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| << | < | > | >> |IndiceIX Introduzione Le ragioni di questo libro Virginio Bettini 3 1. La storia del nucleare non depone a suo favore Giorgio Nebbia 19 2. Alla ricerca del sito Virginio Bettini, Chiara Rosnati 39 3. Il nucleare impossibile Angelo Baracca, Giorgio Ferrari 91 4. L'eredità nucleare: Sogin, un'esperienza allarmante Daniele Rovai 161 5. Verso una società solare Giorgio Nebbia 165 Appendice Lo stato dell'industria nucleare mondiale Mycle Schneider, Antony Froggatt 217 Note 239 Bibliografia |
| << | < | > | >> |Pagina IXIntroduzione - Le ragioni di questo libro
Virginio Bettini
Questo libro non è un instant book. Gli autori lavorano da molto tempo sull'argomento, alcuni da oltre trent'anni, un lasso di tempo, nel corso del quale «le giuste ragioni del ritorno all'energia nucleare», sono venute meno, sulla base di nuovi dati e specifiche riflessioni-argomentazioni. Una delle ultime riflessioni risale a cinque anni or sono, al 2003, quando l'allora ministro Carlo Giovanardi si recò al meeting di Erice sulle emergenze nucleari per dichiararsi «personalmente favorevole» al nucleare, lanciando l'idea di un «federalismo delle scorie» da stoccare in siti regionali. Eravamo in uno dei momenti più caldi della discussione relativa al sito di Scanzano Jonico. L'allora Ministro per i rapporti con il Parlamento non solo sostenne che, per stoccare le scorie nucleari, ogni regione avrebbe avuto a disposizione un proprio sito, ma anche che, se un giorno si fosse dovuto nuovamente parlare di nucleare come fonte d'energia in Italia, da parte sua non vi sarebbe stata alcuna posizione contraria: l'idea lo trovava favorevole (Menafra, 2003). Ora il problema di una nuova stagione nucleare in Italia, dopo il fallimento di quella degli anni Sessanta-Settanta del secolo scorso, è stato rilanciato dal Governo di centro-destra, dopo un approccio piuttosto equivoco da parte del precedente governo Prodi. Vorremmo fare riflettere i lettori su questa scelta che riteniamo «impossibile». In primo luogo, con l'aiuto di Sergio Carra, professore di ingegneria chimica al Politecnico di Milano, per nulla oppositore per ragioni ideologiche e di principio del nucleare, vorremmo chiarire come, facendo un semplice calcolo sui costi della produzione di energia elettrica attraverso la tecnologia nucleare, si potrebbe spiegare come l'atomo non sia una soluzione. I numeri sono numeri. Per il nucleare, di cui si dovrebbero realizzare almeno una ventina di centrali per poter produrre il 10% del fabbisogno italiano di energia, occorrono grossi capitali d'investimento il cui ritorno non avverrebbe prima di 10 anni, anche non tenendo conto del costo dello smantellamento futuro delle centrali e dello stoccaggio delle scorie. Ovviamente nessuno di noi è contrario alla ricerca in merito alle nuove tecnologie. Da una vita ribadiamo il ruolo e la funzione della ricerca, tenendo però conto che la prospettiva, in termini di realizzazione di impianti nucleari della quarta generazione, si collocherebbe ben oltre la metà del XXI secolo. Se vogliamo, come dice Sergio Carra, non tener conto dei risultati del referendum italiano sul nucleare (ma sarebbe sbagliato in quanto, prima di avviare un nuovo programma si dovrebbe verificare il parere dei cittadini), dobbiamo ricordare che negli Stati Uniti non si costruisce un impianto nucleare dal 1973. In America la decisione non è stata la conseguenza d'alcun referendum. Una ragione esiste ed è unicamente, squisitamente, di ordine economico. In questo gli Stati Uniti sono un esempio, ma da noi le ragioni economiche sono prese in considerazione solo quando hanno un significato giustificativo nei confronti di una scelta. In Europa si propone sempre il caso francese, non tenendo conto che la Francia ha compiuto una scelta decisiva e radicale a favore del nucleare, ai tempi di De Gaulle, mezzo secolo fa, per ragioni legate alla force de frappe, quindi per ragioni di ordine militare. Ora gli impianti nucleari francesi sono quasi tutti in scadenza, in termini temporali, per quanto attiene alla sicurezza e dovranno presto essere posti in decomissioning, come segnalato dagli incidenti del luglio 2008 nelle centrali di Tricastin e Romans-sur-Isère. Sono ben 131 le installazioni nucleari di base (reattori in servizio, reattori declassati, impianti per la produzione del combustibile, impianti di ritrattamento, aree di stoccaggio delle scorie) che dovrebbero essere seriamente verificate in termini di sicurezza (Kempf, Méjean, 2008). La Francia sta puntando sul nucleare, per ora con la sola complicità finlandese, detto di terza generazione, che sarebbe forse più corretto definire di seconda generazione plus. La Francia dovrà comunque, molto presto, rinnovare i propri impianti nucleari, tenendo conto che bonificare il terreno di una centrale costa quanto costruirne una nuova. Le cifre sono da capogiro e non vanno ignorate (De Ponte, 2006). Come da capogiro restano anche le previsioni relative ai costi della pura e semplice costruzione. I promotori del nucleare italiano parlano di 20-40 miliardi di euro per 5-10 centrali da 2000 MWe, ma l'agenzia di rating Moody's, come vedremo in seguito, parla di 3200-3800 euro per kW, contro le ipotesi di 2000 euro di Edison. L'Italia che torna al nucleare, in questa prima fase, avrebbe un costo compreso tra i 30 ed i 70 miliardi di euro. Al momento, nel nostro paese, i capofila del ritorno al nucleare sono, oltre al ministro Scajola, i rappresentanti della Edison, il secondo gruppo elettrico italiano, e, naturalmente, l'Enel. Una certa responsabilità è anche da attribuirsi all'ex ministro Bersani. La Edison, in accordo con il nuovo Ministro dello Sviluppo Economico Scajola, propone l'immediata progettazione e localizzazione di 5-10 centrali nucleari, al costo di 20-40 miliardi di euro. Si tratterebbe di cominciare subito, onde disporre della prima centrale nel 2019 ed ipotizzare un nucleare in grado di generare il 20-25% del fabbisogno elettrico nazionale. Per capire questo amore di Edison per il nucleare basta ricordare che la società Edison è controllata, al 50% da Edf, la società elettrica francese che, nel nucleare, sguazza (Ricci, 2008). La Electricité de France e la Edison sostengono che il passaggio al nucleare resta fondamentale per combattere il riscaldamento del pianeta, con il conseguente cambiamento climatico, ma, in questo libro, vedremo quanto ciò sia falso. La Edison ha idee molto chiare, come del resto l'Enel e così definisce, operativamente, il proprio piano: - un anno di dibattito generale; - un anno per scegliere il sito; - due anni per disporre delle necessarie autorizzazioni; - due anni per la preparazione del sito;
- cinque anni per costruire la centrale.
Ci si consenta un qualche dubbio sulla credibilità di questo modello temporale, in quanto non è chiaro, in primis, quale possa essere il significato e l'obbiettivo del dibattito se si punta direttamente al nucleare e non si discute della prospettiva dei modelli energetici possibili nei prossimi 25-30 anni, come ci è stato più volte suggerito anche da Rubbia. In secondo luogo si è da tempo dimostrato come, sulla base dei parametri della sicurezza, della valutazione del rischio e del rispetto ambientale, i siti nucleari, in Italia, siano «impossibili» (Bettini, 1981). In terzo luogo non sappiamo chi possa essere in grado di assicurare la costruzione di una centrale in 5 anni, considerato che il reattore nucleare finlandese EPR di Olkiluoto, la cui costruzione è stata avviata nel 2005, si trova già in ritardo di due anni. Infine vorremmo ricordare, ai signori della Edison, in particolare ad Umberto Quadrino, amministratore delegato della società, che non si può avviare la costruzione di nuove centrali prima di aver risolto il problema dello stoccaggio delle scorie. La Edison valuta che 5-6 reattori, nell'arco di vita di 60 anni, possano produrre 21.000 metri cubi di residui. Quale sarebbe il sito che potrà stoccare queste scorie? Con il decreto 25 febbraio 2008, il Ministero dello Sviluppo Economico costituiva il gruppo di lavoro per l'individuazione della tipologia, delle procedure e delle metodologie di selezione dirette alla realizzazione, in un sito del territorio nazionale, di un centro di servizi tecnologici e di ricerca ad alto livello nel settore dei rifiuti radioattivi (GU n. 57 del 7-3-2008). Sappiamo che, nel nostro paese, non esistono siti geologicamente sicuri, come dovrebbe essere quello individuato in Finlandia ed anche in questo caso sarebbe bene una decente considerazione circa il dibattito che ha interessato il sito di Scanzano Jonico ed una valutazione attenta delle ragioni del naufragio del sito di Yucca Mountain (Buccolo, Stigliani, 2008; Bettini, 2006). L'amministratore delegato di Edison, in un'intervista a «la Repubblica», del marzo 2008, ha sostenuto la necessità di affrontare il problema del nucleare in termini «non ideologici», correggendo la rotta e parlando di centrali realizzabili in 10 anni. Quadrino non ha mezzi termini e dice: mettiamoci al lavoro subito e la prima centrale di terza generazione (che, ribadiamo, sarebbe bene chiamare di seconda generazione plus in quanto di nuovo dal punto di vista tecnologico c'è ben poco) sarebbe pronta tra 10 anni. Quadrino vorrebbe che si parlasse di pro e contro per la definizione e la scelta dei siti nucleari che però, come già abbiamo dimostrato nei primi anni Ottanta, nel nostro paese sono «impossibili», definendo un rapporto corretto con il territorio, che, per lui, significa «investimenti per la comunità ed elettricità a prezzi più bassi». La classe politica, secondo Quadrino, avrebbe una specifica funzione: «La classe politica deve saper spiegare al Paese che bisogna scegliere tra i rischi dell'effetto serra, che sono ingestibili ed i rischi del nucleare, che sono gestibili». Anche le scorie nucleari, per Quadrino, sono assolutamente gestibili: «Ci sono, nel mondo, siti geologicamente sicuri e probabilmente anche in Italia. Discutiamone tenendo presenti due cose: leadership politica e rapporto con il territorio» (Ricci, 2008). In altre parole: i politici facciano quello che suggeriamo noi industriali e nessun problema per la popolazione: la compriamo con investimenti ed infrastrutture. Un concetto che Quadrino ha sostenuto anche nel corso della tavola rotonda «Nucleare, speranza o tabù?» tenutasi a Milano, il 7 giugno 2008, nell'ambito del Festival Internazionale dell'Ambiente. Quadrino ha ribadito: «Non chiediamo incentivi pubblici, le nuove centrali potrebbero essere, per lo Stato, a costo zero, perché saranno le aziende a fare i loro conti ed a costruire adeguati business plan per sostenere l'investimento» (Crivelli, 2008). Al manager Umberto Quadrino ha indirettamente risposto il premio Nobel per la Fisica, Carlo Rubbia in maniera sintetica, direi efficace e lapidaria: «Non esiste un nucleare sicuro o a bassa produzione di scorie. Esiste un calcolo delle probabilità per cui, ogni 100 anni, un incidente nucleare è possibile: e questo evidentemente aumenta con il numero delle centrali» (Valentini, 2008). Il professor Rubbia sarebbe per un nucleare innovativo, per l'uso del torio, elemento largamente disponibile in natura, che potrebbe alimentare un amplificatore nucleare, un acceleratore, un reattore non critico, che non provochi reazioni a catena, non produca plutonio. Dal torio non si tira fuori una bomba, quindi si taglia il legame tra nucleare civile e nucleare militare. La tecnologia suggerita da Rubbia è già stata sperimentata su piccola scala ed un prototipo del costo di 500 milioni di euro potrebbe anche servire a bruciare le scorie ad alta attività nel nostro paese, producendo, al tempo stesso, una discreta quantità di energia. La posizione di Rubbia, se completamente accolta ed implementata, potrebbe fare definitivamente chiarezza su quello che altri due fisici, Gianni Mattioli e Massimo Scalia, dell'Università di Roma, definiscono «favola atomica», quella che racconta: dal nucleare potremmo trarre energia abbondante, in grado di liberarci dalla schiavitù del petrolio e del gas, energia pulita in grado di contrastare l'incubo del cambiamento climatico, energia a prezzi più limitati. Una favola, appunto, senza fondamento scientifico e razionale. A questa favola però credono sia il Governo sia Confindustria. Il Ministro dello Sviluppo Economico, Claudio Scajola, ritiene che, sul nucleare, la svolta sia ormai decisa. L'impegno nucleare italiano avrebbe, come primo obiettivo, la riduzione, in maniera strutturale, dei costi dell'energia. Il Consiglio dei Ministri, su sua proposta, entro il 30 giugno 2009, dovrà definire la strategia energetica nazionale, ma, prima ancora, entro il 31 dicembre 2008, il Governo avrebbe dovuto emanare i decreti legislativi nei quali sarebbero stati indicati i criteri per la localizzazione degli impianti, per i sistemi di stoccaggio dei rifiuti radioattivi, per la definizione delle misure minime di compensazione nei confronti delle popolazioni interessate (per ora, la sola compensazione individuata è lo sconto sulla bolletta elettrica). Scajola ha poi dichiarato, l'8 luglio 2008, che alcune Regioni ed Amministrazioni Locali sarebbero interessate ad ospitare le nuove centrali nucleari che il governo ha annunciato di voler costruire entro la fine della legislatura. Non ha chiarito quali siano le Amministrazioni interessate, ma ha ribadito che i síti, i quali ospiteranno le centrali e lo stoccaggio delle scorie nucleari, potranno essere dichiarati aree di interesse strategico nazionale. Così, dopo la militarizzazione delle aree urbane, avviata il 4 agosto 2008, avremmo, in questo sempre meno democratico paese, anche la militarizzazione dei siti energetici, ovviamente non tenendo per nulla conto di un segnale che ci giunge anche da attenti osservatori europei. | << | < | > | >> |Pagina 39Capitolo 3Il nucleare impossibile
Angelo Baracca, Giorgio Ferrari
I presupposti del rinascimento nucleare (nuclear renaissance) si basano principalmente su tre aspetti che vengono comunemente assunti a riferimento nell'ambito delle politiche energetiche proposte in molte nazioni sviluppate e come tali presentati al grande pubblico, senza nessuna discussione di merito, come fossero verità assolute: il primo aspetto riguarda le emissioni di CO2 e gas serra per le quali il nucleare è considerato ad apporto zero (carbon free); il secondo attiene al problema della sicurezza degli approvvigionamenti energetici, cioè all'affermazione che le forniture di uranio a differenza di quelle dei combustibili fossili non sarebbero soggette a limitazioni quantitative, né a condizionamenti politici; il terzo riguarda la competitività economica del kWh nucleare. In questo capitolo esamineremo in dettaglio questi aspetti, cercando di tenere conto debitamente di tutti i fattori che di solito vengono trascurati, o peggio occultati; in sintesi, dimostreremo che: Se è vero che il processo di fissione che avviene nel nocciolo dei reattori è a emissioni zero, tutte le altre fasi del ciclo nucleare dall'estrazione e lavorazione del minerale, al trattamento dei residui e allo smantellamento delle centrali produce CO2 e gas serra in abbondanza: un punto essenziale è che l'entità di tali emissioni, soprattutto nelle fasi di estrazione e lavorazione del minerale, dipende in modo drammatico (come dovrebbe apparire abbastanza ovvio anche per un profano, purché gli venga fatto notare) dalla concentrazione di uranio nel minerale e, con l'esaurimento prossimo dei depositi più ricchi e facili da estrarre, può arrivare anche ad uguagliare, o addirittura a superare, le emissioni delle centrali a gas; un'analisi circostanziata e non preconcetta della consistenza e distribuzione dei giacimenti minerari accertati e di quelli «stimati» mostra che la disponibilità di uranio nel mondo non è affatto quella che si vorrebbe far credere, né è esente da condizionamenti geopolitici: in ultima analisi, questo problema è strettamente legato a quello precedente, perché la presenza di uranio sulla crosta terrestre è certamente ingente in termini assoluti, ma una volta esauriti i giacimenti in cui esso è più concentrato, la possibilità di sfruttare i minerali più poveri è assai dubbia, non solo dal punto di vista economico, ma dallo stesso punto di vista energetico, poiché può richiedere più energia di quanta l'uranio estratto possa fornirne;
il problema dei costi di un programma nucleare, infine, è molto più
complesso di come viene di solito presentato. In primo luogo, infatti, i
costi non si riducono solo a quelli di costruzione dell'impianto (sul
quale pure gravano molti più interrogativi di quanto si vorrebbe far
credere, come dimostrano gli impianti in costruzione) e del combustibile, ma
devono tenere conto di quelli legati ai problemi testé citati
(per esempio, alla bonifica dei siti minerari), ed alla gestione della
«coda» del ciclo, cioè al trattamento e condizionamento dei residui
nucleari ed allo smantellamento finale dell'impianto
(decommissioning).
In secondo luogo, gli stessi costi, e tempi, di costruzione di un
impianto nucleare non possono venire semplicemente trasferiti da un
paese ad un altro, poiché dipendono in modo determinante dal livello
tecnologico e dall'esperienza pregressa, dallo stato e dalle condizioni
dell'industria nazionale (fra le altre cose, pubblica o privata), nonché
dall'esistenza o meno nel paese di programmi nucleari militari.
Riteniamo opportuno, e corretto, anteporre ancora una considerazione
generale alla discussione di questi punti.
Una premessa doverosa, di metodo, e di sostanza Poiché si discute delle possibili soluzioni dei problemi energetici dei loro costi e delle loro ricadute, oltre che degli aspetti della sicurezza è gioco forza esaminare la tecnologia nucleare in rapporto alle altre tecnologie esistenti: carbone, gas, solare, eolico, idroelettrico (precisiamo subito che non includeremo il petrolio, in quanto esso ha ormai un ruolo residuale nella produzione di energia, in quanto la sua progressiva scarsità impone di destinarlo principalmente agli usi più importanti, e difficilmente sostituibili, dell'industria chimica di cui è alla base). Ma nel fare questo dobbiamo prendere nettamente le distanze dalla logica con la quale tali confronti vengono impostati e discussi. La tecnologia nucleare presenta infatti delle caratteristiche intrinseche che non sono in alcun modo rapportabili, tanto meno paragonabili, a quelle delle altre tecnologie: esse risiedono nell'assoluta unicità dei processi nucleari. Tutta la biosfera si fonda su processi chimici, dovuti alle proprietà degli elettroni che costituiscono la parte esterna degli atomi, mentre il nucleo dell'atomo gioca un ruolo assolutamente marginale nei processi naturali sulla superficie terrestre (al contrario il processo di fusione dei nuclei leggeri è fondamentale all'interno delle stelle, e quindi su scala astronomica); inoltre i processi di trasmutazione nucleare comportano singolarmente energie dell'ordine di un milione di volte di quelle sviluppate dai processi elettronici, e pertanto quando vengono prodotti artificialmente risultano incompatibili con la presenza di esseri viventi. Il problema noto come la «sicurezza» degli impianti nucleari (ma esso si presenta, sia pure in termini diversi, per tutti gli usi delle tecniche nucleari: sanitari, agricoli, industriali) non può venire affrontato, come ci viene sempre proposto, paragonando le probabilità di incidenti gravi in una centrale nucleare ad un impianto termoelettrico tradizionale, per vari motivi, che qui ci limitiamo ad accennare. In primo luogo, l'eventuale esplosione di una centrale a gas può avere conseguenze drammatiche e letali in una zona abbastanza circoscritta, le quali si esauriscono comunque dopo l'incidente: un incidente grave in una centrale nucleare, anche qualora fosse sulla carta molto meno probabile, può avere, per quanto ora detto, conseguenze sanitarie ed ambientali che possono estendersi anche a territori lontani ed alle generazioni future, come si è ben visto (ma forse il peggio si deve ancora vedere) per l'incidente di Chernobyl del 1986 (per quanto gli organi ufficiali si sforzino di sdrammatizzarne e ridurne l'impatto!). In secondo luogo, appare ridicolo e irresponsabile il modo in cui, nei casi di incidenti a centrali nucleari che si stanno ripetendo con una frequenza preoccupante, le autorità si precipitano ad assicurare che «non vi sono state conseguenze all'esterno» (quando addirittura non cercano maldestramente di tenere nascosto lo stesso incidente all'opinione pubblica): il motivo risiede nel fatto che la tecnologia nucleare è estremamente più complessa e incontrollabile delle altre più comuni tecnologie, e le analisi degli incidenti che sono avvenuti mostrano che molto spesso le misure prese quando un malfunzionamento si è innescato hanno provocato nel reattore risposte inattese, diverse od opposte a quelle previste. Per questi motivi è completamente giustificata la reazione dell'opinione pubblica di fronte a qualsiasi incidente che si verifica in una centrale nucleare (oltre che per la superficialità e l'inaffidabilità dimostrata dai tecnici e dalle autorità). Nell'analisi dei punti che abbiamo anticipato prescinderemo da questa premessa: ma in base ad essa il lettore è autorizzato a fare la tara sulle nostre stesse considerazioni. Ma vogliamo aggiungere ancora una considerazione, che non possiamo riprendere nel seguito. Se la sequenza degli incidenti a centrali nucleari nell'ultimo anno è, a nostro parere, un indice dell'invecchiamento degli impianti esistenti (si veda il Box), essa mostra anche la complessità crescente di applicare controlli di sicurezza adeguati. Alla fine di agosto 2008 il Governo regionale della Catalogna ha esplicitamente criticato le compagnie elettriche Endesa (di cui l'Enel detiene il 67% del pacchetto azionario) e Iberdrola, dopo la serie di incidenti alle loro tre centrali nucleari, per avere tagliato i costi e ridotto gli investimenti sulla sicurezza. La situazione non è certo destinata a migliorare visto l'ulteriore invecchiamento del parco reattori esistente, né se verranno promossi programmi di costruzione di nuove centrali. Per il primo aspetto, «nel parco nucleare francese esistente, il numero di eventi rilevanti per la sicurezza (safety) è cresciuto costantemente da 7,1 per reattore nel 2000 a 10,8 nel 2007, anche se Edf (Ιlectricité de France) sottolinea che gli eventi seri sono diminuiti (l'articolo è precedente agli incidenti del luglio 2008). Questa è una tendenza preoccupante considerando che il parco impianti invecchia ed è pensabile che questi eventi potranno solo aumentare con l'età». Quanto al secondo aspetto, «ci sono anche gli errori edili commessi da Areva nella costruzione di nuovi impianti, che sono basati sul progetto EPR che la ditta sta cercando di vendere ovunque. Nel dicembre 2007 la ditta avviò un progetto EPR a Flamanville, in Francia, dove le autorità di sicurezza nucleare francesi hanno osservato che non sono state seguite specifiche e procedure tecniche fondamentali, come la corretta gettata del cemento, fino all'ordine senza precedenti di maggio di fermare a tempo indeterminato la gettata di cemento». Per quanto riguarda poi altri paesi, «il capo dell'Autorità Francese di Sicurezza Nucleare ha valutato che ci vorrebbero almeno 15 anni per costruire il sistema di regolazione necessario in paesi che stanno partendo da zero». Forse ancora più paradossale è che nemmeno la Francia del tutto-nucleare più che trentennale su questo piano può dormire sonni tranquilli: «Circa il 40% degli operatori e del personale della manutenzione di Edf si pensionerà entro il 2015. Di conseguenza la Francia si troverà una formidabile carenza di lavoratori specializzati». Si deve sottolineare che lo scenario prospettato dai sostenitori del nucleare per la costruzione di nuovi 700 GW di potenza comporterebbe il raddoppio della produzione di scorie e la riduzione del margine di sicurezza per quel che concerne la possibilità di un incidente severo su un impianto, che è funzione del numero di reattori: si può prevedere un aumento dall'attuale tasso di un potenziale incidente grave ogni 200 anni (in base alla sommatoria sul numero dei reattori esistenti della stima della probabilità annua 1/10000 che avvenga un evento catastrofico su un singolo reattore) a uno ogni 100 circa, nel caso il raddoppio della potenza avvenga raddoppiando il numero dei reattori. Per non parlare poi dell'aumento dei rischi di proliferazione nucleare: per un lato questi di fatto preoccupano i governanti mondiali, per cui si vagheggia di accentrare i processi di arricchimento in pochi impianti sotto l'autorità e il controllo della IAEA; ma dagli incontri preparatori della conferenza di revisione del TNP del 2010 appare chiaro che molti paesi sono disposti a sottomettersi a restrizioni solo a fronte di concessioni da parte delle potenze nucleari (Corea del Nord docet). In ogni caso, gli interessi economici e politici sono così forti da lasciare molti dubbi sull'effettiva volontà e capacità di risolvere e controllare questi pericoli (e d'altronde, come si penserebbe di gestire la situazione nel lungo periodo nelle crescenti condizioni di instabilità e incontrollabilità degli equilibri mondiali?). D'altronde, la Francia che promuove così attivamente il nucleare nel mondo «sulla proliferazione ha un passato rovinosamente insoddisfacente, avendo fornito assistenza nucleare alla maggior parte degli stati che hanno in modo ufficiale o non ufficiale armi nucleari nel mondo. Il programma militare israeliano si basò su tecnologia francese, così come gli sforzi nucleari dell'Iraq e i programmi nucleari del Sudafrica. Compagnie francesi continuano ad assistere il Pakistan e l'India, che hanno entrambi utilizzato impianti e materiali nucleari civili per scopi militari». Si deve aggiungere anche che i controlli sull'uso pacifico della tecnologia nucleare spettano all'Agenzia delle NU, la IAEA, la quale non naviga certo nell'oro, poiché alle preoccupazioni per la proliferazione non corrisponde un'adeguata disponibilità dei Governi a mettere le mani al portafogli: ma, come ha osservato l'autorevole rivista «Nature», un aumento considerevole del numero di reattori nucleari in funzione richiederà necessariamente spese ulteriori, che dovranno aggiungersi al calcolo dei costi. | << | < | > | >> |Pagina 82Questo è un fattore di rischio decisamente sottovalutato, specie se posto in relazione alla vita operativa degli impianti, che dovrebbe dissuadere coloro che operano nel settore nucleare (utilities, finanziatori) dall'accettare valutazioni economiche basate su prezzi del combustibile costanti (chi lo farebbe oggi per il gas o il petrolio?) sul quale gravano anche i servizi di arricchimento e riprocessamento, perché se, come si è visto, l'impegno energetico necessario ad estrarre l'uranio cresce in modo esponenziale al diminuire del grado di concentrazione dell'uranio nel giacimento, allora anche i costi economici sono destinati a crescere in modo «imprevedibile» (ma certamente non lineare) almeno per tre ordini di motivi: perché cresce il costo unitario dell'energia necessaria ai processi di estrazione, lavorazione e arricchimento; perché col diminuire del grado di concentrazione dei giacimenti, cresce la quantità di energia necessaria ad estrarre lo stesso quantitativo di uranio; perché il prezzo dell'uranio, una volta consolidato il rilancio del nucleare, non lo farà la legge della domanda e dell'offerta, ma le sette compagnie che ne detengono l'85% della produzione mondiale. I conti non tornano! All'inizio di questo capitolo avevamo detto che una quantificazione puntuale dei costi della tecnologia nucleare è difficile e crediamo di averlo illustrato. Ciononostante la letteratura scientifica e quella a carattere divulgativo, continuano a esporre cifre decisamente inferiori alle valutazioni da noi riportate che non trovano, a nostro avviso, una ragionevole giustificazione: non stiamo parlando di differenze che corrono sul filo dei «decimali», ma di differenziali che arrivano anche al 90-100%. Il che ci fa pensare che se i conti non tornano (e non tornano a questo livello di differenze) è perché il metodo di calcolo è perlomeno approssimativo (per non dire taroccato) come quando, ad esempio, alla voce costi di costruzione ci si imbatte nel famigerato richiamo con asterisco che recita «incluso decommissioning», oppure quando si liquida il problema delle emissioni del nucleare con la parola «trascurabili». Non è azzardato affermare che un terzo delle voci che concorrono alla formazione dei costi del kWh nucleare o sono costituite da stime, o sono omesse del tutto a cominciare dal decommissioning (di impianto e delle miniere), per finire al trattamento e confinamento dei rifiuti, passando per l'uso sconsiderato dei costi budgetari (di progetto o di manutenzione). Se dopo quaranta anni di esperienza di centrali nucleari il decommissioning viene ancora «stimato» è perché nessuno ha voluto realizzarlo (neanche con finanziamenti statali) per paura che i costi di questa operazione inficiassero la proclamata competitività del nucleare. Lo stesso dicasi per il risanamento delle miniere di uranio, e per il ciclo dei rifiuti di terza categoria per i quali ancora non esiste al mondo un deposito operativo: quello di Yucca Mountain nel Nevada è costato finora 10 miliardi di dollari solo per studi e ricerche. Nessuno può dire di quanto aumenterebbe il kWh nucleare se queste attività, peraltro previste dalla normativa internazionale, fossero effettivamente realizzate, ma una cosa è certa: se í sostenitori del nucleare possono permettersi di esporre costi del kWh così bassi, è proprio perché sanno che queste attività non si porteranno mai a termine, lasciando che il conto lo paghino le future generazioni. Del resto, queste conclusioni sono platealmente confermate dal fatto che le imprese private, o le banche, sono tutt'altro che propense a buttarsi nel finanziamento di imprese nucleari, a meno che solide garanzie statali (cioè dei contribuenti) non garantiscano i capitali che verrebbero investiti e i loro rendimenti! Amory Lovins ha commentato sarcasticamente: «Sostanzialmente, possiamo avere tante centrali nucleari quante il Congresso sarà capace di far pagare ai contribuenti. Ma non ne avrete nessuna in un'economia di mercato». A questo proposito bisognerebbe seriamente riflettere sulle reali prospettive di realizzazione dei nuovi programmi nucleari nell'attuale contesto di liberismo imperante in ogni attività industriale. Come accennato all'inizio di questo paragrafo, le peculiarità della tecnologia nucleare richiedono un aggiornamento costante nei metodi di fabbricazione e controllo di materiali e componenti, al fine di mantenere gli standard qualitativi richiesti dalle normative applicabili. Ciò comporta che, al di fuori degli ambiti ristretti ai progetti nucleari di ricerca, i comparti industriali interessati devono poter contare su una continuità di commesse tale da poter sostenere i costi di questa loro specializzazione, altrimenti l'abbandonano per altri settori di produzione meno impegnativi. Negli ultimi venti anni è successo esattamente questo ed oggi il sistema industriale nucleare valutato su scala internazionale (con l'esclusione della Russia) a malapena riesce a soddisfare un terzo degli ordinativi che si realizzavano negli anni Ottanta. Negli Usa il calo dei fornitori qualificati è stato del 80% con l'abbandono significativo di tutto il comparto di meccanica pesante di vocazione nucleare; e la stessa Francia, una volta orgogliosamente indipendente dal punto di vista della realizzazione di un impianto nucleare, deve associarsi con le industrie tedesche per realizzare il nuovo EPR, il cui componente più importante, il vessel (cilindro) di acciaio in cui è alloggiato il combustibile, sarà costruito in Giappone dalla Japan Steel Work, unica impresa al mondo in grado di costruire i vessel richiesti dai reattori di III generazione oggi in costruzione. Altrettanto preoccupante è la difficoltà a reperire personale qualificato sia da parte dei progettisti (Westinghouse, General Electric, Areva, Siemens) sia da parte delle imprese che fabbricano componenti per il settore nucleare, a fronte di una situazione che vede andare in pensione nei prossimi anni circa il 40% del personale specializzato impiegato in vari modi nel settore nucleare. Non c'è dubbio dunque che il forte calo di ordinativi per nuove centrali ha determinato questa situazione, ma sarebbe fuorviante a nostro avviso accettare la tesi di molti sostenitori del nucleare secondo cui questo calo sia esclusivamente dovuto all'effetto shock seguito agli incidenti di Three Mile Island (1979) e Chernobyl (1986). A ben vedere infatti, già a cavallo di quegli anni si delineava la non competitività degli impianti nucleari affetti da una forte escalation dei costi (primo fra tutti quello dell'uranio, vedi Fig. 4) e da una congenita limitazione del loro rendimento, a fronte di un mercato delle fonti di energia che «offriva» carbone e soprattutto gas a prezzi estremamente concorrenziali. Altro fatto importante è che in poco più di un decennio le tecnologie associate a questi combustibili hanno consentito di ottenere rendimenti del 40% per il carbone e di oltre il 52% per il gas in ciclo combinato con tempi di costruzione contenuti e modalità realizzative e gestionali piuttosto semplici. Lungi da noi voler fare l'apologia di questi impianti che sono tra i primi responsabili dell'inquinamento atmosferico, ma nemmeno si può accettare che oggi la tecnologia nucleare venga riproposta come il miglior know how disponibile per produrre energia elettrica, quando i rendimenti dei nuovi reattori sono pressoché fermi a quelli di trenta anni fa (36% teorico) a conferma che la generazione elettrica da fissione nucleare termica (quella veloce è di là da venire) non può che essere realizzata con una macchina complicata, costosa e dalle modeste prestazioni come il reattore: una macchina che una società «ingegnerizzata» ed efficientista come la nostra non potrebbe che definire obsoleta. Ma i problemi non finiscono qui perché molti altri sono i fattori che possono incidere sui costi del nucleare, in parte nascosti, e fortemente dipendenti da situazioni specifiche dei singoli Stati. Un costo nascosto può essere quello per la sicurezza, sia per quanto riguarda i costi finanziari in caso di incidente che quelli di sicurezza per i siti e la prevenzione dei problemi. La filiera nucleare francese è sotto lo stretto controllo dello stato ed è strettamente connessa con le attività militari relative all'arsenale atomico: questo ovviamente consente notevoli economie di scala e di integrazione di impianti e processi (per l'intrinseco dual-use della tecnologia nucleare), ma consente anche di «mascherare» molti costi del programma nucleare civile tra quelli relativi alla force de frappe. Non si può essere sicuri che il vero prezzo del kWh nucleare sia quello che pagano direttamente i cittadini francesi, poiché essi potrebbero pagare ulteriori costi nelle tasse (sotto forma di costi militari), il cui livello è uno dei più alti al mondo. Un indizio di questo è dato dall'alto livello di spese militari della Francia, 2,6% del PIL rispetto al 1,5 della Germania o del 1,8 dell'Italia: rispetto a quest'ultima la Francia spende circa 23 miliardi di dollari in più all'anno; livelli simili si riscontrano anche per altri paesi detentori di arsenali nucleari. Le vicende della Corea del Nord risolte paradigmaticamente quando il paese ha esploso nell'ottobre 2006 una testata nucleare comprovano, se ve ne fosse bisogno, il ruolo primario costituito dagli interessi di proliferazione militare nella promozione di programmi nucleari: e se questi dovessero davvero svilupparsi in modo notevole, si dovrebbero mettere in conto, come già abbiamo accennato, anche notevoli investimenti per il rafforzamento del controllo di questi programmi da parte della IAEA. Per quanto riguarda la Francia si deve menzionare ancora il fatto, unico, che Areva controlla (nel bene e nel male, v. Box sugli incidenti) l'intero ciclo del combustibile. «Ulteriori affermazioni che i costi dell'energia nucleare della Francia sono "i più bassi del mondo" e sono insostenibili perché nessuno conosce il costo dell'intero programma nucleare nazionale. Per decenni il programma civile ha usufruito di sussidi diretti e indiretti, in particolare attraverso il finanziamento incrociato con il programma nucleare militare. Le stime correnti non tengono adeguatamente in conto eventuali costi di decommissioning e di trattamento dei residui, che rimangono una preoccupazione, e molto incerti. In aggiunta ai residui post-fissione, 46 anni di attività estrattiva dell'uranio hanno lasciato 50 milioni di tonnellate di scarti da ripulire e sistemare, il cui costo è sconosciuto. Stime ufficiali dei costi di smaltimento finale dei residui di fissione a vita lunga e di livello alto e intermedio variano tra 21 e 90 milioni di dollari». | << | < | > | >> |Pagina 86E per l'Italia?Per un paese come il nostro lo sviluppo di un programma nucleare implicherebbe una serie di costi e di diseconomie aggiuntive, che a nostro avviso porterebbero assolutamente fuori scala! Sconcerta innanzitutto il grado di improvvisazione con cui si è annunciato questo programma nucleare, calato in un contesto normativo e industriale inadeguato a garantire affidabilità e sicurezza durante le fasi di progettazione, costruzione ed esercizio di questi impianti. Progettazione che non si farà in Italia (sia chiaro anche a quei dipendenti Enea che saranno chiamati a pronunciarsi sul tipo di reattore da ordinare): come del resto non si fece per Trino, Latina, Garigliano e Caorso, ma almeno quel programma ci aveva messo in grado di capire e intervenire sul progetto e di arrivare, dopo 15 anni, alla definizione del PUN (Progetto Unificato Nucleare). Per ciò che riguarda la costruzione, il nanismo dell'industria italiana, che pure non ha impedito lauti profitti ad una miriade di piccoli e medi imprenditori, non permette illusioni circa l'affidamento delle commesse nucleari, essendo state distrutte o cedute le competenze e le capacità del settore elettromeccanico nazionale. Restano (ahinoi), i soliti noti dell'ingegneria civile Impregilo (inceneritore di Acerra) e Italcementi (cemento fasullo) e le minimizzate capacità dell'Ansaldo. Quanto all'esercizio, una volta fiore all'occhiello della vecchia Enel pubblica, insieme al personale specializzato sono andati in pensione anche i criteri (e con essi le strutture) che sovrintendevano alla gestione degli impianti nucleari: qualificazione del personale, ottimizzazione del ciclo del combustibile, gestione delle salvaguardie, quality assurance ed altre specifiche attività tipicamente nucleari che non si improvvisano da un giorno all'altro. Esiziale infine, ai fini della credibilità del programma, è l'impreparazione del fattore umano di qualsiasi livello, perché in tutti questi anni le industrie e i governi (di qualsiasi colore) non hanno speso un soldo nella ricerca e nella formazione (universitaria e non). Come rimediare a queste mancanze? L'organico dell'Enea è sottodimensionato, e largamente composto di personale con contratti a termine. La preparazione di personale specializzato richiede non solo tempo, ma anche una struttura universitaria che nel nostro paese è già fortemente inadeguata, e lo sarà sempre più dopo l'immobilismo del governo Prodi ed i provvedimenti distruttivi del governo Berlusconi: il quale sembra proprio volere «la botte piena e la moglie ubriaca»! Intendiamoci, in linea di principio questi deficit strutturali potrebbero essere colmati con l'ingaggio di contractors e consulenti stranieri, cosa assai probabile data la facilità con cui i moderni managers spendono enormi somme di denaro per circondarsi di consulenti esterni: ma anche a prescindere dagli ulteriori costi, c'è da chiedersi quale autorità di sicurezza (se esiste) sarà in grado di portare avanti l'istruttoria necessaria a validare il progetto e a rilasciare la licenza di esercizio per questi impianti? Dal canto suo il governo ha approntato un Ddl specifico da cui si evince che: a) i nuovi impianti nucleari possono essere di più tipologie; b) la scelta dei siti e i criteri di localizzazione di questi impianti (e del deposito nazionale per le scorie) sono delegati al governo; c) questi criteri includono quello della sicurezza nazionale; d) l'unico organo abilitato a dirimere le controversie relative a questi impianti è il TAR del Lazio e che eventuali misure cautelari prese da altra autorità giudiziaria restano sospese fino a pronuncia dello stesso.
Il primo punto lascia intendere che la scelta del tipo di reattore potrebbe
non essere unica. Vale a dire che se la Francia è in pole position
per la scelta del reattore EPR (considerati gli stretti legami di Edf con
Edison ed Enel, e le simpatie per Sarkozy), la piaggeria di Berlusconi nei
confronti degli Stati Uniti resta sempre una porta aperta per l'AP1000
della Westinghouse, anche se optare per due diverse tipologie di impianto a
fronte di un programma di sole 5 centrali nucleari costituirebbe il
massimo dell'inettitudine! Alla fine, nel gennaio 2009, ha scelto l'EPR.
Quanto agli altri punti essi possono essere riassunti, sbrigativamente ma
efficacemente, con due frasi: militarizzazione del territorio e aggiramento
delle norme e procedure sull'informazione e partecipazione dei cittadini
alle scelte riguardanti questo tipo di insediamenti. Θ bene ricordare che
già il decreto Scanzano (governo Berlusconí) definiva il deposito nazionale per
le scorie «opera di difesa militare» e che il Dlgs 16.02.08 (governo
Prodi) introduce la possibilità di escludere da qualunque valutazione ambientale
le opere che a giudizio dell'esecutivo siano considerate opere
di difesa nazionale o su cui venga apposto il segreto di stato.
A conclusione di queste considerazioni, non si deve dimenticare che nella discussione della scelta nucleare non si può comunque rimanere imbrigliati nei soli aspetti energetici ed ambientali, ma che il problema è ben più generale, perché si inquadra nelle strategie di dominio economico e militare che sempre più gravano sulle prospettive del mondo. Oggi la diffusione della tecnologia nucleare serve più a rafforzare il controllo delle altre scarseggianti riserve planetarie ed il predominio mondiale di nazioni potenti, che non a garantire maggiore indipendenza e disponibilità nell'approvvigionamento di energia. Scrive in proposito Saraceno: «L'idea del nucleare, propugnata da alcuni sedicenti esperti, come fonte di indipendenza energetica è dunque un mito, anche in un paese come la Francia, che grazie al basso prezzo dell'energia nucleare ed alla propria influenza geopolitica, ha vissuto con molta leggerezza l'aumento dei consumi e degli sprechi energetici anche di prodotti petroliferi. Il nucleare non si può sostituire completamente agli idrocarburi se non attuando drastiche soluzioni di efficienza energetica come l'adozione in grande stile del trasporto mediante veicoli elettrici e l'utilizzo generalizzato di sonde geotermiche per il riscaldamento/raffrescamento. Queste soluzioni, insieme al sempre conveniente risparmio energetico, potrebbero permettere di utilizzare in modo efficiente l'energia elettrica nucleare al posto degli altrimenti insostituibili idrocarburi per quasi tutti gli usi finali, lasciando a gas e petrolio un ruolo nell'unico settore dove è veramente arduo se non impossibile sostituirli, la chimica. Se non si arriva a questo l'uso del nucleare è ben lungi dal conferire l'indipendenza energetica completa e si riduce ad una lista di vantaggi/svantaggi: minor costo del kWh rispetto agli idrocarburi (agli attuali prezzi) e minori emissioni contro produzione di scorie radioattive millenarie (di cui non si sa bene cosa fare se non lasciare il problema ai posteri) e rischio di incidenti, riduzione della volatilità dei prezzi energetici contro costi militari e di sicurezza sempre maggiori. E sostanzialmente, visto che anche l'uranio, a meno di importanti e ad oggi ancora non prevedibili evoluzioni tecnologiche nei reattori e nelle tecniche estrattive, in prospettiva si esaurirà entro alcuni decenni, più che una scelta di indipendenza energetica una scelta di indipendenza politica». Una scelta tutt'altro che neutra, aggiungiamo noi, per ciò che riguarda gli equilibri politici internazionali, anche se non è questa la sede per introdurre tale analisi. Non si tratta solo del carattere dual-use della tecnologia nucleare, anche se esso è ovviamente funzionale alle strategie sia economiche sia militari, scambiando strumentalmente i termini della questione a seconda delle convenienze. I problemi della Corea del Nord e dell'Iran, nonché la partnership nucleare con la potenza nucleare di fatto dell'India o le strategie di Sarkozy, dimostrano incontrovertibilmente, se ce ne fosse bisogno, come la diffusione della tecnologia nucleare sia funzionale alle strategie di predominio mondiale. Θ questo il «lato oscuro» che la scelta nucleare porta con sé da quando Eisenhower tentò di «convertire» l'energia atomica da forza distruttiva, quale era nata, a fattore di sviluppo sociale con il programma Atoms for peace: inutilmente però ché già da allora l'intreccio tra nucleare civile e militare si era fatto indissolubile. Se oggi questo intreccio è ancora più difficile da controllare, come più volte denunciato dallo stesso direttore dell'IAEA El Baradei, lo si deve anche alla indifferenza (o addirittura alla complicità) di buona parte del mondo scientifico che, consapevolmente o no, ha fatto suo quanto sosteneva Heidegger, e cioè che «la scienza non pensa, perché non è il suo compito», consentendo così che delle scoperte scientifiche (non ultima quella nucleare) fossero gli architetti del caos, gli industriali e i militari, a deciderne l'impiego anche quando era palesemente in contrasto con gli scopi che loro stessi si erano prefissi. Quanto alla politica essa ha perso ogni legame con la vita dell'uomo sulla terra, non solo perché incapace di tutelarne gli interessi contingenti, ma anche perché ne ha deluso le aspettative quanto a capacità di anticipare e prospettare il suo destino. Oggi l'umanità non è più in grado di pensare ad un futuro quale che sia, schiacciata com'è dai comandamenti del dio mercato e costretta a vivere sotto l'equilibrio del terrore atomico susseguitosi alla distruzione di Hiroshima e Nagasaki che, come ha scritto Dario Paccino nel suo ultimo libro, «segnano la fine della continuità fra la storia di quando la Terra costituiva un'affidabile dimora sine die per la nostra specie, e la Terra del presente, quando non c'è più nessuno che possa garantire circa la durata della sua ospitabilità non solo per quanto ci riguarda, ma anche per lo stesso sistema della vita». | << | < | > | >> |Pagina 91Capitolo 4L'eredità nucleare: Sogin, un'esperienza allarmante
Daniele Rovai
L'Italia è ancor oggi un paese nucleare. Nel 1987 il governo decise una moratoria di 5 anni per valutare se abbandonare o seguire quella strada. Nel 1990, prima della scadenza della moratoria, si decise di chiudere con il nucleare ordinando all'Enel, allora ente statale, di collocare le proprie centrali in «custodia protettiva passiva» e di preparare le istanze per il cosidetto «smantellamento differito». La «custodia protettiva passiva» prevedeva: - l'allontanamento del combustibile dal reattore, (nel caso dell'Enel la maggior parte delle barre sono state trasferite, tra il 1987 ed il 2005, in Inghilterra, mentre il resto 287 tonnellate è ancora affogato nelle piscine delle vecchie centrali.); la sistemazione in sicurezza delle scorie, il termine esatto sarebbe condizionarle;
la demolizione degli edifici non contaminati.
Per il definitivo smantellamento delle centrali si sarebbe dovuto attendere dai 50 ai 100 anni in modo da avere una minore emissione radioattiva. Nel 1999 si decise di passare allo «smantellamento accelerato», cioè far coincidere le attività di condizionamento delle scorie radioattive con lo smantellamento degli impianti. Le centrali erano ormai spente da più di 20 anni. Questo ed il fatto che fossero di piccola taglia rafforzò l'ipotesi di poterle dismettere in breve tempo (20 anni). Certo è che nel 1999 nessun paese aveva ancora smantellato una centrale nucleare e l'Italia ne voleva smantellare ben 4, utilizzando una tecnica innovativa. Nel 2000 la Sogin, l'azienda creata per gestire questo smantellamento «accelerato» protagonista della nostra storia aveva presentato l'istanza di disattivazione delle centrali alle autorità competenti. Oggi, dopo 8 anni, quelle istanze non hanno ancora completato l'iter legislativo e di conseguenza le centrali nucleari costruite a Caorso, Trino Vercellese, Latina e Garigliano sono ancora attive, seppur spente e in quei siti valgono ancora le prescrizioni nucleari degli anni Settanta. Ancora peggiore la situazione nelle officine nucleari dell'Enea che, negli anni Settanta, era l'Ente Nazionale per l'Energia Nucleare. Le officine furono chiuse nel 1987, senza alcun piano di bonifica. Ci si limitò a chiudere a chiave i laboratori con all'interno le scorie radioattive solide e liquide non condizionate. Ci dobbiamo chiedere se íl nostro paese sia rimasto una «nazione nucleare». Indubbiamente sì, considerato che le centrali sono spente, ma ancora attive e che funzionano reattori di ricerca nucleare presso varie Università Italiane (Pavia, Palermo), in istallazioni militari (il CISAM di Pisa) e centri di ricerca nucleare (centro europeo ISPRA in Piemonte). Uno è anche alle porte di Roma, presso il centro Enea della Casaccia. Ancor oggi in Italia esistono siti ove restano attive le prescrizioni nucleari degli anni Settanta, il che permetterebbe ad un governo filo-nucleare, di far ripartire una stagione a torto considerata trascorsa. Un'intenzione che il governo Berlusconi ha fatto sua il 5 agosto 2008, presentando il DdL n. 1441 Ter dal titolo «Disposizioni per lo sviluppo e l'internazionalizzazione delle imprese, nonché in materia di energia», da ottobre 2008 approdato al Senato per la seconda lettura, con il quale, surrettiziamente, pensa di riportare l'Italia nel club dei paesi nucleari. Un Disegno di Legge che, all'articolo 14, delega al governo Berlusconi il «riassetto normative recante criteri per la disciplina della localizzazione di impianti di produzione di energia elettrica nucleare» (le centrali) nonché «dei sistemi di stoccaggio» (i depositi per le scorie radioattive) e per la «definizione delle misure compensative da corrispondere» a quelle popolazioni che ospiteranno quegli impianti. | << | < | > | >> |Pagina 105L'emergenza terrorismoIl 12 febbraio 2003 il governo Berlusconi dichiara l'emergenza sui territori che ospitano le installazioni nucleari. Piemonte, Emilia Romagna, Lazio, Campania e Basilicata si ritrovano dall'oggi al domani ad avere luoghi dove detta legge un generale! I motivi per chiedere al presidente della Repubblica di firmare un decreto di emergenza sono più di uno, ma quello che attira l'attenzione dei media è la parte del decreto che individua la possibilità di attentati terroristici ai depositi di scorie radioattive. Una possibilità remota, che però pone in secondo ordine le altre motivazioni. Ad esempio, nessuno si preoccupa che sia stata dichiarata un'emergenza perché esiste l'ineludibíle «necessità di assumere iniziative straordinarie ed urgenti» per realizzare «lo smaltimento dei siti»; questo significa che il commissario avrà potere di prescindere da normative regionali e nazionali che, secondo il governo ed il generale, impediscono una veloce messa in sicurezza delle scorie. La gestione delle scorie radioattive non può però avvenire accelerando le procedure. Se esiste una materia nella quale il 'presto' è nemico del 'bene' è proprio quella nucleare. Così come nessuno si preoccupa che sia dichiarata un'emergenza per salvaguardare gli «interessi pubblici» concentrando «in un unico centro decisionale» l'attività per la messa in sicurezza dei siti nucleari per «la salvaguardia della salute della collettività». Un generale a gestire lo smantellamento dei siti significa una cosa sola: per garantire la sicurezza della popolazione è necessario «militarizzare» il problema. Da quando in qua la salvaguardia della collettività si fa con la segretezza ed il silenzio in luogo della trasparenza e dell'informazione? Se guardiamo quello che succede oggi, quella decisione non può sorprendere. C'è da combattere la criminalità? L'esercito nelle città. Si deve realizzare il termovalorizzatore per i rifiuti campani? Si recinta l'area dove lo si sta costruendo e la si dichiara zona militare. L'attenzione dei media è però attirata da un'unica premessa: quella che sostiene come l'emergenza sia necessaria «ritenuto che l'attuale contesto di rischio derivante dalla presenza di tali rifiuti radioattivi è caratterizzato da profili di maggiore gravità in relazione alla situazione di diffusa crisi territoriale». In Italia ci sono più di 20 strutture che stoccano scorie radioattive e decine di ospedali che operano nel campo della medicina nucleare. Il decreto di emergenza riguarda però solo i siti dove sono stoccate le scorie ereditate dalla produzione nucleare degli anni Settanta, cioè i siti sotto controllo diretto o indiretto della Sogin: e gli altri 13 siti che stoccano scorie radioattive? E gli ospedali? Nel centro ISPRA di Varese, per esempio, sono stoccati tal quale 2300 m3 di materiale radioattivo, oltre ad alcune decine di elementi di combustibile nucleare; come nel deposito civile CRAD di Udine dove sono stoccati rifiuti radioattivi provenienti da attività di medicina nucleare e sorgenti radioattive dismesse per 1000 m3. Per queste istallazioni non esiste pericolo di attentati? Nella realtà non esiste alcun problema di attentato terroristico, come riconosce lo stesso generale Jean, un mese prima di essere nominato commissario delegato per l'emergenza! Θ il 23 febbraio 2003 ed il problema Sogin è oggetto dell'audizione presso la Commissione Bicamerale sul ciclo dei rifiuti. L'emergenza è stata dichiarata solo una settimana prima (12 febbraio 2003), ma il generale Jean rassicura i deputati sulla sicurezza dei siti. Strana emergenza. «I furti sono da escludere perché chi andasse nella zona irraggiata a prendere un elemento fortemente irraggiato non vivrebbe a lungo, non uscirebbe dall'impianto». L'emergenza è appena stata dichiarata e una settimana dopo il massimo responsabile di Sogin, la società che deve decommissionare le centrali nucleari, sostiene che non esiste alcun pericolo. A quanto pare è tutto sotto controllo visto che, «i sistemi di antintrusione dei siti della Sogin ve lo posso assicurare per esperienza diretta sono al livello di quello che abbiamo a Comiso intorno al deposito di armi nucleari». Le centrali? Sicurissime anche perché «sono protette da tre metri e mezzo di calcestruzzo». Magari il problema è il combustibile, affogato nelle piscine e «per quelle la sicurezza al cento per cento non esiste perché un aereo potrebbe sempre colpire e rompere una vetrata dell'edificio» dice sempre il generale. La soluzione è comunque già pronta: «occorre accelerare al massimo la messa in sicurezza dei materiali nei cask che hanno intorno 15-20 centimetri di acciaio» inserendoli poi «in una specie di alveare di cemento armato, a prova di impatto di un aereo». Teniamo presente che i cask di cui parla il generale sono studiati per resistere all'impatto di un aereo e poter garantire l'integrità del manufatto a temperature che possono raggiugere i 300 °C. e che negli Stati Uniti sono stoccati all'aperto. Non solo le centrali sono ben protette, ma lo sono anche i laboratori Enea che a breve passeranno sotto il controllo della Sogin e del commissario delegato. «Abbiamo adeguato le misure di sicurezza dei nostri impianti, come ha fatto anche l'Enea, ente con il quale ci siamo accordati per avere tutti, più o meno, lo stesso livello di sicurezza», sostiene il generale nel corso della sua audizione presso la Commissione, spiegando cosa fosse già stato fatto: «Abbiamo cominciato col mettere dei camion di traverso, poi abbiamo messo paratie di cemento in modo da impedire che vengano sfondati i cancelli». Se poi non bastassero le parole del presidente di Sogin, ecco il parere del direttore del Sisde, il generale Mario Mori, ascoltato dalla stessa commissione il 15 aprile 2003 a un mese dalla dichiarazione d'emergenza e dalla nomina del generale a Commissario. «Riguardo al terrorismo ed ai rifiuti radioattivi, il problema è potenzialmente molto serio; da tempo si ipotizza che i gruppi criminali di terrorismo internazionale possano far uso di certe strutture (noi parliamo di NBC, cioè biologico, chimico e nucleare) [...] ma non abbiamo memoria né dati che si riferiscano a scorie radioattive». Insomma: per quanto questo tipo di attentato sia sempre possibile, sostiene Mori, non si hanno informazioni sulla base delle quali si possano fornire indicazioni concrete e specifiche. In realtà la dichiarazione di emergenza è solo un escamotage per poter gestire, senza troppi controlli, i 468,3 milioni di euro che l'Autorità per l'Energia Elettrica e il Gas ha concesso qualche mese prima alla Sogin. Grazie all'emergenza si delinea la possibilità di gestire quel fiume di denaro senza controlli esterni. Basti dire questo: le ordinanze del commissario sono immediatamente pubblicate dalla Gazzetta Ufficiale e diventano legge. Questa dichiarazione di emergenza è un fatto senza precedenti nella storia della Repubblica. Per la prima volta un atto amministrativo del governo (lo stato di emergenza per lo smaltimento dei rifiuti radioattivi che interessa cinque regioni) si trasforma in una scelta politico militare per l'intero paese, con conseguenze importanti sul piano del rispetto delle leggi e delle normative internazionali. Un indirizzo preciso quindi, che segna una svolta nel rapporto tra cittadini, istituzioni e differenti funzioni dello Stato. | << | < | > | >> |Pagina 161Capitolo 5Verso una società solare
di Giorgio Nebbia
Il Sole: l'unico reattore nucleare che funziona
Oggi siamo in grado di assicurare, in maniera duratura, a ogni abitante della Terra un benessere da miliardario, usando soltanto meno dell'uno per cento dell'energia che ci arriva ogni giorno dal nostro reattore nucleare cosmico, il Sole, posto a 150 milioni di chilometri di distanza, del tutto sicuro, che trattiene al suo interno le scorie, capace di assicurarci la fotosintesi, la pioggia, il moto ondoso e tutte le altre ricchezze offerte dalla natura. Buckminster Fuller (1895-1983), The Grunch of Giants, St. Martin's Press, New York 1983, capitolo 11. Proviamo a guardare al 2050 anche se ci appare un anno lontanissimo. Nei decenni che ci separano da allora, gli abitanti della Terra dovranno risolvere alcuni problemi fondamentali come l'aumento del prezzo e la scarsità del petrolio, la scelta o il rifiuto dell'energia nucleare, i mutamenti climatici con conseguenti frane e alluvioni, la scarsità di acqua, l'aumento di prezzo e la scarsità dei prodotti alimentari. Problemi non ambientali, ma strettamene economici dalla cui soluzione dipendono occupazione, tasse, consumi, bilanci degli stati, lusso e povertà. Alcuni suggeriscono che entro tale data lontana molti di tali problemi potrebbero essere risolti, senza centrali nucleari, ricorrendo all'energia solare, edificando una «società solare». La fonte di energia, il Sole, non appartiene a nessuno, ritorna sempre uguale ogni anno, fornisce calore, produce il vento, il moto ondoso, la circolazione dell'acqua degli oceani, il moto delle acque che scendono nelle valli (l'energia idroelettrica, 3000 miliardi di chilowattore all'anno oggi nel mondo, è l'unica fonte di energia «solare» usata su larga scala), e, soprattutto, «fabbrica» con la fotosintesi sia prodotti alimentari sia altri utili come materiali da costruzione e come combustibili. Ogni anno, sulle terre emerse arriva energia solare in quantità equivalente a quella «contenuta» in 25.000 miliardi di tonnellate di petrolio, 2000 volte quella (circa 12 miliardi di t) che gli esseri umani usano oggi sotto forma di petrolio, carbone, gas, tutti tratti da pozzi e miniere con riserve limitate e che si impoveriscono ogni anno. Dal punto di vista tecnico-scientifico, con l'energia raggiante del Sole si può fare tutto. Bastano 4000-5000 chilometri quadrati di terreno coperti da celle fotovoltaiche per ottenere tutta l'elettricità «consumata» oggi (2009) ogni anno in Italia (340 miliardi di chilowattore); 200.000 chilometri quadrati per ottenere con lo stesso processo tutta l'elettricità (18.000 miliardi di chilowattore) consumata oggi (2009) ogni anno nel mondo. Un appartamento della superficie di cento metri quadrati riceve nel corso di un anno, alle nostre latitudini, tanta energia solare da assicurare, con adatti dispositivi, elettricità, calore, illuminazione e condizionamento dell'aria per tutto l'anno. I motori a vento, alcuni di dimensioni «domestiche», adatti per un appartamento, possono fornire una frazione dell'elettricità consumata in un anno da una famiglie di 4 persone (circa 3000 chilowattore); gli impianti di grandi dimensioni, con pale di 40 metri di diametro, possono produrre da 1 a 1,5 milioni di chilowattore all'anno. La forza delle acque che scorrono, tenute in moto dal Sole, nei fiumi della Terra può essere imbrigliata per fornire elettricità. Un terzo circa dell'energia viene consumata nel mondo nei mezzi di trasporto, soprattutto sotto forma di benzina, gasolio, combustibili per aerei e navi (circa tre miliardi di tonnellate all'anno), oggi ottenuti dal petrolio. Tutti questi carburanti possono essere ottenuti, in alternativa, con processi chimici noti, dai prodotti vegetali non alimentari come derivati del legno, sottoprodotti agricoli e forestali. Ogni tonnellata di prodotti alimentari (grano, mais, girasole) è accompagnata (sotto forma di paglia, stocchi, tutoli, eccetera) da due tonnellate di materie ligno-cellulosiche che possono essere trasformate in carburanti con tecniche già note, senza toccare la disponibilità di alimenti umani. Un milione di ettari di foresta o di adatte piantagioni energetiche non alimentari ogni anno produce un «pozzo petrolifero» inesauribile da uno a due milioni di tonnellate di carburanti per auto senza alterare gli equilibri ecologici, senza richiedere concimi e irrigazione. Con l'elettricità solare è possibile produrre idrogeno da trasportare in condotte, come avviene oggi per il metano; con l'elettricità solare è possibile far funzionare fabbriche e assicurare occupazione, e far muovere mezzi di trasporto. Con le varie forme di energia derivate dal Sole è possibile aumentare le risorse di acqua sia potabile, sia industriale. Una società moderna ha però bisogno di molti altri prodotti: cemento che richiede pietre e calore, acciaio, alluminio, rame e molti altri metalli; per molti processi sarà necessario ricorrere ancora ai combustibili fossili, ma in quantità minore rispetto ad oggi e quindi con un inquinamento atmosferico molto ridotto e con molto minori alterazioni del clima. La produzione dei metalli dai minerali può essere realizzata con idrogeno ottenuto per elettrolisi usando l'elettricità ottenuta dal Sole. La stessa che consente di ottenere molti prodotti chimici industriali, come ammoniaca, acido nitrico, concimi. Una società ha bisogno di gomma e plastica e fibre tessili che oggi richiedono petrolio, ma si tratta di materiali e merci che sono stati (e in parte sono ancora) prodotti dal regno vegetale e animale con processi noti, abbandonati quando una tonnellata di petrolio costava pochi euro anziché seicento euro come oggi e si credeva che le riserve di idrocarburi fossero illimitate. A questo quadro i nemici del solare fanno varie obiezioni; non c'è dubbio che la transizione al solare richieda enormi innovazioni ingegneristiche, nell'edilizia e nei mezzo di trasporto, nella struttura delle città, innovazioni peraltro che mettono in modo l'economia e l'occupazione. La seconda obiezione riguarda i costi del calore e dell'elettricità ottenuti dal Sole, oggi superiori a quelli delle fonti fossili, ma tale critica non tiene conto dei vantaggi economici dell'occupazione che verrebbe richiesta dai nuovi processi e impianti e della possibilità di evitare i costi, destinati a crescere, dovuti all'inquinamento e alle alterazioni climatiche come alluvioni, frane, desertificazione, siccità, incendi. La terza obiezione viene spacciata come ecologica: i motori eolici alterano il paesaggio; i carburanti vegetali tolgono il pane di bocca ai paesi poveri, ma ho già detto che lo schema proposto si avvale di materiali non alimentari; future centrali idroelettriche altererebbero molti equilibri naturali; le centrali che usano l'energia delle onde incidono sulle coste, una obiezione che non tiene conto dei guasti e inquinamenti provocati dalle attuali fonti di energia (e dall'attuale uso speculativo dissennato delle risorse territoriali). La quarta obiezione è di natura geopolitica: l'intensità della radiazione solare è maggiore in paesi poco industrializzati, in molti casi arretrati, con bassa densità di popolazione, come l'Africa, le zone tropicali asiatiche e americane, dove si trovano anche deserti, o grandi foreste, o grandi fiumi. La società solare ha bisogno di grandi spazi e la sua attuazione porterebbe certamente uno spostamento, verso tali paesi, dei centri industriali ed economici, come del resto sta già avvenendo dall'Europa e dall'America settentrionale verso la Cina e l'India. Gli attuali paesi industriali produrrebbero ed esporterebbero tecnologie, processi, innovazione, in cambio di elettricità e carburanti solari importati dai paesi oggi arretrati. Potrebbe non essere un male: alcune posizioni forti economiche e finanziarie ne verrebbero a soffrire, ma molti altri paesi si avvierebbero, col Sole, verso uno sviluppo economico e umano. Utopie? Forse neanche tanto. Una transizione verso l'energia solare è già in atto. Lo dimostrano il fatto che i cosiddetti «biocarburanti», ottenuti da vegetali «fabbricati» dal Sole, sono ormai quotati nelle borse merci e scambiati a milioni di tonnellate all'anno, che la pubblicità di dispositivi solari appare sempre più di frequente: si moltiplicano i venditori di pannelli solari, di motori eolici anche domestici, di appartamenti «solarizzati» a basso consumo di energia, di automobili elettriche, addirittura di grattacieli con le pareti coperte di celle fotovoltaiche.
«Per quanto la scienza e la tecnica abbiano ampiamente dirottato dal
loro più esatto itinerario, esse ci hanno insegnato almeno una lezione:
niente è impossibile», scriveva nel 1934 Lewis Mumford in
Technics and civilization
(ed. it.
Tecnica e cultura,
Il Saggiatore, Milano 1961, 1968, 2004), esponendo il suo «manifesto» per una
società neotecnica. E questo è vero a maggior ragione ancora oggi se la tecnica
tornerà a percorrere il suo più esatto itinerario, quello di soddisfare i
bisogni umani nel rispetto della vita e della salute delle persone e della
natura.
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