la sua resa. O meglio: il suo trionfo.

Un trionfo le cui radici affondano nella notte dei tempi, se è vero che almeno cinquemila anni fa un popolo di agricoltori prese stanza su questa terra, lasciando a propria testimonianza pali totemici, tombe e statue antropomorfe restituite alla luce nell'area megalitica di Saint-Martin-de-Corléans. E i cui fulgori sembrano ugualmente ripartirsi tra l'età romana, con quella fioritura di vestigia che già rese famosa Aosta ai tempi dei grandi viaggiatori romantici, e l'età di mezzo, di cui due poli monumentali, tra il resto, si contendono la nostra ammirazione.

Innanzitutto la Cattedrale. Sorta tra il 994 e il 1026, ebbe da principio forme romaniche, su cui s'innestarono interventi riferibili all'impronta gotica assunta dalle volte, al quattrocentesco chiostro e al rifacimento neoclassico della facciata.

E poi, al di là delle mura, è Sant'Orso a irradiare i suoi richiami romanico-gotici, che si riverberano tra collegiata, cripta, coro, affreschi e vetrate, coinvolgendo il chiostro, il priorato e l'antistante piazza in una summa di tesori che è pure oasi d'intensa spiritualità.

Preistoria romanità, medioevo... Vi basta? Se cercate ancora altro, Aosta è lì con la sua bellissima, ottocentesca piazza Chanoux, costruita sull'asse che fu decumano massimo dell'antica Augusta Praetoria, e oggi cuore pulsante della vita cittadina. E giacché ci troviamo in questo cuore, sarà forse bene distogliere per il momento lo sguardo dalle lusinghe d'arte e di storia - che sono ancora molte, e degne di nota - per allungarlo su quelle del bon vivre: che trovano in zona la più felice concentrazione.

Vetrine allettanti di caffè e pasticcerie, antiquari, librerie, ristoranti e ristorantini dove gli antichi riti della cucina valdostana rivivono con cura filologica e sapienti alchimie di sapori. Ah, la soupe à la Valpelenentze! Vedete com'è facile scivolare dalle delizie del romanico a quelle di una tavola imbandita?

Ma anche questa è Aosta. E, ora che siamo finiti a tavola, vale la pena fermarci un poco...


Dicevamo la soupe. L'abbiamo già trovata nella Valpelline, dov'è nata e da cui trae nome. Ma, per assaporarla, non è necessario spingersi fin lassù, visto che è entrata a far parte dei piatti più rappresentativi della cucina valdostana, e come tale accade di trovarla nei ristoranti del capoluogo.

Pane raffermo, fontina e cavoli lessati nel brodo di manzo: è la ricetta.

«Tutto qui?» obietterete.

Già, tutto qui, ma... volete favorire? La forza del piatto è nella perfetta armonia degli ingredienti. E, forse, in quel mondo ancestrale che esso evoca: fatto di mercanti e pellegrini che salivano e scendevano per la via Francigena o la via Romea, e dello spirito di "umana solidarietà" e "accoglienza" che animava i tanti "ospitali" e taverne che sorgevano sul percorso. Cucina povera, s'intende. Concepita per palati poveri. Come la carbornuade - prego, servitevi! - che altro non è che ragù con cipolle e vino rosso. E come la maggior parte dei piatti di tale tradizione gastronomica, oggi salita al rango di grande cucina.

Per meglio penetrarne lo spirito e i sapori, immaginiamo di fare un salto di secoli e di ritrovarci a sedere in una di quelle taverne dalle finestrelle in tufo e dai tetti fatti a capanna, di fronte a un ruvido desco e a un non meno rude locandiere pronto a scodellarci davanti qualcosa che da subito si rivela d'insospettata bontà.

Una fragranza che ha la grata corposità dei prodotti della terra, con in più il tocco abile di chi è in grado di spremerne virtù e umori. Proprio come quest'oste sbucato dal tempo, che ha alle spalle una consuetudine votata all'utilizzo delle semplici cose - frutta e ortaggi amorevolmente coltivati, carni e latticini, e condimenti intrisi d'aria frizzante - e tale quotidiana umiltà di elementi sa volgere in bocconi appetitosi.

Tornando all'oggi, lo stesso tripudio del gusto - sentite? - si avverte con i gelosi epigoni della cucina di valle. Che ne dite di questo dolcissimo prosciutto detto jambon de Bosses, sul cui aroma giocano, in ugual misura, la levità dell'aria e le castagne date in alimento ai suini? O di quest'altro prelibato teteun, a base di mammelle di mucca? E perché non cedere al profumo del cervo con polenta? O alla sublime mocetta? Al lardo di Arnad? Alla fontina odorosa d'alpeggi? E infine, tanto per gradire, se passassimo a qualcuno dei dessert paradisiaci, come queste pere Martin al vino, in cui paiono assommarsi tutti gli allettamenti e le dolcezze della valle?

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Pagina 155

Courmayeur, o l'amante ritrosa



Ci sono città e paesi che ti colpiscono diritto al cuore. Paesi e città che non ammettono rivali né surrogati nella loro carica seduttiva, ma che s'impongono con una sorta di perentoria, folgorante esclusività.

Così è per New York.

Ma anche per Ravello.

Così per Parigi, per Praga.

Ma anche per Honfleur, per Asolo, per San Gimignano.

E così fu per Courmayeur, per la sua carducciana «conca di vivo smeraldo tra foschi passaggi dischiusa», la prima volta che la vidi e tutte le successive altre che ci tornai, fino a oggi, anzi, stasera, in questo interludio di placidi svagati passi per la sua main street che ha nome "via Roma".

Sì, ancora una volta la folgorazione c'è stata. Ancora una volta Courmayeur mi ha parlato col vigore delle sue pietre, con la dolcezza dei suoi cieli. A cominciare dal nome: le cui radici etimologiche rinviano a quella Curia (o che fu in epoca lontana, anche se ben poco di "curiale", o di "cortese", sembra riecheggiare la sua conformazione attuale: qua, forse, l'aulica cuspide e il contrappunto di bifore e trifore sul campanile della parrocchiale, là il nerbo trecentesco della torre Maluquin...

Ma, pur nell'urto omologante della modernità incarnata dal cemento l'asfalto i cristalli delle nuove strutture, un soffio dell'antica eccellenza è come ti accogliesse fin dal tuo primo arrivo, per poi ancora sorreggerti in ogni istante che vi trascorri. Sarà l'incombente sacralità del Bianco, pronto - diresti - a risucchiarne la non eccezionale quota di 1224 metri verso altitudini da capogiro. Sarà l'epica dell'alpinismo espressa da quella Casa delle Guide con relativo Museo Alpino Duca degli Abruzzi che si affacciano sulla centralissima piazza Abbé Henry. O sarà, semplicemente, l'atteggiarsi stesso del paese nel suo nido di fragranze agresti e di commerci con l'assoluto. O quel sentore aristocratico alimentato dai grandi nomi che, nel tempo, albergarono all'ombra ben munita del suo riserbo: quasi un crisma di elitarietà che solo scopri quando già ti si è impresso, e d'ora in poi non potrai accostarti a questo scenario, e respirare la sua aria, crogiolarti alle sue luci, senza sentirtene visceralmente, e irrevocabilmente, incluso.

Roba da innamorati, dunque. E Courmayeur, dal canto suo, conosce a meraviglia il linguaggio della seduzione. Simile a un'amante navigata, infatti, sa come destreggiarsi tra gli ardori e gli impuntamenti degli spasimanti, e come tener viva la fiamma di chi, fin dal primo istante, le si è votato. Le armi di cui si avvale non sono l'esibizione compiaciuta di sé e dei propri tesori, l'attacco frontale, la malizia provocatoria di altre non meno titolate ma ben più eclatanti concorrenti - il riferimento a Cortina, al suo "struscio-ribalta" di corso Italia e agli infiniti appuntamenti mondani che ne accendono le serate è d'obbligo - ma piuttosto la discrezione dei modi, il pudore e lo schermo dietro cui pararsi a fronte di troppo roboanti attestazioni e assalti.

Insomma, tutto un darsi e ritrarsi, un promettersi e negarsi ed emergere e sparire che la fanno ancor più preziosa e appetibile agli occhi del corteggiatore. E una ritrosia che si manifesta anche a proposito del suo massimo monile: quello che basterebbe da solo a regalarle fama e prestigio imperituri.

Ma sì: il Monte Bianco. La più alta punta d'Europa, che dista qualcosa come nove chilometri in linea d'aria dal culmine del campanile del paese. Un volo d'uccello. O un battito di ciglia, un'increspatura minima su quel mare d'infinito che il titano delle Alpi è abituato a padroneggiare. Eppure...

Eppure mica crederai che Courmayeur acconsentisse a sbandierarlo come il proprio vanto. E quando mai? La sua prima cura, anzi, fu quella di acquattarsi all'ombra di Mont de La-Saxe e Mont Chétif, di modo che tra il suo abitato e l'intero massiccio s'interponesse il provvido paravento, lasciando - unica risicata consolazione - soltanto uno spiraglio sgombro sul Dente del Gigante fino alle Grandes Jorasses.

Si racconta al riguardo che Mussolini, giunto in loco e rilevato l'inconveniente, intendesse ovviarvi a suon di dinamite, per donare al borgo quel privilegiante colpo d'occhio che da solo si era negato. Ma la determinazione di Courmayeur fu più forte: il duce sbraitò, brigò, dispose; poi, in breve, tutto sbollì. I due monti, intrusi ma pure benefici nello stornare le correnti fredde, restarono al loro posto, e l'indole umbratile del paese non ebbe di che lagnarsi, né la mitezza del suo clima subì pregiudizi.

Se poi uno volesse bearsi occhi e anima di tanto spettacolo, non avrà che da spostarsi di qualche chilometro più in su: e qui, finalmente, sarà la rivelazione piena, deflagrante del Bianco. L'apoteosi del suo fulgore fisico. O, ancor più, dell'Idea che lo investe e trascende.

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