Copertina
Autore Emmanuele Bianco
Titolo Tiratori scelti
EdizioneFandango, Roma, 2010, Galleria , pag. 262, cop.fle., dim. 14x21x1,6 cm , Isbn 978-88-6044-149-2
LettoreFlo Bertelli, 2010
Classe narrativa italiana
PrimaPagina


al sito dell'editore


per l'acquisto su IBS.IT

per l'acquisto su BOL.IT

per l'acquisto su AMAZON.IT

 

| << |  <  |  >  | >> |

Indice


1.
La pensione integrativa di Shitzee
I palazzi
Shitzee                                              9

2. Il quartiere, zona nostra
Alvaro
Alvaro                                              18

3. Il Corso secondo Fiaba e Maurizio
Storie di sabato pomeriggio
Maurizio                                            28

4. Guido
Irene
Guido                                               40

5. Gregory
Un giovedì sera in Trincea
Gregory                                             46

6. Trincea — Amsterdam
I paesi per Alvaro
Red light district
Alvaro                                              59

7. San Marco
Storie di calcio amatoriale
Qasba Football Club                                 68

8. La più bella donna del mondo è una puttana
Tum tum-tum tum-tum tum
Guido                                               81

9. Scogli
In Coca veritas
Tutti in riga
Alvaro                                              88

[...]


 

 

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 9

1. La pensione integrativa di Shitzee

I palazzi

Shitzee


Le strade che scorrono sotto i palazzi evaporano umanità. Sono grigie e cupe, ingombre di macchine, mondezza e persone. Dai balconi, come fiori di loto, s'ammassano le paraboliche delle televisioni a pagamento. Dalle finestre, appesi a sbilenchi fili di nylon, prendono aria i capi firmati messi ad asciugare. I palazzi vedono: nel chiaroscuro, come misantropi silenziosi, gli abitanti vegliano il respiro di cemento del quartiere. Quelli agli arresti domiciliari fumano sereni, appoggiati ai parapetti dei balconi, con la faccia di chi è in confidenza con la propria sorte. Buttano i mozziconi di sotto, senza curarsi di nulla. E piovono filtri accesi, assomigliano a stelle cadenti. Desideri inespressi che ci cascano addosso senza indulgenza. Stelle che precipitano su questi due che sfrecciano su un motorino scarenato, senza casco, con marmitta e motore truccato. Sgasano per le strade del quartiere, costeggiando come formichine i palazzoni alveari. Dalle finestre qualcuno litiga, urla per scaramucce di soldi. E chissà quanti altri, troppo in alto per sentirli da quaggiù. Piombano, le stelle accese, su questi due che smascellano e hanno gli occhi di porcellana per la troppa cocaina. Diciassette anni al massimo, con cinquanta euro in tasca e altrettanti nel naso si sentono dio. È sufficiente questa miseria per annientare un essere umano: un aerosol da cinquanta euro. Stelle minacciose su di me, col naso per aria a spiare fin dove arriva lo sguardo, nella babele di lampadine accese, la stanzetta da convento in cui vive Max.

Il suo palazzo, come tutti quelli qua in zona, è di quelli tirati su. Cemento che sale fino a bucare un cielo caliginoso. La facciata esterna, talmente grande da mozzare il fiato, eppure così fragile, un albero un tempo maestoso. Ora, solo la testimonianza del boom industriale del dopoguerra. Solo la quotidiana esposizione al degrado che negli anni ha rinsecchito i rami, dissanguato le radici e sfigurato la corteccia. Ogni tre finestre un balconcino, ogni tre balconcini un piano, e così via, da Sud a Nord, per dodici piani. È un complesso di sei palazzoni che si intersecano tra di loro, della stessa forma, della stessa dimensione e dello stesso miserabile colore: un'imitazione cinese del terra di Siena. Ora, solo alberi cavi, secchi, malati; morti. I muri d'accesso, tutto intorno, sono coperti dalle scritte dei writer, dalle loro sigle, scarabocchi perlopiù neri. Sei casermoni per dodici piani per sei appartamenti fanno quattrocentotrentadue loculi da cinquanta metri quadri. Quattro persone per ciascuna nicchietta, millesettecentoventotto vite. Quanto un paesino. E ce ne sono a decine di boschi simili, ogni strada ha il suo, tutti i quartieri ne hanno uno. Vita, vita, mille volte vita, dentro a quegli alberi morti; in qualsiasi momento, di un qualunque giorno, vita. L'alba... l'alba nei mesi da marzo a settembre è sempre di chi esce per lavorare. Il mattino se lo spartiscono le donne, gli studenti e gli anziani. Le donne, mercati e fila alla posta. Gli universitari, nottambuli a caccia di colazione e spinelli. Gli anziani, vagabondi nell'ora d'aria. Nel primo pomeriggio, invece, ecco fare rientro le scuole superiori e medie, e, subito dopo, i bambini delle elementari, con il codazzo di adulti di ogni età. Giusto il tempo di posare la cartella a casa, compiti né mo' né mai, e giù, per le scale, fiondati nei cortili del bosco ammalato di vita e di morte a giocare col pallone, o a nascondino, o con la bici. Fino alla sera, quando quelli usciti all'alba tornano. Poi il buio. Il buio è di chi se lo prende: di chi porta a pisciare il cane, di chi rientra dalla palestra col culo ogni notte più sodo, di chi passa la serata a fumare una canna dietro l'altra, o di chi, semplicemente, viene per incassare un amore di dieci minuti. Il buio è di chi se lo prende: di quelli parcheggiati "a tutto volume", di quelli senza qualche rotella e di quelli che si perdono.

È nel buio, soprattutto nel buio, che vado a rifornirmi. Vado ai palazzi una volta alla settimana, ma non è la regola, in certi periodi, sotto Capodanno, o prima delle vacanze estive, ad esempio, è bene fare un po' più di scorta, che tanto quella che c'è va sempre via. I palazzi sono lerci, unti. Attraverso il cortile, supero la scala C e la scala D e faccio per entrare nella F. Il solito mondezzaio, sacchi neri a montagna, vecchie lavatrici arrugginite, lampadari, sedie, giocattoli, sgangherate reti del materasso, televisori. L'estate, ai palazzi, c'è odore di putrefazione, di fogna. Nel portone c'è uno che ho già visto altre volte. Non saprei dire nulla di lui, solo che è molto simile a me. A tutti i miei amici. Ci fissiamo, come in attesa.

"Tutto a posto?"

"C'è puzza di fogna..."

L'ascensore è stretto, lo specchio è rotto, le porte si aprono e si chiudono automaticamente. C'è odore di fumo, la lampadina sfarfalla e non s'accende mai. I tasti dei piani sono sbiaditi, più di tutti il nono. È lì che vive Max.


In casa di Max tutto è come sembra. Anche lui, la sua pancia, suggerisce comode riflessioni sul suo lavoro di ristoratore. Max è calabrese, reggino. Il suo ristorante si chiama "D.O.C. di origine calabrese". Lavora soprattutto per altri calabresi come lui, che, qui al Nord, vengono nostalgicamente a rievocare pranzi di famiglia con tavolate dei piccoli, la prole trasversale di cugini, fratelli e sorelle che ancora non sono in età per sedersi davanti a un bottiglione di vino.

I piatti forti sono gli antipasti: salumi, formaggi e verdure. Il gusto è rigorosamente piccante. Lavoravo per lui fino a qualche tempo fa, ero il cameriere del "D.O.C.". Questa sera, in modo particolare, riceverò la liquidazione. Max fa arrivare tutto dalla Calabria e tutto dalla sua famiglia. I salumi di maiale, i vasetti di funghi, melanzane, pomodori; i formaggi di capra e pecora, anche quelli freschi, tutto è spedito con regolarità dalla famiglia. In modo particolare la ricotta. Potrebbe morire senza ricotta, Max, non faticherebbe di certo a uccidere. Perché me la racconta sempre questa storia. Della ricotta fatta in casa, che proprio non c'è paragone. Dell'attesa che ha significato essere piccoli e vivere di quelle suggestioni, aspettando, mi dice sempre Max, aspettando sempre qualcosa. S'aspetta che la ricotta venga, che venga il garzone, l'ospite, che qualcuno si alzi.

Per molta gente, per Max, questo è uno dei motivi per il quale conta vivere. Lasciando perdere molte altre faccende, si vive perennemente nell'attesa che qualcosa si sblocchi. Vale aspettare, tanto quanto dedicarsi, per Max e per quelli che come lui conoscono le necessità del tempo. Una fetta di quel pane e di quella ricotta, così, in quel modo: in uno stanzino dove una ragazzina di sedici anni mescola il siero in ebollizione, una vecchia di ottanta anni avanza minacciosa verso il pollaio, acchiappa un gallo, gli tira il collo e lo appende al filo del bucato con uno spago; un garzone del panificio lancia due colpi di clacson e scarica una cesta, il vecchio si alza tra bestemmie e preghiere, aspetta che il nipotino gli metta le ciabatte ai piedi, scende, con una canotta bianca e un paio di calzoni da lavoro, con ancora le foglie delle surache appiccicate dalla resina e la terra delle patate incollata alle scarpe; e affetta una pagnotta impiegando due minuti, esattamente il tempo necessario alla ricotta per venire, la ragazza immerge le 'huscelle nella vasca cocente del siero e l'ospite spalma la ricotta sul pane; il vecchio versa il siero caldo sul corpo del gallo appeso e la vecchia, insieme al nipotino, iniziano a spennare. In quel modo, quel pane e quella ricotta, rappresentano il riscatto dai mali quotidiani, lo svincolo da numerosi acciacchi subiti, nel corpo e nello spirito, senza avere avuto la possibilità di reagire. Quel pane e quella ricotta sono la giustificazione ai suoi cinquanta metri quadri, alla sua vita di solitudine. Sono la difesa a ciò che fa. Non un pezzo da novanta, Max, ma da un bel giro: circa un chilo alla settimana, ma non è la regola. Ha molti soldi e li spende quasi tutti. Molti li fattura direttamente alla "D.O.C. S.r.l.", per le forniture. Non chiede sconti, la merce è buona, i maiali sono allevati nella baracca, all'antica; sua sorella sta per partorire un altro bel nipotino, mi dice, bello come gli altri due, maschietti, dice sorridendomi e mostrandomi le foto. Questo è Vincenzo, dice porgendomi un piatto riscaldato sul gas della cucina, e questo è Attilio. Ha voglia di parlare il mio amico Max, la pelle e il cervello dissipati dalla cocaina e da una leggera influenza, dice. È la terza riga che ci facciamo in appena un'ora. Abita da solo, Max, con la sua pancia grassa e la sola compagnia del bosco ammalato di vita e di morte. Vive a stretto contatto con millesettecentoventotto vite. Vive a pieno la sua giornata, dal mattino presto, quando si reca al ristorante perché non ha nessun posto dove andare quando la sua nicchietta diventa insopportabile, fino al buio. Se l'è preso, il buio, Max, attendendolo, con pazienza collaudata. Fuma in continuazione, una sigaretta via l'altra, senza lasciarsi qualche boccata d'aria. Quando parla dei nipotini scoppia di bello, come se non ci fosse la coca a irrigidirgli l'animo prima che il fisico. Come se questa quarta striscetta, l'ultima giuro, mi dice, poi ti libero, non gli scalfisse il cuore più di una risata. Questa, mi dice, dando sfogo a un album di fotografie che tiene sul tavolo, questa è già una zoccoletta. A Natale mi chiama e mi fa: zio, quando te ne vieni? Tra poco, tra pochi giorni. Ah, fa lei, e quando scendi me la porti la Wii? Tu puoi capire..., ci dissi: e chi cazzu e 'sta Wii? È un gioco, come la Playstation, però è più bello... statte a sentere: ce la compro, ci compro pure qualche gioco assieme e ce la spedisco il giorno stesso. Dopo due giorni mi chiama mia sorella e mi passa a mia nipote che mi ringrazia, mi dice di venire presto, che mi vuole tanto bene... e io giustamente sono contento. Lo vuoi sapere quante volte mi ha chiamato da Natale? Zero, nemmeno una volta! Ascolto i racconti di Max, perché, se hai voglia di guardare, qualcosa la trovi in tutto. Magari è una bambina, quella magari non ci pensa, dico. Mica è tanto bambina, quindici ne ha fatti quest'anno... poi sempre ce lo dico che deve parlare italiano, e lei niente, capidicazzo e tosta parla in dialetto... e vai a farcelo capire... Rosaria, bella di zio, guarda che le signorinelle per bene parlano italiano, e lei, cosa fetusa, niente...

Mi alzo dalla sedia, le gambe non sembrano le stesse di un'ora fa. Ho dolore nei muscoli, muovo in maniera microscopica le dita delle mani, mi trema il naso e ogni cosa catalizza la mia attenzione.

"Senti", mi fa Max, "dovresti farmi 'n ambasciata."

"Certo, Max... qualunque cosa..."

"Andiamo al ristorante..."

Il D.O.C. è vicino ai palazzi. Dentro ci sono i soliti due o tre calabresi che stanno mangiando un piatto di linguine con la 'nduja. Max li saluta e mi porta con sé in cucina. Prende due scatoloni pieni di generi alimentari.

"Questi lasciaceli alla Caritas, così come sono."

Mi dà anche un sacchetto, sorridendomi. Dentro c'è la mia liquidazione. È la solita fornitura settimanale: un etto, ma non è la regola. Solo che per questa settimana salto, non la pago.. Questa è più di una liquidazione dell'INPS. Un etto che diventa un etto e mezzo, che fanno circa trecento palline da zerocinque, cioè trecento fogli arancio con su scritto cinquanta.

Questa è la mia luna, INPS, un sasso bianco. Non i tuoi spiccioli che non mi serviranno neanche a pagare una casa di riposo. La mia pensione si tira nel naso.

"È solo per questa settimana, la prossima la paghi!"

"Certo, Max, certo... grazie!"

Carico gli scatoloni nel portabagagli e imbosco la liquidazione in mezzo alle palle. Dal ristorante non è molta strada, ma non si sa mai, qualche sbirro in vena di perquisa c'è sempre. Ripasso per i palazzi, dalle fondamenta nell'inferno e l'attico nel buio, nel grigio. INPS, la mia pensione si chiama cocaina. Ma non solo.

Per te la cocaina si chiama al massimo polvere bianca, coca, bamba, per i tuoi solo droga, ma è brutto mettersi in bocca certe parole. Io l'ho sentita chiamare in mille modi, perché è il mio lavoro: svelta, falopa, neve, cocco, botta, scaglia, merce, bianca, bamba, musica, la white, barella, bonza, lella, raglia, sgray, pallina, colpo, pezzo, riga, pietra, pappa, amido, gesso e mamma. L'avrai vista tirare, nei film, dai tuoi amici, di sicuro te la fai anche una botta ogni tanto. Io ho visto gente che fuma abitualmente la base, altri che se la mangiano, facendo nevicare, spolverando barella da un colino con trama ultra sottile, come zucchero a velo, su una fetta di ciambellone; gente che se la schizza direttamente nel sangue; altri partire per la Bolivia e la Colombia col solo scopo di farsene fino a scoppiare e masticare qualche foglia, cosa che poi, i pastori delle Ande, fanno da centinaia di anni. Fa passare l'appetito, trasmette instancabilità e benessere: aumenta le energie e la voglia di parlare, causa tremori e dilata le pupille. Ci trasforma in corde di violino logorroiche, sensazione che noi scambiamo spesso con un'altra: quella di essere rampolli urbani di Dio e della sua compagna. Causa aggressività, ansia, paranoia, dipendenza psicofisica; aumenta la pressione del sangue, causa emorragie cerebrali. Con il tempo subentra il rischio d'impotenza, danni irreparabili al cervello e allucinazioni, depressione, ansia, attacchi di panico, psicosi, paranoie, schizofrenia. Se assunta insieme all'alcol, cosa che si verifica puntualmente, per ammazzare la scimmia: la voglia intensa di spararsi un altro colpo; si produce una molecola anche mortale: la cocaetilene. E poi ci sono le mani inguantate dei medici, a esercitare una disperata pressione sul torace di Dino. La respirazione artificiale, il polso morto, il respiro immobile. Il viso sudato e lattescente; ci siamo tutti noi, vestiti di nero, a lanciare fiori colorati sul legno della bara.

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 18

2. Il quartiere, zona nostra

Alvaro

Alvaro


In questa città mangiano, dormono, piangono e cagano ottantamila cristiani. Trentacinquemila famiglie. Quattordici chilometri quadrati, seimila cristiani per chilometro. Se tutte le persone di questa città scendessero in strada, ognuna avrebbe a disposizione meno di sei metri. Giusto lo spazio per fare aerobica sul posto, di più si sbatte coi vicini. Esigenza di costruire sempre più in alto; necessità di vivere in cinque, in sei, in otto, in cinquanta metri quadrati. In quartiere si vive anche dentro a ex esercizi commerciali su strada, con la gente che quando va a dormire abbassa la saracinesca come se chiudesse un panificio. I bassi vengono affittati soprattutto a extracomunitari, che s'adattano come una volta s'adattavano i meridionali. Impossibilità a trovarsi tutti nella stessa stanza, in quartiere. Dividere una famiglia all'interno della propria casa. Esigenza del movimento perpetuo, degli spazi che si scambiano, si prestano, si mischiano; dell'alzarsi per lasciar passare tuo fratello, dello schiacciarsi contro il muro per far largo a tua mamma, dello stabilizzare i bisogni fisiologici in orari ben precisi. Cresci che sai già molto della vita, perché in casa ne hai talmente tanta e diversa. E fuori, fuori c'è gente come te, che ne sa a pacchi come te e vi scambiate il codice delle esistenze, di continuo, naturalmente. Cresci sapendo che le donne sanguinano una volta al mese, cresci sapendo che c'è la droga, le malattie, la politica; i film western, le telenovela; le università; che c'è il porno, che c'è gente disposta a leccarsi; sai che ci sono le botte e le urla dei vicini, che la povera Lucia ha il marito in carcere, il fratello in carcere, la mamma morta e il padre, appena uscito dal carcere, che la trascina per i capelli sulle scale del pianerottolo come fosse un sacco di concime; cresci credendo che il Nord non esista, anche se ci vivi, perché intorno, tutto ciò che vedi, ti parla esattamente un'altra lingua: napoletano, pugliese, calabrese, siciliano, e capisci tutto, perché non hai mai sentito qualcosa di diverso; cresci intuendo che tua sorella s'è già leccata con qualcuno e giuri che quando sarai grande gliela farai pagare, a lui; e poi cresci, cresci in palestra, tutti i giorni, con tutti i tuoi amici, a farti un culo così sollevando stupidi bilancieri carichi di dischi, mangiando uova, tonno al naturale, carne e bresaola, facendoti dei beveroni così di creatina, perché serve minimo un quaranta di bicipite, altrimenti non conti così tanto; cresci e un'altra sorella si lecca con un carabiniere e a quello gliela fai pagare alla prima occasione, eccome se gliela fai pagare, a lui e alla carrozzeria della sua golf nuova; e quando cresci così, come feto tritato nel maelström incessante del Sud, comprendi che la sola cosa che vale è quella in cui credi, alla quale senti di dovere rispetto. Quando si lotta con lo spazio e si vive a stretto contatto con tutto, non puoi che pretendere di più. C'è molta più intimità, più contatto, nella mia città. Ci sono molti più odori, sensazioni, umori, nella mia città. Nei trent'anni dal '51 all'81 la popolazione è passata da quindicimila a ottantunomila abitanti. In quei trent'anni, ogni santo giorno di quei trent'anni, più di sei persone approdavano qui, aspirando alla fabbrica. Arrivavano dal Sud senza un bel cazzo di niente, neanche in quella valigia che si portavano appresso. Ogni giorno, per trent'anni, più di sei persone iniziavano a lavorare nelle grandi acciaierie, nell'edilizia. Erano in gran parte uomini, e le loro donne finirono allo stato, impiegate come bidelle, sportelliste, segretarie, maestre. La nostra città non era nulla prima di quegli anni. Il Nord non era nulla prima di quegli anni. Gli Stati Uniti, l'Argentina e la Germania non erano nulla. Il dopoguerra non sarebbe stato lo stesso senza quegli uomini e quelle donne disposte a lasciare tutto e niente. Senza quei cristiani cresciuti come noi, come feti nel maelström incessante del Sud. Questo quartiere sarebbe stato diverso. Il nostro quartiere. Una colonna di cemento con una croce di ferro battuto come corona, un monumento d'arte povera a perenne ricordo della peste del milleseicento. Il nostro è stata l'unico quartiere a essere risparmiato dall'epidemia. Una vocazione di predestinati, di gente intoccabile.

Il sottofondo è inequivocabile, e crescente. Dapprima era poco più di un flebile ronzio, poi s'è trasformato in un bisbiglio metallico sempre più riconoscibile e ora, girato l'angolo, i quattro altoparlanti da duecento watt e i due subwoofer scandiscono in modo limpido la tiritera.

"È arrivato l'arrotino! Arrota coltelli; forbici, forbicine, forbici da seta; coltelli da prosciutto..."

Da noi l'arrotino si chiama Daniel, è peruviano, ha una Mini Cooper rossa e arrota, con la sua mola affilatrice, coltelli, non proprio da prosciutto, un po' in tutti i quartieri. Ogni tanto qualcuno di noi gli porta il suo.

"...donne, è arrivato l'arrotino e l'ombrellaio. Aggiustiamo gli ombrelli, l'ombrellaio, donne..."

Rompicoglioni l'arrotino Daniel, che adesso starà fermo all'angolo almeno per mezz'ora con questo ritornello. E io sto preparando un esame. Non è uno scherzo studiare economia, serve applicazione. Alvà, chiama mia madre intenta a stirare. Vuole che vada da Daniel a fare aggiustare un ombrello. È un ombrello dei cinesi, mà, che vuoi aggiustare? Fai prima a comprarne un altro, dico. Ma perché, fa seria seria, se si può riparare perché lo devo buttare via? Cristo, mà, è un ombrello da tre euro, secondo te spendi di meno per aggiustarlo? Ma tu scendi lo stesso a chiedere, no, che ti costa? Per evitare questioni scendo lo stesso a chiedere, che mi costa? Scendo direttamente in ciabatte e pantaloncini, con le calze. Senza neanche mettere la maglia, a torso nudo, oggi il sole picchia. In quartiere si può questo e altro. Saluto Daniel, che appena vede l'ombrello, marca Super Mini, mi para davanti una trentina di ombrelli di vari colori, nuovi di zecca. Ce l'hai nero?, chiedo. Certo, ce l'ho di tutti i colori. Prende un Super Mini nero, nuovo nuovo, stacca l'etichetta, lo apre un paio di volte per provare che tutto funzioni. Tre euro. Pago, compreso nel servizio c'è anche il ritiro di quello rotto. Ma non puoi abbassare questo cazzo di volume, sto cercando di studiare. Mi dice che non è possibile e mi chiede se posso procurargli una pallina al volo. Oh zio, dove sei? No, per l'arrotino. Bella, ci vediamo stasera. Arriva, aspettalo qui, però abbassa questa cazzo di filastrocca. Adesso abbassa, lo schifoso peruviano. Me ne risalgo, devo pure sorbirmi le prediche di mia mamma. Hai visto, te l'avevo detto che l'aggiustavano. Quanto ti ha fatto pagare? Tre euro. facevamo prima a comprarne un altro. Eh sì, tanto voi buttate tutto... buttate e comprate nuovo, comprate tutto nuovo... non hai preso neanche un'unghia da tuo padre. Lascio correre. Mi rimetto a studiare, cercando di isolarmi.

"...ripariamo cucine a gasse, abbiamo i pezzi di ricambio per le vostre cucine a gasse..."

Fanculo alle cucine a gasse.

Mio padre è andato in cassa integrazione otto anni fa, poi in pensione. Faceva il metalmeccanico, l'ha fatto per quasi quarant'anni. Adesso lavora in nero, fa il fattorino per una concessionaria della Fiat. Il suo capo è donna, lui lavora per otto ore al giorno, le risolve tutti i cazzo dei problemi. Se si rompe una porta: chiamate Antonio; se lo scarico del cesso è intasato: chiamate Antonio; mio figlio atterra all'aeroporto di Bologna: mandateci Antonio, e così via. Mio padre ha sessantacinque anni e fa tutto questo per cinquecento euro al mese. Non torna a mangiare a pranzo perché ha solo un'ora di pausa. D'altro canto, non mangia in nessun altro posto. Considera un sacrilegio regalare i soldi a bar e tavole calde durante la pausa pranzo. Sa come fanno dieci euro a saltargli in tasca, figurati se va a sputtanarseli per un pranzo. Si porta i panini da casa, li prepara la sera prima, due di solito, uno col cotto e uno con la mortadella. A volte, per cambiare, una fetta di emmental o di provola silana. Sono quattro anni che pranza con i panini del giorno prima. Più di millecinquecento panini in quattro anni. Attualmente è così.

Mia madre stira. La lavandaia sotto casa quantifica il suo lavoro in cinque euro all'ora. Guadagna dai dieci ai quindici euro al giorno, più o meno. Noi non ce la passiamo male. Siamo nella media. La casa è nostra, il mutuo è stato estinto l'anno scorso. Possediamo addirittura un garage, papà ci trasformò la sua liquidazione. Un garage è un ottimo investimento nella mia città, soprattutto nel mio quartiere. Un paio di garage sono anche abitati, in uno in particolare c'è il fidanzato della Roberta, che dopo averla messa incinta ha deciso di starle più vicino, ma non potendosi permettere un vero appartamento, ha affittato un garage vicino al suo palazzo. Delle volte ci penso e a noi non manca niente. Nel nostro quartiere c'è chi sta un po' meglio, ma sono di più quelli che stanno peggio. E chi sta meglio s'arrangia, in qualche modo.

Un altro borbottio metallico proviene da lontano, a questa distanza è un'incomprensibile accozzaglia di suoni, come quella dell'arrotino Daniel. Come l'arrotino s'avvicina, ostinato, deciso a girare l'angolo. Il napoletano. In casa mia l'ambulante che passa col camion carico di frutta e verdura si chiama il napoletano. Parla a un microfono collegato a un altoparlante dalla potenza limitata, il messaggio è incomprensibile per due ragioni: parla in dialetto e l'amplificazione gracchia. Ma la gente lo riconosce dal ritmo. Il napoletano gira solo per alcuni quartieri della città. Viene a vendere qui, passa per le vie dei Palazzi, a Borgomisto, ma non nel centro storico. Oggi non è giornata per studiare. Alvà, chiama mia mamma.

"...abbiamo le pere, le mele, banane, le pere, le pere, albicocche, fragole, fragole belle, le pesche, le pesche, le precocc, i meloni, i meloni che belli i meloni; i faggiolini signora, carciofi, patate, zucchine, i broccoli, i broccoli, abbiamo i broccoli belli, scendete signò, cinque euro alla cassa!"

Mamma è fissata con questo ambulante. Il napoletano è all'incrocio sotto casa, lo stesso dove si ferma Daniel. Vedo l'adesivo di Padre Pio sulla fiancata del camion. Mamma s'affaccia dalla finestra e si mette a gridare.

"Mi scusi..."

Il napoletano alza la testa, come mamma altre donne si sono affacciate per chiamarlo.

"Ce l'ha le fragole?"

"... 'e tengo, signò! Calate che vi faccio un prezzo buono...", dice al microfono, interesando tutto il vicinato.

Evidentemente mamma non si fida, del prezzo buono.

"A quanto?", grida dal balcone.

"A quattr'euro, signò, ya! Scendete che ve le preparo!", dice, sempre parlando al microfono.

E chi scende? Come prima: a petto nudo e pantaloncini.

Nei pressi del camion c'è una piccola folla. Il napoletano è sveltissimo, ammucchia le cassette e le porta fino al portone del cliente. Vende in media a "cinque euro la cassa!", quindi i conti sono presto fatti. Tiene i soldi come se fossero un mazzo di carte. A ogni transazione li piega e li mette in tasca, per poi riprenderli al conto successivo. Prestigiatore. Infatti mi appioppa, insieme alle fragole, una cassa di meloni per un totale di otto euro. È stata una buona spedizione, ho avuto la forza e la lucidità per rifiutare una cassa di zucchine, una di mele e un casco di banane.

"...fanno ott'euro", mi dice, "accattat'e banane e finiamo a dieci, ya...

"No, le banane già ce l'ho..."

"Uagliù mi rovino.. prenditi le cime di rapa, ya, che nun aggio temp'a perdere..."

"...facciamo che mi dai il resto, ya."

Ferito nel suo orgoglio di lesto commerciante, mi guarda con impalpabile disprezzo.


Studio per un'ora. Un'ora filata senza che la strada attiri l'attenzione. Senza che mamma mi chiami per farle commissioni. Un'ora non dico di silenzio, ma di accettabile quiete. Poi, improvvisamente, dalla finestra di fronte alla mia.

"Oggi faccio diciott'anni! Oggi faccio diciott'anni! Divento maggiorenne!"

Mi affaccio dalla finestra e vedo Raffaella, la mia dirimpettaia, con un megafono in mano. Niente, quando il quartiere decide non c'è cazzo che tenga. Oggi non è un buon giorno per studiare, chiudo il libro e vado a fare una doccia. In linea d'aria abito a nove metri da Raffaella, entrambi all'ottavo piano. Mentre mi rinfrescavo e mi rilassavo nella schiuma, sentivo che a casa sua erano arrivate alcune amiche. Anche loro col megafono in mano, a strillare ai quattro venti il fatto che la Raffa fosse diventata maggiorenne. Ora nelle nostre teste, prima che nella sua, scatterà la convinzione di aver accorciato le distanze. La sua fica avrà sulla coscienza occhi neri e labbra spaccate. Mentre mi vesto stanno cantando a squarciagola una canzone neomelodica. Usano il microfono e il Canta Tu in versione rione, con le basi dei vari Gianni Celeste, Vincenzo Junior, Maria Nazionale. La prossima canzone che si preparano a cantare, apprendo ora, è di un certo Ciro Ricci.

"E ora, signori e signore", grida Raffaella dalla sala di casa sua, "una canzone del grande Ciro Ricci: chille va pazzo pe' te!"

Mi metto alla finestra, le mando un bacio. Lei ride, con le sue amiche, poi si riconcentra sulla performance. Molti si sono affacciati, come quando c'era il napoletano. Gli uomini sono a petto nudo e bermuda, luccicanti di oro giallo. Le donne, in vestaglia da cucina, quasi si commuovono. Chi si diverte incredulo, chi incredulo grida il suo disappunto in dialetto, 'mocc a mammat... astuta stu sgrusciu; e chi, magicamente, dal proprio balcone, partecipa alla festa battendo le mani a tempo.

Esco: Tonino mi offre un bicchiere, si lamenta del padrone del bar che vuole aumentare l'affitto.

"Ci metto una bomba nella testa a quel bergamasco di merda!", dice.

Nel phone center di Karim tre marocchini stanno gridando in arabo. Sono sbronzi di birra, immagino che nella loro lingua si stiano perdendo in quei discorsi da uomini molesti e frustrati, schermandosi dietro a consigli che nessuno di loro è in grado di garantire fino in fondo. Passo a salutare Karim, credo mi abbia in simpatia perché sa che faccio l'università e che mi faccio i cazzi miei. Brutto negro, dico, la finite con questo casino? Voi non potete bere, cazzo! A qualcuno sì e a qualcuno no, dice. Se vi becca Bin Laden vi fa un culo così! Karim ride. Non c'è un cazzo da ridere, si nasconde qua vicino, ad Arcore. Mi fa segno di andare, che non era il momento di scherzare. Chissà come reagivano, quegli ubriaconi, magari per niente.

M'incammino verso la Trincea, qualcuno dei nostri dovrebbe esserci.

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 88

9. Scogli

In Coca veritas

Tutti in riga

Alvaro


Dormiamo nei piccoli soggiorni, sui divanoletto; in tratti di corridoi angusti, giusto lo spazio per una rete che viene fuori da una libreria di truciolato; davanti alle porte blindate dei nostri appartamenti, in un materasso a scomparsa. Siamo antifurti umani, con il semplice sonno sbarriamo la porta dall'interno. Hai da stare attento, di notte, quando vuoi pisciare. Il letto che sta nel corridoio, dove dorme tua sorella, ha un sostegno di ferro appuntito. Non accendi la luce, con una semplice lampadina sveglieresti troppe persone. Ci passi nel buio, alla cieca, fidandoti del tuo senso della posizione e dei passi che ripeti uguali da che hai memoria. E va bene, ti va bene anche questa volta. Non sono mai stati presi provvedimenti. È molto pericoloso, se un ladro entrasse di notte sicuramente andrebbe a tagliarsi il polpaccio. Uno sfregio di otto centimetri, sedici punti di sutura, gli stessi che quando eri piccolo sono stati cuciti sulla tua unica esperienza di nonna. Di nonni, invece, mai nemmeno l'ombra. Il sangue di tua nonna esce e piangi. Ad ogni modo non sono mai stati presi provvedimenti. E allora vai avanti aggirando l'ostacolo, come sempre. È pieno d'intralci qui, dentro e fuori casa. È nel DNA del quartiere, la difficoltà. L'intoppo, l'ingombro. C'è nato, il quartiere, pieno di scogli. La differenza dipende solo da noi: evitarli. Ma non completamente, diventi bravo, ma prima o poi sbatti. E comunque ringrazi, del fatto che non siano mai stati presi provvedimenti. Questo è un bene. Gli scogli stanno riemergendo in sempre più posti. Il livello si sta abbassando, la depressione avanza. Il quartiere è nato come modello in miniatura di ciò che sta diffondendosi. Il sentore del disagio s'intrufola ovunque. Ora manca solo un passo, inevitabile. Quello che dalle parole porta ai fatti. Per ingannare gli ostacoli servono fatti. Ma qui siamo in balìa di parolieri. La gente che ci governa non è cresciuta rissando per non andare a sbattere. Gli scogli sono sempre stata una visione lontana, a distanza di sicurezza, nella protezione del mare aperto, nella calma piatta dell'orizzonte, sorseggiando daiquiri frozen da yatch riservati. Loro parlano, e noi ci scanniamo. È un equilibrio che non può reggere. Loro parlano e noi non ce la facciamo più a vivere. Mia mamma non ce la fa più a stirare, mio padre s'è rotto il cazzo di fare il servetto per una troia in menopausa. I miei meritano rispetto. Ci devono rispettare, e invece se ne sbattono. E va bene, ma state facendo i conti con gente che da sempre ha fatto, non detto. E questo non è un avvertimento, è storia. Gente che sa incassare, e lo sapete bene, state puntando su questo. Loro parlano e noi non li stiamo ad ascoltare, questo è il primo passo verso quello che succederà. Loro parlano, e qui in quartiere gli operai muoiono d'amianto. Loro parlano, ma noi, qui a ostacolandia, stiamo per collassare. Non abbiamo tempo, qui, di sentire le vostre giustificazioni. Non si respira, gli scogli ti strozzano, così numerosi. La soluzione è molto più semplice di quella che immaginate, sempre perché noi, in quartiere, apparteniamo alla galassia delle azioni, non delle parole. Se solo questi scogli fossero iceberg! Non aggireremmo più l'ostacolo, ma schiacceremmo l'enorme sasso bianco, come facciamo con le pietre di scaglia, frantumando in un solo tiro tutte le vostre ambizioni di potere. E voi, pisciaturi vecchi, finalmente ci dareste una mano. Perché, sciacqualattughe che non siete altro, anche voi papponi ci morite appresso alla bamba. Stendereste iceberg su una piazza di marmo che avete appena inaugurato, e usereste come cannino gli aspiratori di una galleria della SA-RC. Tra un provvedimento urgente e un decreto salva fessi, vi fareste tutti gli iceberg del quartiere. L'unica differenza è che noi schiacciamo con la scheda del bancoposta, voi con l'American Express Gold. Che noi pippiamo il taglio e voi la categoria. Ma questi sono scogli, non monti bianchi. E quindi noi inciampiamo e voi no, ma solo perché strisciate. Forse non lo sapete che è più importante cascare in piedi, piuttosto che non cascare mai. Al massimo ci trovi con le ginocchia sbucciate. Forse non sapete che pesano di più le nostre cicatrici che i vostri lifting. E non è certo colpa nostra se invece di polverizzare qualche scoglio ne avete scoperti molti altri. Noi il nostro l'abbiamo fatto. Siamo venuti qui in mutande e abbiamo lavorato. Abbiamo pagato le tasse. Abbiamo acceso i mutui per la casa. Abbiamo cresciuto dei figli. Siamo morti per il lavoro. Nessuno di voi, fino a prova contraria, l'ha mai fatto. Anzi, solo Berlinguer. E queste sono parole di una generazione soddisfatta, fiera, invincibile. Sono le parole di mio padre. E noi? Noi abbiamo vissuto uno sopra l'altro, senza camerette, senza veri e propri giocattoli, senza andare a fare esperienze all'estero. Abbiamo studiato, perché c'è stato detto che è importante. Abbiamo vissuto di saggezze solo nostre. Abbiamo rubato, perché vaffanculo, scusa, chi lo decide perché a uno sì e all'altro no? Siamo diversi dalla generazione che vi ha reso potenti, noi saremo il vostro incubo. Ognuno difende i propri interessi, siete voi a dare l'esempio. Non avremo una casa, né un cazzo di lavoro decente. Se verranno dei figli, sarà solo perché ci piace troppo scopare. Avete voluto una generazione a vostra immagine e somiglianza. E allora ci faremo la guerra. Noi e voi, gli uni in faccia agli altri, tutti in riga. Ma noi siamo un bacio a cuore aperto, voi zombie plastificati. Noi siamo tantissimi. E voi solo cose che accadono. E perciò: poveri a voi!

| << |  <  |