Copertina
Autore Luisito Bianchi
Titolo Le quattro stagioni di un vecchio lunario
EdizioneSironi, Milano, 2010, indicativo presente 44 , pag. 320, ill., cop.fle., dim. 14,8x20x1,7 cm , Isbn 978-88-518-0135-9
LettoreGiangiacomo Pisa, 2011
Classe narrativa italiana , storia sociale
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Indice


LE QUATTRO STAGIONI DI UN VECCHIO LUNARIO        7


Autunno                                         13

La lippa                                        17
La domenica                                     19
Il rosario ottobrino                            21
I Santi e i Morti                               24
La fiera                                        28
Il giorno del maiale                            31
Santa Lucia e l'asinino                         36
L'attesa della neve                             41
La borraccina                                   43
Il presepio                                     44
La novena                                       45


Inverno                                         51

La vigilia                                      54
L'epifania                                      59
I giorni allungati                              60
Gli scivoli                                     63
Sant'Antonio abate                              64
I santi Fabiano e Sebastiano                    65
Sant'Agnese                                     66
I giorni della merla                            67
La purificazione                                69
San Biagio e la gola                            71
Sant'Apollonia e i denti                        73
Sant'Agata                                      76
Quarant'ore e carnevale                         77
Ceneri e quaresima                              85
La Via Crucis                                   89
La cova                                         95


Primavera                                      103

Piccolo intermezzo                             105
La settimana santa                             112
I mestieri di pasqua                           117
Processione del Cristo morto                   123
L'acqua nuova                                  128
La benedizione della casa                      132
La settimana di pasqua                         134
Il poema del baco da seta                      137


Estate                                         145

L'inizio delle vacanze                         147
La mietitura                                   152
La croce nella piana                           154
L'anguria                                      156
Il poema del granoturco                        160
La chiusura del cerchio                        169
La pigiatura                                   170


PICCOLI SCHIZZI DI CARE MEMORIE                175

I personaggi                                   179
I soprannomi                                   181
Poldu                                          185
Èl piltrèer                                    188

[...]

 

 

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Pagina 15

C'era una volta il calendario d'un ragazzo, che cominciava col primo d'ottobre.

Non che i calendari d'allora fossero diversi da quelli d'oggi: il 31 dicembre, i pochi uomini che possedevano un fucile da caccia e ci tenevano a una manifestazione di virilità tanto da sciupare una cartuccia che valeva un bicchiere di vino all'osteria, ammazzavano l'anno vecchio e salutavano il nuovo, quando il campanone della torre suonava mezzanotte fra abbaiare di cani, ragli d'asini fuori tempo e teste che sobbalzavano all'improvviso vicino al camino.

Ma noi ragazzi avevamo un lunario tutto nostro, ignorato dagli adulti che s'erano dimenticati d'essere stati ragazzi, e ce lo confezionavamo ogni anno per istinto, senza bisogno di scriverlo, dato che i giochi si tramandano solo giocando. Insomma, era un lunario regolato dalle feste dei giochi; e il primo gioco, quando ci ritrovavamo tutti insieme il primo giorno del ritorno a scuola, era quello della lippa.


La lippa

Voi non sapete che cosa sia il gioco della lippa, ed è un peccato, perché non conosco gioco che meglio alleni a far crescere, tutti insieme, ossa e muscoli, mira e intelligenza. Non costa niente. Bastano un bastone ben dritto e senza nodi, lungo dai 40 ai 50 centimetri, un pezzetto di bastone più piccolo e più corto, bene appuntito alle due estremità, e uno spiazzo di terra battuta, un cortile di cascina, ad esempio, o la piazza enorme del mio paese. Si tracciava sulla terra un cerchio di tre metri di diametro, e il sorteggiato a fare la prima battuta vi si poneva al centro e gridava: Lippa? I ragazzi, se erano già pronti ai loro posti strategici, rispondevano: Màndala, e il battitore lanciava il più lontano possibile, con un colpo del bastone, il pezzetto di legno appuntito, ossia la lippa, rimanendogli a disposizione altri due colpi se sbagliava il primo. I ragazzi rincorrevano il legnetto cercando d'indovinare dove sarebbe caduto (con un calcolo vicino alla trigonometria: vedete quale gioco intelligente non era mai questo della lippa!); che se l'avessero afferrato a volo, il battitore doveva cedere il posto alla squadra avversaria, senza avere realizzato nessun punto. Ma era difficile afferrare a volo la lippa, così il gioco si svolgeva con un fascino da fermare a vedere anche gli adulti curiosi, ma a distanza per non beccarsi qualche colpo in testa.

Il battitore si metteva a custodia del cerchio a gambe divaricate e il bastone in mano; l'avversario più vicino al punto dove era caduto il legnetto, l'afferrava e cominciava a fintare per gettarlo nel cerchio senza che il battitore lo colpisse e lo rimandasse lontano. Se la forza del braccio era mal calcolata, o il battitore riusciva a respingere la lippa, quest'ultimo per tre volte successive batteva sulle punte del legnetto. Ci volevano occhio, velocità, saldezza di polso. La lippa colpita saltava volteggiando in aria e riceveva a volo (qui stava la destrezza) un colpo che, se era azzeccato in pieno, la respingeva lontano. Terminati i colpi a disposizione, il battitore calcolava a occhio la distanza della lippa dal cerchio, e il metro era la lunghezza del bastone. Poi sparava una cifra, a seconda della distanza. Il calcolo approssimativo doveva essere rapido anche dall'altra parte. Se si rispondeva: Sì, il battitore intascava i punti e riprendeva il suo posto nel cerchio; se si gridava: Provo, allora un neutrale osservatore (ce n'erano sempre) prendeva il bastone e cominciava la misurazione. Se il battitore aveva chiesto troppi punti, perdeva punti e posto; se meno, li raddoppiava.

Era il gioco del giovedì e del sabato pomeriggio, non essendoci scuola, e degli altri giorni fra il pranzo e la ripresa della scuola pomeridiana, per i fortunati s'intende. Io non ero fra questi perché potevo uscire di casa solo all'una e mezzo battuta, per evitare di sudare, dato che il sudore, giurava e spergiurava la nonna, mi andava a finire nella pleure. E io a opporre con tutte le forze che il gioco della lippa non faceva sudare, e che la pleure l'avevo ormai sana; ma non c'era nulla da fare.

A ripensarci adesso, con tutti quei bus, okey, groggy, e via angloitalianeggiando, che ci sono in giro, per rilanciare il gioco della lippa m'è venuta la buffa idea di chiamarlo baselipp. A dirla a un italoamericano chissà che non ci salti fuori un comitato internazionale con sede al mio paese, naturalmente, di gare di baselipp come ce n'è uno di baseball. E non è detto che quest'ultimo gioco non si sia ispirato a quello della lippa, con l'ingegno che i vescovatini portavano con loro quando emigravano in America, insardellati in cuccette per poveri.

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Pagina 28

La fiera

In un mese o nell'altro dell'anno, in ogni paese della grande pianura (poiché io sono nato e vissuto in pianura, parlo delle cose che accadevano in pianura), c'era la fiera o la sagra. Notate la particella disgiuntiva seguita dall'articolo. Voglio dire con questo che la «o» è avversativa, e quindi che i due termini fiera e sagra non si equivalgono. A me è rimasto l'orgoglio di ragazzo d'essere nato in un paese che aveva la fiera, e che facevamo valere, quando nasceva l'occasione, coi ragazzi dei paesi vicini che dovevano accontentarsi della sagra. Poiché la fiera è un'altra cosa. La fiera...

Ma prima devo dirvi perché ve ne parlo adesso. Solo perché la fiera al mio paese capitava in novembre, che sembrava messa lì apposta per fare da ponte fra le feste dei morti e quella di santa Lucia, la quale a sua volta faceva da ponte con quella del Natale, tanto che ottobre novembre dicembre erano tutti una grande festa per noi ragazzi. Ma che dico? Solo questi tre mesi? C'è da nominarli tutti, come vedrete.

Dunque, la fiera. Immaginate una settimana di preparativi per trasformare la grande piazza nel centro del mondo, e voi con la sola fatica di saltare e di gridare dalla contentezza a ogni mutamento che vi immergeva progressivamente nel mondo della fantasia, cioè nel vostro vero mondo. Normalmente, il primo ad arrivare era il baraccone, detto anche – dal segretario comunale, dall'arciprete e da qualcun altro che s'intendeva d'italiano – circo equestre. La voce si spargeva in paese prima che il camion a rimorchio e le carovane del seguito s'infilassero nel budello lungo e stretto della via principale che sfociava sulla piazza, e riusciva, chissà come, a penetrare nelle scuole che davano sulla piazza, se l'ingresso rumoroso sull'acciottolato del budello avveniva prima della campanella delle quattro.

Fortunati, se il giorno dopo era giovedì, ché avremmo potuto assistere, a debita distanza, allo straordinario avvenimento dell'erezione dell'altissimo sostegno centrale del telone, che noi sostenevamo essere un abete di proporzioni d'altre nazioni. Poi, giorno dopo giorno, pomeriggi dopo mattine, arrivavano l'autopista, le giostre, il giro della morte, la calcinculo, la sedia elettrica, e ogni anno qualcosa di nuovo, con tanti tiri a segno da riempire tutti i buchi e buchetti della grande piazza. «E sì,» dicevamo «la nostra piazza è una delle più grandi del mondo!» con quel compiacimento che mostrano gli occhi del padrone di fronte a distese di grano non chiazzate dal vento, la vigilia della mietitura.

Dopo una preparazione simile, ditemi che cosa doveva essere quel 13 novembre per noi ragazzi, ma anche per gli adulti che risparmiavano un anno intero sul pollaio e sul baldacchino dei salami per fare bella figura coi parenti dei paesi vicini, al pranzo detto appunto della fiera? E siccome i parenti prendevano un giorno di festa, si mettevano l'abito delle grandi occasioni, magari del giorno di matrimonio dopo vent'anni, e intascavano quanti soldi potevano a saputa e a insaputa della reggitora di casa (a quei tempi, per i soldi, e anche per altre cose, bisognava passare dalla donna più vecchia della casa detta reggitora perché reggeva le redini, a riuscirci, sulle spalle degli uomini e delle nuore), per fare, a loro volta, bella figura sulla fiera, noi ragazzi godevamo della duplice magnanimità e arrivavamo all'ora dello spettacolo serale al circo equestre (parlo adesso anch'io come l'arciprete) con una mansuetudine di cagnolino sazio che per noi era sonno a un centimetro dalle palpebre e, per gli adulti, tacita implorazione a essere condotti allo spettacolo serale.

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Pagina 31

Il giorno del maiale

«Uh, che schifo» mi pare di sentirvi e di vedervi, con la bocca e il naso atteggiati a disgusto. Aspettate un momento. Voi i maiali li avete visti qualche volta solo stipati nei camion, quando li portano al macello, e comprendo il vostro disgusto che è anche il mio. Puzzano. E poi sono sporchi. E poi si vede che sono ammaestrati a fare la parte del maiale, ma in realtà non sono maiali, sono un ammasso di grasso e di carne, senza personalità.

Invece il maiale che si uccideva a metà coi parenti, o anche a terzo come comandavano le necessità della famiglia e il portafogli, godeva della personalità degli animali di cortile, allevato come le galline, il gatto e il cane, ossia, fin dai suoi primi giorni, coccolato, palpato di sopra e di sotto, grattato per fargli piacere, servito ogni giorno anche di grande festa, alla stessa ora, in un trogolo fumante di polenta diluita; chiamato affettuosamente con nomignoli quasi fosse un gattino da focolare, oggetto d'ammirazione o d'invidia dei vicini, visitato dagli uomini ogni mattina e sera, causa di compiaciuti sorrisi a ogni chilo in più che l'occhio esperto e una palpata da intenditore sapevano subito cogliere, materia di lunghe conversazioni nelle stalle e nelle osterie; insomma, un personaggio importante.

«E avevate il coraggio d'ucciderlo?» sento ancora dirvi, e giustamente. Abbasso la testa, pieno di vergogna per la nostra insensibilità, e confesso in sovrappiù che noi ragazzi, ma anche gli adulti, aspettavamo con desiderio quel giorno. Mah, sono misteri del cuore umano, non ancora chiariti nemmeno oggi, se penso a tutte le armi che ci sono in giro, capaci di ammazzare non solo i maiali di tutto il mondo in un colpo solo, e alle commosse proclamazioni di fraternità fra tutti gli uomini! Comunque, non dico a discolpa ma almeno a stiracchiata comprensione di noi ragazzi, non eravamo noi a ucciderlo; e poi, quella mattina mia zia Rosita che era la più affezionata al maiale perché se ne prendeva la cura quotidiana, piangeva sempre, di nascosto ma non tanto, con quei suoi occhi buoni di zitella volontaria per amore altrui, e diceva: «Mi rincresce, gli ero affezionata». E vi posso garantire che mia zia poteva rappresentare da sé sola la parte migliore di tutta l'umanità.

Sia come sia, capivamo che si cominciava in paese la carneficina dalla prima assenza d'un compagno da scuola. Alla domanda della maestra sul perché di quel posto vuoto, c'era sempre qualcuno che s'alzava e rispondeva: «Perché oggi uccide il maiale». «Ah,» faceva la maestra «siamo già in inverno, vi darò qualche pensierino sul giorno dell'uccisione del maiale» e forse faceva anche lei qualche pensierino ai salami e cotechini che avrebbe ricevuto in dono. Non era per avere qualche svista benevola nella correzione dei nostri pensierini, ma proprio perché non si poteva uccidere il maiale senza farne godere un poco anche alla maestra che non aveva tempo di allevarne uno. All'arciprete no, l'arciprete aveva già la sua parte il 17 gennaio, giorno di sant'Antonio abate, patrono dei maiali e delle altre bestie, per paga del disturbo di andare a benedire le stalle, e poi toccava ai padroni che non s'accontentavano d'un solo maiale; la terza autorità dopo la maestra e l'arciprete, ossia il podestà, che se li facesse dare dal fascio i salami, che la gente aveva già fin troppo da pensare per casa sua.

La maestra dava per scontato che un ragazzo non andasse a scuola in un giorno simile perché poteva servire ad aprire la mente meglio che una settimana di scuola, e così anch'io presi parte, diverse volte, alla festa. Di solito era una mattina secca, col cielo grigio e freddo che sembrava stesse lì per spiare che cosa capitava su quell'aia di cemento, e io alla finestra della cucina più intento del cielo, con la schiena tutta tepore per il fuoco del camino alle prese con un grosso paiolo d'acqua.

Il norcino aveva appena bevuto un grappino per propiziarsi tutti gli spiriti in corpo, ed era in agguato sull'aia con un pugnale in mano da pirata della Malesia. Il nonno aveva impugnato il paletto del porcile in fondo all'aia («Sei pronto?» «Sono pronto»), lo tirava, e il maiale, che spingeva da tempo all'usciolo col muso perché era già passata l'ora del primo pasto, si trovava tutto d'un tratto in mezzo all'aia, si fermava un momento impaurito di quel vuoto, tentava di correre avendo fiutato istintivamente un pericolo, ma il norcino gli era già sopra con un colpo preciso di pugnale al cuore. Il maiale s'accasciava, agitava per due o tre volte le zampe quasi mi volesse salutare, e restava immobile. Poteva capitare che il colpo non fosse mortale, e allora l'aia si trasformava in una giostra forsennata, col nonno salito in tutta fretta sulla scala del fienile e il norcino a far da palo in mezzo e a sudare freddo perché, con un maiale scatenato e un pugnale nel fianco, c'era poco da cantare.

La giostra rigava di sangue l'aia, le galline nel pollaio sopra il porcile facevano la parte del coro in una tragedia greca, e io alla finestra a dire mentalmente avemarie per il norcino e il maiale. Ero sempre esaudito: il maiale, dopo un ultimo mezzo giro, crollava, il norcino era salvo e cominciava a bestemmiare in risposta alle mie avemarie. Il nonno, ridendo, scendeva dal fienile e l'aia si popolava di uomini e donne di casa, e di vicini, tutti pronti a dare una mano per sollevare il maiale sull'asse, portare il paiolo dell'acqua bollente, il secchio di rame per raccogliere il sangue, stendere le setole raschiate su fogli di giornale; e io ancora inchiodato alla finestra, con un'avemaria non finita sulla lingua e una gran voglia d'essere utile in una partita che era tutta di adulti.

«Fai ancora a tempo ad andare a scuola» mi diceva mio padre entrando in cucina col primo pezzo di maiale squartato. «Ormai hai già visto tutto». «Lascialo a casa, può essere l'ultima volta che vede fare i salami, chissà se lo teniamo ancora l'anno prossimo con quello che costa mantenerlo» (il maiale s'intende; ma quel giorno non lo si nominava mai, tanto non poteva essere che lui!) diceva mia madre giungendo col secondo pezzo; e io, esultante, correvo dal norcino sull'aia per chiedergli se era mai capitato che «lui», con il pugnale nel fianco, avesse sbranato un uomo per vendicarsi. Il norcino rideva, mi schiacciava l'occhio: «Va' là, portami piuttosto un bicchierino di grappa che mi debbo riscaldare».

Tutta la giornata la si passava in cucina, il norcino a tagliare, macinare, insaccare maiale, e il gruppo delle donne, accanto al fuoco, a lavare con aceto e vino bianco le budella per l'insacco, tagliarle e cucirle, a preparare ciccioli, salare lardo, fondere strutto. Di tutti io ero il più indaffarato a portare a termine tre operazioni nello stesso momento: giocare col fuoco, solleticandolo con un bastone perché mi regalasse manciate di faville, guardare il norcino che maneggiava con incredibile sveltezza coltelli affilatissimi, non perdere una parola del discorrere delle donne facendo finta di non ascoltare.

A ossa ben scarnificate, cominciava per me la parte del protagonista. La nonna ne faceva alcuni cartocci con carta gialla da macellaio, li metteva in una sportina, me la consegnava con mille raccomandazioni perché non mi fermassi a giocare lungo la strada e ricordassi i destinatari: «Questo è per la Lena, questo per la Rosa. Che godano anche loro». «Vuoi che non sappia?» dicevo io per darmi un contegno di fronte alla donne. «Eh sì, è già un ometto» diceva quella che con l'ago dava un colpo al budello e con la lingua un altro al prossimo. E io ero contento di quell'apprezzamento.

In cucina c'era un profumo che penetrava nei pori, nei muri e nelle travi: aromi di aceto e di vino bianco, afrori di aglio, fritto di ciccioli, sferzate di pepe e di altre spezie. Adesso è difficile trovare un salame con l'aglio, dico di quello calibrato con l'occhio da bilancino di farmacista, ma allora non c'era norcino che non ne avesse il segreto. «Vedrete,» diceva annusando il primo salame con l'aglio «questo fa risuscitare i morti».

Del maiale tutto faceva risuscitare i morti. Mio nonno parlava di morti facendo sparire, sotto i baffi all'Umberto I, un pezzetto di codino, mia nonna spremendo un cicciolo, mia madre intingendo la polenta nel sanguinaccio profumato di spezie, mio padre addentando una zampetta. La zia non nominava né morti né vivi e s'accontentava del piatto che le preparava la nonna; e io mangiavo di gusto perfino il riso con le verze per amore delle briciole di carne che s'erano staccate dalle ossa riservate per il brodo.

Alla sera, salami, cotechini, coppa, pancetta penzolavano dal soffitto d'una stanzetta col camino acceso, perché per asciugare i salami non basta solo il calore d'una stufa, ci vuole proprio la compagnia del fuoco. A guardarli al riverbero della fiamma, ordinati e legati che sembravano il colonnato di San Pietro, non si sarebbe mai detto che un maiale avesse addosso tanta roba. «È un bel baldacchino» diceva mio nonno. «Un baldacchino che non cambierei con quello dei letti di principi e re» aggiungeva mio padre.

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Pagina 105

Piccolo intermezzo


C'era una volta un corpo che andava come una ruota appaiata a quella delle stagioni. E siccome la primavera riportava la vita nell'orto, nei campi, fra una pietra e l'altra dei muri dell'aia, perfino nella concimaia, quel corpo sentiva di vivere fin nel mignolo del piede sinistro. Non che fosse uno scoppio improvviso. Si cominciava con l'aria che non tagliava più le gote quando facevo di corsa il tratto da casa alla piazza. L'aria non era ancora tiepida ma si sentiva che conteneva già un po' di fiato della terra i cui polmoni stavano per mettersi in moto. Adesso ne sono meno sicuro, ma allora ero certo che la terra, dopo l'inverno che l'aveva messa in catalessi, si svegliasse e cominciasse a respirare. Però se riesco a mettere a tacere qualche dubbio traditore che mi fa dire: «Tu sei un po' tocco a parlare di fiato della terra», vi assicuro che anche ora lo percepisco, e quasi quasi lo confondo col mio. Ma è meglio stare sul sicuro, e così ritorno a quel corpo che andava appaiato con le stagioni.

Di solito i primi alveoli a mettersi in funzione erano le sponde delle rogge che davano a mezzogiorno; poi quelli che stavano, a cerchio, attorno ai gelsi e ai platani; infine, un giorno di sole e di vento, i polmoni cominciavano a funzionare tutto d'un tratto e per tutta la loro distesa: i campi, le cavedagne, le rogge e i fossi. Per cogliere questo respiro non bastava l'orecchio, ci voleva tutto il corpo come quando vuoi sentire tu stesso il tuo cuore. A me capitò di sapere anche che ritmo avesse quel respiro; ed era esattamente il ritmo del mio respiro, e variava secondo il variare del mio. Se acceleravo per la corsa, anche il respiro della terra accelerava; se lo sospendevo di botto per cogliere, sfasato, quello della terra, anche la terra tratteneva il suo fiato. Cosicché mi feci l'idea, con la nozione che avevo dalla scoletta di catechismo, che Dio avesse comandato alla terra di respirare sul ritmo del respiro dell'uomo; e, siccome tutto questo era una faccenda mia personale, che non avrei riferito a nessuno, mi persuasi d'essere io a dare alla terra il numero di respiri, un tanto al minuto.

Voi mi chiederete che prove avessi di questo respiro. È giusto.

Se il torace s'alza e s'abbassa, se lo specchio s'appanna mettendolo vicino alla bocca, queste sono prove che si respira. Ma la terra non ha torace né bocca, e non c'è bisogno di prove per questo. Be', io gli indizi del respiro li avevo lo stesso. Che c'entra il torace della terra? Non bastava il mio? E lo specchio? Provate a deporlo delicatamente contro la terra, tenetelo così per qualche tempo, poi ritiratelo, guardatevi dentro e poi ditemi se la terra non è tutta bocca tanto lo specchio è tremolante d'umido respiro.

Tutto questo segnava la presunta venuta della primavera. Poi, a conferma, arrivava il 21 marzo con san Benedetto. Allora non sapevo chi fosse san Benedetto, ma doveva essere uno che amava le case coi tetti, le rondini e le focaccine nella vetrina del fornaio, lucide di miele disseminato di minutissima confetteria dagli svariati colori da sembrare un campo fiorito guardato dall'alto della torre. Non so se il 21 marzo arrivassero davvero le rondini sotto il tetto, e il dubbio incominciò a insinuarsi quando, già adulto di parecchie primavere, sentii il bisogno di guardare il cielo in quel giorno, e non vi notai mai una rondine. Però posso assicurare che, finché guardai il cielo da ragazzo, vi vidi sempre almeno una rondine in avanscoperta, e non c'è nessuno che mi possa persuadere che trattavasi d'un passero o d'un merlo.

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L'inizio delle vacanze


La stagione dei bachi si chiudeva pressappoco con la distribuzione delle pagelle e col saggio ginnico di tutte le cinque classi sulla grande piazza, con le autorità fasciste che guardavano e applaudivano dalle finestre e dal balcone del municipio. Il fascio era talmente contento di applaudire tanta giovinezza che, al termine del saggio, ci regalava una parigina di gelato. E noi più contenti, perché, prima della parigina, c'era sempre qualche spettacolo offerto da certi ragazzotti ripetenti di quinta elementare che venivano dalle cascine, e non gliene importava nulla delle raccomandazioni e delle minacce della maestra il giorno prima che era l'ultimo di scuola. «Se vi salta in mente di fare quegli scherzi volgarissimi, dico volgarissimi, e indegni d'un ragazzo fascista, in prigione vi faccio andare». Chissà se anche alla maestra, in fondo, quello scherzo piaceva, e con lei alle sue colleghe, e perfino al segretario fascista e al podestà, tanto era tutta roba fatta in casa che non sarebbe uscita dai confini del paese? I cascinari ridevano e dicevano al compagno di banco: «Verrai a trovarmi quando sarò in prigione?». Non c'era verso di farli desistere, era una tradizione. Nell'imminenza dell'attenti urlato da un avanguardista, i cascinari, approfittando della confusione, si spostavano di qualche centimetro, si piegavano fulmineamente e, con uno strappo deciso lasciavano il sedere del loro dirimpettaio, già sull'attenti, nudo come mamma lo fece. Il segnale del riposo coincideva con un mesto alzacalzoncini da parte dei malcapitati, fra il ridacchiare contenuto malamente degli altri. L'operazione era facilissima poiché i calzoncini neri di tela erano sostenuti solo con un elastico che, essendo autarchico, si sfilacciava e s'allentava dopo il primo bucato. A coprire il resto del corpo c'era una maglietta di cotonina bianca, mezze maniche, con sopra stampato in nero il fascio. Pure le bambine erano in bianco e nero, gonnella nera e maglietta bianca; ma i loro esercizi erano diversi dai nostri, fra loro e i maschi c'era uno spazio di qualche metro, e nessun cascinaro mai lo varcò.

Anche sulla pagella c'era il fascio, anzi due, da una parte e dall'altra del frontespizio con sotto il nostro nome in scrittuta che noi ce la sognavamo, a garantire che il manipolo di lodevoli che mietevo era una cosa seria. E più seria ancora quel buono in italiano che rovinava tutto. Bella fatica, pensavo, i ragazzi di Firenze: quelli avranno lodevole anche in italiano. Ma li avrei voluti vedere competere con noi nel nostro dialetto: insufficiente avrebbero preso, altro che buono. Erano i nostri discorsi quando ci confrontavamo le pagelle, naturalmente fatti, per l'occasione, in un dialetto che un ragazzo fiorentino non sarebbe mai riuscito a decifrare, altro che lodevole! «Insomma, quel buono non vuole crescere» mi diceva la nonna per nascondere e frenare la voglia di andare a mostrare la pagella alle vicine di casa. «Non sono nato a Firenze» ridevo io, e cominciavo a gustare il primo giorno di vacanza come il più meritato lodevole di questo mondo (allora alle elementari non usavano per il voto i numeri, ma gli aggettivi che vi ho detto, e qualche altro).

Che fa un ragazzo il primo giorno delle lunghe vacanze estive? Prende la bicicletta subito dopo colazione, e dice: «Vado a trovare il nonno al campo». Perfino la nonna se ne compiaceva e dimenticava, per un momento, i pericoli delle voltate che io prendevo come se fossi stato in pista. «Quel ragazzo è attaccato a suo nonno» sorrideva. «Ma va' piano, mi raccomando...». Mi richiamava mentre, già in sella, stavo superando l'usciolo del cancello: «Aspetta che ti do la bottiglia di vino con la sportina per il nonno». Bottiglia per modo di dire; era una bottiglietta di poco più d'un quarto. E vino per modo di dire, perché era più l'acqua che vi metteva direttamente dalla pompa che vino spillato dalla botte. «Così il vino è più fresco, e anche lui starà più fresco» mi sorrideva con aria d'intelligenza. Ma a me, con tutto il rispetto che avevo per la nonna, quell'operazione non piaceva.

Il nonno alzava contro il sole la bottiglietta, e diceva: «Battezzato due volte» e beveva subito a garganella, lasciando della bottiglia solo qualche goccia appesa ai baffi monarchici. In quei giorni il nonno era al campo per fare la guardia al frumento che stava prendendo le striature d'ocra della mietitura, e per giocare a carte, al fresco dell'ombra congiunta del casotto e del gelso più vicino, con l'amico che faceva la guardia a una piana di frumento attigua. E poi, dopo il frumento ci sarebbe stato il granoturco, due mesi e mezzo buoni, col quarantino subito dopo il frumento, che si sarebbe dovuto zappare mentre si cimava e si sfogliava l'altro dai fusi lunghi il doppio. Così il nonno passava l'estate al sole e all'ombra del suo campo e io, ogni giorno, con sportina e bicicletta, gli portavo il pranzo.

La domenica no, alla domenica nessuno faceva la guardia al frumento e poi al granoturco, giacché sia guardie che ladri si trovavano tutti all'osteria. E il giorno del Signore ne usciva, tutto sommato, non troppo male. Io poi non mancavo di fare una visita al nonno nell'osteria, dopo le funzioni pomeridiane; e lui, felice che un ragazzetto tutto a modo s'accostasse sicuro e sorridente al suo tavolo fra nuvole di toscani e gridi di morra, mi dava venti centesimi per il gelato.

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La pigiatura

E tuttavia la terra ci regalava, nelle prime settimane di scuola, quasi per un ultimo tratto di misericordia sulle nostre schiene ricurve per rifarci la mano a pennino e inchiostro, l'ultimo gioco dell'estate, come a dire che, se raccoglieva i suoi scenari, era solo per prepararceli nuovissimi e sempre carichi di sorprese per l'anno prossimo; un affacciarsi ancora al finestrino quando il treno è già partito, e starvi col fazzoletto sventolante finché gli occhi lo possono vedere, per significare: arrivederci ragazzi, fatevi onore, ritornerò presto.

Sapete qual era quel saluto dal treno già messo in moto? La pigiatura. «Qui bari» mi direte, sapendo che il mio paese è piatto come la palma d'una mano di prete e che per vedere qualche ondulazione di colline bisogna aspettare una giornata di cielo tersissimo e di vento, e salire in soffitta. E si sa che l'uva cresce in collina e non su palme di mano messe l'una accanto all'altra per decine e decine di chilometri. No, cari, non baro. Se al mio paese la gente voleva sapere di che grano era fatta la polenta che mangiava, voleva anche sapere quali piedi avessero pigiato l'uva, che, diventata vino nel tino di rovere per poi essere travasato nelle botti, scioglieva la polenta nello stomaco, e il cuore. Anche alle osterie la gente voleva sapere che vino beveva, per cui, in certi giorni ottobrini, il mio paese odorava dappertutto di mosto come se fosse stato saldamente piantato in collina. L'uva arrivava dalle colline di là del grande fiume su carri, in cassette di legno o già in bigoncia. I carri facevano il loro ingresso in paese sferrando sull'acciottolato nel tardo pomeriggio, essendo partiti in piena notte, cosicché i ragazzi avevano tutto il tempo, finita la scuola, d'appostarsi all'inizio della via che tagliava e taglia ancora il mio paese in due parti, sbucare fuori appena sopraggiunto il carro, fare una rincorsa, spiccare un salto e trovarsi con una mano aggrappata alla bigoncia e con l'altra afferrante un grappolo d'uva fra le imprecazioni del carrettiere e il sibilo della frusta. Si formava dietro al carro un piccolo corteo col carrettiere che brandiva la frustra in alto a difesa, e, a rispettosa distanza, il gruppetto di ragazzi fino alla pesa pubblica, vicino alla colonia elioterapica.

La processione si ripeteva a ogni arrivo di carro, e la gente diceva, sugli usci di casa: «Guarda come sono devoti quei chierichetti». Anche il nonno comandava una bigoncia d'uva dalla solita collina che non lo aveva mai tradito, e, quand'era il suo giorno, mi mandava, appena uscito di scuola, in avanscoperta con la bicicletta perché l'avvisassi a tempo dell'arrivo del carro. Vedendomi da quelle parti del paese, i ragazzi capivano e il corteo si faceva più nutrito e più ordinato, tanto sapevano che il nonno un grappolino l'avrebbe dato a tutti, senza bisogno che inventassero trucchetti. Io ero orgoglioso della generosità del nonno perché mi facevo dei meriti presso i compagni, ma stavo un po' in disparte, quasi con senso di vergogna, dato che avere una bigoncia d'uva, anche per solo qualche ora, era pur sempre uno sfacciato privilegio. E a me i privilegi davano fastidio. Anche adesso, benché siano tanto comodi.

Bisognava pigiare subito per lasciare libera la bigoncia per il viaggio successivo. Il nonno si lavava i piedi fino al ginocchio sotto gli occhi inquisitoriali della nonna, e saliva nella bigoncia.

Quei piedi e quegli stinchi li vedevo solo una volta all'anno, e ne ero sempre stupito. Piedi bitorzoluti bianchissimi, stinchi asciutti, lisci, senza un pelo, e bianchissimi; e unghie possenti.

Il nonno s'appoggiava all'orlo della bigoncia con le due mani per fare forza e cominciava a pigiare. Dopo qualche minuto, il mosto scorreva dal canaletto nel mastello e mio padre prendeva il secchio di rame per fare la spola fra mastello e tino. Io non facevo niente, tutto preso com'ero a piluccare l'ultimo grappolo d'uva, ma osservavo con la necessaria prospettiva i movimenti a stantuffo delle gambe del nonno che si sprofondavano sempre di più. Le galline s'ubriacavano all'afrore dolciastro del mosto e afflosciavano la cresta paonazza.

Arrivava la nonna con un mestolo e un pentolino: «Questo è per il sugo» e riempiva il pentolino. Ritornava in cucina e faceva bollire il mosto assieme a farina bianca, qualche pezzetto di cannella e chiodi di garofano. Il sugo d'un viola scurissimo lo mangiavamo dopo cena, come dolce; il nonno, però, lo mangiava con l'ultima fetta di polenta. Il sugo ha un sapore straordinario: è dolce senza essere dolce, è asprigno senza essere asprigno, sa di chiodi di garofano e di cannella ma non ce ne si accorge tanto quei sapori fanno un tutt'uno con quello del sugo; insomma, per sapere cos'è bisogna mangiarlo con negli occhi ancora la visione della bigoncia che butta un ruscelletto di profumo invadente aia e casa, e nelle orecchie il respiro del nonno, che diventa sempre più pesante e frequente man mano che l'uva cala nella bigoncia.

«Buono» diceva il nonno. «Quest'anno avremo un vino buono».

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Il Drago

Dicono che lo si chiamava così per il tatuaggio che s'era fatto sul petto quando era nel penitenziario di Gaeta, ricopiandolo da una stampa cinese: un drago, che era un'opera d'arte. Dicono che il Drago fosse scappato dal penitenziario tuffandosi da una cella in alto, a picco sul mare, roba che solo al cinema un conte di Montecristo poteva pensare e realizzare; che fu graziato per il coraggio e l'intelligenza che aveva dimostrato nella fuga. Tutte cose che un bambino immagazzinava senza chiedersi se fosse merce buona o falsa; e se le è portate di dentro così fino alla vecchiaia. Chissà cos'era successo realmente al Drago perché si potesse chiamare drago.

Io, incontrandolo, provavo un misto di paura e di compassione. Forse era mia immaginazione, ma quando lo vedevo in bicicletta, ed era sempre in bicicletta che lo vedevo, mi sembrava che assumesse la configurazione d'un drago, piccolo e bolso a ben pensarci, ma sempre un drago. Le ossa andavano per loro conto, le braccia da una parte e le gambe da un'altra, e si sarebbero disarticolate se non fosse stato il manubrio e i pedali a tenerli un po' in sesto; e la testa a star dietro ai movimenti, ora su una spalla, ora sul petto, ora sfidante il cielo, ora calamitata dall'acciottolato della strada. Ma drago era soprattutto nella bocca, sia per come l'articolava sia per le parole di fuoco che ne uscivano. Pedalando, scatarrava che sembrava una caldaia di trebbiatrice con troppo fuoco e poca acqua; se qualcuno, passando, lo salutava, per risposta alzava il braccio e saraccava di riconoscenza. Non metteva mai piede in chiesa, nemmeno per la funzione della sera del Cristo morto che perfino gli sbattezzati frequentavano; se vedeva la sottana dell'arciprete o del curato a distanza, faceva un'inversione veloce a U e ansimava per lo sforzo. Ma un giorno, per una combinazione che a studiarla non riuscirebbe, non poté sottrarsi all'incontro. Me lo raccontò lo stesso arciprete, un pomeriggio, già in età, io, di simili confidenze, mentre m'indicava quel mucchietto d'ossa in movimento disarticolato sulla bicicletta dall'altra parte della grande piazza, lungo la fila dei portici che, a perpendicolo, portano alla chiesa. «Fu pressappoco in quel punto che gli potei parlare dell'anima» mi disse sorridendo. Il fatto eccezionale avvenne così, come tirato da fili invisibili ma già predisposti. L'arciprete camminava lentamente sotto i portici, il Drago pedalava lentamente sulla strada, coperti l'uno all'altro dai grossi pilastri che si susseguivano fitti. Si trovarono improvvisamente l'uno e l'altro affiancati a mezzo metro di distanza.

L'arciprete chissà quante volte s'era immaginato di potere parlare al Drago. Per la benedizione delle case nemmeno a pensarci; il Drago fiutava l'avvicinarsi del prete e si rintanava per tutto il giorno all'osteria. L'arciprete non si lasciò sfuggire la rarissima occasione: che il Drago pensasse un poco alla propria anima, dato che l'età, la salute, insomma non si andava verso la gioventù, consigliavano di mettersi a posto col Signore. Il Drago scatarrò e la tosse ebbe echi di caverne. «Sentite?» incalzò l'arciprete «non è tosse da prime orecchie». «Io, signor arciprete, col Signore, se c'è, sono a posto; quanto alla mia anima, se non sarà stupida, farà quello che fanno le altre furbe, e se sarà stupida, si arrangi, peggio per lei». E cercò di riprendere la pedalata, ma l'arciprete fu più svelto, l'affiancò, gli mise una mano sulla spalla e lo seguì allungando il passo e chiedendo notizie della moglie, dei figli e del prezzo dei rottami, giacché il Drago era della congrega dei giratori. Di anima e di Dio più niente. Il Drago gliene fu molto riconoscente e, arrivati alla canonica, vedendo la signora Elvira, sorella dell'arciprete, seduta sull'uscio ad aggiustare biancheria di chiesa, per contraccambiare la gentilezza dell'arciprete nell'interessarsi della sua famiglia, stette un attimo a fissare la sorella, ancora una donna fresca, poi guardò l'arciprete: «Ma sa, signor arciprete, che ha proprio una bella donna?». E se ne andò pigiando ansimante sui pedali e scatarrando. L'arciprete per qualche attimo, mi confidò sorridendo, credette d'essersi mutato in una statua di sale.

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