Copertina
Autore Daniele Biacchessi
CoautoreJean-Pierre Levaray, Alfredo Colitto, Patrick Fogli, Valerio Varesi
Titolo Maledetta fabbrica
SottotitoloIl lavoro che uccide
EdizioneNuovi Equilibri, Viterbo, 2010, Senza finzione , pag. 144, cop.fle., dim. 12x19x1 cm , Isbn 978-88-6222-128-3
CuratoreSimona Mammano
LettoreLuca Vita, 2010
Classe lavoro
PrimaPagina


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Indice


Maledetta fabbrica — Jean-Pierre Levaray 	      3

Il lavoro rende liberi — Daniele Biacchessi 	 71

Tragedia inutile — Alfredo Colitto 	             91

Amina — Patrick Fogli 	                        111

Africa — Valerio Varesi 	                    127


 

 

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Pagina 3

MALEDETTA FABBRICA

di Jean-Pierre Levaray


LAVORARE MAI

                                      Si fuese el trabajo tan bueno,
                                             se lo hubieran guardado
                                            los ricos para si solos!

                                           Vecchio detto castigliano



Tutti i giorni la stessa cosa.

Arrivo al lavoro e mi travolge come un'onda di disperazione, come un suicidio, come un vuoto che m'invade, come l'ustione di una pallottola nella tempia.

Un lavoro troppo conosciuto, una sala macchine abbagliata dai neon e dei colleghi che certi giorni non si ha proprio voglia di ritrovare.

Neppure il coraggio di cercare un altro lavoro. Troppo tardi. Tempo fa avevo cercato, avrei potuto fare l'infermiere all'ospedale psichiatrico, prof al liceo tecnico, e poi no, mancanza di coraggio per cambiare vita. Questo lavoro non mi ha mai soddisfatto, eppure non mi ci vedo più a imparare altre cose, altri gesti. Si va avanti, ma non ci si abitua. Parlo al plurale perché non sono il solo ad avere questo stato d'animo: siamo tutti nella stessa barca.

Siamo arrivati a sperare che l'azienda chiuda. Sì, che delocalizzi, che ristrutturi, che aumenti la sua produttività, che abbassi i costi fissi. Smettere, insomma. Basta con questo lavoro, essere liberi. Liberi, ma senza altre preoccupazioni.

Sappiamo che arriverà, ce l'aspettiamo. Come per il tessile, per le fonderie... un giorno l'industria chimica pesante non avrà più diritto di cittadinanza in Europa.

Nessuno parla di questo malessere che investe gli operai che hanno superato la quarantina e che non sono più motivati da un lavoro fatto per troppo tempo, per troppo tempo subito. Un lavoro che si è dovuto salvaguardare perché c'era la crisi, la disoccupazione e bisognava essere soddisfatti d'avere l'impiego garantito, per poter continuare a consumare a scapito di vivere.

Nessuno ne parla. I sindacati lo nascondono, i padroni ne approfittano, i sociologi del lavoro non se ne interessano: i proletari non fanno notizia.

Abbiamo dato il cambio alla squadra del pomeriggio, felice di lasciare il reparto. È il nostro turno, adesso, per otto ore.

Siamo seduti in mensa, attorno a una tazza di caffè. I cucchiaini girano fiacchi, abbiamo tutti lo stesso stato d'animo e anche, di già, la stessa fatica di fronte a questa notte che sarà lunga. Chi parla dell'inferno operaio? Non tanto per la fatica, ma per tutta questa vita consumata, una vita già troppo breve che il lavoro salariato logora ancor più.


Luglio 2000

Salgo la scala esterna che porta alla sala macchine. Dovrei sbrigarmi, non lo faccio. So che là in alto c'è un dramma, ma non mì affretto. C'è parecchia gente, è così grande che potrebbe starci un campo da calcio. Ci sono turbine e tubature, valvole e altri macchinari. Gli altri giorni questo luogo è invaso dai piccioni e dal rumore assordante delle apparecchiature. Ora le turbine sono spente da qualche settimana. Lavori di manutenzione.

Degli ingegneri dall'aria grave discutono. Dei pompieri portano fuori del materiale. I miei colleghi hanno i tratti tirati, addirittura sfatti. C'è anche la Samu, tre infermieri che si danno da fare. E infine c'è questo tizio, sul cemento, allungato. È là, nudo, gli hanno tolto i vestiti perché non abbia più intralci. La sua testa è insanguinata e si vede anche il suo sesso. Sì, è questo che vediamo. La sua testa rossa di sangue e il suo pene che penzola, miseramente.

Non è morto, vediamo il suo petto che si solleva, violentemente, convulsivamente, a spasmi, come se cercasse dell'aria che non arriva abbastanza in fretta.

Un'infermiera, bionda e piuttosto carina, poco importa..., un'infermiera dunque prende il braccio del ferito e gli fa un'iniezione.

È là, steso sul cemento. Ha fatto una caduta di quindici metri, è senza speranza.

Lavorava sul tetto e ha sfondato la vetrata. Se si alzano gli occhi, si vede il buco che ha provocato cadendo. Non ce lo spieghiamo, non aveva niente da fare lassù e non aveva i dispositivi di sicurezza. Il suo collega, quello che era con lui, non ci capisce nulla. È pallido, quasi verde.

Quello che so è che questo incidente lo sentivo nell'aria da qualche giorno. Dei lavori che durano troppo, almeno il doppio del tempo previsto, le pressioni del capo, la fatica causata dalle troppe ore trascorse in fabbrica... E poi è luglio, può essere che gli avessero chiesto di rinviare le ferie perché c'era troppo da fare e non volevano più assumere. Non è stato il caso, ci sono dei perché.

I pompieri trasportano la barella, hanno preparato anche un sacco di plastica. Uno di loro asciuga il volto del ferito, con tutto questo sangue non riesco a riconoscerlo. Nemmeno ripulito so chi è. Forse avevo parlato con lei poco prima. So solo che lavora per una ditta che fa interventi di manutenzione nella nostra fabbrica.

Uno dei pompieri mostra ai miei colleghi come fare per sollevare il ferito e posarlo sulla barella. Pascal e Bernard seguono le indicazioni del pompiere. Io sono solo uno spettatore, un guardone forse, di fronte alla vita che se ne va.

Il ferito è trasportato lentamente fino all'ambulanza, mentre l'infermiere gli sorregge la flebo. È complicato scendere le scale mantenendo la barella orizzontale, ma i portantini ce la fanno.

È immediatamente condotto al Centro ospedaliero universitario. Vorremmo che ce la facesse, anche se sappiamo (quindici metri e il cemento) che ha poche possibilità. Morirà tra poche ore.

I poliziotti arrivano, fanno domande e scopriamo che il ferito ha venticinque anni, moglie e due bambini.

"Non c'è nulla di più stupido che morire al lavoro", mi dice Pascal. Acconsento.

Questa sera il reparto si svuota in fretta. Tutti gli operai che si occupano delle riparazioni alle macchine hanno incrociato le braccia. Non è uno sciopero, solo il disgusto. Qualsiasi altro operaio avrebbe potuto ferirsi al posto suo. Questa sera i caporeparto e i caposquadra non chiederanno di fare gli straordinari.

La fabbrica è la morte. Da quando lavoro qui ce ne sono stati di morti, d'incidenti. Anche se, col tempo, si sono ridotti e i sistemi di sicurezza sono stati migliorati. Ogni volta è un dramma. Un interinale stritolato dagli ingranaggi, la vigilia di Natale; due saldatori che avevano fatto troppo bene il loro lavoro su una cisterna che esplode; l'elettricista fulminato sul trasformatore... Senza contare i compagni che hanno perso un occhio a causa di un getto d'acido, le dita nelle macchine, bruciate da qualche prodotto o dal vapore, le malattie professionali e non che compariranno tra qualche anno, e i suicidi, troppo numerosi.

La fabbrica è il luogo della non vita per eccellenza (salvo, forse, durante i periodi di lotta, sempre più rari tra l'altro). Ci si dimentica di se stessi, ci si perde, ma ci si muore pure. Se si volesse fare un monumento ai caduti sul lavoro, ogni fabbrica avrebbe la sua stele.

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Pagina 71

IL LAVORO RENDE LIBERI

di Daniele Biacchessi


                                                Nelle tue miserie
                                                     Riconoscerai
                                                   Il significato
                                       di un "Arbeit macht frei".

                                                   Tetra economia
                                                Quotidiana umiltà
                                               Ti spingono sempre
                                         verso Arbeit macht frei.

                                                   Consapevolezza
                                                Ogni volta di più
                                                   Ti farà vedere
                                         cos'è Arbeit macht frei.

                                           Demetrio Stratos, Area



"Numeri siamo, cifre sui giornali dimenticate in pochi giorni, una, due, tre volte uccisi dal Silenzio.

Numeri siamo, e ritorniamo sulle labbra per qualche anniversario, per ogni nuovo Caduto che ci raggiunge nella Fossa.

Numeri siamo, confusi, scordati, invendicati, ma ogni nuovo numero era un Cristo crocifisso per due soldi".


I calcoli matematici sono freddi, generalmente non hanno un'anima. Statistiche, proiezioni, raffronti, percentuali.

Sono operazioni svolte da uomini, ma distanti dalla vita delle persone.

Sono numeri sommati, moltiplicati, sottratti, poi divisi, ancora sommati, divisi, risommati, sottratti di nuovo, e ancora moltiplicati, divisi, che alla fine compiono un totale.

Sono colonne di numeri messi in fila, pronti per essere proiettati, interpretati, magari manipolati, travisati.

Naturalmente dagli uomini, per conto di altri uomini, spesso contro altri uomini ancora.

Solo quando vengono associati a un soggetto, quei numeri fanno capire molto di più di qualsiasi analisi, rapporto, editoriale di un quotidiano, rilievo di un ricercatore.

I numeri associati a un soggetto raccontano una storia e ne descrivono il senso compiuto.


Se ti dicessi 874.940, così, senza spiegarti il motivo, tu non capiresti proprio nulla.

Di cosa stiamo parlando, mi diresti.

874.940.

Sì, va bene, ma di cosa?

874.940.

Persone... uomini... donne... vecchi... ragazzi... bambini... neonati...

Animali... cani... gatti... serpenti... lama... gnu... ornitorinco... panda... bradipi.... elefanti... pappagalli...

Città... strade... piazze... paesi... borghi... frazioni...

Case... scale... portinerie... ascensori... porte... finestre... balconi... terrazzi...

Televisori... computer... lettori... cd... dvd... ipod...

Automobili... treni... aerei... navi... barche a vela... a motore... moto grandi come macchine... biciclette... monopattini... tricicli....

Scarpe... calze... pedalini... camicie... gonne... giacche... pantaloni... gilet... cravatte

Dischi ascoltati... libri letti... spettacoli visti...

Viaggi effettuati... biglietti acquistati...


874.940.

Di cosa?

Scuole... studenti... insegnati... presidi... bidelli...

Fabbriche... operai... impiegati... dirigenti...

Caserme... commissariati... centrali operative di poliziotti... carabinieri... finanzieri...

Macchinisti e personale viaggiante di treno...

Piloti, hostess, steward di aereo...

Comandanti... mozzi... cuochi di nave....

Contadini... mezzadri... latifondisti.... coltivatori di prodotti ecosostenibili che tanto fa moda...

Giornalisti... scrittori... attori... scultori... pittori...

Architetti... geometri... ingegneri... ragionieri... agronomi...


874.940.

Di cosa?

Letti così quei numeri non si capiscono.


874.940.

Se ti dicessi invece operai, impiegati, muratori, carpentieri, attrezzisti, elettricisti, carrozzieri, meccanici, falegnami, contadini italiani portati in ospedale in una giornata di ordinario lavoro.

Se ti dicessi che molti di loro sono immigrati con regolare permesso di soggiorno che in un anno subiscono un infortunio sul lavoro.

Allora capiresti tutto.

E se mi venisse fuori un altro numero?

1120.

Sono gli incidenti sul lavoro mortali in un anno.

A questo punto ti potresti perfino incazzare.

Perché... perché non si può morire mentre si lavora.

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AFRICA

di Valerio Varesi


"Ehi! Africa!". Cominciano sempre così le telefonate del padrone.

"Africa, allungati di là... Africa, vai su fino a...". L'apparecchio, solo ricevente, è appeso al soffitto della cabina dell'"Iveco Turbostar" vecchio di quindici anni e con tanti chilometri sulle ruote da fare il giro del mondo. Un "bilico", come lo chiamano i colleghi italiani, anche se quel nome lo fa ridere ogni volta che lo sente. Kenenisa conosce almeno quindici definizioni di camion imparate nella babele degli autogrill o a mangiare in quei posti alla buona col menù a prezzo fisso, ma "bilico" gli pare la più ridicola. Anche adesso che il telefono squilla di nuovo e Catia, la segretaria del padrone, con quella voce di flauto che ogni volta glielo fa diventare duro, gli dice: "Ken? Sei in bilico?"

Se non altro è l'unica che lo chiama per nome.

"Ken", esordisce Catia. "Robuschi dice che siccome vai a Padova potresti allungarti a Bologna, all'Interporto, per caricare una decina di bancali di lamierino per una ditta di Ravenna".

"Sono già in ritardo. Ho trovato coda a Fidenza".

"Robuschi dice così", insiste Catia col tono disarmato e vagamente minaccioso delle segretarie che eseguono ordini.

"Robuschi dice così". È sempre questa la conclusione. Esigere spiegazioni o tentare di mediare sarebbe peggio. Catia, a quel punto, taglierebbe corto: "Bisogna che ti passi Robuschi". E il padrone si metterebbe a sbraitare nell'apparecchio: "Africa, la smetti di fare il cacacazzi! Se ti dico che devi andare, devi andare, mi hai capito!". Fine delle trasmissioni.

Non aveva voglia di discutere. La ramanzina se la sarebbe presa il giorno seguente, dopo le proteste del destinatario della consegna per il ritardo. Tanto, per il padrone, quelli che guidano sono solo degli scansafatiche. Io, per di più, sono anche nero, figuriamoci. Per fortuna pure lui ha le spalle al muro: o prende noi della legione straniera, o i suoi camion restano sul piazzale. Vai a trovare gli italiani che hanno ancora voglia di cuocersi il culo sul sedile per quindici ore. Alla faccia del tachigrafo!

Proprio per questo, quando Catia mi chiede se "sono in bilico", vorrei dirle che ci sto da sempre. Prima la fame, poi la guerra, quindi la clandestinità e adesso questa vita di merda perennemente in giro come la palla del flipper. In bilico, appunto. Tra l'inferno e la sopravvivenza. Ma a ben vedere non so se ci sia poi tanta differenza. Se sia meglio perdere il lavoro ripiombando negli espedienti della clandestinità, oppure questa infinita marcia forzata in cui si confondono il giorno e la notte, il sonno e la veglia, la colazione e la cena e il mondo mi appare come un'incessante striscia d'asfalto dove tutti fuggono via. Se resisto è per Joanna e Michel: mia moglie e mio figlio. Vivono a Lodi in un miniappartamento in affitto. Ho le loro foto sul cruscotto, nel posto dove i colleghi tengono la Madonna, i Santi e le donne nude. Li guardo mentre guido e coltivo la speranza di mettere da parte un po' di soldi e cambiare 'sta menata di vita.

Però è dura. La paga non è granché. Tra l'affitto, il bimbo che va a scuola e tutto quanto, non riesco a mettere via che poche decine di euro al mese. Se ti capita una sfiga, il salvadanaio si svuota e ricominci da zero. Inoltre, il padrone ci ha messo del suo. Quando mi ha assunto era per tutt'altro lavoro. L'annuncio sul "Corriere della sera" diceva: Cercasi autista per consegne in zona Milano-Lombardia. Pensavo: viaggio tutto il giorno e alla sera torno a casa. Solo dopo ho imparato che non bisogna mai prendere alla lettera gli annunci. Il primo viaggio l'ho fatto a Trento. Poi mi hanno spedito a Torino e da lì in Emilia. Ho pensato: hanno allungato un po' il giro, ma posso pur sempre tornare a casa la sera. Invece, un giorno mi chiama Robuschi e mi dice che il mio collega bulgaro s'è licenziato e che loro hanno bisogno di sostituirlo. Insomma, ci voleva qualcuno che si prendesse la briga dei lunghi tragitti. Magari nel meridione o all'estero. "E la famiglia?", dico io.

"Torni a casa quando puoi", mi ha detto il padrone.

"Questa è la vita che fanno tutti. E poi", ha aggiunto strizzandomi l'occhio, "lungo la strada puoi sempre toglierti qualche capriccio, no?".

Non sono ipocrita, qualche volta ci ho pensato vedendo tutte quelle ragazze che se non stai attento ti vengono sotto le ruote con le tette fuori e tutto quanto. Ma a me basta Joanna, sempre che me la facciano vedere.

"Senti", mi dice Robuschi in ufficio. "Sai cosa facciamo per le trasferte?". Lo guardo incuriosito e guardingo.

"Un patto tra galantuomini, ti va? Anziché prenderti la briga di trovarti una pensione per dormire, posso concederti il camion. Facciamo un prezzo ragionevole e ci guadagniamo tutt'e due: tu risparmi sull'albergo e io sulla trasferta. Ci puoi anche portare tua moglie se vuoi".

Ho fatto segno che non avevo capito. Allora Catia mi ha spiegato, mentre il padrone rispondeva a una telefonata.

Lui mi affittava la cuccetta e l'uso della cabina come roulotte. Potevo dormirci, farci da mangiare e quant'altro avessi bisogno. In pratica, il camion sarebbe diventato la mia casa viaggiante.

"Per la paga", ha ripreso il padrone dopo aver riattaccato, "ti metto quella base in busta e il resto te lo do in contanti così hai meno tasse e più soldi in tasca".

Ho scoperto solo più tardi che non era vero, ma lì per lì ci sono cascato. Per noi che abbiamo conosciuto la povertà più nera, i soldi in mano danno un senso di conquista e di sicurezza a cui non sappiamo resistere. È così che ci fregano.

Insomma, ho cominciato a viaggiare lontano: Napoli, la Sicilia, Bari, Matera, Benevento... Le mie ruote hanno girato ovunque e io con loro. Dopo un po' di mesi di questa vita, ti sembra di non vivere più. Non sei più tu a guidare il camion, ma è lui che ti ha assorbito, ingurgitato come un organo meccanico tipo lo sterzo, il cambio o il filtro dell'olio. E di fianco a te quell'apparecchio appeso in cabina che ogni volta dispone del tuo tempo e della tua vita come un tiranno.

"Africa, fai un giro più largo... Africa, vai per Pescara che c'è un cliente...". Sempre lui, il padrone, a disporre seduto sulla sua poltrona di pelle e l'aria condizionata. La mia cabina mica ce l'ha. I colleghi sì, invece. Quelli tedeschi e francesi hanno camion nuovi che sibilano appena quando partono. Il mio fa un fumo e un baccano che la gente smette di parlare quando passo. Anche fra camionisti c'è chi è ricco e chi ha le pezze al culo. E i ricchi mica si mischiano a quelli come me. Prima guardano il camion vecchio e ammaccato, poi osservano me che sono nero e il gioco è fatto. So anche che non si fidano di un autista nero. Dicono che noi africani non abbiamo il senso della guida perché siamo cresciuti in Paesi senza macchine e camion. Persino quelli dell'est, che pur si ubriacano come le scimmie, la pensano così. E sono duri, sprezzanti.

Una volta ho inavvertitamente tagliato la strada a un lettone mentre facevo manovra nell'area di servizio e lui mi ha gridato di andare a guidare i cammelli. Credono di essere capaci solo loro.

A parte questo, ho un altro cruccio: quello del tachigrafo. L'apparecchio è manomesso in modo che io possa staccarlo e fare le ore di guida che voglio. La legge dice che dopo un certo tempo devi fermarti a riposare, ma in Italia le leggi non le rispetta nessuno, figuriamoci il mio padrone. Dice che sono tutte menate e che, quando faceva il camionista lui, si guidava per giorni e notti senza riposare e con il volante che ti stracciava le braccia dalle spalle perché allora mica c'era il servosterzo.

Beh, dopo un paio di settimane sempre in giro con quella rumba, non ti sembra nemmeno più di essere al mondo. Adesso capisco perché tanti colleghi finiscono per ribaltarsi in un fosso, piombare giù da un viadotto o schiantarsi contro la spalletta di una galleria. Ti casca la faccia sul volante, dopo giorni così. Hai voglia di caffè! Neanche se sniffassi! Se ti fermi e ti butti sul lettino in cabina, finisce che sei così agitato dai pensieri di consegnare e di correre, che ti svegli dopo poche decine di minuti in preda all'ansia. Così ricomincia l'agonia del sonno e ti prende a poco a poco quel senso di stordimento, quel dolore alle tempie e agli occhi che si stabilizza in un insidioso malessere da vomito. Alla fine non hai più voglia di niente e tutto ti infastidisce. Vorresti solo chiudere gli occhi e non vedere più la strada e tutto quanto.

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