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| << | < | > | >> |IndiceContro l'Italianologia 5 PRIMA DI TUTTO Giulio Bollati 23 L'italiano IL CANONE ITALIANO Giuseppe Prezzolini 31 Codice della vita italiana Giacomo Leopardi 42 Discorso sopra lo stato presente dei costumi degl'italiani Torquato Accetto 51 Della Dissimulazione onesta L'ITALIANO QUALSIASI Curzio Malaparte 59 Elogio del buon italiano Ennio Flaiano 67 L'amico qualsiasi Antonio Siberia [pseud. di Indro Montanelli] 72 Ragazze e ministri-squillo Gianni Brera 78 L'arcimatto LE PAROLE DELLA POLITICA Ernesto Rossi 85 Settimo: non rubare Aldo Moro 92 Discorso parlamentare sullo scandalo Lockheed Bettino Craxi 97 Discorso alla Camera dei deputati su Tangentopoli Leonardo Sciascia 103 Discorso alla Camera dei deputati sul fenomeno mafioso Enrico Berlinguer 106 I partiti sono diventati macchine di potere VIE D'USCITA Luigi Einaudi 117 Il buongoverno Gaetano Salvemini 125 Gli italiani sono fatti così Arturo Carlo Jemolo 132 Conformismo italiano Aldo Capitini 144 Chiesa e religione in Italia Ruggiero Romano 144 In termini di XXI secolo L'ANTIPREDICA Carlo Levi 153 Luigini e contadini Biografie 171 |
| << | < | > | >> |Pagina 5Poveri ma belli. La retorica italiana Qualsiasi discorso sugli italiani – su chi siano, su come dovrebbero essere, su perché non ci riescano e, soprattutto, perché siano i primi a riconoscerlo, ma poi a non fare granché per divenire ciò che dicono di voler essere — è destinato a cadere nella retorica. La retorica è quella del «poveri ma belli»; «gaglioffi ma simpatici»; «cinici ma solo per delusione»; al fondo, comunque «bravi». Forse è vero, come scriveva Luigi Barzini, che per gli italiani «non c'è scampo». Ed è questa sensazione di essere in trappola entro i limiti inflessibili delle tendenze nazionali a far sì che la vita italiana, sotto la sua superficie scintillante e vivace, abbia una qualità fondamentale di «amarezza, disappunto, e infinita malinconia» [Barzini 1964, p. 21]. Davvero non c'è scampo? Non credo. Credo che una possibilità di fuoriuscita sia individuabile e dunque possibile. A un patto: che si rifiuti di riflettere su chi noi siamo — sul carattere degli italiani — in astratto. Noi italiani siamo il prodotto di una storia, che è fatta di molte cose: di retorica, di autoimmagine, di autocritica, dei tentativi concreti di individuare dei territori culturali e mentali capaci di imprimere un nuovo stile di vita. A questa serie di principi corrisponde questa antologia. Un'antologia che non ha l'obiettivo di radunare tutto o di essere lo specchio fedele di una produzione scritta che tratta l'Italiano e il carattere di noi italiani. Penso che quella intorno all'Italiano, il complesso di parole, immagini, stili di scrittura, l'Italianologia, sia una disciplina che ha «creato» l'Italiano dietro il falso obiettivo di descriverlo. Che cos'è dunque l'Italianologia?
Chiamo Italianologia la retorica — spesso lamentosa, impermalita e
accigliata — che attraversa tutta la riflessione sull'Italiano e il cui effetto
è creare e radicare una convinzione.
Una retorica che si nutre di apparente ironia, di falsa autoironia, di
autosupponenza e, soprattutto, di un profondo
rancore contro tutto ciò che non è immediatamente la propria soddisfazione, la
difesa del proprio «particolare». L'effetto di questa retorica — come tutte le
retoriche — è quello
di indicare i rimedi. E il rimedio è l'indifferenza, nel senso
che noi siamo un paese che non sceglie, che, posto di fronte alle scelte
drammatiche, rinvia, scantona, apparentemente in nome di un senso di
responsabilità, in realtà perché
scegliere implica credere in qualcosa, dover abbandonare
qualcos'altro. In una parola: rischiare. Qui nasce l'antipolitica. Non si
origina dalla delusione, ma dallo scetticismo,
dal «non decidere» che pure è la conseguenza di una convinzione: se costretti a
decidere, meglio seguire la corrente.
L'antipolitica Quando si parla di identità italiana come costruzione di una retorica, noi parliamo di un doppio registro fatto di difesa delle cose proprie e di antipolitica, intesa come indisponibilità a riflettere in nome di un interesse generale. L'antipolitica non è la rivelazione di un malessere a cui occorre trovare dei rimedi. È un segmento strutturale dell'identità collettiva di una società che ha avuto una storia e che ha definito se stessa in base alle assenze e alle mancanze che nel tempo sono diventate delle costanti.
In sintesi le possiamo riassumere nelle seguenti: 1) un
diffuso cinismo; 2) l'assenza di una classe dirigente; 3) l'assenza di una vita
interiore; 4) il familismo amorale [Banfield 1976] in opposizione al senso
civico, ovvero la prevalenza della famiglia sulle istituzioni dello Stato,
anteponendo il benessere proprio a quello collettivo; 5) il trasformismo inteso
non solo come filosofia dei «voltagabbana», ma anche come procedura tesa
all'accantonamento del conflitto sociale [Bollati 1993 e 1996]; 6) la furbizia,
un tratto che si fonda sull'idea che la dissimulazione, il doppio gioco,
l'allusione costituiscano delle risorse che consentono il superamento
dell'avversità, comunque delle difficoltà.
La storia Tutto questo, tuttavia, non è il risultato accidentale di un percorso. Ha una storia. Siamo italiani non è una realtà senza tempo, è un modo di raccontarsi e, raccontandosi, diviene un modo di descriversi e di ricostruire la propria personalità storica. Quest'antologia è perciò il tentativo di descrivere questo percorso. È un percorso artificiale, ovvero è il risultato di una interpretazione. Come l'Italiano è l'effetto di un processo artificiale. Prima conclusione dunque: l'Italiano è una figura costruita nel tempo. È per questo che il testo si apre con le considerazioni di Giulio Bollati e la sezione si chiama «Prima di tutto». Bollati ha avuto il merito, più di trenta anni fa, di rompere l'«incantesimo» dell'«italianità». Quelle righe costituiscono un segnalibro, indicano un modo di ragionare che chiede prima di tutto di uscire dal mito, un mito che è stato diffuso in molti modi: nella retorica letteraria, nel costante piagnisteo sulla «nazione proletaria», nella comicità, nel teatro e soprattutto nel cinema italiano, forse la macchina più potente e pervasiva nel distribuire il mito dell'Italiano, in tutte le sue manifestazioni, compresa l'antipolitica. Quali sono dunque le fonti mentali che lo costruiscono? Porre il problema delle fonti non è solo comporre l'insieme dei testi (non solo scritti ma anche fotografici, iconografici ecc.) che hanno definito l'Italiano; si tratta di ridefinire quei testi o quelle espressioni e quei modi di fare e di pensare che hanno dato forma a modi di essere. La sezione che abbiamo denominato «Il canone italiano» contiene alcuni testi che ritengo abbiano fornito le parole dell'Italiano quando parla di sé. Delle espressioni che molti (per non dire tutti) usiamo, del modo di comportarsi e soprattutto del modo di rappresentarsi. Il testo di Prezzolini rinvia a questa questione e contiene molte delle espressioni che sono entrate nel gergo nazionale. Spesso come proverbi, talora persino utilizzate e fatte proprie senza sapere la fonte o il testo da cui sono prese. Un vero e proprio caso di galateo nazionale, di fotografia dell'anima. Questa «fotografia dell'anima» tuttavia non è il risultato solo di se stessa, vive accanto e in opposizione con altre fonti e altri testi che nel tempo hanno provato a spiegare noi italiani, nel carattere e nei modi sociali. Queste visioni non hanno mai avuto un carattere affermativo, ma hanno presentato sempre un'immagine problematica, inquieta, comunque si sono definite ancora rispetto a una mancanza. Sono da una parte il testo di Leopardi Discorso sopra lo stato presente dei costumi degl'italiani, che delinea un'analisi «spietata» dell'Italiano, ma soprattutto dell'Italia, un paese in cui si schernisce l'interlocutore; fondato sull'assenza di convivenza civile; caratterizzato da una società definita dall'egoismo. Alla fine, una realtà priva dell'amor patrio. Dall'altra un trattato degli anni quaranta del Seicento, Della Dissimulazione onesta, in cui l'autore, meditando sul conformismo e sull'ipocrisia della società del suo tempo, si interroga su quali possano essere la risposta e la reazione dell'uomo onesto. Per giungere alla conclusione che la dissimulazione, quando si identifica con la prudenza e non giunge alla volgare menzogna, diventa nelle mani del saggio un'arma per difendersi dall'oppressione dei potenti. Questi due testi hanno a lungo «dormito» nella cultura italiana, per iniziare a circolare improvvisamente a partire dagli anni Ottanta. Al di là del contenuto o di ciò che ciascuno dei due definisce come lunga catena di emozioni e di categorie morali, questi due testi corrispondevano a un bisogno e rinviavano a un modo di pensare che costituiscono due spie interessanti quando si riflette su «siamo italiani». E allora, a quale bisogno rispondeva il loro ritorno pubblico? Nel caso del testo di Leopardi, l'idea costante è quella della inadeguatezza italiana alla modernità, del carattere dell'Italiano come refrattario rispetto all'idea e alle pratiche di una società moderna. I costumi non si modificano, rimangono invariati. Nel caso del testo di Accetto, il tema è il rapporto nascondere/apparire, in cui l'atto pubblico, apparentemente naturale, è il risultato di un apprendistato e di una educazione che non deve mettere in mostra ciò che si è — e soprattutto ciò che si pensa. Un tema, questo, che ha una storia lunga nei trattati del comportamento a iniziare dal Galateo di Monsignor Della Casa, ma che nel caso del testo di Accetto acquista una valenza ancor più significativa nella società italiana fino a oggi. Il risultato è dunque una società delle buone maniere come società delle «maniere false», ovvero come costruzione ed elogio del conformismo. Un processo che non riguarda solo il rapporto tra governanti e governati ma include anche la formazione del carattere di una classe di governo al comando e al servizio del proprio signore. Una classe che ha successo quanto più si spersonalizza e si annulla rispetto al proprio signore. Il compimento dell'identità è, dunque, nella rinuncia ad averne una e diventare il linguaggio dell'altra mente, la parola di un altro corpo, dentro cui scompare il proprio. Un aspetto che non è espressione di un'Italia che fu, se è vero che ancora con difficoltà si deve registrare nel nostro paese il passaggio a una funzione del management fondata sulle competenze e non sulla «famiglia», ovvero di una capacità espressa in termini di preparazione. Un manager che spesso è considerato alla stregua del segretario secentesco. | << | < | > | >> |Pagina 10L'italiano di oggiQuesto aspetto che riguarda l'idea del canone ha un riflesso nell'idea di Italiano come prodotto senza tempo. Una raffigurazione che in forme diverse ho delineato scegliendo quattro percorsi, culturali e politici, nella sezione dedicata all'«Italiano qualsiasi». È l'italiano popolano, antimoderno per vocazione, raffigurato nella prosa di Curzio Malaparte. Un italiano antieuropeo, perché percepisce l'Europa non solo come tentazione che lo distrae dalla propria identità, ma capace di minare gran parte delle sue certezze e delle sue garanzie acquisite. Malaparte scrive queste righe nel 1926. È così diversa la percezione popolare dell'Europa nell'epoca di Maastricht e dell'Euro? Un tipo di italiano che la sa lunga sul potere, disposto a perdonare i suoi vizi privati, anzi a farne l'elogio (come nel testo di Indro Montanelli), ma che non sopporta quegli stessi vizi nei politici perché eretti opportunisticamente a rappresentare una virtù che per primo lui stesso dichiara inesistente, per certi aspetti «contro natura» rispetto al profilo del «bravo italiano», per il quale la politica e ancor più gli uomini politici sono un costo, rappresentano «una tassa» da pagare in nome del proprio quieto vivere. Un italiano qualsiasi come lo descrive Ennio Flaiano, senza tempo, senza fisionomia sociale, assolutamente privo di connotati. Ma anche un italiano che è improprio ridurre al qualunquismo, come infatti invita a distinguere Gianni Brera nel testo che abbiamo inserito, ma che, invece, ha molto a che fare con il mito della bontà e della «verginità» della società civile. Un tema che è tornato ancora in questi anni a popolare la retorica pubblica italiana e che di nuovo ha alimentato e dato vigore all'antipolitica, tanto più in conseguenza della cosiddetta riscossa identitaria basata sull'orgoglio dell'italiano come cittadino vessato, come «popolo bue» che deve risollevarsi. È qui che i temi dell'«Italiano qualsiasi» si legano a quelli propri dell'Italiano delle «parole della politica», la quarta sezione di questo libro. Una figura che vive nel linguaggio dei politici come riscatto in quanto individuo naturale, vera e propria reincarnazione di Bertoldo, il personaggio dell'epopea di Giulio Cesare Croce che esalta le mani grosse e la testa fina di chi «lavora» da sempre (una maschera sociale destinata ad avere grande fortuna nell'immaginario politico italiano) e non è più disposto a «bere tutto ciò che il palazzo gli propina» (altra espressione che ha in Prezzolini il suo ideatore). Sono la fisionomia politica e il linguaggio della Lega e di Umberto Bossi. Una fisionomia che intende ereditare tutta l'opposizione precedente e allo stesso tempo autonominarsi nuova classe dirigente. Da una parte muovendo una guerra senza quartiere a tutta la politica, dall'altra chiedendo un mandato in bianco al proprio elettorato, una vera e propria «investitura dal proprio popolo». Un linguaggio e un progetto in cui il rifiuto della politica e l'obiettivo di «smantellare tutti i tentacoli della piovra-politico-burocratico-affaristica» [Bossi-Vimercati 1993, p. 106] si incontrano con un operato politico che ha il solo fine di garantire la propria sopravvivenza. L'agitazione per il federalismo non è animata dalla ricerca a tutti i costi dell'obiettivo da raggiungere. È funzionale a sostenere la linea di ogni momento, dove far parte del governo o dell'opposizione non cambia nulla e serve solo a descrivere la realtà attraverso un paradigma del complotto teso da «perfidi Robinson» della politica del Palazzo contro i quali solo gli «ingenui Venerdì» della Lega – vera anima del popolo, barbari ma resi esperti dalla lezione storica dei Longobardi [ivi, pp. 213-216] – sarebbero in grado di resistere. Un linguaggio che prende in prestito le parole che negli anni Settanta furono di Pasolini, de «L'espresso», e ispirarono il lessico della sinistra in nome di un'«altra politica» e che ora, spesso senza soluzione di continuità, diventano quelle dell'antipolitica. Contro questo linguaggio, si potrebbe dire, poco possono le parole civili di chi denuncia la questione morale o la questione mafiosa (come provano Enrico Berlinguer o Leonardo Sciascia) come storia del costume. Ovvero come storia in cui contano le decisioni e non la fatalità o il destino. Le parole della politica hanno tuttavia un peso e servono a individuare per contrasto anche i nodi di una politica che, pur difendendo se stessa, tra le pieghe del proprio discorso (di nuovo dissimulando secondo il paradigma di Accetto e indicando l'eternità dei costumi come sottolineava Leopardi) e della propria autodifesa, non riesce a rivendicare nemmeno la dignità del proprio ruolo. Nei discorsi di Aldo Moro e di Bettino Craxi, al di là delle circostanze in cui li pronunciano – in qualche modo entrambi «a discarico di se stessi» – più che la scaltrezza o la furbizia o il tentativo retorico di allontanare da sé il sospetto o l'accusa sta l'incapacità di saper spiegare che cosa sia la politica, quali meriti abbia. Ovvero il fatto di non saper difendere se stessa. E dunque di regalarsi e di regalare l'identità nazionale all'antipolitica, perché incapace di suscitare simpatia se non in quegli stessi che vogliono difendere. Una prova di retorica, magari anche apprezzabile, ma priva di carisma e di miti e che, anzi, regala il carisma e il mito proprio a quell'antipolitica che dice di voler combattere e che probabilmente, invece, ha coltivato per garantire i margini di discrezionalità e di manovra. Una condizione che contemporaneamente segna il contrappasso e la sconfitta della politica in un paese che ancora oggi stenta a trovarla. | << | < | > | >> |Pagina 13Una via d'uscitaLa replica all'antipolitica dunque non è data dalla risorsa della politica stessa e non è data dal tema dell'identità violata o strattonata dalla violenza della politica. È data, forse, dalla lenta fuoriuscita da un modello comportamentale e culturale che chiama in causa vari fattori. Alcuni riguardano gli stili di vita, altri riguardano i processi di modernizzazione. Sono le indicazioni che a titolo diverso forniscono alcune figure di rilievo della cultura italiana, che in circostanze diverse, da posizioni diverse o in ruoli specifici hanno provato a ragionare in termini di trasformazione del costume. Il tema in questo caso è la profondità del conformismo come vero e proprio blocco culturale verso lo sviluppo, come sottolinea Arturo Carlo Jemolo. Oppure la ripresa di una riflessione di laicità e di moralità pubblica a cui invita Gaetano Salvemini, una delle voci tonanti di tutto il Novecento italiano, di cui si dovrebbero ricordare molte cose. Per esempio, oltre alle sue indignazioni per una società spesso clientelare, il suo impegno per la dignità e la qualità del lavoro degli insegnanti, una delle categorie più vessate e sbeffeggiate dall'opinione pubblica italiana. Un impegno, è giusto ricordarlo, per cui la difesa della qualità del lavoro degli insegnanti è un dato culturale e non tecnico o quantitativo. Riguarda infatti l'affermazione di una pedagogia laica e di una scuola pubblica decente. Quest'aspetto, come ricorda Capitini, chiama in causa una presenza costante nella storia italiana: quella Chiesa che non può proporsi solo come controsocietà. Una realtà, la Chiesa, che deve anche fare i conti con ciò che ha significato il proprio magistero pubblico e il proprio condizionamento sociale e culturale in un paese che ha molti ritardi e spesso una fragile dimensione civile. Ma la replica all'antipolitica è anche nella denuncia che nessuno è innocente nella storia dello sviluppo mancato o distorto, di quello che è entrato nel gergo come modello italiano. Sono le parole di Ernesto Rossi all'inizio degli anni Cinquanta a ricordarci che nessuna classe sociale (nelle sue pagine l'accusa è rivolta agli industriali e su tutti all'allora presidente di Confindustria Angelo Costa) è esente da responsabilità, e dunque contribuire al risanamento o alla riforma del modello italiano e delle sue distorsioni significa anzitutto non chiamarsi fuori, né invocare una sorta di estraneità alla storia. Una storia che è fatta di due elementi essenziali: di decisioni e dell'introduzione di un principio competitivo. In forme diverse, su questioni che possono sembrare marginali, o comunque laterali rispetto ad alcuni simboli pesanti e potenti della società italiana, tanto Luigi Einaudi quanto Ruggiero Romano pongono il problema della modernizzazione, mentale prima ancora che sociale, della realtà italiana. Il tema del titolo di studio o quello del riconoscimento dell'avvento di una società dell'informazione (un tema che oggi può apparire persino ovvio, ma attenzione: Romano scriveva nel 1983, un'epoca, ricordiamolo, che doveva ancora vedere la diffusione, non dico di massa, ma persino d'élite del personal computer) introducevano non tanto una questione di carattere tecnico o formale, ma alludevano entrambi a una vera e propria questione di costume mentale e culturale. In breve, la mananza in Italia di un doppio principio: quello riferito alla categoria di selezione e di eccellenza da una parte, dall'altra quello di competizione, che non può non prendere in esame tanto la necessità di distribuire una cultura di base aggiornata che sia condivisa dal maggior numero dei propri secolarizzati quanto la necessità di fornire opportunità al talento. Altro vuoto, riempito solo da un continuo e mai invertito processo di fuga, per di più nemmeno favorito non tanto in termini di rientro — una politica che in epoca di globalizzazione e per i precedenti italiani creerebbe un'ennesima voglia di protezionismo — ma almeno in termini di sistemi di relazioni in funzione dell'aggiornamento e della condivisione dei risultati. L'effetto alla fine è l'inesistenza di una politica per la ricerca che dunque consenta di intravedere linee di sviluppo. Tuttavia, proprio perché «siamo italiani» e abbiamo distrutto più di un secolo fa quel poco di ricerca scientifica che potevamo vantare sostituendola con una sorta di costante omelia sui «pericoli della scienza», al più delegando a qualche realtà al margine il compito di occuparsi della didattica della scienza, non è per niente scontato che l'invito a parlare «in termini di XXI secolo» che ci rivolge Ruggiero Romano possa segnare una nuova stagione. | << | < | > | >> |Pagina 15La responsabilità individualeDunque non c'è possibilità? Siamo costretti a ripetere all'infinito la stessa commedia? Qualsiasi tentativo di riforma è destinato a cadere miseramente nel vuoto? Non sono di quest'avviso. Tanto Ruggiero Romano, come Ernesto Rossi, come Luigi Einaudi discutono non di un modello astratto, ma di un sistema concreto di relazioni, di un comportamento che è definito da rapporti di forza, da situazioni che hanno un prima e un dopo, che sono raccontabili non in virtù del fato, ma in base e in relazione a una storia, che ha continuità, conflitti, lacerazioni e scelte. Per comprendere tutto questo, tuttavia, non è sufficiente raccontarlo separatamente, o individuare i legami che mettono in relazione i diversi aspetti; occorre dotarsi di una interpretazione complessa ovvero saper esaminare la storia lunga dei paesi i cui componenti non sono oggetti singoli ma costituiscono insieme «un meccanismo» [Romano 1994, p. 36]. In questo senso la spiegazione del canone, dei caratteri, dei costumi, o della dissimulazione, per quanto affascinante, non è in grado di fornire alcun modello. E non lo è perché il loro postulato è la perennità del potere, la condizione statica della società. È da questa condizione che si origina l'antipolitica, un sentimento che interpreta la sfera della politica come dimensione totalitaria e immutabile del dominio rispetto alla individualità, il cui unico fine è sottrarsi al potere. Una individualità per la quale non c'è né domani né storia e dunque idea di futuro – perché l'immagine della società è quella di una realtà immobile. Un atteggiamento che non è la scoperta e la rivendicazione di una politica altra a fronte dell'arroganza, della supponenza e della degenerazione cui può giungere la politica e più generalmente il potere, ma che trova la sua soluzione nel «rifluire nel privato» come risorsa ultima per la propria condizione che diviene quella di una collettività – più propriamente forse di una comunità – che sa che la politica è un male che va sopportato e a cui bisogna cercare di sottrarsi. Non solo ritirandosi, ma non concedendosi. È da questo punto di vista che la critica di qualunquismo a quell'insorgenza morale che ha segnato gli ultimi quindici anni della storia italiana è sbagliata e impropria. Non perché il lessico, i toni, la gestualità dei suoi vati non siano riconducili a quella categoria, ma perché quell'insorgenza chiede presenza politica e non invita al «tutti a casa» né dichiara inutile la politica. Se questo tuttavia è ciò che avviene, o il rischio che molti paventano, si dovrà di nuovo fare i conti invece con quella costruzione dell'Italiano a cui Giulio Bollati alludeva e che ancora attende di essere svolta. Una costruzione che si fonda su un codice con il quale dobbiamo misurarci. Una condizione interiore che non ha bisogno di parole per essere compresa, e che è il risultato e il linguaggio condiviso — proprio dell'antipolitica — di un complesso di atti, di riti, di gesti, che non necessitano di parole. Un linguaggio del corpo, dei sospiri che è di idee senza parole [Spengler 1933, tr. it., p. 8] e che vive e si nutre di una retorica che nasce dalla convinzione di condividere un'identica condizione di sudditanza, di precarietà e di vessazione. Una condizione culturale che spesso è stata collocata nello spazio politico di destra, ma che ha avuto anche un sottofondo nella costruzione della cultura popolare della sinistra italiana. Ne è una prova quanto e come scrive, rievocando i Fratelli Bandiera in un libro per l'infanzia, Ettore Fabietti, uno degli uomini cui nel primo quarto del Novecento si deve l'impulso alla diffusione e all'innalzamento della cultura popolare in Italia, impegnato nella diffusione delle biblioteche popolari, operatore culturale dell'Umanitaria di Milano e amico di Filippo Turati. L'Italia — scrive Fabietti — è il nostro paese, tu lo sai. Un grande paese abitato da gente come noi, semplice, sobria, laboriosa. Sono milioni e milioni di persone che si capiscono fra loro, perché parlano la stessa lingua, e dai tempi antichissimi ad oggi hanno avuto tutto in comune, specialmente le sventure [Fabietti 1921, p. 12]. Nell'Italia di inizio Novecento è il linguaggio che ritroviamo nella prosa solidaristica del movimento socialista. Dopo l'intera parabola del secolo delle ideologie, l'immaginario che sottostà a questo linguaggio sembra essere divenuto collettivo. Con difficoltà, tuttavia, potremmo concludere che questo sia il segno della vittoria del socialismo riformista, né, più genericamente, lascia intravedere rapporti di potere fondati sul principio democratico. Un principio la cui base non sta nell'esercizio del diritto di voto ogni x anni, ma negli spazi di azione e di garanzia che tutelano le minoranze. Nell'immaginario dell'antipolitica, ricordiamolo, le minoranze sono spesso delle figure di disturbo, qualcuno – più spesso indicato come qualcosa – di cui sarebbe bene liberarsi. Un rapporto malato che nasce dall'idea di un potere velenoso, avvolgente. Un'idea della cosa pubblica che ricorre al complottismo, modulo esplicativo in grado di rendere coerente, comprensibile e, soprattutto, facile qualsiasi sistema complicato che chiama in causa la necessità di vedere contraddizioni, conflitti, percorsi che non vivono di una visione verticale tra «Bene» e «Male» o tra forze costruttive e forze distruttive. Questo meccanismo si costruisce considerando alcune questioni dirimenti e conflittuali nella storia italiana e nel comportamento – mentale, prima ancora che sociale – della società italiana. È soprattutto un cambiamento di registro mentale che consente di uscire dalla condizione di eterna riproposizione della propria storia. In questo aspetto rientrano le risposte alle sfide che la società dell'informazione propone e che intuitivamente, con profili politici e culturali distinti, avevano individuato figure che spesso sono state assimilate alla dimensione dell'«anti-Italiano», una sorta di figura vissuta come un «traditore», un «disadattato», magari figura pubblica di riguardo, ma «un po' tocco». Un tipo di figura che ha rappresentato quella che spesso è stata denominata l'«altra Italia», l'Italia di minoranza, la cui retorica è stata spesso assimilata alla «predica», all'obbligo dell'ascolto per cortesia e buona creanza, ma con la chiarezza di fondo che il richiamo doveva essere breve, «tecnico» e soprattutto «moralistico». La risposta in questo caso sarebbe già stata pronta: soliti pruriti di chi «si vergogna di essere italiano». È per questo che questa antologia si chiude con le pagine tratte da L'orologio di Carlo Levi. Più precisamente con una predica che ha tutti i caratteri dell'antipredica. Perché a dichiararla è uno sconfitto che non esalta se stesso né elogia la propria diversità; perché spiega da che cosa nasce la propria sconfitta senza scaricarla sul fato, sul destino, sugli «altri»; perché propone una possibile spiegazione e interpretazione del contesto entro cui si trova a muoversi e che il futuro immediato si incarica di definire. Perché, infine, da una parte ha un'idea della società e della storia che si trova a rappresentare e/o governare, e dall'altra afferma che con la politica si può essere sconfitti, ma anche provarci. La risposta è che in ogni caso si è protagonisti. Che non c'è alcun «grande fratello» né a salvarci dalla catastrofe, né a sollevarci da eventuali errori e su cui scaricare la responsabilità della nostra delusione. Ci siamo noi, ciascuno con le nostre scelte, in conflitto con i propri avversari. Impegnati a dare spazio e opportunità a una realtà diversa da quella che abbiamo di fronte – se non ci piace – o a difenderla – se ciò che ci sta di fronte ci soddisfa.
David Bidussa,
Milano, luglio 2007
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