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| << | < | > | >> |Pagina 7Improvvisamente udì più nulla. Manco il sibilo acuto del vento che, soffiando da ovest, aveva lustrato a dovere quella breve frangia di costa. Un presepe, da Marina di Pietrasanta a Forte dei Marmi. Il mare d'inverno. Quello decisamente snob. Una suggestiva cartolina illustrata, by night, per l'Italia incantata del boom economico ricamato sul telaio degli anni Sessanta che si stavano ormai avviando verso l'epocale conclusione. Avvolto da una placenta ancestrale, Sergio si rese conto che il suo cervello aveva smesso di registrare ogni tipo di suono in arrivo dall'esterno. Un silenzio totale, da sottovuoto, cosmico e soprattutto innaturale, viste le circostanze. Di fronte a lui, infatti, in quel momento stava andando in scena l'inferno. Un muro umano gli era di fronte nascondendo un formicaio di anime in guerra per gesti, bandiere, bastoni, pietre, cori e bestemmie. Sicché il fragore avrebbe dovuto essere identico a quello prodotto da un uragano caraibico. Niente. Osservava mille bocche che si spalancavano e che si serravano per poi aprirsi ancora, con una cadenza soltanto esteticamente minacciosa. Sarebbe stato normale venir travolti da un'onda d'urto sonora, figlia di quelle gole e di quei fiati, di proporzioni insopportabili. Invece Sergio riusciva a malapena nell'impresa di leggere e di interpretare il labiale di quella folla da cinema ai tempi del muto. Si convinse che era vittima di un evidente fenomeno paranormale di sdoppiamento. Il corpo, retto da gambe solide anche se un poco tremanti per via dell'eccesso di adrenalina, sudava freddo davanti a quella specie di tsunami che montava sempre più con il trascorrere dei secondi. La mente era stata sollevata, senza nobile cortesia, da un'energia misteriosa e trasportata nel cuore della tempesta, dove sanno bene i marinai che l'assenza di ogni più lieve rumore anziché essere consolante è madre del consapevole terrore. Un sottile senso di nausea cominciava a salirgli dalla bocca dello stomaco. Probabilmente perché, questo lo ricordava perfettamente, erano ore che mangiava nulla. Tre caffè e basta, dalle dieci del mattino a quel momento. E mancava davvero poco alla mezzanotte. Un motivo, razionale, per spiegare ciò che gli stava accadendo doveva comunque esserci per forza. In effetti, la ragione di tanto scombussolamento gli stava proprio davanti agli occhi come un'assurda realtà. La canna, corta e nera, di una pistola puntata contro di lui, a pochi centimetri dalla sua fronte, da una mano visibilmente inquieta e, proprio per questo suo tremore, affatto tranquillizzante. Dietro la rivoltella il dettaglio di un viso da ragazzino, capelli biondi e lunghi fino sulle spalle. Dalle sue labbra il disegno di un fumetto sospeso nell'aria: «Bernardini, pezzo di merda come tutti i tuoi clienti borghesi. Devi crepare». Gli sembrava di conoscere quel tipo. Lo aveva sicuramente già visto da qualche parte. Probabilmente insieme con i suoi genitori nella privilegiata ed esclusiva zona del sottopalco in attesa che cantasse Mina. Oppure ai tavoli del ramino o sul prato del giardino pensile davanti all'ingresso della Bussola dove d'estate, nel tardo pomeriggio, tutti i giorni si ritrovavano i rampolli delle famiglie bene, in villeggiatura, con in mano un bicchiere di Negroni e con sotto gli occhi le borse rivelatrici di un sonno rubato alla notte precedente. Il ragazzo doveva avere più o meno la stessa età di suo nipote Marco. Già, Marco. Non lo incontrava da almeno un anno e la cosa gli dispiaceva sinceramente. Non tanto perché fosse il figlio, unico, di suo fratello Giuseppe quanto perché, vedendolo crescere fin da bimbetto, aveva potuto notare in lui quelle caratteristiche, sia fisiche sia interiori, che ne facevano un autentico componente del suo branco. E il senso della famiglia, per Sergio, era sacro quanto il totem per i pellerossa Sioux. Sicché era stato molto doloroso, il Natale precedente, doversi scannare a brutte parole con quel pezzo di cuore che gli rimproverava di aver dimenticato totalmente il suo passato di giovane ribelle e di anarchico e di aver venduto l'anima a quelli che il giovane definiva, molto semplicisticamente, «i padroni». Si erano letteralmente mandati affanculo e le telefonate tra loro, prima rigorosamente settimanali, erano diventate un semplice ricordo. Identica espressione quella del biondino, sospesa tra lo sprezzante, l'incazzato e lo smarrito. Uno squarcio di ironia sopra il sipario, nero a lutto, che in quel momento era calato tra lui e quel muro di umanità imbestialita. È davvero buffa e paradossale la vita, Sergio. Ora i figli dei miei clienti vogliono spararmi in fronte, mentre i loro genitori sono seduti ai tavoli della mia «bottega» con in mano una coppa di champagne, pronti a brindare all'anno nuovo che sta per arrivare, si disse commentando un mondo ai suoi occhi decisamente capovolto. Una spruzzata di seltz nella coppa al veleno che gli stavano presentando, a fior di labbra, per fargliela bere tutta di un fiato. Paralizzato, osservava la minuscola bocca rotonda dell'arma tentando di ribellarsi all'insano piacere di lasciarsi inghiottire da quel buco dentro il quale si allungava una strada molto breve eppure senza possibilità di ritorno. Al fondo di quel pozzo avrebbe trovato requie. Ecco perché forse, invece di lasciarsi travolgere dallo strazio della paura, riusciva a crogiolarsi solamente in quell'enorme dispiacere che è fatale per chiunque si veda obbligato a dover lasciare, suo malgrado, una grande opera a metà. Lampi di pellicola gelatinosa ad accendergli e a traversargli la mente. Il viso di sua moglie Bruna, subito. Poi quelli di Guido e di Mario, i suoi figli. Italo, il padre. Mamma Virginia. Un bacio a tutti e volo via. Un bell'inchino e grazie tante per l'applauso, pensò un po' troppo teatralmente cialtrone per poter essere credibile anche a se stesso. Poi, una scossa di ribellione. Merde, in francese, naturalmente, perché così gli aveva sempre portato fortuna. Lui, toscano di sangue epperò nato a Parigi dove sua madre faceva la bonne ai figli dei fratelli Lumière, mentre il babbo si occupava del giardino di quella villa da cinemascope, mai aveva dismesso il vezzo di intercalare a quel modo nelle occasioni speciali. E questa era decisamente molto particolare, oltre ogni ragionevole dubbio. Un'imprecazione, quel «merde», che già gli aveva salvato la vita una volta, tanti anni prima. Forse valeva la pena provarci ancora. Anche la luna, in cielo, osservava curiosa. | << | < | > | >> |Pagina 41Fortunatamente si stava avviando alla fine anche quel maledetto venerdì 17. Era vero che in tempo di positivismo ortodosso ogni forma di atteggiamento scaramantico o addirittura esoterico male si adattava alla filosofia politica, in modo speciale a quella significata dal materialismo storico. Eppure poterlo definire diversamente da ciò che si è soliti configurare come il classico giorno di merda sarebbe stato a dir poco riduttivo. Con ogni proabilità, anzi sicuramente, gli influssi delle cattive stelle c'entravano nulla con la sfiga quotidiana. Ma, di fatto, quella era Torino, ovvero città magica per eccellenza nella quale viveva e operava un personaggio tanto misterioso quanto affascinante: Gustavo Rol, pittore eccellente e parapsicologo talmente fascinoso al punto che neppure il compagno più cinico e ortodosso avrebbe osato definire ciarlatano. Sicché, se andava così di schifo, qualche cosa di strano nell'aria doveva pur esserci. Questo, almeno, pensava Marco anche se manco sotto tortura avrebbe confessato queste sue inquietudini troppo spirituali e quindi ben poco di sinistra. Praticamente blindati al terzo piano di Palazzo Nuovo, negli uffici e nelle aule dell'Istituto di Sociologia, occupato dagli studenti ormai da un mese e mezzo, Marco e i suoi compagni si muovevano come automi, reduci da una successione di avvenimenti massacranti e non soltanto in senso metaforico. Miky Natale, per esempio, era quello conciato peggio di tutti gli altri. Aveva la testa fasciata da una sorta di ampio turbante che, in origine, doveva essere stato bianco. Una larga chiazza nera, di sangue rappreso, si era allargata circolarmente all'altezza della nuca al punto da farlo sembrare per una metà rabbino e per l'altro beduino nomade del deserto. Luisa Mantovani e Chiara Garavini avevano fatto del loro meglio per ricucirlo, usando ciò che erano riuscite a trovare all'interno della cassetta del pronto soccorso, ma nonostante l'emorragia fosse stata arrestata da qualche ora era evidente a tutti che quel marcantonio di «katanghese» stava proprio niente bene. Un gigante pallido come un cencio, costretto ad appoggiarsi alla macchina del ciclostile per non cadere. Simbolo vivente, per usare un eufemismo, di quello schifoso venerdì 17 che, anche per il temerario e baldanzoso militante del servizio d'ordine del Movimento Studentesco, era iniziato proprio in maniera storta. Alle nove del mattino l'esercito dei fascisti si trovava già schierato davanti alla scalinata dell'università umanistica torinese, mostrando la chiara intenzione di non volersi limitare a montare un casino con soli gesti e voce. A fare da barriera protettiva il solito cordone di poliziotti, visibilmente più annoiati che non realmente tesi e in tenuta da guerriglia urbana, ai quali il vicequestore Voria raccomandava ogni due minuti di stare calmi, permettendo loro persino di fumare una sigaretta. In prima linea quelli del Fronte della Gioventù, con addosso le loro inconfondibili mantelle nere. Poi, a seguire, gli altri studenti non particolarmente politicizzati, ma sicuramente molto incazzati. Perlopiù universitari iscritti a Ingegneria, Matematica e Legge nelle cui facoltà i «rossi» di Guido Viale e di Massimo Negarville non avevano cittadinanza facile. Infine, verso il fondo di quel corteo, composto da un migliaio di giovani, il gruppo di quegli studenti medi i quali non avevano aderito alle occupazioni che, negli ultimi giorni, avevano praticamente paralizzato l'intera macchina scolastica della città, così come era accaduto in ogni angolo del paese. Due passi avanti, a pochi metri dalla prima fila di poliziotti, il solito Otello Barontini. Il braccio armato del Movimento sociale italiano. E anche quando succedeva che non era provvisto di mazza o di quant'altro per far male, la cosa non cambiava in niente perché persino i «katanghesi» del Movimento temevano non poco, fisicamente, quella montagna di muscoli con un cervello da gallina. «Fuori i comunisti bastardi! Rivogliamo la nostra università! Se non uscite vi veniamo a prendere noi! Vigliacchi, pezzi di merda, culattoni e troie.» Nulla di particolarmente eccezionale e niente di squisitamente originale, rispetto al copione consueto. All'interno di Palazzo Nuovo, ammassati a pianoterra con qualcuno ancora infilato nel sacco a pelo dentro il quale aveva trascorso la notte, non si percepiva una particolare preoccupazione per quel che stava accadendo fuori. L'idea generale è che tutto si sarebbe risolto come al solito con Voria che, arrivata l'ora del pranzo anche per lui, ormai uomo abitudinario di mezza età, prima avrebbe indossato la fascia tricolore e subito dopo avrebbe ordinato ai suoi ragazzi di sgomberare la piazzetta senza badare troppo al sottile. Ma, evidentemente, in quel venerdì jellato il vicequestore si era alzato dal letto convinto di averne ormai le palle piene di rossi e di neri. Che se la vedessero un poco direttamente tra loro, per una volta. Barontini non era tipo da passare inosservato. Eppoi la sua faccia, presa di fronte e di lato, stava appesa in tutte le bacheche delle caserme alla voce «elemento politicamente pericoloso legato ai movimenti dell'estrema destra». Eppure, quasi avesse chiesto permesso con inusitata cortesia, passò con facilità tra due poliziotti e, seguito da tre altri suoi camerati, prese a salire tranquillamente la scalinata. Almeno cento erano i gradini sui quali arrampicarsi per arrivare alla vetrata d'ingresso di Palazzo Nuovo. Allorché Barontini e i suoi tenebrosi amici si trovarono a metà del percorso, all'interno scattò l'allarme rosso. «Ma che cazzo...», fu però troppo lesto e incauto Miky nella sua sortita, la cui rapidità di esecuzione sorprese gli stessi compagni intenzionati a seguirlo per tentare di bloccare l'incursione fascista. Uscì, da sotto la mantella, la mano destra del Barontini stretta sull'impugnatura di una mazza da baseball la cui estremità, per fortuna arrotondata, finì pesantemente e violentemente sulla testa di Miky che cadde a terra come un sacco di patate e prese a rotolare lungo la gradinata. Fu soltanto a quel punto che Voria e i suoi poliziotti sembrarono accorgersi della rissa. Così, tra urla e imprecazioni, un bouquet di manganelli d'ordinanza provvide a sciogliere il mucchio selvaggio sul quale, in piena attività boxeristica, giganteggiava la figura di Otello Barontini. La testa aperta di Miky Natale, portato via a braccia da due compagni di Soccorso Rosso, grondava come una fontana per la quale è diventato impossibile chiudere il rubinetto. E quella era stata solamente la prima parte di un venerdì 17 tutto da cancellare.
Marco osservò fuori dal vetro della finestra. Buio pesto.
Manco si era reso conto che le ombre della notte avevano ormai sfrattato la
livida luce invernale. Si avviò, stancamente,
verso il portamantelli dal quale staccò l'eskimo dopo aver
ben controllato che fosse veramente il suo, in mezzo ai tanti
che penzolavano. Quante volte gli era capitato di trovarsi a
dover entrare, invano e per distrazione, dentro la «divisa» di
un altro di due misure più piccola. «Dove credi di andare,
compagno?» La voce di Paolo Hutter gli piovve addosso con
l'effetto paralizzante di una doccia gelata. Il tono, da domanda retorica,
ammetteva una sola risposta. Tentò di bluffare:
«A casa, per un paio di ore, quindi al cinema. Non entro sotto una doccia da tre
giorni e mi faccio schifo da solo, porca
puttana. E poi toccherebbe a me, secondo i turni concordati, prendermi questa
volta una notte di libertà». Come avesse
abbaiato alla luna. Sussiegosa, ma rigida la replica.
«Rien à faire, mon ami.
Nuove e importanti disposizioni. Tra un'ora,
in aula magna, per il direttivo. Ordini di Guido e di Massimo. A proposito, da
Pisa sta arrivando anche Adriano. Cose
grosse in pentola. Del resto c'era da aspettarselo, dopo i fatti di Avola. Vivi
mica sulla luna, no?»
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