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| << | < | > | >> |IndicePrefazione di Ettore Bianciardi 3 Le cinque giornate 7 Appendice L'ordinanza Bianciardi 181 Elenco dei nomi 229 |
| << | < | > | >> |Pagina 7Tutto sommato io darei ragione al povero Ponzani, ingegnere civile e avveduto, quando per questa comunità di Nesci, al posto della pietra di Finale, che diede di sé prove assai grame, scelse la quarzite di Sanfront: non soltanto essa regge meglio allo sfrido, ma anche si presta benissimo a comporre i disegni su cui io leggo i pronostici del mio diverso esilio, e difatti a forza di pronosticare ci ho consumato sopra sette paia di scarpe e lo sa dio quante altre paia ce ne consumerò su. L'intera faccenda comincia ogni giorno proprio davanti ai caduti di tutte le guerre, proprio sotto casa Savoja, e questo è giusto, giacché un qualche Sanfront sarà pur morto, io spero, in qualche guerra regia. Figura sempre un marchese di Sanfront negli annuari dell'armata sarda, e fu anzi uno di loro, se ben rammentate, nel cinquantanove, che andò a ripigliare Garibaldi quand'egli dalle Romagne si era deciso a saltare il fosso della Cattolica, per schioppettare i soldatielli di Pionono, il Mastai Ferretti. Ce lo mandò per l'appunto il re galantuomo, quello stesso che con l'elmo da dragone, il petto carico di medaglie, lo spenser di pelliccia e i baffoni protegge i miei onesti sonni e talvolta assiste senza arrossire, lui padre della patria, a qualche coito ben scosso, come diceva quel capellone lombardo, su, padrone del Dosso. Non solo: mi garantisce, il re galantuomo, su carta pergamena e regolare bollo, i meriti del mio bisnonno scolaro. Per grazia di Dio e per volontà della Nazione, nientemeno. Seguendo l'esempio del mio grande avo, anch'io fui scolaro, di scienze inesatte, ma lo fui nel nome del popolo italiano, e poi scelsi la via dell'esilio, e non quella di Pescara, come accadde invece a quel gambecorte del nipotino suo. Quello che è giusto è giusto. Ed ora via, eccomi qui a Nesci che consumo le scarpe sulla quarzite di Sanfront, Cuneo, provincia grande e celebrata per l'astussia della gente sua.Ma i caduti di tutte le guerre, poveretti, sono praticamente tre, e se ne stanno lì ritti in piedi, duri, neri, inteccheriti, sopra un prisma di basalto che si adorna di qualche viticchio d'edera fasulla, con sullo sfondo il palmeto. A notte, qualche volta, se non ci sono le nuvole, inchiodata là sopra veglia immobile la luna, ma i minareti non ci sono, c'è semmai qualche bel campanile che batte i tocchi e ai dì di festa scampana a carillon. Il pane, comunque, caro il mio sor colonnello, io non lo voglio. Sì, bello il mio sor colonnello Zerega, che mi lasciasti su a Valeggio a spalare tutte quante le fatte della nostra cavalleria. Il pane da te non lo voglio perché fuor di Toscana il pane ci sa troppo di sale, e bisogna farselo arrivare apposta, quello sciocco come piace a noi, da Altopascio (Lucca) o altrimenti ci si deve contentare del pane col sale che gli antichi nescitani tiravano fuori proprio da qui, sotto casa Savoja, dove la porta col caratteristico carrubo e la madonna d'oro continua a chiamarsi la porta delle Saline. E tanto basta perché la mia lunga marcia d'ogni mattina cominci non senza sete. Ün goto d'aegua pe' piaxé. Ora attento, subito dopo la grande svolta tu ti trovi dinanzi, tirato in secca, il famoso pescesega, il quale ci annuncia i tempi nuovi dell'autoerotismo, il self-service applicato a quella faccenda lì. Fatelo da voi, lo consigliano persino i medici, ormai, alle mammine preoccupate, e se tanto mi dà tanto ho proprio paura che lo consiglieranno anche alle donne nostre: lasciatelo cuocere nel suo brodo, dicono allusive, quelle della posta del cuore. Per ora. Poveretti noi, anche questo ci leveranno, che per me fino all'altro ieri era uno dei pochi conforti dell'esilio. Toccherà soltanto ai signori, e col pagare si capisce. Già lo sento, io, quel che diranno sociologi e sindacalisti fra una cinquantina d'anni. Diranno che il sesso è un bene, di cui la fruizione dovrebb'essere garantita a tutti, come il tetto, il vitto, l'automobile e tre biglietti settimanali per il cinema (seconda visione) e ciascuno deve avere i mezzi per procurarsela, 'sta maledetta fruizione, e insieme liberarsi dalla nozione medievale, che la si debba ottenere, sempre la fruizione si capisce, grazie alla malmascherata forma di carità che continua a chiamarsi, con parola desueta, amore. Abbia dunque il lavoratore di che pagarsi, oltre il vestiario, lo svago, la scuola superiore fino all'università (titolo dottorale escluso), anche tre copulazioni settimanali. Sempre col pagare. E allora bravi, aspettiamo i sindacati, ma intanto per il prossimo avvenire toccherà solamente ai sciuri, quelli con la radio nuova e la torta nell'armadio, e noialtri poareti saremo ridotti alla squallida autonomia fruitiva che io pronostico nella inaugurata immagine del pesciaccio, subito dopo la grande svolta. E non sarà poi grave reato? Ora che ci penso bene, quale onta su di me se si giudicasse in termini di consanguineità! Perché chi più di me è consanguineo a me stesso? E se la faccenda succede fra me e me, escludendo l'interpersonalità del connubio, non avrò per caso commesso incesto? Giacere con la madre, ah l'infamia!, ma giacere con sé stesso, anche peggio. Ovvia! E intanto mi rimane la dura constatazione che anche veisseja siamo iti in bianco, e il bianco signori miei dilaga, ormai è tutto un bianco, quaggiù a Nesci, bianca la rosa e bianca la neve, ci sta scritto grosso così, Biancarosa e Biancaneve che si fronteggiano caste e irridenti, sole, senza neanche il Bepi, senza neanche i sette nani, e con un occhio guardano me, con l'altro guardano la razza, altro pesce in secca, e anche lui pregiudicato da un comportamento sessuale anomalo. Lo so bene io, e non ve lo dico, di quali lussurie sia capace la razza, ove le avvenga di imbattersi nel famosissimo belin de mae, che gli ittiologi chiamano oluturia, i napoletani cazzerré, e i cinesi non so come. So tuttavia che se li mangiano, in umido. Ma quanti cinesi ci saranno a questo mondo? Lo sento chiedere in giro. Fra via Canonica, Chinatown, Taiwan, Hong Kong e la Cina propriamente detta, quanti saranno più? Settecento, ottocento milioni, presto un miliardo. Ogni due minuti, tac, nasce un cinese, nasce mezzo cinese al minuto, dicono, tutti impauriti. Ma furrrbi, dico io, i contatori di cinesi! Hanno paura del pericolo giallo, che dilaghino da via Canonica e dalla Cina propriamente detta, per venire sin qui a Nesci a vendere cravatte e collanine e a mangiare il belin de mae cucinato in umido, più qualche cane caramellato, qualche serpente sbucciato, qualche uovo dell'anno scorso, e magari anche la razza, ghiotta anch'essa di marittimi belini, l'immonda. Hanno soprattutto paura che ci vada di mezzo la razza, questi contatori di cinesi, e in nome della razza da difendere ti chiamano a fare schiera, a formare il quadrato, la tetragona acies, la testudo, come questa venuta in secca proprio davanti alla rotonda. E invece niente, cari voi, abbiamo chiuso, non ci si inquadra più, l'acie è scompagnata, la testuggine è finita in secca, insieme a tanti altri abitatori del vasto mare. Ma poi, se la guardate bene, non è neanche una testuggine, non è nemmeno la tartaruga di Yastov: è una tartuca, una comunissima bezzuca, terraiola e contradaiola, parente stretta del nicchio. Ora voi lo sapete come dicevano? Dicevano: io son del nicchio, arrivo e picchio. Dicevano così i volontari toscani stretti attorno a me sulla tolda del Piemonte, la mano ben salda sul fucilaccio che ci diede quel boia del La Farina. Io son del nicchio, arrivo e picchio. Marsala è già alle viste. Istvan Türr, il prode ungherese, si appresta a pigliar terra col primo drappello di cinquanta intrepidi, il Lombardo si è arenato anche lui, come il pescesega e come la razza, e all'orizzonte ci minacciano le pirocorvette borboniche, ma per fortuna nostra sui bagli della Ingham e della Woodehouse, sui pennoni dell'Argus e dell'Intrepid, svetta improvvisa la croce di San Giorgio, e non osano, quelli, sparare troppo vicino ai beni di Sua Maestà Britannica, che impera sui mari e ogni tanto sbarca, la paragula, da qualche parte del Mediterraneo, al fine di conciare i vini nostrani all'uso di Madera. Un marsalino fa sempre bene. Alla salute, signor generale. Ma certo, beviamocelo questo marsalino alla salute del gran vecchio, quest'altro protettore dei miei sonni di esule e dei miei leciti piaceri, senza arrossire neanche lui, che in queste cose era piuttosto sveltino. Ora se ne sta, povero vecchio, appoggiato all'albero, mentre gli fasciano il piede con dentro inchiavata la pallottola (ogiva cava, calibro 14,7) e gli si comincia a incuderire tutta la gamba. Gli fanno corona i fedelissimi, Menotti, Stagnetti, il solito Nullo bellissimo bergamasco, e lui indica lontano, verso i bersaglieri del maggiore Pinelli che sono appunto arrivati al passo ginnastico, e ora fraternizzano con qualche volontario. Gli porge l'intimazione di resa il maggiore Pinelli in persona, con la fascia azzurra, come se fosse ufficiale di picchetto. Ma subito sotto ariecchete Garibaldi di nuovo in sella, il cappelluccio in mano, e guida un assalto alla baionetta contro i cecchini del generale Kuhn, l'altoatesino. E di certo fanno un gran bel vedere, questi cacciatori tirolesi in giubba verde, con le bandoliere bianche e in testa un cappellino alla tirolese, spiccicato, col piumetto rosso. Non fanno un gran bel vedere, no, al confronto, le camicie rosse bracalone. Ma il belvedere non serve a niente, l'ondata dei bracaloni sta per travolgerli, qualcuno vacilla, stramazza bocconi, cade riverso a pancia per aria, senza dare più segno di vita, come quello lì nell'angolo basso a destra di chi guarda, dove una piegatura fallace del foglio sotto il torchio ha escluso del tutto il colore. Per questo la stampina è rarissima, un bel regalo del povero Cantimori. Ma intanto io continuo la lunga marcia, non senza sete, con gli occhi bene a terra per non inciampare sui relitti che qua scarica il vasto mare. Quando è grosso, a ritornarci la mattina dopo con un bel cesto, ce n'è di buona roba da raccattare: tutta la legna per l'inverno, intanto, ma bisogna essere mattinieri, chi dorme si piglia il freddo; parecchie bottiglie gialle, di plastica, di quelle per tenerci la candeggina, scarpe spaiate e di modello mai visto, i soliti duin gunduin edevié, bambolotti di celluloide senza le braccia, una testa di bambolotto senza bambolotto, una tetta di gommapiuma (e se la denominazione è arbitraria, abusiva, chiediamo scusa, qui, per iscritto, a quell'altro proprietario di torracchione), fascioni di bicicletta e copertoni di camioncino, un gatto morto, polpette di alga finissima carica di jodio che fa tanto bene alle gengive, turaccioli a espansione, una fotografia con dedica purtroppo illegibile, qualche cozza perita anzitempo e strappata al suo scoglio, tappi di sughero, bussolotti rugginosi, una rara edizioncina dei poeti galanti del Settecento, come per esempio il Rolli, il Metastasio, l'abate Casti, il Frugoni, il Crudeli, il Savioli, il Bertola, il Vittorelli, tutti quanti a cura di G. Carducci, vate maremmano e anche titolare per decenni della cattedra di letteratura italiana all'università di Bologna. Buongiorno poeta. A stare nell'acqua salata ci hanno guadagnato, e questi sono appunto i doni del mare alla civile comunità di Nesci, nella stagione cosiddetta morta. Le morte stagioni recano dunque poveri doni sul bagnasciuga, ma voi tutti dovreste vedere, quando la stagione all'opposto vive, quale sia la ricchezza del mare, e la dovizia di tette e natiche che nel suo insonne ondulare esso scarica a riva: a strati tu le vedi ornare di sé queste grame arene, aggrapparsi fin sui lontani scogli ampoixi, debordare fin sul conglomerato di asfalto e gomma antiscivolo, e con esse tette e natiche, ecco i bikini, i trikini, le varici, gli eczemi, i porri, i calli, i peli, i bugnigoli, le bermude, le brache, i mosconi, i pattini, i canotti, e ancora gunduin edevié di cui cresce la produzione con l'avvicinarsi del ferro agosto e del ferro aguto procacciatore di streghe, quasi come a Milano in via privata Marco Terenzio Varrone, ove tale è la massicciata di gomma polluta, sotto la poca ghiaia comprata dai condomini (vobiscum) sparagnini che tu l'avverti resiliente al passare, e così ti consolano il piedaccio agro. I tuoi baci a me, i miei baci a te, ce li porta il mare. E ci porta anche i madidi marinai della Randolph, della Sherman, della Saratoga, delle due Kennedy, la Jack e la Joe, voglio dire il carrier e il destroyer, e a questo punto posso farvi, se ci tenete, un altro facile pronostico, e cioè che un giorno avremo tutta una squadra navale intitolata al nome della tribù trasmigrata d'Ibernia fin d'Anglia ai novi liti, perché tutti li matteranno, perché si trasformino in flotta, alla maniera degli eroi antichi, che però diventavano costellazioni. Ci porta dunque, 'sto vasto mare, i marinai in franchigia, incalzati dalle shore patrols, e cammina cammina finiscono arenati ai piedi del manico del lume, davanti a casa mia, attirando sopra di sé, come mosche sulla cacca, flies on the shit, tutte le battone rivierasche, da Marsiglia a Bocca di Magra (La Spezia). Ma i più antichi doni del mare sono questi che più non si scrostano dalla quarzite di Sanfront, voglio dire la razza, il rombo, l'oluturia, il nicchio che talvolta viene sfrattato dal paguro bernardo, il quale di mestiere fa l'eremita in casa d'altri. E più avanti, dove fra le palme si apre l'oasi dei musici immortali, eccoti lo squalo che dibatte la coda e digrigna la triplice fila dei dentacci, ed eccoti il capodoglio, dalla testa piena di sperma, se vogliamo credere quel che racconta il gran maestro della baleneria, ed eccoti Moby Dick in persona, ridotto ahilui a vendere le pizze. Gli imperituri musici stanno seduti là in mezzo, disposti a tondo: Meyerbeer è riuscito ad accavallare le gambe, così, tanto per sgranchirsele, Gluck ancora non ce l'ha fatta e mostra le belle polpe nelle calze bianche. Beethoven preferisce gli stivali alla cavallerizza, neri, ma col risvolto color del cuoio: alle sue spalle Cristo si è levata la corona di spine e la impone sul capo a lui, povero cristo, serbando per sé l'aureola luminosa, e tu ti domandi se questo è cristiano. Boito è vestito da professore, con gli occhiali a pinzanaso, Wagner porta una palandrana gialla che però stinge per via del salino, e dietro di lui il Nibelungo leva in alto una sfera luminosa donde bianca s'invola una colomba; Mozart giovinetto consulta il libriccino chinando il capoccione infantile. Belin, però, il più bellino di tutti è proprio il Bellini, così giovane e così morto. Ah non credea mirarti, sì presto estinto o fiore. Ma anche il Palestrina fa la sua figura, con la barba bianca e il collettone a pieghe apprettate, mentre il Verdi, anche se vestito per il giorno delle feste finali, insomma del giudizio, sembra pur sempre quel contadino rifatto e sparagnino che è stato, laddove il Rossini si permette almeno il lusso d'una catena d'oro all'orologio sul panciotto bianco. Berlioz sta seduto e basta, mentre d'Auber impugna una penna d'oca. Chi lo sa, se un giorno o l'altro si alzeranno in piedi, tutti questi? Per intanto si alzano, si levano sopra di loro, e prendono figura i musicati sogni, e formano un ascendere piramidale di figari, castrati, tubercolotiche, italiane in Algeri, lombardi alla prima crociata, angioloni, mignottone, mori, madonne, liuti, lance, scimitarre, barboni, tette, trombe, bandiere, scettri, cavalli, zingarelle, briganti, paggi, ricchioni (che in dialetto significa bulici). Si accavallano, si accatastano verso il più alto dei cieli, i quali cieli, sempre per via del salino, anziché di colore celeste, svariano dal turchino al giallino. Vorrei vedere, e non vedo, il mio carissimo G.B. Pergolesi, di cui ogni sera, privatamente, eseguo al violoncello una famosissima siciliana. Tre giorni son che Nina. Dopo la siciliana la bourrée, poi la forlana, il minuetto, le passapied, la gavotta, la sarabanda e l'immancabile barcarola del Dotzauer, insigne maestro di violoncello. Tutto il fraseggio centrale fa perno su quel delizioso do diesis, due volte iterato, a spostare in avanti la prua della barca. Se venite a casa mia ve lo faccio sentire. Sibelius non è qui, perché si è messo a pensione dai fratelli Bartolozzi di Pontassieve, fuggendo le nordiche brume, di tirrenica luce intrisa l'alata fantasia. E si lamenta, il finnico, dice che erano sei gradi sotto zero, tanto valeva restarsene sul Ladoga, ma secondo me esagera. Mai fatto tanto freddo, qui a Nesci. Nel quindici sì, fece freddo, ma sei sotto zero mai sentito, a Nesci. Nel quindici, a parte la guerra, il Bogo diede di fuori, e ci furono quindici morti, e faceva anche freddo, sì, ma la neve per esempio non venne. In che anno fu, quel Sibelius lì? Nell'uno? Faceva freddo nell'uno? Chi lo sa, forse qualche vecchio se lo ricorda, padron Ventura forse se lo ricorda. Ma era poi a Nesci, nell'uno, padron Ventura? Non mi sembra, no, che fosse già qui, nell'uno. Stai a vedere che nell'uno era ancora giù a Santo Stefano. Oggi però fa freddo, fa più freddo di ieri. Dio che freddo, oggi. Più freddo di ieri. Bisognerà pensare al riscaldamento, con questo freddo. Così è un'altra spesa, questo riscaldamento. Ieri faceva meno freddo di oggi. Però, beati i signori, che possono spendere, anche per il riscaldamento. Ieri faceva meno freddo di oggi. Basta avere la grana, e poi uno se ne frega, del freddo, piglia su e fugge le nordiche brume, e viene a Nesci. Ma è impossibile che fossero sei sotto zero, a Nesci. Mai sentito. Quest'anno poi, chi l'ha vista l'estate? Ha piovuto sempre. D'agosto pioveva, poi ha piovuto a settembre, ha piovuto a ottobre. Non c'è stata stagione. Non ci sono più stagioni ormai, piove sempre. E fa sempre freddo. Speriamo che domani non piova più. Si mette la muffa, de continua a piovere. Fa come nel quindici, quando il Bogo diede di fuori, e ci furono quindici morti. Deve essere colpa di tutti questi satelliti che tirano per aria. Non è come un tempo, che guardavi il fumo dell'eccelsior e secondo il fumo capivi il tempo. Ora non ci capisci più niente, è tutto cambiato, per via dei satelliti e delle bombe che tirano. Dio che freddo oggi. E poi piove, chissà quando la finirà di piovere. Buongiorno. Buongiorno tutto il giorno. Ma buongiorno per modo di dire, con questo freddo. Che razza di tempo. Buenas dias. Hasta la vista. Hasta la pasta, vecchio Kotch, dico io. Hai capito? Mah. Beati i sciuri, quelli hanno la grana e se ne fregano del freddo. Se ne batono le bale. Io sto a sentire, ma intanto non perdo d'occhio il delfino, il quale dovrebbe, con le sue sgroppate, annunciare il bello e il cattivo tempo, avvisare i marinai che si argomentin di campar lor legno. Invece è tutta una frottola, lo garantisce persino Garibaldi, vecchio lupo di mare, che padre Dante non se n'intendeva gran che, di oceanografia. I delfini sgroppano per altre ragioni, ragioni loro e a noi ignote, non hanno specifiche competenze meteorologiche. O meglio, le hanno, ma di nessun uso per noialtri uomini. Vedono l'oceano da una diversa angolazione. Sono bestie molto intelligenti, si è scoperto poi, sembra anche che parlino, e già si sta cercando di entrare in comunicazione con loro, decrittare i loro messaggi, trasmetter loro i nostri, in codice, e adoperarli poi come ausiliari della USA Navy, e chissà quante belle cose ci potranno raccontare. Semiologia del delfino. Ma non mi venite a dire che i delfini sgroppano per indicarci che tempo fa. Non è vero. Conviene guardare semmai il gatto: quando si passa la zampina sulla testa, vuol dire che pioverà. È garantito, neanche il barometro ce la fa, col gatto. Neanche il Bernacca. Anzi, il barometro, se scende o se sale, ormai non vuol più dire quasi niente, perché il barometro è disturbato da tutti quei satelliti che buttano per aria, ma il gatto invece non si scompone, i satelliti non lo turbano, e se dice pioggia, con la zampetta passata sul capo, pioggia è. Mi pare che ci fosse un gatto a casa mia, e mi pare anche che funzionasse bene. Era del tipo detto cappuccino, e di nome si chiamava Tognazzi, perché somigliava a Tognazzi, ma poi lo mandammo in campagna, com moglie e figli, perché erano un po' troppi, e fra tutti e cinque sporcavano parecchio. Ogni tanto, quando vado in campagna, lo rivedo e gli dico: «Ciao, Tognazzi», ma lui non mi risponde, ormai si dev'essere scordato di me. In ogni modo, sia chiaro che io non commetto la fesseria di fidarmi del delfino, come meteorologo. Cerco di cogliere, semmai, il suo messaggio nell'istante in cui sgroppa e punta il muso verso il tepidario lustrante dell'obitorio, e mi sembra piuttosto chiaro quello che ha da dirmi. Non è un discorso molto allegro, questo del delfino: guardali, mi dice, questi moribondi dietro il vetro oscuro, guardali e rammenta che un giorno sarai come loro, senza più sangue né sughi dentro il corpo, sarai così, di carta raggrinzita, di pellecchie, di cotiche, e poi più niente, neanche gli orfanelli dietro a recitare benedetto il frutto del ventre tuo, che secondo me non sarebbe, a rigore, discorso da far ripetere cantilenando ai minori di anni quattordici. Oppure ci si decida a mettere l'educazione cosiddetta sessuale fra le materie scolastiche. Per adesso tutto quello che apprendono, i nostri pargoli, compresi gli atti impuri o fornicazione che dir si voglia, lo apprendono nell'ora di religione. Io li vedo sfilare incolonnati ogni mattina davanti all'obitorio, gli orfanelli, dietro il morto, perché non si dimentichino che sono figli di morti, e i moribondi li stanno a guardare, e tutti insieme recitano la sperpetua Lucia Dei, come dicevano quelle due tali, laggiù, la sera del due novembre, in casa mia, con la luce spenta, le candele accese sul tavolo di cucina, e le fotografie in cornice dei cari estinti, un branco di parenti passati a miglior vita chissà quando e chissà come. Grande battaglia in Abissinia, come diceva Barabottino. Trentamila morti. Per ora. Tutti neri. Sì, vero, per ora, eccoci qui confitti nell'effigie di Adamo, a strologare quale sarà la bestia a portarci via da questo mondo. Forse il canchero, che allarga le sue pinze proprio davanti al castello di Dragutte? Questo canchero, che poi sarebbe quasi sicuramente il granchio favollo animale peloso e tropicale, al primo colpo di tosse, la mattina, ti ha già pinzato i polmoni. Al primo sommario esame radiologico non si vede nulla, certo, ma tu sei già bello e che fottuto, caro mio. Lei fuma? Sì? Bravo! Lei la mattina, per caso tossisce? Sì? E non ha ancora smesso? Furrrbo lei, smetta subito, se non vuole che il canchero le si piazzi dentro, a pinzare. Lo dice proprio stamattina, e lo va ripetendo da anni, il nipote del famoso Sirtori, prima prete, poi rivoluzionario a Parigi nel quarantotto, e poi ancora generale regio, che si prese lui tutta la colpa, del gran troiaio che successe quella mattina del ventiquattro giugno (San Giovanni Bacicia) su per la strada di Castelnuovo. Fumi, fumi, e vedrà che bella coda di orfanelli si troverà dietro, a recitare il frutto del ventre di mammina sua. Oh madonna! E va bene, comandante, teniamoci per buona questa diagnostica cattolica di suo nonno prete, questa terapia dello smetti, del mukela: basta fumare, basta mangiare in rosso, in nero, in turchino, in tutti i colori fuori che il bianco, andiamo in bianco persino con l'unica donna che ci possiamo permettere, perché anche quella faccenda lì farebbe male alla salute, vero professo'? Così diventeremo belli vecchi, e ci metteranno seduti dentro all'obitorio a veder passare il morto. A presto, compagno. Almeno rivenisse Dragutte dalla Barberia a desolare queste contrade coi suoi mori baffuti, che già sin da quei tempi impiantarono la democratica consuetudine di marocchinare tutto quello che trovavano, cioè le vergini, le coniugate con prole, le vedovelle, le nonne e persino qualche capostazione, sembra. La guerra è guerra. E io stesso, se ci penso bene, che cos'altro sono se non il risultato d'una di queste scorrerie barbaresche, visto che discendo, per li rami materni, dalla celebrata Bella Marsilia, la quale ebbe la marocchinazione, non senza suo profitto, dai pirati saraceni sui lidi maremmani nell'anno del Signore 1799? Ma Dragutte non venne più a Nesci, dopo che gli ebbero eretto contro il castello, e il castello rimase inoperoso seppur minaccevole, tanto vero che poi lo riattarono dapprima a patria galera, e quindi a centro culturale e artistico cittadino, per mostre di pittura, rinfreschi, ciacolate varie e prime prove di varia umanità. Però, quanti libri escono! Escono accidenti, sì, e allora io te li sbatto fuori, non appena raggiunta l'oasi del Paradiso, dove sta in secca l'ippocampo, bestia marina e pugliese, 'nu nticchiu minchiarilla con quella storia della fedeltà. C'è gente che lo fa seccare, poi lo indora, oppure lo inargenta, e lo vende a quei soliti furrrbi che lo appiccicano al vetro della cinquecento, come per significare che son fedeli, loro. A chi? Alla cinquecento? Io, all'opposto, lo lascio perdere dov'è, questo pirletta d'un ippocampo, quasi non lo degno d una occhiata e sbatto fuori tutti i libri che escono. Estrusi, stanno lì in fila serrata a conciarsi col salino che soffia dal mare, a cuocersi al sole, a dilavarsi alla pioggia, a sfogliarsi capricciosi nel vento. Io sono per la diffusione della cultura, sempre stato, io, e che magari li rubino, che si alluvionino subito, senza aspettare le piene d'Arno del Duemila, mentre aspetto che cali da Pagana la bacana gaelica della contea di Cork, sempre aperta, la contea, e ospitale per noi italiani, dal Settembrini Luigi galeotto giù giù fino alla premiata società corale G. Puccini di Grosseto, classificatasi, come tutti sanno, al terzo posto assoluto. Siete voi stata nata nella suddetta contea, madama? Oppure dove, sennò? Vedeste forse voi la luce sotto la cima di Kippure, sotto i campanili di San Barnaba, di San Lorenzo, di San Patrizio, questi santi portatori della vera fede fra le genti iberniate? Tutta roba nostra, madama, autentica roba antica, cattolica apostolica romana, che ora voi ci rivogate di rinterzo, sotto specie di santini, turiboli, ampolle, acquasantiere, pissidi, madonne e cristi di rame sbalzato, argento, giada, peltro, ferro, velluto e similoro chiamato anche princisbecco. Tutta roba che io sbatto fuori insieme al resto, e la tengo lì ferma di fronte all'agave, al pitosforo, ai denti di cane, alla palma nana e a quella cresciuta. La tengo lì, questa roba cattolica apostolica dublinese, a esorcizzare i venti e le nuvole, i marosi e le alluvioni, che il cielo sia sempre terso, il sole sempre tiepido, come si conviene ai nostri poveri moribondi dell'obitorio e ai nostri poveri incassi di esuli. Io vi comprendo, madama, che come me siete esule qui in terra di belina, e sarà bene congiungere i nostri sforzi per aumentare gli incassi e superare la crisi, oppure il boom, che se ci pensate un po' bene è la stessa cosa. Dunque io li sbatto fuori, Metello e Bube, Lolita, la signora Chatterley e il signor Goldfinger, l'Italia dei secoli bui, gli italiani in generale, in particolare i milanesi, i bolognesi, i genovesi, sempre a tavola si capisce, e poi Diabolik, Menelik, Angelik, Feltrinellik, e quindi ancora Oscare, cui la vecchia canzone di casa mia raccomandava, allora, di non fare il bischero. E già che ci siamo mettiamoci puranche il re Bischerone del povero Nicodemo Tabacchi, morto e sepolto nella chiesa madre di Orbetello, mettiamoci Fanny Hill in edizione espurgata, sia per diritto che per rovescio, qua esclusi merletti e trine, là espunti i più bei gioielli che possano darsi in mano a una donna. Se vogliamo, mettiamoci pure il canchero e il capricorno del Molinari di New York voltato in lingua toscana per opera e impensa dello scrivente, e poi via via tutti gli altri, a scavalcarsi, a giocare al saltacerro, al filago, alla bella insalatina sempre fresca e tenerina. Cincin tre fiaschi di vin, anzi di pane e vin, una la luna, la luna è tramontata, la luna e i falò, la luna e sei soldi, due il bue, tre un bacino alla figlia del re, il re, s'intende, della pioggia, oppure quello che deve morire, quattro la spazzatura del gatto, il gatto con gli stivali in edizione cartonata e plasticata, da regalare per la Befana, cinque lo cioccolato a colazione, sei l'incrociatore Potiomkin, oppure meglio l'onda dell'incrociatore con la sua brava quarantanovesima gambina, sette pioppini come quell'omino mio che dovrebbe essere sempre laggiù a vendere il ferro, e io penso che sarebbe stato bene imparare a mangiarlo, il ferro, perché dicono che giovi tanto alla salute, otto tamburini tutti sardi e tutti giovanissimi, meno uno che era abruzzese e mi suonò l'avanzata fino a Rosegaferro, come volevasi dimostrare, nove gazzarra, dieci regalo, perché non c'è miglior regalo di questo, undici la camicia da cuci', dodici è bella e cucita e io me la metto, tredici cavallino sardo, quattordici fuoco, quindici la via, che sarebbe a ben guardare la via Puchoz e sedici con tre salti me ne vado a casa mia, cioè la mia bella stanza nell'appartamento numero nove che occupa l'intero terzo piano del condominio omonimo. Ma intanto lo scavalcamento del saltacerro è arrivato fin oltre i denti del cane, oltre il pitosforo, ha dilagato fino alle palme che io tendo, deluse, a voi, amici che ancora patite sotto il giogo dell'oppressore. Oppure forse vi ci siete avvezzi? Oppure con l'oppressore ci avete fatto pappa e ciccia? Ora vi ho spiegato cosa faccio tutte le mattine, nel mio esilio di Nesci. Ora lo sapete, ma voglio aggiungere che ogni mattina anche perlustro la campagna, dal gabellino fino al Manico del Lume, per vedere se vi decidete ad arrivare, secondo la promessa. E allora? | << | < | > | >> |Pagina 68VIDopo di allora diventai per così dire intrinseco nella bella casa di via della Cerva, e sovente, dopo la lezione di belle lettere, mi fermavo a desinare (loro dicevano ostinatamente colazione, e ormai m'ero stufato di correggerli). Anzi, capitava persino che mi chiamassero là per il dopocena, quando nel salotto buono si riunivano tanti begli ingegni milanesi, a discorrere di economia, di finanze, di teatro, di belle donne alla moda. I miei tre pupilli non erano tuttavia ammessi a queste conversazioni serali, perché dovevano coricarsi prima. Poche volte si accendeva la televisione. E debbo dire che in quei mesi io fui un uomo felice: la tavola della signora vedova contessa era ricca, saporita e varia, i miei alunni profittavano di quel poco che sapevo loro insegnare, ma principalmente ero io che profittavo, dopo cena, della dottrina e dell'eloquenza profusa come tanto giulebbe dalle labbra di quei valentuomini. Veniva quasi sempre Cesare Correnti, anche per informarsi dei progressi nell'istruzione dei tre ragazzi, della quale istruzione egli era, al disopra di me, responsabile; veniva il De Luigi, il Maestri, il Cafagna, il Gerli, il Cantoni, il Tagliaferri, il Gadda, il Guiducci, il Finzi, il Brioschi, insomma tutta la celebre e illuminata compagnia che bazzicava il famoso caffè della Peppina. Ma venivano altresì, secondo la libertà che aveva ciascuno dei suoi impegni, i fratelli d'Adda, i fratelli Jacini, il Camperio, il Bocca, il Besana e naturalmente Carlo Cattaneo. È inutile rammentare che tempi fossero quelli. Sul soglio pontificio era da poco salito il bergamasco cardinale Roncalli, il quale volle scegliere il nome di Giovanni XXIII, e già andava suscitando grandi speranze di bene in tutti noi. A Milano, dopo ventotto anni di arciepiscopato, era morto il cardinale Gaysruck, che non fu di certo un gran cervello, ma si faceva amare da molti per la schiettezza dei costumi e la natural gaiezza. Ma io credo che i milanesi gli volessero bene anche perché si buccinava di certe sue tendenze liberali, o per meglio dire giuseppine, e in qualche misura anticlericali. Alludo al fatto che egli non ammise mai nella sua diocesi i frati e le monache, e cacciò via non pochi preti scagnozzi che infestavano prima di lui i seminari lombardi. Perché poi fosse contrario all'ascesa del cardinal Roncalli, nessuno l'ha mai capito bene. In ogni modo non fece a tempo a manifestare la sua opposizione, perché morì proprio mentre si recava al conclave. E ai morti, come si sa, non ci sono spiegazioni da chiedere. Per trovargli un successore ci fu un lungo traffico, neanche troppo segreto, fra Roma e Vienna. Milano, al solito, non fu neanche consultata. Credo anche per l'influenza del papa nuovo, scelsero alla fine un bergamasco, cioè il vescovo di Cremona Bartolomeo Romili, che poi si dimostrò uomo assai mite e diciamo pure debole. In ogni modo, alla cittadinanza milanese andò a fagiolo che a un prelato liberale e giuseppino, ma pur sempre austriaco, qual era il Gaysruck, succedesse un prelato nostrano, e tutti si preparavano a fargli grandi accoglienze. Io, che non sono mai stato un buon fedele, assistei tuttavia alla solenne processione che quel giorno di settembre percorse mezza città, da Sant'Eustorgio fino al duomo, una fila che non finiva mai, tutti indossando i paramenti delle ricorrenze solenni e agitando turiboli, flabelli, ostensori e altri attrezzi di chiesa. Lungo la strada avevano alzato tre archi trionfali, dedicati ai santi lombardi, voglio dire Ambrogio (che a voler essere pignoli però era tedesco di Treviri, come Carlo Marx), Carlo e Galdino. Questo Galdino, per chi se ne fosse dimenticato, era l'antico vescovo della Lega Lombarda, e la scritta che figurava sul suo arco, opera del mio amico Achille Mauri, era stata lungamente patteggiata con la censura imperiale. Alla processione partecipò anche il podestà Ferrari, buon protomedico e galantuomo, che tuttavia in politica contava meno del due di briscola. In quei mesi a Milano faceva il bello e il cattivo tempo il governatore conte Spaur, giovandosi di quella anima persa del marchese Torresani, capo della polizia. Le dimostrazioni di piazza Fontana, dove alloggiava l'arcivescovo, durarono a lungo dopo buio, al chiaro delle lampade al neon, e ricordo che ci andai anch'io coi miei giovani pupilli, e insieme gridammo con gli altri viva papa Giovanni, e viva l'Italia. Mi accorsi quasi subito che i poliziotti ci tenevano d'occhio. Dovevano aver annusato qualcosa, di quello che succedeva la sera nel salotto della signora vedova contessa. Il fatto si è che in quel salotto, e poi in casa di Cesare Correnti, e in tutte le dimore patrizie dei nobiluomini milanesi, e nelle botteghe, e nei caffè, e insomma a tutti i cantoni, la bella donna di cui più si ragionava in quei mesi era la nostra formosissima Italia, che giustamente pittori e scultori ci rappresentano pettoruta e bene in ciccia, giacché nessun'altra era da noi tutti milanesi più desiderata. Tutti la volevano, anche se ciascuno, poi, la voleva a modo suo, come succede sovente, per l'appunto, con le donne belle e desiate. C'era, per uscir di metafora, chi proclamava la necessità di annetterci al severo e ordinato Piemonte sotto il nuovo re, che il volgo aveva di già soprannominato Tentenna, e che di certo non era un campione di celerità nel decidersi. C'era chi voleva una repubblica dell'Alta Italia, coi confini al Po, o magari all'Appennino, o fors'anche sull'Arno, o addirittura all'Ombrone. Ma questo, ne son sicuro, lo dicevano soltanto quando c'ero io, per non scontentarmi, ché sarei diventato, altrimenti, straniero. Il resto, dicevano, andava lasciato al papa e al Borbone, senza fabbriche, perché tanto quelle terre ballerine e terrone non erano capaci di mandare avanti le fabbriche. Questi chiedeva che gli italiani si federassero sotto l'alta guida spirituale e cedolare del Sommo Pontefice. Ma erano in pochi a pensarla così, e io stupisco ancora al pensare che fu poi questa la volontà che prevalse. Quello domandava a gran voce l'Italia una, libera e repubblicana, con tutto il potere al popolo, e i partigiani di questa fazione avevano scelto ad emblema e divisa la cosiddetta linea emme, cioè la lettera iniziale dei nomi dei teorici a cui essa parte si rifaceva, e cioè il Mazzini, il Marx, il Mao, il Min e il Marcuse. (Gli avversari loro ci mettevano anche, a beffa, il Mussolini.) Insomma chi la voleva cotta e chi cruda. Differivano gli obbiettivi e più ancora differivano le concezioni dei metodi per raggiungerli. Qualcuno voleva la guerra regia sotto il monarca Tentenna, e magari con l'aiuto dei francesi. Altri, come per esempio i seguaci del Togliatti, giuravano che a fare l'Italia si sarebbe arrivati con la semplice scheda elettorale, gradualmente e progressivamente, ma erano poco ascoltati. Affermavano inoltre costoro che si potevano trovare i modi dell'alleanza con il clero, ora che alla guida del clero si era posto questo sant'uomo di papa Giovanni XXIII, e difatti tu li vedevi spesso frequentare le sacrestie, prendere parte alla via crucis, battezzare solennemente la prole, battersi di continuo il petto a contrizione dei propri peccati, salmodiare digiunando al venerdì, ma era tutta fatica sprecata perché il clero li sbeffeggiava regolarmente. C'erano di quelli che chiedevano la guerra di popolo condotta per bande, e a sostegno citavano l'autorità del Bianco, del Pisacane, del dottor Guevara e del Giap. Si doveva, secondo questi ultimi, armare furtivamente la plebe, suddividerla in ordinati scaglioni, ciascuno col suo capo, spargerla per la città e per il contado, e a comando scatenarla contro le dogane, gli uffici del registro, i municipi, i dazii, gli enti locali, le società autori-editori proverbialmente fiscalissime in quegli anni. Costringere il nemico a disperdere le sue forze, oppure a concentrarle, ma col risico allora di perdere terreni e immobili. Giuravano costoro essere irresistibile la guerra per bande, anche e soprattutto contro un esercito regolare e foraggiatissimo. Altri ancora andavano predicando la resistenza passiva e la non violenza e citavano a conferma il mahatma Gandhi e il professor Capitini: rifiutarsi di pagare le imposte, smettere di fumare (come poi fu fatto), abbandonare i posti di lavoro per dedicarsi soltanto ai piaceri della carne, lasciare che si tagliassero per insolvenza i fili della luce e del telefono, non più rimettere i debiti, né chiederne ad alcuno la remissione, neanche al padreterno, far andare in protesto tratte e cambiali, stracciare i conti del droghiere, del macellaio e del vinaio. Venivano costoro chiamati i rivoluzionari del non, ma a me sembrava che per intanto predicassero bene e razzolassero, come suol dirsi, male, perché li vedevo laboriosissimi, rispettosi degli orari, faticatori anche al sabato sera, senza alcun rispetto per il week-end. E le loro ore libere le dedicavano appunto a siffatte predicazioni non violente. Milano insomma era tutto un predicatorio, tutto un dibattere segreto, ma nemmeno tanto. Si discuteva al Giamaica, si discuteva in casa Correnti, al caffè della Giannina, a via Pontaccio, alla casa della cultura, nei casini che poi a settembre chiusero, nelle botteghe degli artigiani, negli opifici, al mercato, nelle sale d'aspetto della stazione centrale, nei salotti della nobiltà, tutta concorde nell'opposizione all'austriaco, eccezion fatta, si capisce, per il mio feroce nemico duca O'Twat, il quale anzi andava a rifischiare alla polizia tutto quel che gli accadeva di udire e manteneva rapporti segreti con gente molto vicina a Hitler. Ma questo, purtroppo, lo venni a sapere tardi, troppo tardi. Pur con tanta diversità di opinioni e di intenti, su una cosa i milanesi tutti erano d'accordo: sul nome santo dell'Italia e sulla necessaria cacciata degli austriaci. Ebbene, se la rivoluzione avvenne, fu proprio perché ci fu almeno questa unanime concordia, esclusi, oltre al duca von Kaga, pochi tirapiedi dell'oppressore. Se poi la rivoluzione fallì, fu perché la concordia non si estese più oltre. Ma degli errori parleremo più avanti. Per adesso basti ricordare che la dimostrazione a piazza Fontana fu anche più importante di quel che noi potevamo allora prevedere. Me lo rammento come se fosse ora: sfavillavano cento e cento lumi al neon illuminando la piazza come se fosse giorno, la gente acclamava verso le finestre dell'arcivescovo nuovo, dalla vicina piazza Beccaria erano accorse tutte le battone, inquadrate dai rispettivi rukketé, i quali comandavano a tempo gli evviva e i battimani; le case circostanti avevano esposto drappi, gualdrappe e copriletto, abbellendo in tal modo le facciate dei colori più svariati; sorgevano d'ogni canto le grida di plauso all'Italia e a papa Giovanni, le guardie comunali facevano finta di tenere indietro la folla strabocchevole, ma non mancavano neanch'esse di unirsi alla general cagnara. Fu una festa così bella che a tutti venne la voglia di continuarla il giorno dopo, con stendardi, luminarie e applausi. Ma stavolta mancò il permesso della gendarmeria, perché il governatore Spaur aveva perso la pazienza, giurando di non volere più farsi menare per il naso con il pretesto dell'arcivescovo nuovo. E invece la gente, incaponita, il giorno dopo era di nuovo lì a gridare viva papa Giovanni, e naturalmente anche viva l'Italia. E viva Bergamo, che era la città natale sia del nuovo papa che del nuovo arcivescovo, ed era anche, vivaddio, la città che aveva dato più camicie rosse, giù in Sicilia, a Giuseppe Garibaldi, a cominciare dal bellissimo Francesco Nullo. Io però vidi subito che stavolta le cose si mettevano male: a tenere l'ordine, stavolta, non c'era la guardia civica nostrana, c'erano i gendarmi crucchi, grandi, grossi, incapecchiti, che non sapevano una parola della nostra lingua, gente calata da Zagreb e magari da Brno, senz'altra arte né parte che quella di picchiare, spesso e volentieri, sopra le zucche della gente nostra. Io per prudenza mi tenevo al bordo della fontana che adorna l'omonima piazza, la quale fontana essendo rotonda ti consente di mantenere sempre fra te e gli sbirri un largo e solido riparo. E più mi convinsi che la faccenda era seria quando, alla testa dei capecchioni, vidi il brutto ceffo del famigerato Bolza, il quale sapeva più che bene l'italiano. Quando da piazza del Duomo irruppe una colonna di giovani aitanti, i quali erano scolari del Politecnico, manovali degli opifici, magutti dalle mani callose e ruvide di calcina, tutti bociando un inno di lode a Giovanni papa, fu questo Bolza a dare il segno della carica, e successe un acciaccapesta incredibile. Picchiavano i gendarmi con i manganelli, rispondevano i giovani alle busse con le mani, furono presto sanguinanti i nasi, la folla delle dame e delle monachine, raccolta nell'angolo più lontano della piazza, prese a vacillare, a strillare, a disperdersi disordinatamente. La colonna dei dimostranti fu dapprima respinta e rattenuta, poi ritornò più forte e più serrata a vendicare i feriti e i contusi, gridando «dalli al croato», il famigerato Bolza si cinse la pancia dell'odiata sua fascia bianca e rossa, intimò l'indietro, non ottenendo obbedienza fece squillare la fanfara, e infine comandò che si tirassero i candelotti lacrimogeni. In breve piazza Fontana fu tutta un lacrimare, un tossicchiare, uno sputazzare, ma non per questo desistettero i nostri baldi giovani, i quali al lancio dei candelotti risposero con una fitta sassaiola. Io mi tenevo sempre al bordo della fontana, marcandomi nella memoria ogni particolare del parapiglia, allo scopo di poterlo poi raccontare a qualcuno, come appunto sto facendo adesso. Continuò a lungo lo scambio dei proiettili, e in breve sulla piazza rimasero quasi soltanto i contendenti, crucchi da una parte, animosi giovani milanesi dall'altra. Oltre ai tonfi e allo sfrigolio dei lacrimogeni, si udivano invettive feroci nei più svariati dialetti lombardi, e atroci urla ostrogote nella parlata di lassù, mentre il Bolza addirittura minacciava di far sparare. Si venne a un'ultima colluttazione, della quale riuscii a vedere ben poco per via del gran fumo, dissipatosi il quale mi si rivelarono distesi sul selciato una decina di corpi, un dei quali ebbe a non muoversi più. Seppimo poi che il nostro primo caduto era un tale Abate muratore di ventisei anni, che non fece in tempo ad arrivare all'ospedale e già spirava. Per fortuna, fra i feriti, c'erano anche tre o quattro gendarmi, con la zucca segnata. Era questo il primo atto di guerra aperta fra la capitale lombarda e la sbirraglia austriaca. Parecchio altro sangue si sarebbe versato l'an- no dopo, ma nessuno allora poteva figurarselo. Io me ne tornai passo passo alla mia cameretta di Porta Tosa, fremendo di sdegno, mentre per tutta la città si andava commentando concitatamente il triste accaduto. I miei tre pupilli non c'erano: come sempre, alla fine di agosto, la famiglia con la servitù se ne andava a villeggiare in una loro terra a Tirano, in Valtellina, e io non vedevo l'ora di andarli a trovare, per dir loro quel che era capitato a Milano davanti al palazzo dell'arcivescovo Romili, il quale non si fece più vedere neanche alla finestra, e anzi serviva messa la mattina prima di giorno, tanta era stata la sua paura a comparire in pubblico. | << | < | > | >> |Pagina 114XRadetzky stavolta si sbagliava lui, perché lo scontro del Broletto era appena l'antipasto del greve desinare che gli andavamo apparecchiando noialtri milanesi. Quattordicimila uomini armati di tutto punto erano senz'altro parecchi, e per di più appoggiati da cannoni e da carri, ma Radetzky, per sua disgrazia e nostra fortuna, non li aveva sottomano tutti radunati in un solo presidio. Truppe erano al Castello, truppe al palazzo del Genio, altre truppe di guardia al palazzo del governo, altre ancora in Borgo di Monforte, e poi a Sant'Eustorgio, a San Vittore, a San Simpliciano. Detto fra parentesi, io non ho mai capito perché si scelga sempre un qualche santo, per benedire ospedali, carceri, manicomi e caserme. Impiegarli a massa era impossibile, i quattordicimila, finché si combattesse nella cerchia dei Navigli. L'importante per noi era impedire che si muovessero agevolmente a congiungere l'uno all'altro reparto. Fu da qui che sorse, spontanea, l'intuizione felice delle barricate: se ne costruirono in tutto più di mille e cinquecento, talune solidissime e quasi murate, altre più labili ma sempre impicciose. L'altra azzeccata intuizione popolare fu che ciascuno combattesse nel quartiere suo, fra le strade, i vicoli e le case che meglio conosceva. A me toccò la zona di Monforte. Sorse l'alba del diciannove e continuava a piovere, quella pioggia milanese che sembra dover durare in eterno, uggiosa, fitta, insistente. In via Pietro Mascagni, dove avevo trascorso castamente la nottata, il silenzio era profondo, e quando io feci capolino dal portone socchiuso, vidi soltanto finestre e porte sbarrate, in giro non cera anima viva, e lontano tuonava a tratti il cannone. Raggiunsi via della Cerva per vedere che cosa facessero i miei tre pupilli. Salii e li trovai seduti a colazione, discorrendo animatamente con la madre vedova signora contessa. Seppi che a casa dei Taverna si era composto un comitato, con il podestà Ferrari, il Durini, il Borromeo, il Litta, il Bassi e il Guicciardi. Da lì dovevamo aspettare ordini. Ma un altro comitato, seppimo poi, si era formato anche a Palazzo Borromeo, e un po' dovunque si costituivano reparti di guardia nazionale. Scarseggiavano le armi: altro che quarantamila fucili in arrivo da Torino! Da Torino, al solito, arrivò poca e cattiva roba. Si contò poi che le bocche da fuoco disponibili erano in tutto seicento, una vera miseria. Ma in qualche modo si riparò: gli armaioli consentirono di buon grado che si vuotassero le loro botteghe, non un privato negò le armi, sia da caccia che da collezione, il museo Poldi Pezzoli fu prontamente vuotato, persino le armi da scena del Teatro alla Scala furono impugnate dagli insorti, e così quelle del Piccolo, che Paolo Grassi consegnò senza neanche chiederne la ricevuta. Si può capire che razza di esercito fosse il nostro: improvvisato, raccogliticcio, senza uniformi, malissimo in arnese e quasi inerme, ma fervido di un ardire e di un entusiasmo che nessuno ha più dimenticato. E nemmeno più rivisto. Verso le dieci il quartiere si andò animando, e in breve fummo tutti adunati in un cortile, dove prese il comando del nostro reparto monfortiano il famoso ingegner Alfieri. Come tutti sanno, era costui un uomo tranquillo e metodico, di poche o punte parole, che badava al suo mestiere e poco trattava col prossimo. Ma il cambiamento che fece dopo sparati i primi colpi fu repentino e singolarissimo. Intanto gli venne un gran febbrone da cavallo che lo costrinse a letto per tutta la giornata del diciotto e per tutta la notte sul diciannove. Ma all'alba era stato il primo ad alzarsi, a mettersi in giro, a far passare la voce che si doveva costituire la compagnia Monforte per la difesa armata del quartiere. Accorressero dunque tutti gli adulti, cioè tutti quelli sopra i diciotto anni: il mio Giovanni ne sarebbe stato escluso ma tanto pregò, e addirittura pianse, che l'Alfieri lo tenne con sé. Adesso eravamo schierati per tre, discorrendo tra di noi, ma c'interruppe l'Alfieri con voce alta e forte: «Silenzio tutti!». Tacemmo. «Da questo momento» continuò «assumo io il comando della zona, per disposizione del comitato insurrezionale. La gravità dell'ora richiede disciplina di ferro, e io vi prometto che ve la farò mantenere. Chiunque disobbedisca ai miei ordini si tenga pronto a essere passato per le armi». Ora sì che si fa sul serio, pensai. «Gli armati di mitra un passo avanti» ordinò. Ce n'erano in tutto tre. «Benissimo. Voi occuperete ciascuno una finestra della casa più alta che affacci al crocevia di San Babila. Appena avvistate il nemico, aprite il fuoco. Voglio raffiche brevi e ben mirate. Non abbiamo munizioni da sprecare. E subito dopo la serie delle brevi raffiche mirate, abbandonerete la finestra per occuparne un'altra. Muovetevi di continuo, di stanza in stanza. All'occorrenza di casa in casa, abbattendo i muri. Avanti!» I tre scattarono sull'attenti e partirono correndo. «Vediamo ora quanti sono i fucili.» Erano in tutto dodici e fecero anche loro un passo avanti. «Sempre al crocevia, voi occuperete gli scantinati, facendo fuoco dal basso. Anche voi la stessa tattica: sparare e spostarsi, di cantina in cantina. Bisogna dare al nemico l'impressione che il fuoco provenga da ogni direzione, fargli credere che siamo molti e ben armati. Ma ci sarà lavoro anche per chi armi non possiede. Voialtri quattro, tu, tu, tu, tu,» e ci indicava col dito indice, perché uno dei quattro disarmati ero proprio io, «voialtri quattro, alzatemi una barricata al cantone di San Damiano». «Con che cosa?» mi azzardai a chiedere. «Con quello che trovate. Le auto in sosta, per esempio. Però abbiate cura di rovesciarle, dico con le ruote in aria. Poi vuotate quel negozio di elettrodomestici che si apre proprio al cantone. I frigoriferi si prestano benissimo, come ostacolo e come riparo. Maneggevoli, non molto pesanti, la doppia parete di lamiera può fermare le palle o almeno smorzarne l'impatto. Andate!» Obbedimmo, e in breve tempo la barricata fu in piedi. Se ci ripenso oggi, io stento a credere a quello che vidi: i milanesi, i quali solitamente sono capaci di prendersi a colpi di cacciavite per un sorpasso abusivo o per uno sgraffio al cofano della loro macchina, ci applaudirono quando principiammo a ribaltare le auto in sosta per sbarrare la strada. E sono certo che fra i plauditori c'erano anche i padroni di quelle macchine ormai destinate a diventare ferro vecchio. E non disse una parola quello degli elettrodomestici, quando vide il suo bel negozio messo a soqquadro. Formato l'ostacolo, a me venne in mente che forse esso non serviva a nulla, se dietro non ci si metteva gente armata, per lo meno di fucile. Lo dissi ai miei tre compagni, di me più giovani, e si decise che bisognava chiederlo all'ingegner Alfieri, il quale mi si era rivelato così esperto stratega e barricadiero. «Vai tu» mi dissero. Lo trovai tutto preso dalle sue funzioni di comandante, e per un poco non osai interromperlo. «Le bottiglie Scriabin» stava dicendo. «Che siano, per quanto possibile, di vetro spesso e col culo rientrato. Così l'effetto dirompente è maggiore, e si somma a quello incendiario. La misura di litro è senz'altro da preferire, per il lancio. Né troppo pesante né troppo leggera: un chilogrammo o poco più. E badate che il tappo sia a buona tenuta, con appena un pertugio per la miccia. Per mezzogiorno ne voglio confezionate almeno venti. Due a testa, voi primi dieci. Sotto.» I dieci prescelti se ne uscirono dal cortile: proprio lì davanti c'era tutto quello che serviva, e cioè una bottega di vinaio e un distributore di benzina. «Passate voce alle donne» continuò l'ingegnere. «Il fuoco sia sempre acceso, con sopra un paiolo colmo d'acqua bollente. L'olio si può aggiungere all'ultimo momento. E dite loro che non scialino. La miscela ha da essere di quattro parti d'acqua per una parte d'olio. Più economica e più efficiente. Ustioni di terzo grado garantite. Un momento! Dite alle donne che tengano sempre pronti asciugamani bagnati. Molti.» | << | < | > | >> |Pagina 148«La rivoluzione ti ha fatto bene».«Certo» rispose. «E ha fatto bene anche a te. Ti vedo più dritto, più fiero. Meno professore, se a te non dispiace.» «Non mi dispiace per niente» risposi, e lo pensavo davvero. Con il braccio le cinsi la vita, e mi rallegravo al vedere che tutti si voltavano ammirati. Eravamo quel che si dice una bella coppia. E le belle coppie in quei giorni di giubilo erano le più applaudite, da tutti. Non lieto fu invece lo spettacolo che ci si parò dinanzi quando giungemmo al Castello, perché proprio lì si era esercitata la rappresaglia più feroce dell'oppressore, le cui vittime giacevano adesso orribilmente squarciate, in un lago di sangue. Giuditta si coprì gli occhi con il braccio, e i fui sollecito a tirarla via, verso il verde del parco, e intanto cercavo di placare il suo orrore. Quando la strinsi fra le braccia scoppiò in lacrime, il seno scosso dai singulti. E io la carezzavo sui capelli biondi che parevano tanta seta. mormorando tutte le tenerezze che nei vennero alla mente. «Non mi dire più niente, ti prego» fece lei a un tratto. «Stringimi forte forte. Anzi, facciamo all'amore.» «Sì, certo, andiamo subito a casa.» «No, niente casa.» «Ma come?» «Qui.» «Subito?» «Subito.» «In pieno giorno?» «In pieno giorno.» «Non hai vergogna?» «No. Non ho vergogna, perché fare all'amore non è vergogna. Vergogna è trucidare gli innocenti, come hanno fatto quelle facce di merda dei tedeschi.» Ci pensai un poco, poi conclusi che Giuditta aveva sacrosanta ragione. E sono rimasto del suo parere anche oggi. Anche oggi io sostengo che fare all'amore non è vergogna. Non è vergogna. Vergogna è uccidere, vergogna è sudare, vergogna è morire di fame e chiudere la gente in prigione, o al manicomio. Vergogna è condannare. Vergogna è giudicare. Vergogna è comandare. Fu per questi motivi, e in questo modo, che Giuditta e io, quel fatidico ventitré marzo del cinquantanove, mentre cominciavano a uscire i proclami del governo provvisorio e ad affiggersi su per le cantonate, ci congiungemmo carnalmente sull'erba del parco di Milano, alle dodici e un quarto antimeridiane. Il giorno dopo, fra gli altri proclami del governo provvisorio, ve n'era uno che stigmatizzava (riporto la parola precisa) l'accaduto e comminava pene per chi osasse ripetere simili «sconce manifestazioni». C'era scritto proprio così, accidenti al governo provvisorio. È fatto divieto, si proclamava da un cantone, di circolare disarmati e senza l'uniforme della rispettiva provenienza. È fatto divieto, echeggiava il cantone dirimpetto, di attingere acqua nelle ore non prescritte per i relativi quartieri. È fatto divieto di lordare questa cantonata. È tatto divieto di sporcare per terra. È fatto divieto di calpestare le aiole. È fatto divieto di lasciare cani sciolti. È fatto divieto di sostare lungamente. È fatto divieto di radunarsi in meno di tre persone. (Questo divieto serviva a colpire le giovani coppie, e fu allora che cominciò la moda di fare all'amore in tre.) È fatto divieto di dare asilo al vice governatore O'Donnell, del resto già destituito dalla carica. È fatto divieto di circolare con la targa turistica alterata. Insomma, es wahr alles verboten, come prima e più di prima. Mancava solo che lo chiamassero vorlaufige Regierung, questo governo provvisorio, e sarebbe stato come trovarci sotto i tedeschi daccapo. Voglio dire che la gioia, il tripudio, il generale abbracciamento durò poco oltre il ventitré di quel marzo. E subito riprincipiarono quelli a comandare e quegli altri a litigare. Chi la voleva cotta e chi la voleva cruda. Il solito Cattaneo diventava rosso dalla rabbia quando gli si parlava di Italia unita. Voleva la federazione delle repubblichette, lui, e il Bocca dai a sostenerlo. Il podestà Ferrari voleva più che altro fare il podestà, gli emissari del Togliatti gridavano l'evviva a papa Giovanni con più voce di tutti, alcuni predicavano l'annessione al Piemonte, altri la repubblica transpadana, cioè coi confini meridionali al Po, mentre di confini all'Ombrone non discorreva più nessuno, neanche in mia presenza. Si bociava dalla mattina alla sera nella famosa Palestra Elettorale, dove anche i più fessi potevano prendere la parola, a mo' di esercizio per il futuro parlamento. I più di questi oratori volevano la costituente, e un nuovo statuto. I meno chiedevano l'Italia del popolo, senza tuttavia spiegare bene che cosa fosse Italia e che cosa popolo. | << | < | > | >> |Pagina 156Rivoluzione che andò fallita. Le cause del fallimento le esporrò altrove, in un ampio studio critico documentatissimo, per il quale mi servirebbero tempo e moneta. Anticiperò qui una breve analisi di dette cause. Diciamo pure, e subito, che l'insurrezione milanese del cinquantanove fu un moto spontaneo, anche se a lungo covato, e di natura interclassista, perché abbiamo visto che vi presero parte tutte le categorie di cittadini, urbane e provinciali. Fu, questo sì, un moto imprevedibile e imprevisto, sia dagli insorti che dagli oppressori. E perciò fu tanto più fortunato nelle sue prime fasi, fino a che, voglio dire, durò l'imprevedibile. In cinque giorni abbattemmo il potere, spuntandola su un esercito di quattordicimila uomini. Ma furono commessi alcuni sbagli che non esito a definire esiziali.Il primo sbaglio fu di natura politica contingente; vi fu troppa fiducia nella figura e nell'opera di Pio IX. Papa Giovanni Mastai Ferretti fu quello che fu, e non spetta a me discuterlo. Faceva la sua professione di papa come e meglio forse dei suoi predecessori e dei suoi successori. Ma non si poteva certo avviare in suo nome una causa italiana, o anche solo lombarda. Il secondo sbaglio fu di natura filosofica: quello di credere che alla rivoluzione debbano necessariamente seguire nuove istituzioni di governo. Credere che la rivoluzione possa e debba dar luogo a un ordine nuovo, e così resistere. La rivoluzione, se vuol resistere, deve restare rivoluzione. Se diventa governo è già fallita. Se chiama i cittadini alle urne perché eleggano i loro capi, addio. Non è la prima volta che succede, nella storia del mondo, e neanche sarà l'ultima: dovunque la rivoluzione ha cessato di essere permanente, là è ritornata la tirannia. E non è neanche vero che la rivoluzione (e quella milanese del cinquantanove più delle altre) voglia dire il caos. Questo lo dicono e lo ripetono di continuo gli amanti dell'ordine, vale a dire i tiranni. All'opposto, la rivoluzione milanese seppe darsi, spontanee, le sue norme di vita, seppe trovare dentro di sé i mezzi per trionfare e per resistere: si reperirono le armi, si eressero le barricate, si escogitarono modi nuovi di assalto, la popolazione si sostentò benissimo. Non uno morì di fame. Non un solo furto si ebbe a lamentare, fino a che rivoluzione vi fu. I ladri ricominciarono a rubare non appena fu ristabilito il rispetto della proprietà. Persino la prostituzione era spontaneamente quasi cessata. Insomma Milano, durante le cinque giornate, fu una città funzionante e in modo egregio. La disfunzione, daccapo, ricominciò non appena si vollero rimettere i funzionari, sia pure nuovi, sia pure nostrani, al posto di quelli vecchi, nemici e stranieri. Il terzo sbaglio fu di natura non più politica, non più filosofica, ma diciamo pure tattica. E cioè si commise un grosso errore nella scelta degli obbiettivi. Voi rammentate che cosa vollero occupare e tenere, gli insorti: il Broletto (dove ora si concorda la tassa di famiglia), il Palazzo del Governo, quello del Genio, le caserme intestate ai santi, il Castello, l'Università. Un'analisi di questa scelta degli obbiettivi, a Milano e dovunque, ci consente di riconoscere il momento infantile della rivoluzione. La massa del popolo, l'accorrere delle bandiere, l'assalto ai simboli dell'oppressione, la loro conquista. E nemmeno a tutti: non vi furono, per esempio, assalti ai manicomi, o alle prigioni, che sono, anche loro, i simboli del potere duro. Un rivoluzionario adulto non ha mai commesso sbagli di questo tipo, no. Non così si comportò Giuseppe Stalin, rivoluzionario adulto, anche se poi divenne a sua volta un funzionario, e la rivoluzione non seppe impedirglielo. Non così Giuseppe Garibaldi, rivoluzionario adulto anche lui, che funzionario non divenne mai ma si lasciò irretire da altri funzionari, e del resto non poteva fare ogni cosa da solo. Analoghi errori del genere di cui stiamo parlando, errori cioè determinati da infantilismo tattico li commisero, semmai, il Carlo Pisacane e più tardi, sul suo esempio, il dottor Ernesto Guevara. L'uno e l'altro fecero la triste fine che tutti sappiamo, abbandonati ambedue alla ferocia degli sgherri da quegli stessi villani che avrebbero dovuto insorgere per loro e con loro. Essi si posero come obbiettivo primo l'occupazione delle campagne, figuriamoci, e proprio nel momento in cui i contadini le stavano abbandonando. L'errore principale determinato dall'infantilismo tattico è appunto questo della cattiva scelta degli obbiettivi primari: municipi, palazzi governativi, uffici del catasto, chiese, caselli del dazio, università. Tutti obbiettivi puramente simbolici. Un rivoluzionario adulto occupa innanzi tutto (qui faccio l'esempio milanese, che meglio mi calza) occupa dunque la Handelsbank, la Kreditbank, persino la Volksbank, quella che oggi sorge al posto dell'antico Palazzo del Genio. Così fece Giuseppe Stalin, specialista di attacchi ai convogli zaristi carichi d'oro. Così fece Garibaldi, a Marsala, a Salemi, a Palermo, dappertutto.
Il primo segno della maturità operativa (ma non soltanto operativa,
anche ideologica, perché dietro una scelta tattica c'è sempre una convinzione
meditata) è proprio questo: se essa occupa innanzi tutto le
banche, gli istituti di credito cittadini, dal primo all'ultimo, essa è una
rivoluzione matura. Lasciate perdere broletti, palazzi del governo e
anche le università, ragazzi, pensate alle banche. Intendiamoci, non
sono da sconfessare le occupazioni spontanee di questi edifici, e magari anche
delle carceri e dei manicomi. Anzi, esse sono da riguardare con simpatia, ma
bisogna in ogni caso riconoscerne l'infantilismo rivoluzionario, l'errata
valutazione circa la priorità degli obbiettivi. Bisognerà riconoscere senz'altro
che questi moti spontanei, studenteschi, operai, contadini, potranno anche
costituire un sostegno alla rivoluzione reale. Se non altro, essi moti
gioveranno a distrarre la Polizei dal nostro impeto risolutivo, quando lo
scateneremo. Non a caso questi spontanei manifestatori amano richiamarsi
all'insegnamento del dottor Ernesto Guevara, e io consiglio loro di rileggersi,
già che ci sono, il Carlo Pisacane che è anche più bravo: hanno riconosciuto a
naso, nel martire argentino, un loro predecessore e un maestro di infantilismo
rivoluzionario.
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