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| << | < | > | >> |Indice11 1. Una donna e un uomo in piedi accanto a un pruno 15 2. Donna con cane in grembo 19 3. In viaggio per Omagh 25 4. Uomo in maglia Lacoste 29 5. Donna anziana con carrozzina 33 6. Giovane donna con la mano sotto il mento 37 7. Uomo in tuta di pelle e casco di protezione in piedi quasi immobile 41 8. Due cani sotto una roccia 45 9. Una casa progettata da Le Corbusier 51 10. Donna in bicicletta 55 11. Un questuante in metropolitana 63 12. Fogli di carta posati sull'erba 67 13. Salmo 139: «...tu mi conosci, tu sai quando seggo e quando mi alzo...» 71 14. Teatro di strada 75 15. Un mazzo di fiori in un bicchiere 79 16. Due figure maschili che lottano a terra sul marciapiede 85 17. Uomo con briglia in mano 89 18. Isola di Sifnos 93 19. Dipinto di una lampadina elettrica 97 20. Una ragazza come Antigone 1O1 21. Amico che parla 1O5 22. Due uomini accanto alla testa di una mucca 1O9 23. Uomo che si denuda il petto 113 24. Casa sui Monti Sabini 117 25. Due gatte in una cesta 121 26. Giovane donna con shapka 125 27. Uomini e donne seduti a tavola a mangiare 131 28. Stanza 19 137 29. Subcomandante Insurgente 143 Nota biobibliografica (Maria Nadotti) |
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Una donna e un uomo in piedi accanto a un pruno
Alle sette di sera un'automobile si è fermata vicino a casa. Il giallo dei furgoni postali francesi. L'auto però aveva una targa spagnola. Sul cofano erano incollati pezzi di scotch. Dipinti di giallo. Non proprio dello stesso giallo. La macchina, comunque, era stata parcheggiata dove nessuno aveva mai parcheggiato. Era un posto possibile. Non ostruiva il passaggio. Ma sino ad allora nessuno lo aveva notato. La guidatrice indossava dei jeans e una polverosa camicia nera con i bottoni bianchi. Veniva dalla Galizia. Prima di allora l'avevo incontrata un'unica volta in vita mia. Per cinque minuti a Madrid. Ero là per una lettura pubblica e, alla fine, la donna, che doveva avere circa trent'anni, mi si era avvicinata e mi aveva porto un rotolo di carta marrone. È un regalo per lei. Lo avevo srotolato e avevo visto un disegno. Si guadagnava da vivere, mi aveva detto, restaurando affreschi nelle chiese. Se immergi nell'acqua qualcosa che è ricoperto di intonaco, il bianco viene lavato via e il colore originale torna fuori. Spesso però, quando asciuga, ha un'aria leggermente biancastra. Può capitare persino alle tue unghie. Quando la donna mi ha detto che restaurava affreschi, mi è parso di vedere un po' di quel bianco sui suoi vestiti, sul dorso delle sue mani. Prima che potessi chiederle qualcosa, era scomparsa. | << | < | > | >> |Pagina 336.
Giovane donna con la mano sotto il mento
Quando entrava in una stanza piena di gente, aveva un'arroganza quasi bizantina, tipo quella dell'imperatrice Teodora di Ravenna. Lo sapeva benissimo, perché, per una come lei, l'autodifesa cominciava dall'escludere che ci si potesse prendere qualche libertà. E a rendere tale esclusione inequivocabilmente chiara erano tanto la sua espressione quanto il suo portamento. Dico «una come lei» perché era una musicista e una émigrée, e perché il modo in cui la gonna lunga e pesante le ricadeva sui fianchi quando danzava era biblico - ti faceva pensare a infinite generazioni di donne. Era stata allevata dalla nonna, una contadina ucraina. Da lei aveva imparato ad ammazzare i polli, a dar da mangiare alle oche e a prendersi cura degli eccitati genitori - il padre era un violoncellista e un concertista, la madre una pianista. Sotto la tutela della nonna a dodici anni aveva già acquisito la sicurezza di una donna matura. Il suo primo amante era comparso quando aveva tredici anni. Avrebbe potuto raccontare storie per un mese. Oltre al proprio fondo, aveva quello della nonna cui attingere. Buffe, vere, immaginarie, tutte le sue storie rivelavano come il mondo sia fatto di persone che, come gli uccelli durante un inverno rigido, hanno bisogno in un modo o nell'altro di essere nutriti. C'erano i corvi e c'erano i fringuelli. Quando le raccontava si curvava su se stessa come una vecchia che pela le patate da mettere a cuocere nella minestra. La sua risata - e rideva solo quando lo facevi tu - era lieve e argentina. Concentrata sulla penultima sonata per piano di Beethoven, quando suonava diventava rossa e sudata come una ragazza di campagna. Non riuscirò mai più a separare il pathos di quella sonata dall'odore d'erba che sta seccando del suo sudore. Una volta ho cominciato a farle un disegno subito dopo che aveva finito di esercitarsi. Il piano era ancora aperto e lei era seduta lì accanto. Ho socchiuso gli occhi e ho aspettato. L'impulso a fare un certo disegno viene dalla mano piuttosto che dagli occhi. Forse dal braccio destro, come capita ai tiratori scelti. Certe volte penso che sia tutta questione di mira. Anche suonare l' Opus 110. Il suo occhio sinistro a volte vaga, fino a dislocarsi impercettibilmente. In quel momento tale lieve asimmetria era quanto di più prezioso riuscissi a vedere. Se solo l'avessi potuta toccare, situare, con il mio mozzicone di carboncino, senza darle nome... Lei naturalmente sapeva che le stavo facendo un disegno ed emanava qualcosa che avrebbe incontrato la mia mira. Se ciò che si sprigionava da lei non avesse mancato la mia mira, ma l'avesse toccata, c'era la possibilità che ne venisse fuori un buon disegno. Non ho mai saputo in che cosa consista la somiglianza in un ritratto. Si può vedere se c'è o se non c'è, ma resta un mistero. Per esempio, le fotografie non hanno mai una «somiglianza». Di una fotografia non ce lo si chiede neanche. La somiglianza ha ben poco a che fare con i lineamenti o le proporzioni. Forse nasce da ciò che un disegno riceve, se due mire si incontrano come la punta di due dita. A poco a poco la testa disegnata sulla carta si è fatta più simile alla sua. Eppure ora sapevo che non le si sarebbe mai avvicinata abbastanza, perché, come può capitare quando si disegna, avevo finito per amarla, per amare tutto di lei, e nessun disegno, per quanto buono sia, riesce a essere più di una traccia. | << | < | > | >> |Pagina 5511.
Un questuante in metropolitana
- È tutta questione di tempo -, dice. Lo guardo. Ha ottantasei anni e sembra molto più giovane, come se avesse fatto un contratto speciale con il tempo. I suoi occhi sono di un intenso azzurro pallido e di tanto in tanto hanno un tremito, come la mascella del cane intento a seguire una traccia. È difficile guardare i suoi occhi senza sentirsi indelicati. Sono occhi completamente esposti - non per innocenza, ma perché assuefatti a osservare. Se gli occhi sono la finestra dell'anima, i suoi non hanno né davanzale né tende e lui è lì, inquadrato nella finestra, ed è impossibile vedere oltre il suo sguardo. - Monet e Renoir - dice - hanno dipinto proprio quel che si vede da questa finestra. Erano amici di Victor Choquet, che abitava al piano di sotto. - Choquet, l'uomo di cui Cézanne fece il ritratto, con un viso esile e gentile e la barba? - dico io. - Sì - dice - Cézanne fece vari ritratti di Choquet. Ecco una riproduzione del Monet del Palais Royal. - Vede come la torre si incunea nella cupola, troppo vicina per esserle tangente? Adesso guardi dalla finestra. È la stessa identica cosa. Ha dipinto da questo preciso punto... La fotografia non mi interessa più. Se fosse un animale, penso che sarebbe una lepre; è sempre sul punto di scappar via. Non prendendo il volo. Non con una battuta di spirito. Ma casualmente, per il gusto di farlo. Invece di orecchie, a portargli notizia di tutto, ha occhi. Occhi divertiti. - La sola cosa della fotografia che mi interessa - dice - è la mira, prendere la mira. - Come un tiratore scelto? - Conosce il trattato buddhista zen sul tiro con l'arco? George Braque me lo diede nel '43. - Temo di no. - È uno stato dell'essere, una questione di apertura, di dimenticanza di se stessi. - Non si mira alla cieca? - No, c'è la geometria. Cambi posizione di un millimetro e la geometria muta. - Ciò che lei chiama geometria è estetica? - Nient'affatto. È come ciò che matematici e fisici chiamano eleganza, quando discutono di una teoria. Se un approccio è elegante forse sta avvicinandosi al vero. - E la geometria? - La geometria entra in scena per via della sezione aurea. Ma i calcoli non servono. Come diceva Cézanne: «Quando comincio a pensare, tutto è perduto». Quel che conta in una foto sono la sua pienezza e la sua semplicità. Noto la piccola macchina fotografica sul tavolo accanto a lui, a portata di mano. - Ho smesso di fotografare vent'anni fa - dice - per tornare a dipingere e soprattutto a disegnare. Eppure continuano a farmi domande sulla fotografia. Qualche tempo fa mi hanno offerto un premio per la mia «creativa carriera di fotografo». Ho detto che non credevo in una carriera simile. Fotografare è premere un grilletto, abbassare il dito al momento giusto. Imita il gesto in modo scherzoso, proprio a un palmo dal suo naso. E, mentre rido, ripenso alla tradizione buddhista zen di insegnare scherzando, di rifiutare tutto ciò che è ponderoso. - Nulla va perso - dice -, quel che hai visto rimane con te per sempre. | << | < | > | >> |Pagina 10121.
Amico che parla
(Per Guzine)
A volte sembra che, come un antico greco, io scriva soprattutto di morti e morte. Se così è, posso solo aggiungere che lo faccio con un senso di urgenza che appartiene unicamente alla vita. Abidine Dino viveva con la sua amata Guzine al nono piano di un HLM in uno di quegli studi per artisti che, in un certo periodo, la città di Parigi ha costruito per i pittori. Lì erano felici, ma nell'insieme lo spazio dello studio e dei suoi ripostigli non era più grande di quello a disposizione dei passeggeri di un autobus a lunga percorrenza. Traduzioni, poemi, lettere, sculture, disegni, modelli matematici, raki, mandorle ricoperte di cacao, cassette dei programmi radiofonici in turco di Guzine, abiti eleganti (entrambi, se pur in modo diverso, vestivano con impeccabilità da stilisti), giornali, sassolini, tele, acquerelli, foto - c'era di tutto. E ogni volta che andavo a trovarli, venivo via con la testa ricolma dello spazio di vasti panorami, persino della Grande Anatolia - tale era il modo in cui Abidine e Guzine guidavano il pullman su cui abitavano. Questa settimana Abidine Dino è morto all'ospedale parigino di Villejuif. È morto tre giorni dopo aver perso la voce e non essere più riuscito a parlare. Una settimana fa una delle ultime cose che Abidine mi ha detto è stata: - Non esagerare nel tuo nuovo libro. Non c'è bisogno di eccedere. Mantieniti realista. Lui era realista a proposito del suo cancro. Sapeva quanto fosse grave. Ma l'aggettivo da lui usato per parlare del suo stato di salute era un aggettivo che si potrebbe usare a proposito di una scarpa stretta con cui si è dovuto camminare a lungo.
Ogni immagine che mi torna in mente su di lui quand'era vivo include
inevitabilmente strade, caravanserragli, viaggi. Aveva una vigilanza da
viaggiatore. Come ha detto Saadi, il poeta persiano:
Colui che dorme sulla strada perderà il cappello o la testa. Nella piccola libreria-alcova dello studio, o davanti al cavalletto portatile che di notte chiudeva, Abidine viaggiava di continuo. Dipingeva donne che diventano pianeti. Disegnava il dolore dei pazienti in ospedale come se si servisse dell'ago di un sismografo. Non molto tempo fa mi ha dato la fotocopia di alcuni disegni fatti a persone che erano state torturate. (Come molti dei suoi amici era stato in carcere in Turchia). - Guardali - mi ha detto, mentre mi accompagnava all'ascensore al nono piano -, e può darsi che un giorno, da molto lontano, ti arrivi qualche parola. Forse solo una o due. Basteranno. Dipingeva fiori - le loro gole, i loro canali del Bosforo per l'amore. Quest'estate, all'età di ottant'anni, mentre si trovava in una yali, una casa sul vero Bosforo, ha dipinto una porta bianca con sopra un segno misterioso. Una porta bianca che non era nella yali, ma altrove.
Nella notte della sua morte, mi sono svegliato che non era ancora l'alba, e
ho pregato per lui. Ho cercato di trasformarmi nella lente di una specie di
telescopio perché da qualche parte un angelo, nell'accompagnare Abidine,
riuscisse a vederlo un po' meglio. Forse non meglio. Semplicemente un po' di
più. Poi mi sono trovato faccia a faccia con un foglio di carta bianca, così
pieno di luce che non c'era spazio per nessun colore rimasto orfano.
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