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| << | < | > | >> |IndiceA tutti i garibaldini di ieri e di oggi 3 Nel Quarantotto 5 Da Milano, l'ultimo giorno del mese di Gennaio 7 Da Milano, all'alba del diciannove del mese di Marzo 27 Da Milano, all'alba del ventitré del mese di Marzo 42 Da Milano, il quindici del mese di Agosto 57 Nel Sessanta 73 Da bordo del Piemonte, il sei del mese di Maggio 75 Da Calatafimi, il sedici del mese di Maggio 92 Da Palermo, il giorno dieci del mese di Giugno 110 Da casa, a Siena, il giorno di Natale 127 Guida alla lettura 143 Elenco dei nomi di persone 154 |
| << | < | > | >> |Pagina 3A tutti i garibaldini di ieri e di oggiUna cosa è certa: Luciano Bianciardi, oltre che scriverne spesso e molto, aveva il Risorgimento italiano fisso nei suoi pensieri; era come se ci vivesse dentro. E questo per una ragione particolare: Luciano Bianciardi vedeva il Risorgimento italiano, o almeno una parte importante di esso, come un movimento spontaneo e rivoluzionario di popolo. In particolare le Cinque Giornate di Milano e la Spedizione dei Mille sono per lui una emblematica dimostrazione che quando la rivoluzione prende corpo, allora succedono cose altrimenti impossibili: eserciti forti e ben armati soccombono e arretrano, la popolazione intera insorge compatta ed unita, una nuova forma di vita sociale si afferma, problemi considerati endemici ed irrimediabili scompaiono come d'incanto. E, a riprova di ciò, allorché la rivoluzione cessa di esistere e viene sostituita da una nuova forma di governo e da un nuovo ordine, tutto ritorna come prima. La lezione della rivoluzione permanente allora la si può trarre dal nostro Risorgimento, senza dover ricorrere a modelli stranieri ed eroi lontani: «Carlo Pisacane è un illustre precursore del dottor Guevara». Questa lezione è valida ancora oggi, dopo quarant'anni dalla morte di Luciano e dopo un secolo e mezzo da quegli avvenimenti, ed i giovani d'oggi potranno, ripercorrendoli, provare la stessa emozione che provò lui nella sua breve vita, sempre che sappiano, e non sarà facile, rimuovere quella spessa e densa patina celebrativa che l'Italia unita dei Piemontesi prima, e del Fascismo poi, hanno su di essi versato a piene mani, e che la pavida e accidiosa storiografia contemporanea tarda colpevolmente a cancellare. Ho ricomposto in questo libro una selezione di scritti di Luciano Bianciardi sul Risorgimento. Alcuni erano stati pubblicati sui molti volumi che dedicò all'argomento, altri, apparsi su riviste e pubblicazioni meno in vista, sono da considerare inediti, altri ancora non furono mai pubblicati, ma mi furono trasmessi in altro modo. La forma in cui essi appaiono non è quella originale: le diverse provenienze dei brani hanno preteso una nuova sistemazione formale. Confido di averne trovata una che sarebbe piaciuta a Luciano: un diario diretto e discontinuo di un uomo che ebbe la ventura di partecipare veramente ai fatti narrati, se non proprio con il corpo, con la mente ed il cuore: insomma, quello proposto è il diario risorgimentale autentico di Luciano Bianciardi. In questo senso allora il libro è ancor più bianciardiano di quanto Luciano potesse sperare, avendo io spinto ancora e con determinazione nella direzione che lui seguì in tutta la sua vita: quella di rivoluzionare il racconto, la letteratura, la cultura, facendoci scorrere dentro il sangue. Il lettore sia però preparato a salti temporali ed anche logici che a volte lo sorprenderanno. Non tarderà a intravedere allora, dietro le righe del testo, la faccia beffarda di Luciano che sta lì a provocarlo ed a cogliere soddisfatto la sua sorpresa e a tratti il suo sgomento. Potrà giovarsi, se lo riterrà opportuno, della breve guida alla lettura che troverà alla fine del volume. Il libro è dedicato, con immenso affetto, a tutti i garibaldini, di ieri, di oggi e soprattutto a quelli, speriamo siano tanti, di domani. Per un mondo migliore, vissuto da donne e uomini migliori. Con grande passione, Ettore Bianciardi | << | < | > | >> |Pagina 7Da Milano, l'ultimo giorno del mese di GennaioAnno nuovo vita nuova, si ripete ogni volta, e questo ormai è diventato un modo di dire, a cui si dà poca o nessuna importanza. Eppure stavolta noi milanesi siamo stati di parola. Tutti d'accordo: a Capodanno ci siamo riproposti di non fumare più. Basta coi sigari, basta con le pipe, basta con il macubino da annusare. Basta anche con le sigarette, ci siamo detti, anche se, a dire il vero, le sigarette non sono ancora state inventate: bisogna aspettare cinque anni, che scoppi una guerra in Crimea, e allora nascerà l'abitudine "moderna" di avvolgere il tabacco nella carta. In Crimea il caso vorrà che si distribuisca ai soldati alleati, cioè inglesi, francesi, piemontesi e turchi (grandissimi fumatori, secondo il proverbio), una partita di tabacco sfuso, e siccome scarseggeranno, oltre ai viveri e ai medicinali, le pipe in dotazione alla truppa, questa saprà arrangiarsi e ricorrere alla carta. La carta non mancherà, perché le dosi di polvere per i fucili ad avancarica sono per l'appunto avvolte nella carta, e l'involtino è propriamente quel che si dice "cartuccia". Poi forse continueremo a chiamare così la munizione del fucile o della pistola, anche se per la verità la carta non c'entrerà più. E così questa guerra di Crimea, la più stupida tra le tante guerre inutili che ci son state (pensate che il comandante supremo inglese, lord Raglan, non avrà neanche ben chiaro chi sia il nemico, fino all'ultimo crederà esserlo i francesi, e il suo nome passerà più alla storia della moda maschile, per quella manica che porterà il suo nome, che alla storia militare), avrà se non altro il merito, ma sarebbe il caso di dire il demerito di inventare questo modo "moderno" di rovinarsi la salute. Ora si sa come vanno le rivoluzioni: non c'è dichiarazione ufficiale, come per le guerre. Succede un poco alla volta, quasi senza che nessuno se ne accorga. E noi abbiamo voluto cominciare appunto con questo che sarà chiamato lo «sciopero del fumo».
Come ci si sia trovati tutti d'accordo, questo Capodanno, nel
non fumare più, in giro si dice che probabilmente non lo sapremo mai: forse la
voce è circolata durante le veglie di San Silvestro, di salotto in salotto, di
bottega in bottega. Forse la cosa è stata decisa così, un po' per gioco, un po'
per dispetto, tra coloro che leggevano il primo numero del
Nipote del Vesta Verde,
il rinato almanacco popolare che proprio in quei giorni è apparso, con
contributi del Correnti, del Cantoni, del Griffini e del
Visconti Venosta, Emilio intendo, con la sua canzone dello
"Spazzacamino", che diventerà così famosa. Questo è quello che
pensa la gente, ma non è vero: la so io la verità. So che tutto è
stato organizzato la notte di Capodanno in casa Porzio. Lo so
perché, e mi ritengo un fortunato, in quella casa, quella sera storica, c'ero
anch'io, e da poco avevo conosciuto Giuditta.
Era vicina la mezzanotte e tutti guardavano verso l'uscio. Guardammo anche noi e si vide che entrava, in abito scuro, il Podestà Ferrari protomedico. Spiegai a Giuditta incuriosita chi fosse quest'uomo e volentieri ci unimmo anche noi all'applauso. «Viva il Podestà di Milano» urlò la padrona di casa. «Viva il primo cittadino» aggiunse, forte, un'altra voce. Il Podestà Ferrari veniva avanti pian piano, stringendo le cento mani che gli erano tese, e facendo cenno modesto che cessassero gli evviva. Gli venne in soccorso la padrona di casa, signora Francesca Porzio, la quale lo prese per un braccio, lo accompagnò all'ancor ben fornito buffet, gli mise in mano una coppa di spumante, poi chiese il silenzio e dopo aver guardato l'orologino d'oro, disse: «Signori e signore, la mezzanotte è vicina. Ora noi accendiamo la televisione, sul canale romano... ». «Viva Roma italiana!» azzardò qualcuno, ma fu subito zittito, perché il dubbio che frammezzo a noi vi fosse qualche spione pronto a raccattare broccoli e a portarli al Bolza non ci abbandonava un momento. «Prenderemo il canale di Roma» continuò la signora Francesca a voce più bassa, «e allo scoccare della mezzanotte brinderemo tutti insieme all'anno nuovo. Ciascuno abbia con sé la coppa dello spumante, e i camerieri, i quali brinderanno anch'essi, si terranno pronti a sturare le bottiglie, sì che i botti dei tappi saltati si mescano al rintoccare festoso delle campane di San Pietro». «Viva San Pietro!» urlò l'Acquarone di Sanremo (nel futuro parteciperà ad una gara canora itinerante, il Cantagiro, ed avrà il compito di selezionare voci nuove), che aveva alzato un po' troppo il gomito e infastidiva l'Armanino. Tutti risero.
Accesero il televisore, lo schermo si illuminò, le immagini lentamente
andarono a fuoco, si vide in campo lungo un grande
salone con tanti tavolini imbanditi, poi la telecamera panoramicò fino a
inquadrare in primo piano il presentatore della serata. Era un giovane bruno
dagli occhi piuttosto grevi, con indosso una giacca nera a lustrini e in testa
un cappelluccio conico. Parlava con spiccato accento romanesco.
«Gari amigi bbonasera. Ci droviamo ner zalone delefeste annesso ar deadro dele viddorie in Roma. Siamo duddi gui in addesa dell'anno novo, ghe gi auguriamo liedo ber duddi. Il nosdro reggista inguadrerà dra bogo la ghiesa de zan Giovanni in Laderano, di cui è didolare gome vesgovo de Roma er zando badre, ghe lì sda gelebrando la sanda messa de mezzanodde. Ma indando vediamo le berzonalidà de lo sbeddagolo e de la guldura ghe affollano er zalone... » La telecamera, per nostra fortuna, ricominciò a panoramicare, sfarfallando un poco e mostrandoci questo e quel grosso nome della società capitolina. Rammento che c'era Vittorio Gassman, Pellegrino Rossi, Ugo Tognazzi, don Prospero Colonna, il principe Torlonia, il Generale Aloja in alta montura, qualche mignotta d'alto bordo, e tanta gente che purtroppo non mi sono segnato, e che il presentatore veniva brevemente intervistando. Ma pochi ormai gli badavano; si aspettava da tutti la mezzanotte e la santa benedizione urbi et orbi. Quando finalmente comparve il viso bonario di Papa Giovanni, tutti proruppero in un grande applauso, poi fu il silenzio e con molta compunzione stemmo tutti a sentire le parole latine salmodiate descendat super vos et maneat semper. I sacri bronzi del maggior tempio della cristianità, vale a dire le campane di San Pietro, subito rintoccarono fragorose, i lesti camerieri fecero saltare i tappi di sughero (la plastica nei tappi comparirà tra molti anni), le bottiglie giravano alacri a colmare le coppe, e senza perdere una stilla dell'umore, e fu tutto un tripudio di auguri scambiati, di abbracci con qualche lacrima gioiosa. Le donne baciavano volentieri gli uomini, e a questo punto io debbo confessare che il bacio di Giuditta a me fu qualche cosina di più che un mero sfiorar le labbra con le labbra. Ne fui sinceramente turbato, davvero. Ma mi distolse dal turbamento la voce della signora Francesca, la quale era lestamente salita sopra un tavolino e chiedeva a gran voce il silenzio. Segno che stava per fare una comunicazione importante. «Voialtri, signori uomini, non crediate che il bacio di una donna sia un gesto senza prezzo e perciò senza valore. In una società dei consumi tutto si paga, voi lo sapete benissimo. Ebbene, ciascuno di voi pagherà il prezzo che gli sembri giusto ed equo per il bacio di dama che più abbia gradito stasera. La somma raccolta andrà pro Milano.» Queste parole furono accolte festosamente, anche perché noi intendevamo che cosa significasse pro Milano. I signori uomini misero pronti la mano al portafogli, alcuni addirittura al libretto degli assegni, e ciascuno consegnò la somma alla donna prediletta. Inutile dire che io corsi difilato da Giuditta, le misi in mano diecimila lire e le dissi: «Mi creda, vorrei che fosse un milione». «La credo» rispose Giuditta sorridendo e andò a versare il deca nelle mani della signora Francesca. In brevissimo tempo fu messo insieme un milioncino abbondante, e quando la padrona di casa, sempre dall'alto del suo tavolino, annunciò l'ammontare, fioccarono nuovi applausi. Ma lei, senza scendere giù dal tavolino, fece cenno che il discorso non era ancora finito. «Signori uomini!» gridò, «Signori uomini, attenzione. E anche voi, signore e signorine donne. Fuori le sigarette». «Le sigarette? Ma perché?» chiese qualcuno. «Fuori le sigarette, tutte quante, e basta. Nulla domande. Saprete poi.» Incuriositi, tutti si frugavano nelle tasche, e le donne nelle borsette, tirandone fuori i pacchetti multicolori avvolti nel cellofan. Io mi vergognai un poco, perché fumo le semplici nazionali, che hanno l'incarto grezzo e azzurrino, con da una parte una enne e dall'altra la pubblicità di qualche cosa. Uno per uno andammo a depositare le sigarette sul tavolo, ai piedi della signora Francesca, che continuava a raccomandare: «Tutte, tutte qua. E lei, conte Porro, non faccia il furbo. La legge vale anche per i sigari. Vale per la pipa e vale per il tabacco da fiuto. Qua il macubino. Qua le borsette delle miscele, qua tutto». Il conte Porro andò a posare con un bel gesto l'astuccio dei suoi profumatissimi avana, Carlo Meana chiese se insieme al tabacco doveva lasciare anche la pipa, ma la padrona di casa gli rispose che poteva tenersela, quella, per ricordo della serata. In breve sul tavolo s'era formata una montagnola multicolore e profumatissima. «I nostri poveri avranno di che fumare, stanotte» commentò il Podestà Ferrari, che per l'appunto aveva smesso di fumare, per conto suo, qualche mese prima. «Una bella beneficenza davvero.» «No» corresse la signora Francesca. «No, caro il mio signor Podestà. Stavolta lei si sbaglia e si sbaglia di grosso, perché questa nostra non vuol essere e non è beneficenza.» Tutti fummo perplessi e qualcuno domandò spiegazioni. «Questo tabacco» spiegò la padrona di casa «non andrà in beneficenza. E i nostri poveri neanche loro stasera fumeranno. Come non fumerete voialtri, signori e signore. Non fumerete stanotte e non fumerete più. Con il fumo abbiamo chiuso, e per sempre, o almeno per un bel pezzo. Tutto questo bel tabacco stasera andrà in fumo, ma io vi dico che si fumerà da solo. Ambrogio!», gridò rivolta al più anziano fra i camerieri in polpe, una specie di maggiordomo, «Fate accendere il fuoco là nel caminetto». In breve l'ordine fu eseguito e presto divampò una bella fiamma di legna stagionata. «Ma perché?» chiese qualcuno. «Ma perché questo fioretto? È forse un comando, o un consiglio del Santo Padre?» La padrona non rispose, chiamò attorno a sé alcuni fra i giovani più aitanti, caricò loro le braccia di tutti quei pacchetti, guidò la piccola schiera verso il caminetto e fu lei la prima a rovesciare il fragrante carico sopra il falò. Presero subito fuoco carte e cartoni, poi il tabacco si accese e minacciava d'invadere il salone con il suo fumo denso e aromatico, ma si provvide subito ad aprire completamente il tiraggio. Ecco dunque che davvero il nostro tabacco si fumava da solo, pervadendo della sua ricca fragranza il cielo di Milano. I presenti, donne e uomini, continuavano a non capirci nulla e a guardarsi in faccia l'uno con l'altro, scambiandosi domande sulla strana operazione, domande che per adesso restavano tuttavia senza risposta. Finalmente prese la parola il padrone di casa, come quello che pareva il più adatto alla serietà della spiega. «Signore e signori» disse gravemente: «Nessuno può esimersi, senza suo grande rischio, dal pagare le tasse che sono d'obbligo, ma almeno questo noi possiamo fare impuniti: negare al fisco le contribuzioni del fumo. Voi tutti sapete che per ogni cento lire di sigarette, Vienna ne preleva ottantadue. Non sto a farvi il conto di quello che si fuma ogni giorno a Milano, e di quanto in Lombardia e in tutto il viceregno. L'amico Correnti potrebbe farvelo, questo conto, e magari ve lo farà. Ma le son cifre grosse. E se noi le neghiamo all'oppressore, sarà di sicuro un duro colpo quello da noi infertogli in pieno petto. E non sto a dirvi quanto sarà cospicua la dimostrazione. Un'intera città che dalla sera alla mattina smette di fumare. Da noi parta l'esempio, e si persuada la popolazione a seguirlo. Spargano gli amici medici la voce che, oltre tutto, fumare fa male. E nessuno più fumi. Per parte mia, lo prometto e lo giuro». Quest'ultima frase disse portando la mano al petto. E tutti noi ripetemmo quella promessa e quel giuramento. Giurai anch'io, poi distrattamente misi la mano nella tasca, ci trovai non so come una solitaria sigaretta e l'accesi. Lesta, Giuditta me la strappò di bocca e andò a buttarla nel caminetto. «Spergiuro» mi disse; e poi mi diede un altro bacio, ma sulla guancia. | << | < | > | >> |Pagina 27Da Milano, all'alba del diciannove del mese di MarzoÈ quasi l'alba. Sono a casa di Giuditta, dove ho passato l'intera nottata di un giorno ad un tempo felice e doloroso, una giornata che resterà comunque memorabile, per la città di Milano e per noi milanesi.
So che la polizia mi sta cercando a casa mia dalle parti di Porta Tosa o a
casa Porzio in via della Cerva. Il Radetzky da ieri
sera canta vittoria, perché i milanesi asserragliati dentro al
palazzo comunale hanno alla fine ceduto; canta vittoria il
Radetzky, ma io credo che si sbagli, come ci siamo sbagliati noi,
a cantar vittoria, qualche ora fa, quando abbiamo conquistato il Broletto.
Ora, dopo lo sciopero del fumo d'inizio anno, dopo le risse, dopo i morti, sembrava che i "tedeschi", cioè gli austriaci (o meglio i boemi, i moravi, i croati, gli altoatesini o sudtirolesi, con qualche ungherese per far mazzo), se ne volessero andare da soli, preoccupati anche dal fatto che, dopo Milano, e dopo Parigi, sommosse di popolo erano scoppiate addirittura a Vienna, contro l'assolutismo dell'imperatore Ferdinando I o per meglio dire del suo ministro Metternich. Ai primi di Marzo si sparse la voce che il Ficquelmont, alto funzionario austriaco, mandato apposta da Vienna in missione diplomatica, constatato il fallimento del suo tentativo, era partito con famiglia e bagagli per Bolzano. Era partito il governatore Spaur, era partito il viceré principe Ranieri. «Fanno fagotto, fanno fagotto», si sentiva gridare per le strade. Purtroppo non tutti avevano fatto fagotto. Restava il vice governatore O'Donnell, restavano il Walmoden, lo Schwarzenberg, il Gallas, il Wohlgemuth, il Wöcher, lo Schönsals, insomma l'intera galassia dell'ufficialato austriaco. Restava, soprattutto, il Radetzky con il suo stato maggiore al completo, e con una forza armata di ottantamila uomini, sparpagliata, è vero, in tutto il Lombardo-Veneto, ma che si poteva radunare in poche giornate di marcia. A Milano, di stanza, fra lance e baionette, gli austriaci erano diciottomila, appoggiati da alcune decine di bocche da fuoco. Radetzky era ben deciso a servirsene; a dispetto dei suoi ottantadue anni, delle ferite e delle fatiche di tante guerre (si era battuto, e molto bene, contro Napoleone), aveva serbata intatta la sua mano di ferro, e non intendeva per niente darla vinta a quei «quattro scalmanati» dei milanesi. Dopo di allora, anzi, le cose in città andarono peggiorando. Gli austriaci non volevano cedere di un'unghia, mentre cresceva di giorno in giorno la resistenza di noi milanesi. Ormai nessuno lavorava più, le botteghe restavano chiuse, e vi fu un certo disagio, a cui pose riparo la solidarietà dei più facoltosi. Nelle case dei ricchi la tavola era franca, chiunque salisse e facesse sentire dall'accento che era lombardo, poteva con tutta tranquillità sedersi al desco, anche senza aver dichiarato l'esser suo: almeno un piatto di minestrone e un cantuccio di pane non gli veniva mai negato. So bene che qualche spia riusciva di tanto in tanto a intrufolarsi fra i commensali, e che il duca Dellafia, mio eterno nemico, si travestiva da povero per scroccare e spiare, ma questo aveva poco peso, perché le dimostrazioni si svolgevano ormai allo scoperto, e nessuno si curava di nascondere quale fosse lo stato d'animo generale. Gli austriaci, che come amministratori funzionano benissimo finché tutto va liscio, ma s'inceppano irreparabilmente quando le cose pigliano una piega impreveduta, cominciarono appunto a perdere la testa, e da quei giorni non ne azzeccarono più una. Il 22 Febbraio fu dichiarata la legge marziale, severissima e minacciosa, che comminava pene, legalizzava la brutalità degli sgherri, ingiungeva la consegna di tutte le armi, comprese quelle da caccia, e persino i coltelli da cucina e i tagliacarte che superassero la lunghezza di centimetri quindici. Ora, si sa come vanno le leggi tutte, comprese quelle austriache: quando sono estreme è come se non fossero, e nessuno si cura più di rispettarle né di farle rispettare. Difatti persino la mia padrona di casa a Porta Tosa s'era affrettata a misurare tutti i coltelli e a riporre in luogo sicuro quelli fuor di misura. I cacciatori imboscavano i fucili, gli armaioli chiudevano rivoltelle, carabine e fioretti dentro certi loro armadi a muro, che poi muravano a mattone per ritto e nascondevano con una carta di Francia. In certe case si andavano approntando le cosiddette bottiglie Molotov, così chiamate dal nome d'arte del ministro degli esteri sovietico (in realtà il suo nome vero era Scriabin, come il grande compositore); in altre si impastava il plastico, versando acido nitrico sul cotone idrofilo, per avere il fulmicotone, che poi veniva mischiato alla cera vergine e alla glicerina; si studiavano nuovissimi strumenti per fare le bombe a tempo, e diventarono usualissime quelle con la fiala di acido solforico, rovesciata al momento giusto sopra una lamina di gomma, a corrodere, e se ne poteva calcolare con esattezza la durata della gomma nella resistenza, secondo il grado della tensione. Inutile dire che per la gomma si fece uso amplissimo di preservativi, di cui mai come in quei giorni vi fu più largo spaccio a Milano. I farmacisti lo sapevano benissimo, e ne consegnavano sotto prezzo scatole intere specialmente alle ragazze. «Fatene buon uso, mi raccomando» dicevano con un sorriso. L'inventore di questo tipo di ordigno fu, se la memoria non m'inganna, Giovanni Pesce. Io, da qualche tempo, per mettere insieme il pranzo con la cena, dopo il brusco licenziamento, con poca o punta liquidazione dalla famosa ditta austriaca Filz und Filzelein nella sua filiale lombarda, faccio l'aio di italiano, sì insomma l'insegnante privato, in una casa di nobili milanesi, i Visconti Venosta, occupazione che mi trovò un bel mattino invernale l'amico di sempre Cesare Correnti. Il capofamiglia conte Visconti Venosta era morto da poco lasciando la vedova inconsolabile e inconsolata e tre figli giovinetti di belle speranze, l'educazione dei quali il conte stesso, in punta di morte, aveva raccomandato al Correnti Cesare. Emilio, Giovanni e Enrico erano i nomi dei tre ragazzi e subito fu il mezzano Giovanni che mi sembrò il più dotato dei tre e fu a lui che mi affezionai particolarmente, forse presagendo, chissà come, la grande prova di coraggio e di sentimento rivoluzionario che m'avrebbe dato questa mattina. Da molti giorni ormai i tre ragazzi non avevano più testa per le belle lettere, e neanch'io ne avevo, devo ammetterlo. Tutti eravamo oramai presi dai fatti che stavano accadendo a Milano, sentivamo insomma che sarebbe successo qualcosa di grosso. Insieme ai miei tre pupilli frequentavo spesso anche casa Correnti. A via della Spiga, quasi davanti alla Garzanti Verlag, era un vai e vieni di gente arditissima e commossa: chi portava notizie, chi ne riceveva, chi intraprendeva discussioni sui fatti del giorno, chi passava le parole d'ordine, chi dava il comando delle prossime dimostrazioni. Certo, i raduni non avvenivano solamente alla Spiga, c'erano altre case ancora ben ospitali, c'erano sicuramente due noti caffè, il caffè della Peppina e il caffè della Cecchina, che insieme alla casa del Correnti erano diventati il quartier generale delle dimostrazioni. Le notizie che provenivano dall'estero, di sollevazioni in ogni parte dell'impero, persino a Vienna, e il sangue sparso il 3 Gennaio, avevano fatto sì che quell'agitazione contro gli Austriaci, che era partita dalle classi superiori, era ora scesa fino al popolo. Il terreno era buono, e tutti noi milanesi eravamo sempre fuori casa a discutere e presagire grandi avvenimenti, che nessuno sapeva precisare, ma di cui tutti parlavamo. All'opposto, era il Cattaneo, ingrugnito e spregioso come non mai. Tutti noi lo stimiamo, e parecchio, per i suoi studi severi, ma di prendere parte alla nostra impresa per il momento non ne vuole sapere. Continua a dire che le nostre sono tutte bambate, ragazzate, insiste a dirsi federalista, e vuole cioè una congregazione di stati italiani del Settentrione, restando magari il Lombardo-Veneto sotto gli austriaci, ma con maggiore autonomia rispetto a Vienna. Insomma vuole fare della pianura padana una specie di italica Ungheria, e cita di continuo le libertà di cui si gode su in riva al Danubio, dove la gente va ai balli, i ragazzini parano le oche, gli ussari montano a pelo e mettono le corna a tutta quanta l'ufficialità austriaca. Fargli il nome di Carlo Alberto è come parlargli del diavolo: dà in escandescenze, straparla, inveisce. Che si accordi con il Correnti pare cosa impossibile, almeno per ora, e in questo gli tira la manica il Bocca. I due grand'uomini (perché tali io stimo il Cattaneo e il Correnti) quasi non si parlano più, né si vedono. Servono semmai da tramite certi amici comuni, e la sorte ha voluto che io fossi di questi. Lo sono andato a trovare a casa sua, insieme ad altri, ier l'altro sera, il diciassette, recandogli buone notizie: «Professore» gli ho detto, «abbiamo avuto notizia di tumulti avvenuti in Vienna. Se si muovono lassù, cosa vogliamo fare noialtri?». «È segno che anche loro hanno voglia di ragazzate.» «Va bene, professore, continui pure a credere che questa sia una questione di ragazzi, ma badi bene che sempre le rivolte, come le partite di pallone, le han fatte i ragazzi. Guardi, professore, a Lei il compito di dare le idee, i principi. Lei non ha più scatto, non ha ripresa, a Lei manca il fiato, e tocca ai ragazzi fare le corse con la Gendarmerie. E infatti se a fare le corse con la Gendarmerie ci si trova lei, è chiaro che arriva sempre secondo.» «Perché secondo?» mi ha interrotto severo il Cattaneo. «Perché arriva prima la Gendarmerie.» | << | < | > | >> |Pagina 47L'uso del cannone è stato inutile, qui, ma anche altrove è risultato difficile piazzare le bocche da fuoco e prendere la mira giusta, dentro i Navigli.Anche perché gli artiglieri austriaci sono stati quelli più bersagliati dagli scarsi, ma bravissimi, tiratori scelti di Luciano Manara: in breve tempo sono stati tutti messi fuori combattimento. E le armi degli insorti aumentavano col passar delle ore: ogni nemico abbattuto, infatti, significava un fucile in più. Qualcuno stenta a capacitarsi di come un'armata di diciottomila uomini armatissimi e agguerriti non abbia saputo spuntarla contro una popolazione fin allora inerme e pacifica, guidata da capi improvvisati, come il Manara, come l'Anfossi nizzardo, come il Broggi milanese, che per la verità era stato ufficiale, ma della legione straniera in Algeria. Ebbene, quel che è successo a Milano in questo mese di Marzo – ma non soltanto a Milano, anche a Parigi e persino a Vienna – conferma una verità che può sembrare ovvia, ma che nessuno, neanche nel futuro, ne sono certo, ricorderà mai abbastanza. E la verità è questa verità: gli eserciti regolari sono organizzati, armati, addestrati per vincere le battaglie regolari. I loro generali hanno studiato tutti gli stessi testi, pensano la guerra allo stesso modo: schieramento per quadriglie, fuoco di fila, fuoco di plotone, passo ginnastico, cannoni in batteria, cavalleggeri in perlustrazione, lancieri alla carica. Di queste cose sentiamo parlare leggendo i manuali di addestramento. Segnali con le trombe o coi tamburi. Come si tira di baionetta. Come si contrasta la cavalleria nemica (disponendo i reggimenti in quadrato). Cosa fare quando ci si trova davanti un fosso. Come si controbattono le batterie nemiche. Non si parla, nei manuali per l'addestramento della truppa, e neanche nei libroni di strategia, di tegole piovute dal cielo, di acqua bollente, di carrozze ribaltate, di selciati disfatti. Nessuno spiega ai soldati, ma questo proprio perché i generali non lo sanno, che fare se, come è accaduto in questi giorni a Milano, un insigne astronomo, dall'osservatorio di Brera, osserva le loro mosse col telescopio, destinato per sua funzione a guardare le stelle. Oppure se un pallone di carta, gonfio d'aria calda, reca messaggi fuori della città e invita anche i contadini e i paesani a insorgere. I generali austriaci non ci potevano aver pensato prima, perché prima non esistevano simili strumenti di guerra. Chi ignora le regole della guerra, e fa la guerra, anzi in questo caso la guerriglia, fuor delle regole, contro le regole anzi, del gioco, quasi sempre vince. È come se, durante una di quelle partite di calcio che cominceranno anche dalle nostre parti alla fine di questo secolo, una delle due squadre, ignorando, spregiando le regole del gioco, cominciasse a pigliare la palla con le mani. Vincerebbe. Certo, l'avversario potrebbe sempre protestare, con l'arbitro, che la vittoria è irregolare. Ma nelle guerre non ci sono arbitri che col fischietto impongano il rispetto del regolamento. La storia si incaricherà, poi, di confermarci che le cose stanno esattamente così, anche se non tutti i generali di questo mondo dimostreranno di capire la lezione. All'alba del 19 aveva smesso di piovere; e noi insorti, rianimati, siamo passati al contrattacco, ben decisi a vendicare i nostri compagni caduti prigionieri al Broletto, o uccisi dalle pallottole austriache. Ben presto si è visto quanto poco previdente sia stato il Radetzky, anche dal punto di vista logistico: i suoi centri di rifornimento — viveri, foraggi, munizioni — non erano concentrati in un unico punto, ma, all'opposto, divisi fra il Castello e le varie caserme cittadine. Ha corso il serio rischio di farsi sconfiggere per fame: per questo il giorno 20 si è deciso a compiere un passo davvero umiliante, per lui che aveva detto di volerla far finita subito, coi «quattro scalmanati» milanesi. E cioè ha chiesto un armistizio di quindici giorni, promettendo di adoperarsi presso il governo viennese perché concedesse a Milano e a tutto il Lombardo-Veneto alcune riforme. È toccato a un maggiore croato l'incarico delle trattative. E bisogna dire che vi è stata discussione, entro il comitato insurrezionale, se accettare o no. Ha prevalso il partito del no, e quando il maggiore croato ha avuto questa risposta, con molta lealtà ha preso congedo con queste parole: «Addio, brava e valorosa gente». La lotta è ripresa di nuovo sotto la pioggia, ed ecco cosa ha scritto il Radetzky a Vienna per spiegare i suoi insuccessi: «La città di Milano è sconvolta dalle fondamenta ed è difficile farsene un'idea; non centinaia, ma migliaia di barricate chiudono le strade, ed il partito applica, nell'esecuzione delle sue disposizioni, una cautela e un ardimento che lasciano veder chiaro come alla testa del movimento vi siano capi militari tolti in prestito all'estero. Il carattere di questo popolo mi sembra cambiato come per il tocco d'una bacchetta magica: il fanatismo ha pervaso ogni età, ogni ceto, ogni sesso». | << | < | > | >> |Pagina 68L'inseguimento austriaco tuttavia non è stato molto vigoroso: Radetzky si è limitato a mantenere il contatto coi piemontesi spingendo innanzi drappelli di cavalleria in avanguardia, aspettando, per un nuovo scontro, condizioni a lui più favorevoli. E il nuovo scontro è stato, pochi giorni fa, davanti a Milano, dove da qualche mese governavano gli insorti, che Carlo Alberto teme anche più degli austriaci. È stato il 4 di Agosto, e si è ridotto, se la guardiamo con distacco, a una grossa scaramuccia, dopo la quale i piemontesi si son dovuti ritirare sulla cinta dei bastioni. Ma era perfettamente possibile ripigliare la lotta all'indomani: le forze erano pressoché intatte, i soldati volonterosi di battersi, noi insorti milanesi decisissimi a stare al loro fianco. Il comando ha deciso invece di trattare con Radetzky, tirando a pretesto la scarsezza delle munizioni e dei viveri. La sera di quell'inglorioso 4 Agosto una delegazione di ufficiali piemontesi, accompagnata dai consoli a Milano di Francia e d'Inghilterra, si presenta con la bandiera bianca al comando austriaco e tratta l'armistizio.
La guerra regia è finita, almeno per adesso.
E adesso c'è la persecuzione, d'accordo, e io ne sono un esempio quasi vivente, ma è una persecuzione sempre sorda e speciosa. Chi non dà bastevoli segni di ravvedimento, lo tafanano con i pretesti più vari e più assurdi, incolpandolo dei delitti più incredibili: evasione fiscale, omessa denuncia dei redditi, porto d'arme abusivo, sosta vietata, vilipendio della religione, oltraggio al pudore, abigeato e via discorrendo. Lo so benissimo io, che pure ho taciuto per un po', sperando magari nel cosiddetto reinserimento. Lo so per via delle tante e inique vessazioni che mi infliggono, tante e tali da indurmi, adesso, a impugnare la penna e a raccontare i fatti. Se queste pagine avranno mai l'onore della stampa e la fama che da essa possa loro derivare, esse costituiranno il primo contributo, sia pure di tipo meramente letterario, di parte italiana, alla storia di quella italianissima rivoluzione.
Rivoluzione che andò fallita. Le cause del fallimento le esporrò
altrove, in un ampio studio critico documentatissimo, per il
quale mi servirebbero tempo e moneta. Anticiperò qui una breve analisi di dette
cause. Diciamo pure, e subito, che la rivoluzione milanese è stato un moto
spontaneo, anche se a lungo
covato, e di natura interclassista, perché vi hanno preso parte
tutte le categorie di cittadini, urbane e provinciali. È stato, questo sì, un
moto imprevedibile e imprevisto, sia dagli insorti che
dagli oppressori. E perciò è stato tanto più fortunato nelle sue
prime fasi, fino a che, voglio dire, è durato l'imprevedibile. In
cinque giorni abbiamo abbattuto il potere, spuntandola su un
esercito di diciottomila uomini. Ma sono stati commessi alcuni sbagli che non
esito a definire esiziali.
Il primo sbaglio è stato di natura filosofica: quello di credere che alla rivoluzione debbano necessariamente seguire nuove istituzioni di governo. Credere che la rivoluzione possa e debba dar luogo a un ordine nuovo, e così resistere. La rivoluzione, se vuol resistere, deve restare rivoluzione. Se diventa governo è già fallita. Se chiama i cittadini alle urne perché eleggano i loro capi, addio. Non è la prima volta che succede, nella storia del mondo, e neanche sarà l'ultima: dovunque la rivoluzione ha cessato di essere permanente, là è ritornata la tirannia. E non è neanche vero che la rivoluzione (e quella milanese più delle altre) voglia dire il caos. Questo lo dicono e lo ripetono di continuo gli amanti dell'ordine, vale a dire i tiranni. All'opposto, la rivoluzione milanese ha saputo darsi, spontanee, le sue norme di vita, ha saputo trovare dentro di sé i mezzi per trionfare e per resistere: si sono reperite le armi, si sono erette le barricate, si sono escogitati modi nuovi di assalto, la popolazione si è sostentata benissimo. Non uno è morto di fame. Non un solo furto si è avuto a lamentare, fino a che rivoluzione vi è stata. I ladri han ricominciato a rubare non appena è stato ristabilito il rispetto della proprietà. Persino la prostituzione era spontaneamente quasi cessata. Insomma Milano, durante le cinque giornate, è stata una città funzionante e in modo egregio. La disfunzione, daccapo, è ricominciata non appena si son voluti rimettere i funzionari, sia pure nuovi, sia pure nostrani, al posto di quelli vecchi, nemici e stranieri. Il secondo sbaglio è stato di natura non più politica, non più filosofica, ma diciamo pure tattica. E cioè si è commesso un grosso errore nella scelta degli obbiettivi. Voi pensate che cosa han voluto occupare e tenere, gli insorti: il Broletto (dove si paga l'ICI, la TOSAP e la Nettezza Urbana), il Palazzo del Governo, quello del Genio, le caserme intestate ai santi, il Castello, l'Università. Un'analisi di questa scelta degli obbiettivi, a Milano e dovunque, ci consente di riconoscere il momento infantile della rivoluzione. La massa del popolo, l'accorrere alle bandiere, l'assalto ai simboli dell'oppressione, la loro conquista. E nemmeno a tutti: non vi sono stati, per esempio, assalti ai manicomi, o alle prigioni, che sono, anche loro, i simboli del potere duro. Un rivoluzionario adulto non ha mai commesso sbagli di questo tipo, no. Non così si comporterà Giuseppe Stalin, rivoluzionario adulto, anche se poi diverrà a sua volta un funzionario, e la rivoluzione non saprà impedirglielo. Non così Giuseppe Garibaldi, rivoluzionario adulto anche lui, che funzionario non diverrà mai ma si lascerà irretire da altri funzionari, e del resto non potrà fare ogni cosa da solo. Analoghi errori del genere di cui stiamo parlando, errori cioè determinati da infantilismo tattico li commisero, semmai, il Carlo Pisacane e più tardi, sul suo esempio, li commetterà il dottor Ernesto Guevara. L'uno e l'altro faranno la triste fine che tutti sappiamo, abbandonati ambedue alla ferocia degli sgherri da quegli stessi villani che avrebbero dovuto insorgere per loro e con loro. Essi si son posti come obbiettivo primo l'occupazione delle campagne, figuriamoci, e proprio nel momento in cui i contadini le stavano abbandonando. L'errore principale determinato dall'infantilismo tattico è appunto questo della cattiva scelta degli obbiettivi primari: municipi, palazzi governativi, uffici del catasto, chiese, caselli del dazio, università. Tutti obbiettivi puramente simbolici. Un rivoluzionario adulto occupa innanzi tutto (qui faccio l'esempio milanese, che meglio mi calza) occupa dunque la Handelsbank, la Kreditbank, persino la Volksbank, quella che oggi sorge al posto dell'antico Palazzo del Genio. Così farà infatti Giuseppe Stalin, specialista di attacchi ai convogli zaristi carichi d'oro. Così farà anche Garibaldi, a Marsala, a Salemi, a Palermo, dappertutto. Il primo segno della maturità operativa di una rivoluzione (ma non soltanto operativa, anche ideologica, perché dietro una scelta tattica c'è sempre una convinzione meditata) è proprio questo: se essa occupa innanzi tutto le banche, gli istituti di credito cittadini, dal primo all'ultimo, essa è una rivoluzione matura. Lasciate perdere broletti, palazzi del governo e anche le università, ragazzi, pensate alle banche. | << | < | > | >> |Pagina 125La presa di Palermo è stato un fatto tattico incredibile, che molti faticheranno nel futuro a comprendere.Giuseppe Garibaldi è riuscito, con ottocento settentrionali scalzi e tremila picciotti arrembanti, a prendere Palermo, una città difesa da ventimila uomini, con navi, fortezze e cannoni, perché è un dilettante. I dilettanti sono sempre meglio dei professionisti, in qualsiasi campo e quindi anche sul campo di battaglia. Tra sei anni, Alfonso Lamarmora, Generale professionista, riuscirà a perdere una battaglia come quella di Custoza, dove gli italiani saranno tre volte più numerosi dei loro nemici. Luigi Cadorna, altro Generale professionista, riuscirà nella prima grande guerra del prossimo secolo a perdere tredici, dico tredici, battaglie sull'Isonzo, con morti a decine di migliaia. Nella stessa guerra, un sottotenente di fanteria tedesco sfonderà il fronte italiano a Caporetto. Sarà ancora un dilettante, in quegli anni, quindi potrà capire le cose, si renderà conto che non è assolutamente necessario occupare le alture, come avranno invece insegnato ai generali professionisti, ma che si potrà anche sfilare bellamente a valle e prendere gli italiani dal di dietro. Poi il sottotenente, che si chiama Rommel, diventerà professionista, sarà fatto Generale, vincerà alcune battaglie, ma credo che perderà la seconda grande guerra del prossimo secolo. Garibaldi è e rimarrà un dilettante; tra due anni il presidente degli Stati Uniti Abraham Lincoln gli offrirà il comando di un'armata nordista. Il Generale rifiuterà, perché ha già in mente l'impresa di Aspromonte. Non si sarebbe comportato certo così un Generale professionista! | << | < | > | >> |Pagina 140Col figlio e pochi altri vegliarono fino a notte all'hotel Gran Bretagna: erano le due quando fecero venire tre carrozzelle di piazza che li menassero al porto. Aspettarono giorno a bordo del Washington, poi salirono in una lancia e andarono a trovare l'ammiraglio Mundy. A bordo dello Hannibal egli li ricevette proprio nella sala dove a Palermo s'erano incontrati con i parlamentari borbonici. Conversarono a lungo, poi Garibaldi firmò il registro dei visitatori e prese congedo. I marinai inglesi avevano le lacrime agli occhi, e quando il Washington levò le ancore, furono le salve dei loro cannoni a dargli l'ultimo addio.Andavano a Caprera: compagni di viaggio gli furono il figlio Menotti, il segretario Basso, Fruscianti e Gusmaroli, l'ex parroco. Con sé Garibaldi portava un sacco di sementi, qualche libbra di caffè e di zucchero, una balla di stoccafissi, una cassa di maccheroni e poche migliaia di lire «risparmiate, senza che ei lo sapesse, da chi gli teneva i conti».
Da garibaldino, da uno che ha combattuto, rischiando la vita, e
vedendo morire tanti compagni valorosi, per liberare questa parte della nostra
Italia, mi chiedo adesso se tutto non vada a finire
nel peggiore dei modi. I Piemontesi hanno fatto l'annessione e
presto sostituiranno lo stato borbonico con la loro burocrazia piemontese poco o
punto efficiente. Oggi Napoli è la più grande
città d'Italia, una delle maggiori d'Europa, la più industrializzata, –
Garibaldi è arrivato a Napoli con il primo treno d'Italia – si sta addirittura
delineando un triangolo industriale Napoli-Avellino-Salerno, potrebbe nascere
presto una Cassa del Settentrione e funzionare benissimo. I Piemontesi, temo
fortemente, rovineranno tutto, umilieranno questa parte d'Italia, questa città
di Napoli, fatta più di cervelli che di cuori, la costringeranno
invece a diventare solo la capitale del cuore, del mare, del sole e
la Mecca delle "chiagnazzate", complici ovviamente i napoletani
di seconda e terza categoria: i poeti, musicisti e parolieri. La
nascente borghesia del Nord imporrà alle masse contadine il
prezzo dei suoi privilegi. Alle masse meridionali non resterà che
la via dell'insurrezione e della guerriglia: la strage che ne deriverà
reclamerà un numero di morti nettamente superiore a quelli di
tutte le guerre risorgimentali: sarà la nostra guerra di secessione,
come in America, e anche da noi la vinceranno gli yankees.
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