Copertina
Autore Luciano Bianciardi
Titolo Il fuorigioco mi sta antipatico
SottotitoloIl calcio, i politici, gli intellettuali, l'Italia tra il boom e gli anni di piombo, nelle risposte ai lettori del "Guerin Sportivo"
EdizioneNuovi Equilibri, Viterbo, 2006, eretica speciale , pag. 384, cop.fle., dim. 15x21x2 cm , Isbn 978-88-7226-959-6
LettoreRenato di Stefano, 2007
Classe sport , costume
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Indice

Riaprire il fuoco, di Ettore Bianciardi     3

In terza pagina                             9

Così è se vi pare                          27

Il salotto letterario                     311



 

 

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Pagina 3

Riaprire il fuoco


È l'inizio estate del 1970. La nazionale italiana, quella di Riva, Rivera e Mazzola, dopo l'indimenticabile nottata della vittoria sulla Germania, torna dal Messico con una certa delusione: dopo anni di sconfitte e di brutte figure, quella squadra allenata dal grigio Valcareggi ha sfiorato il miracolo, ma niente ha potuto contro il Brasile di Pelè. Il calcio adesso sta entrando nei discorsi quotidiani di tutti gli italiani, anche di quelli che non ne avrebbero mai parlato prima. Si fa una certa fatica a tornare a quell'Italia, molto più lontana da noi di quello che farebbero pensare i quasi quaranta anni di differenza. È l'Italia sospesa tra boom economico e anni di piombo, l'Italia in cui il divorzio fa la sua timida comparsa, l'Italia della contestazione universitaria del '68 e dell'autunno caldo, l'Italia in cui televisione vuoi dire esclusivamente RAI-TV, l'Italia del carcere militare per gli obiettori di coscienza, l'Italia dove la parola 'amante' fa ancora scandalo, mentre non lo fa ancora 'negro'.

In questa Italia, ancora antica, vive gli ultimi mesi della sua breve vita Luciano Bianciardi. È un brillante intellettuale, nato e cresciuto in provincia, a Grosseto, dove ha insegnato al Liceo, dove ha fatto il direttore della biblioteca, il giornalista, l'organizzatore di cineforum, di bibliobus, dove ha lavorato alla cultura popolare, dove ha visto e seguito i contadini dell'Ente Maremma e i minatori di Gavorrano e di Ribolla. Da lì è partito improvvisamente un giorno dell'estate del '54, ed è andato a vivere a Milano, con la donna di cui si era innamorato e con la quale visse i restanti anni. Se ne era andato, dalla provincia, ne era scappato – diceva lui - per ricominciare una vita nuova, lontano dalla moglie e dal figlio, dalla provincia e dai suoi intellettuali, per ricominciare daccapo una vita che si era messa su binari terribilmente comuni, tradizionali, piccolo borghesi, troppo superficialmente accettati, ma impossibili da sopportare. Questa partenza, questa cesura nella sua vita, sarà per lui sempre una ferita aperta che non lascerà più rimarginare e che, di lì a poco, lo ucciderà.

A Milano Luciano arriva impreparato: crede di incontrare gli operai ed invece si trova immerso nella piccola borghesia di ragionieri, impiegati, segretarie e pensionati che lui subito detesta. Crede di potersi inserire nel lavoro culturale e nelle grosse iniziative che stanno partendo dopo il ventennio fascista, ma il nuovo gli appare persino peggiore del vecchio, e quell'apparato culturale lo espelle, lo riduce ai margini, lo costringe a lavori precari e marginali, gli toglie ogni possibilità di espressione e di denuncia.

Eppure, in mezzo a tanto grigiore, si accende una luce: un suo libro, faticosamente scritto tra le fatiche delle traduzioni cui si è dedicato, 'La vita agra', ha un grande successo di pubblico e di critica, fino a divenire anche un film con Ugo Tognazzi. Di colpo Bianciardi diviene famoso, si compie anche per lui il miracolo in quella città fredda, ma dal cuore d'oro. Ma Luciano non ci crede, anzi detesta quel successo, non lo sente suo, diffida da chi lo loda e lo vorrebbe sempre sentir parlare: credeva di aver suscitato una rivolta con il suo libro, credeva di esser preso a calci nel sedere e invece la gente gli sorride, forse non hanno capito.

Incredibilmente il successo di adesso, siamo in pieni anni '60, è addirittura peggiore dei periodi bui e affamati precedenti, soprattutto lo assale la sensazione che nessuno lo prenda sul serio, che sia diventato solo un fenomeno culturale, l'anarchico che tutti volevano avere alle loro serate. La rabbia, invece di diminuire, aumenta. La sua reazione, da uomo fuori dal coro, appare ai più strana se non scellerata: in quegli anni rifiuta collaborazioni prestigiose, al 'Corriere della Sera' di Indro Montanelli, e si rifugia in testate minori, almeno così considerate all'epoca, giornali che stentano a vivere, oppressi dalla censura e dal comune senso del pudore di una borghesia ancora in preda a pudori antichi.

Me là, tra riviste per soli uomini, e un settimanale, 'ABC', tra lo scandalo e la lotta per i diritti umani, trova un suo spazio, defilato e relativamente tranquillo, per dire quello che sente, per scatenare la sua critica ironica e trasgressiva, per urlare al mondo la sua rabbia e il suo grido di rivolta.

Poi in quel magico '70, dopo la vittoria del Cagliari di Manlio Scopigno e il secondo posto ai Mondiali, Bianciardi scopre il calcio e lo sport. E scopre il 'Guerin Sportivo'. Un giornale molto particolare, il 'Guerino', già storico allora, fondato nel 1912 e diretto dal mitico Carlo Bergoglio, Luciano lo aveva letto insieme al padre prima della guerra: ora era diretto da Gianni Brera ed era un giornale molto diverso da quello che è oggi, diverso da tutti i giornali, sportivi e non, del nostro tempo. Era un giornale fatto di testo, di parole, di discorsi, di decine, centinaia di cartelle, che le fide Olivetti scaricavano settimanalmente su quaranta paginoni: chi lo lesse, al tempo, non se lo può dimenticare. Di sport si parlava, ovviamente, soprattutto di calcio, ma non solo: il giornale era aperto alla cronaca di costume e della società, anzi invitava tutti gli intellettuali dell'epoca alla collaborazione, indicando che dallo sport, dai fatti del giorno, dalle polemiche simili se non identiche a quelle di oggi, ci si poteva allargare e parlare dei temi sociali, politici, di costume e di morale. E gli italiani gradivano quel tipo di giornale, praticamente senza foto: lo testimoniano le oltre trecentomila copie distribuite settimanalmente.

Bianciardi entra al 'Guerino', dalla terza pagina, quella appunto offerta agli intellettuali ed agli scrittori; scrive quattro racconti, poi il 28 Settembre di quel 1970, Gianni Brera sospende la sua rubrica di posta e lascia il posto a Luciano Bianciardi che inaugura la sua. Continuerà così fino all'estate successiva; alla ripresa in Settembre, Brera riprende la sua rubrica, ma continua anche quella di Bianciardi, solo un po' defilata, trasformata in un 'salotto letterario' dove le lettere (autentiche?) provengono da famosi personaggi dello sport e dello spettacolo che Luciano ha in qualche modo e in qualche tempo incontrato. La rubrica va avanti fino alla morte dello scrittore, anzi l'ultima uscita è quella del lunedì successivo alla sua scomparsa, 15 Novembre 1971.

Ed oggi, rileggendo queste risposte, pur subendo le inevitabili ripetizioni (non di romanzo si tratta, ma di cinquantasei settimane di colloquio con il pubblico), si ottiene un'incredibile e profonda immagine di quello che è stato Luciano Bianciardi per la cultura italiana del suo tempo, ma soprattutto si ha una misura diretta dell'efficacia del suo messaggio per le successive generazioni.

Bianciardi comprende appieno le contraddizioni, gli schematismi della società del suo tempo, che è la nostra al suo nascere, e ci mette in guardia contro i pericoli che corriamo; lo fa con incredibile anticipo sulla sua generazione, ancora cullata dal mito del boom e della ricostruzione; non cede alle facili illusioni del tempo, ancora avvolte di promesse fascinose, anzi prevede con straordinaria precisione le disillusioni che avremmo dovuto subire.

Per lui la battaglia per il divorzio è di retroguardia, meglio combattere per la soppressione del matrimonio, e di ogni altro istituto di convalida legale dei sentimenti umani; l'occupazione delle università è velleitaria, snobistica, inutile e perfino dannosa, i giovani si concentrino sull'occupazione dei veri centri di potere: le banche (!). La probabile ascesa al potere della sinistra tradizionale, sarà la definitiva rovina, la noia, la distruzione di ogni speranza civile e democratica, marxismo e comunismo sono concetti da superare, l'unica forma di democrazia è l'Anarchia.

La televisione, lungi da essere strumento di libertà e di cultura, ci chiude in una nuova e peggiore schiavitù, e non è la lotta contro il canone quella giusta ("ben presto ci sarà chi non ce lo farà pagare, ma la sconteremo lo stesso") ma il rifiuto della televisione. Non ci sono guerre giuste, non ci sono guerre per la democrazia, la guerra va rifiutata, John Kennedy non è stato un democratico, ma un mafioso come gli altri. Pinelli non si è buttato dalla finestra da solo, ma spinto da qualcuno che era in quella stanza e che se non altro avrebbe dovuto almeno impedirlo. Le imprese spaziali sono inutili e con esse tutto ciò che è solo una stupida e costosa esibizione di potenza tecnologica fine a se stessa.

In questo panorama triste e desolante, nasce però la speranza di una nuova, vecchia Utopia, quella che lui auspica e fortemente vuole, anche se vede lontana ("voi direte che voglio la Luna, ebbene sì, la voglio"): una società senza vinti e vincitori, senza potenti e senza deboli, senza guardie e ladri, senza chi interroga e chi deve rispondere, senza chi sa e chi deve imparare, senza chi comanda e chi deve ubbidire, senza il comune senso del pudore, anzi con un nuovo senso del pudore: oscena è la morte non la donna nuda. E la cultura, finalmente una vera cultura di massa, una società dove tutti imparano da tutti, dove non esistono cattedre, dove il vero intellettuale è quello militante, quello che esce dagli istituti e va a scovare la cultura dove essa è, anche tra gli umili e gli inascoltati. Un mondo senza più convenzioni, senza politici, senza militari, senza poliziotti, senza organismi che decretano ed assegnano.

È un fiume di parole, centinaia di cartelle, un milione di battute che si rovescia sul lettore, che lo coinvolge, che lo trascina con sé. Ed è convincente Bianciardi, tanto più che non fa mistero dei suoi difetti, delle sue paure, dei suoi complessi, dei suoi sensi di colpa che lo condizionano, della sua educazione borghese, del suo provincialismo dal quale non riesce (non vuole) ad uscire: abbiamo di fronte un uomo vero, un uomo debole, anche se fiero, un uomo che lotta anche se sa che perderà, che è sopraffatto dal passato e dal presente, segnato dalle scelte sbagliate e dai suoi errori e per questo più vicino a tutti noi, per questo infinitamente credibile, assolutamente vero.

E la tribuna che ha scelto, quella sportiva, scelta anche questa anticonvenzionale ed anticonformista (dopo in tanti la ripeteranno, ma allora era una scelta coraggiosa: il giornalista sportivo era considerato di serie B) si dimostra giusta: Bianciardi dallo sport può trarre spunto per parlare di quello che vuole. L'approccio di basso profilo gli consente di parlare a tutti e non solo agli intellettuali, che d'altronde non lo ascolteranno nemmeno. Inoltre la tribuna bassa e defilata del 'Guerino' gli consente una libertà incredibile: può dire tutto quello che pensa, può lanciare messaggi rivoluzionari che da altre tribune non sarebbero mai potuti partire.

La forza dirompente del messaggio di Bianciardi, forse troppo grande per essere compresa e metabolizzata al suo tempo, appare ancora oggi rivoluzionaria, militante, feconda di idee, di spunti, di inviti all'azione. Questa in fondo è la ragione per cui questo libro viene pubblicato, ma occorre stare attenti all'errore in cui potrebbe cadere un lettore superficiale e nel quale è sprofondata (forse volutamente?) tanta critica ufficiale e ufficiosa che si è interessata, non sempre senza interesse personale, di Bianciardi dopo il lungo abbandono seguito alla sua morte. Sarebbe oltremodo scorretto, addirittura oltraggioso, rivolgersi all'opera bianciardiana con scrupoli meramente accademici e stilistici, di pura conservazione e contemplazione. Sarebbe offesa alla sua memoria sedersi passivi al tavolo della rilettura infinita e dell'analisi spasmodica della sua opera in un inutile intento celebratorio (o forse autocelebratorio ed autoreferenziale), sarebbe esattamente quello che Bianciardi non avrebbe voluto, quello che avrebbe rifiutato, odiato e dileggiato, sarebbe supremo oltraggio all'uomo. Luciano ci invita alla militanza, ci invita a riprendere dove lui ha lasciato, noi che avremo più forza e più convinzione, meno paure e meno condizionamenti, noi che abbiamo il vantaggio di questi quaranta anni, che, tutto sommato, non saranno passati invano, un vantaggio da non sprecare: non ci dobbiamo costringere ad aspettare un'altra generazione. Dobbiamo, se amiamo Bianciardi, se condividiamo la sua analisi, se vogliamo partecipare alla sua Utopia, ricominciare a fare quello che lui tentò di fare, con ben scarsa fortuna; dovremo in una parola riaprire il fuoco!

Ettore Bianciardi

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Pagina 52

Carosio e Martellini [1970]

Caro Bianciardi, io sono un grande ammiratore di Nicolò Carosio. Vorrei conoscere la sua opinione su questo grande cantore dell'epopea pedatoria nazionale. Spero che Lei non sia tra quei faziosi bastian contrari che preferiscono Nando Martellini a Nicolò Carosio. È vero, caro Bianciardi, che tra i due non c'è possibilità di confronto?

Bruno Pizzuti – Aosta


Caro Pizzuti, Nicolò Carosio è idealmente il padre della radiocronaca sportiva, e i primi a riconoscerlo sono i suoi più giovani colleghi, da Martellini ad Ameri a Rosi. Me l'hanno confermato di persona essi stessi, quando ho chiesto loro un parere a proposito. Io voglio molto bene a Nicolò Carosio. Però abbia pazienza, gli preferisco Nando Martellini, per quel suo gusto, nel commentare, dell'"understatement", così raro in Italia. Voglio dire che Martellini sdrammatizza sempre, anzi che enfatizzare, riduce tutto alla misura giusta e anche di più. E poi si distrae, si impapera, si dimentica quale partita stanno trasmettendo. Una volta, in occasione di Lazio-Inter, arrivò a dire, testualmente: "La partita continua sullo zero a zero iniziale. Ne la Roma né il Milan hanno messo a segno una rete". Scordandosi che, all'inizio, tutte le partite sono sullo zero a zero, e che l'incontro era tra Lazio e Inter e non tra Roma e il Milan. Questo me lo rende molto simpatico. A parte il fatto che di calcio si intende molto, il Martellini. Ma non lo prende eccessivamente sul serio, allo stesso modo in cui non prende eccessivamente sul serio neanche se stesso.


Il parroco di Rocco [1970]

Caro dottor Bianciardi, so che Lei è famoso come giocatore di parole, come calembourista. Mi vuoi dire, per favore, e nel suo stile, chi sono: 1) Una prostituta con abito corto; 2) Un uomo di bassa statura con moglie infedele; 3) Gianni Rivera; 4) Il capo dei contestatori ebrei; 5) Il parroco di Nereo Rocco; 6) Il titolo che spetta a Nicolò Carosio, ammesso che sia un prete; 7) Le vacanze di Scopigno in Inghilterra; 8) Il più famoso sessuologo olandese? 9) È giusto che Sormani si chiami così? 10) Mi dia la definizione più crudele di se stesso.

Enrico Meani – Volterra


Caro signor Meani, Lei è un provocatore. E allora tanto peggio per Lei. Ascolti bene le risposte: 1) Una minignotta; 2) Un becchino; 3) Un calciautore; 4) Marcusalemme; 5) Dom Perignon; 6) Beverendo; 7) Alcoholidays; 8) Orgasmo da Rotterdam; 9) No, dovrebbe chiamarsi Sorpiedi; 10) Un anarchico conservatore.

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Pagina 316

DIALOGO CON TORTORA [1971]

Caro Bianciardi, diciamo col poeta: settembre, andiamo, è tempo di tifare. Si riapre il 'Guerino' con una tua rubrica. Da anni sono tuo devoto e incantato lettore. Ci sono due o tre domande, tuttavia, che mi sono restate sul gozzo, e mi pare giusto scodellartele così, come vien viene. Non sono, bada, di carattere 'tecnico': le mie notti non sono che moderatamente turbate dai problemi di 'una più efficiente carburazione a centro-campo' per quanto riguardo la Nazionale, o dai problemi – parimenti ragguardevoli – della 'convivenza' fra Helenio Herrera e il neo presidente Anzalone. Mi interessi tu. Chi diavolo sei, Bianciardi Luciano? L'uomo della 'Vita agra' o un cinico Tito Livio dei nostri lunedì? Per parlar chiaro, e fuori dai denti: ma tu al calcio ci credi, o fingi di crederci? E del tifoso italiano, che immagine hai? E della stampa sportiva in genere, onestamente, che ne pensi?

In questo paese, la statistica ti sarà nota, ogni italiano spende mediamente (pro capite, dicono i tecnici) lire italiane duecento per la lettura: ogni anno. In tale cifra sono compresi i testi scolastici, bada. Così ogni anno in Italia il prezzo di un pacchetto di Alfa è destinato dai nostri compatrioti all'acquisto di carta stampata: duecento lire che comprendono Dante e Gianni Brera, Grand Hotel e Arbasino. Dopo di noi segue, mi pare, come fanalino di coda in fatto di spese per la lettura, lo Uanda-Urundi. Che razza di pubblico può essere, quello italiano? E che maestri ha? Tu per chi scrivi?

Grandinano gli interrogativi, come vedi. Altra domanda, questa volta di carattere più spiccatamente biografico. Mi è parso di capire, da certe tue risposte, che ti consideri di 'sinistra'. Sta diventando una vuota etichetta, Luciano, o sbaglio? Per quale 'sinistra' sei? Scusami, il voto è segreto, ma certe tue risposte no. Lessi una volta, per esempio, che tu sei ostinatamente convinto dell'assassinio dell'anarchico Pinelli. Ma perché? Credi veramente che la storia si programmi a tavolino, e che nulla sia dovuto al caso, alla fatalità, all'imponderabile? Tu ami la storia: anch'io. La anno soprattutto perché non insegna niente, e dunque mi dispiace vederti, come tanti intellettuali, far l'occhietto furbo non appena si parla del commissario Calabresi. Io sono convinto, per esempio, della sua assoluta buona fede. Sono pazzo? Servo del capitale? Sfruttatore delle masse? Dimmi tu. Tiro la carretta, ho il massimo disprezzo per la nostra classe politica, per gli enti del sottogoverno: ma io non mi ingruppo con facili contestatori. Le vetrine che rompo le pago di persona. E poi, Bianciardi Luciano, ripeto: quale 'sinistra'?

Ti saluta:

Enzo Tortora – Milano


Caro Tortora, il 'Guerin Sportivo' ha se non altro questo di bello. Consente a due milanesi coatti quali noi siamo di incontrarci, talvolta, o sulle rive di Cesenatico o su queste colonne. Da anni sono anch'io un tuo grande estimatore, e te lo dimostrai suonando per te in pubblico il violoncello. Ora mi accingo, con cautela, a rispondere alle tue domande.

Sono sempre l'uomo della 'Vita agra', stai tranquillo. E grazie per l'accostamento a Tito Livio. Sentilo: Fuere quos inconsultus pavor fugam impulerit capessere nando. È una bellissima descrizione di una gara di nuoto, seppur forzata sul Trasimeno, dalle cavallerie di Annibale. Cinico non direi, visto che sono un discepolo di Voltaire, e non di Diogene.

Al calcio credo e come, non faccio finta. Alla partita vado, e mi diverto, sempre. È un gioco bellissimo. Come sono i tifosi italiani? Quasi meglio di altri che ho visto in azione fuor d'Italia: gli inglesi al confronto sono belve, i russi pecore, i francesi sciacalli, gli americani (altro tipo di calcio) pachidermi. Mi vanno bene gli italiani. In quanto alla stampa sportiva, basta affidarla agli incompetenti, e tutto va bene.

I libri. Bada bene, Enzo Tortora, che le statistiche dicono sempre bugie. Con la scuola dell'obbligo, ogni capofamiglia italiano, me compreso, spende mediamente quarantamila lire annue. Se poi c'è un figlio abbonato a Topolino e lettore di Jack London la cifra sale. Una moglie assidua di Proust cresce ancora il livello di guardia. Una vecchia zia che vuole un tuo libro, ormai esaurito, fa tracimare i flutti. Mettici quel che piace a te, e che ti compri, e vedrai che alla fine dell'anno hai speso in libri un mese di sudato salario. Poi ci sono i libri che ti arrivano 'in omaggio con preghiera di recensione', e che affollano gli scaffali. Questo ti costringe a comprare altri supporti, di legno o di metallo, per riporli. Lo so, mi dirai che sono un lettore anomalo, ma molti amici miei sono così, e non mi risultano cittadini dell'Uanda Urundi. Ti confesso che ho dato anch'io il mio contributo all'affollamento degli scaffali altrui, mettendo sul mercato, fra scritti, tradotti, prefatti, un duecento libri, che qualcuno di sicuro ha stampato, venduto e comprato. Allora? Questo malfamato pubblico italiano, a dispetto delle statistiche, qualcosa legge, o no?

I miei maestri si chiamano così: Giovanni Verga, catanese. Seguo invano le sue tracce da quando avevo diciotto anni. Carlo Emilio Gadda, milanese come te e come me, tuttora insuperato. Henry Miller, detto anche Enrico Molinari, da New York, che ebbi la fortuna di tradurre e di conoscere personalmente. Ora abita a Big Sur, e qualche volta mi spedisce una cartolina firmando col suo nome italiano di mia invenzione. Il mio editore si chiama Rizzoli, ma ho scritto qualcosa anche per Bietti, che è l'editore tuo.

Essere 'di sinistra' non significa ormai nulla. Tutti sono di sinistra, dai cattolici ai socialdemocratici, ai socialisti, ai comunisti e a quelli che si dicono con infelice neologismo, 'extra parlamentari' (come a significare che si son prenotati un posto in parlamento per l'indomani). Io sono anarchico, nel senso che auspico una società basata sul consenso e non sull'autorità. Certi amici mi dicono: 'ma tu vuoi la luna, allora!' E io rispondo di sì: voglio questa luna, non quella degli astronauti. Quella di Leopardi, come luna, grazie al cielo già ce l'ho.

Che Giuseppe Pinelli si sia buttato volontariamente dalla finestra ormai lo credi tu e pochi altri. Ma guarda, Tortora Enzo, se anche così fosse stato, la responsabilità di chi lo aveva per le mani resta. Un prigioniero (anzi un indiziato) è comunque sacro. Non a caso Luigi Calabresi sta trasformandosi a sua volta in indiziato, per opera della nostra magistratura. La buona fede di Calabresi? Certo, anche quel tale Lang che impiccò Cesare Battisti era in buona fede. Faceva il suo mestiere. Ecco, Tortora Enzo, io vorrei eliminare questi mestieri.

No, tu non sei pazzo, non servo del capitale, non sfruttatore delle masse. Sei uno che sgobba, ogni tanto prende qualche calcio nel sedere da chi lo ha sfruttato abbondantemente. Disprezzi la classe politica e fai bene, ma guarda che ogni classe politica sta su perché qualcuno la sostiene, te compreso. Vuoi il rimedio? Non lo conosco. Ma se vuoi, fatti anarchico anche tu. Ciao, Tortora. Al 'Guerin Sportivo' hanno il mio numero di telefono. Se vuoi, chiamami.

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Pagina 344

Le donne dei campioni [1971]

Amico Bianciardi, rispondo al tuo invito 'salottiero' molto volentieri e ti propongo subito alcune domande: 1) Non sarebbe meglio che Fraizzoli anziché una squadra di calcio presiedesse un clan pugilistico, dopo le ultime esibizioni di Vieri e di Bertini? 2) Se la Chiesa e il Papa fossero in qualsiasi altra parte del mondo (magari in Australia), cosa sarebbe l'Italia oggi? 3) I critici sportivi dicono che Cudicini, portiere del Milan, è al termine della sua carriera. Tra i due portieri di riserva Belli e Vecchi chi consigli e perché? 4) Come spieghi la paura e la diffidenza della gente verso l'ideale socialista? 5) Perché i moralisti giornalisti sportivi si occupano di Gianna e di Irene invece che di calcio vero proprio? Se la pubblichi ti riscrivo!

Adriano Celentano — Milano


Amico Celentano, io ti ringrazio di aver accettato il mio invito salottiero, e spero proprio che un giorno ci troviamo in tinello a mangiare, bere e discorrere insieme. Ogni tanto ti vedo dalle parti di piazza Beccaria e mi fai un po' ridere per come cammini: sembri me giovane. Ma passiamo alle domande:

1) Veramente mi duole che proprio due toscani, Vieri di Piombino e Bertini valdarnese, abbiano scambiato il campo di calcio per un quadrato di cazzotti. Non hanno serie nozioni geometriche, i due. E il povero Ivanhoe (ma che bel nome scozzese!) si mette le mani negli argentei capelli. Voglio dire tuttavia che i toscani sono per loro natura faziosi e rissosi, negligenti e impudenti, spudorati e squilibrati. Sto facendo, come senti, il verso a un altro toscano, Giovanni Boccaccio. Io non sono toscano, sono maremmano, e in Maremma i pugili vengono su come il loglio nel grano.

2) Qui metti il dito nella piaga. Io sto progettando, con l'amico Recchia, che tu conosci, un film basato sull'ipotesi che il Vaticano, al completo, sia costretto a emigrare, prenda il treno e si metta in giro per il mondo, cercando ospitalità altrove: ad Avignone, naturalmente, dove però sarà gentilmente respinto per le note ragioni politiche (che nessuno tuttavia precisa). Andrà a Vienna, cattolicissima, e anche lì gli diranno picche. Va a Mosca, dove viene accolto con rispetto, ma anche con una sontuosa campagna antireligiosa. Il Vaticano ormai vive sul treno, e non trova requie, finché entra in una galleria e non esce più. Ho chiesto a Recchia di vestire il Papa da uomo, essendo egli per l'appunto il Dio fatto uomo. Cioè con un bel doppio petto bianco. E l'Italia, dici tu? So già la soluzione: eleggerebbe un altro Papa.

3) Cudicini è sempre un ottimo portiere, e domenica scorsa ha vinto una partita. Pare che adesso lo vogliano far diventare segretario generale del Milan al posto del mio povero e caro Bruno Passalacqua. Al posto di lui chi? Preferisco Belli, che ha più scatto, più occhio e più esperienza.

4) Caro Celentano, la diffidenza dipende da un fatto molto semplice: ci sono in Italia quattro partiti almeno che si richiamano all'ideale socialista. E cioè stando alle sigle, il PCI, che predica riforme e non rivoluzione, poi il PSI che sta al governo e impone tasse; il PSDI, anche quello al governo, e infine, fuor del governo, il PSIUP che predica non so bene che cosa. La gente comincia (e fa bene) a non capirci nulla.

5) I giornalisti sportivi si occupano di Gianna e di Irene perché il pubblico vuol sapere queste cose. E come tu sai, il giornalista è al servizio del pubblico, come del resto il cantante. A me questo tipo di informazione non piace, ma al pubblico sì. Il pubblico, per esempio, vuoi sapere che Adriano Celentano ha sposato Claudia Mori nella chiesa di San Francesco, a Grosseto, sotto il patrocinio di frate Ugolino. (A proposito, tempo addietro mi ci sono sposato anch'io). Cosa c'entra padre Ugolino con il mondo della canzone? Sei contento? Se mi scrivi ancora, o mi telefoni, fai benissimo, e ti ringrazio.

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Pagina 354

Umorismo e poesia

Caro Luciano, l'inverno scorso dovevi venire a Napoli per presentare un mio libro, assieme ad altri amici. Il giorno della presentazione, invano ti cercammo in tutti i bassifondi cittadini. Ti telefonai allora a Milano: con voce spirante, mi rispondesti che avevi 58 di febbre. Ti domando: è possibile avere una temperatura di 58 gradi, specie se si deve volare al soccorso di un amico? Una confessione: per vendicarmi della tua 'febbre' (io mi vendico sempre!) Ti dedicai questo 'nonsense':

    C'era un famelico vecchio di Mosto
    che mangiava soltanto carne arrosto;
    ma per errore un bel giorno d'agosto
    gli fu servito Bianciardi sul posto.
    Crepò all'istante quel vecchio di Mosto

il 'nonsense', come sai, è uno dei più stupendi 'prodotti' dello spirito e della letteratura inglesi, un felice trionfo dell'assurdo. In Italia è poco diffuso, anzi, ignorato, respinto. Peccato; anche perché, tanto per fare un esempio, la nostra società sportiva, per come è congegnata, potrebbe certamente ispirare e alimentare una stupefacente letteratura 'nonsensistica'. Tu, che ne dici? Ultima domanda: è vero, che sei avarissimo? Se sì, come concili quest'avarizia con lo spreco che fai di te (di te scrittore), cercando di distruggerti come persona per diventare personaggio? Domanda, come vedi, tipica del moralista dissoluto ch'io sono. Ciao, ti abbraccio.

Luigi compagnone — Napoli


Caro Luigi, dovevo venire e non venni per pigrizia e viltà. Ora ammetto questo in pubblico e faccio ammenda. Peccato di aver perso i bassifondi cittadini, che mi piacciono moltissimo. Sì, è vero, quando mi telefonasti a Milano avevo 58 di febbre. La temperatura è possibile, quando si ha la stazza, come io ho, di un cavallo; perciò non potei volare al soccorso dell'amico. Ti ringrazio del grazioso 'limerick' e ti ricambio così:

    In un paese posto accanto a Napoli
    i maschi tutti quanti erano scapoli.
    Infatti non ci stavano più donne
    a sventolare fazzoletti e gonne.
    Uno soltanto lo ignorava, Compagnone
    e per far la figura del minchione
    andò a cercare moglie a quel paese.

Certo il nonsense è divertentissimo e noi allora diffondiamolo. È un solido esercizio, oltre tutto, di umorismo e di poesia fantastica. Io dico che per quanto riguarda l'assurdo linguistico, la stampa sportiva offre ottimi esempi da raccogliere in volume, ciò che tu e io presto faremo.

Non sono affatto avarissimo, anzi sono scialacquone. Il guaio mio è che (a parte il libro di Luigi Compagnone), io sono uomo di facili costumi, cioè non dico mai di no a nessuno. Faccio, in altre parole, il battone. E batto i tasti della macchina. Ciao, dissoluto, ti abbraccio anch'io.

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