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| << | < | > | >> |Pagina 17Edema polmonare, un po' prima di mezzanotte. Il tempo di accendersi un sigaro intanto che scriveva la cartolina postale a María Rivas. Gliela avrei imbucata io, coi miei soldi. Un prestito, un altro prestito. Pazienza.
Siamo gente noi Pfeiffer che la gente in paese solo alcuni ci ha capito
qualcosa.
Davanti casa stamani è come un giorno di saldi nei negozi di via Maiorca o sul lungomare. Tutti vogliono vedere Ventura, lo vogliono vedere morto. Ciao Emmina, mi dicono — e si arressano e sgomitano nel corridoio. Vogliono vederlo e poi andarsene a festeggiare il Primo maggio. I più andranno in pineta o sulle spiagge; altri si accamperanno tra le dune o in certi spiazzi della macchia a ridosso del viale del Tirreno: e chi si beccherà il selvaggiume, chi il mal di pancia o una scottatura... Io ero stata invitata da alcuni ragazzi per una passeggiata e il picnic. Avremmo mangiato e poi ballato, e saremmo tornati tutti accaldati, dio che noia e che fatica il Primo maggio, no, meglio starsene a casa, dormire e riposare, e il giorno trascorre, ed è così piacevole la sera pensare a un calendario con almeno un Primo maggio al mese. Ma capita che noi abbiamo un morto in casa, e allora tutto cambia. Ci tocca di lavorare – come gli uomini delle Pompe funebri, e i preti, e i fiorai. E anche i rosticcieri, d'altronde, e come ogni volta che il mare è bravo e buono i pescatori: e il mare delle secche della Meloria è un pascolo oggi. A Ventura non piaceva pescare, e neppure a mio padre. Se decidevano di uscire in barca era per molleggiare al largo, bere birra e gasosa, un tot di birra e un tot di gasosa, e farsi due chiacchiere. La frittura o le seppie, dopo, era roba comprata al mercato.
Cosa si siano detti stamattina all'alba io non lo so. Quando mi sono
affacciata nella stanza mio padre gli era seduto accanto, e parlottava. Ero io
l'incomodo, non il morto.
Gli uomini dell'Agenzia lo hanno lavato e sbarbato. Lo hanno vestito con un abito smesso, però decente, e con la cravatta, le calze di filo, le scarpe nere. Ventura è pettinato, pulito e composto. Sa di borotalco, là nella cassa tra i candelabri. La cassa è una bara polacca, che costa poco, ma è solida e benfatta e in più l'Agenzia ci guadagna. È stato padre Antonio a chiudersi nella stanza con gli uomini; è uscito che aveva le maniche della tonaca rimboccate fino ai gomiti e la barba schizzata di moccichi rossastri. Pare che, a smuoverlo, Ventura abbia spurgato sangue e siero fin dalle orecchie. La catinella di mio padre, quella di cui si serve per i fumacchi contro l'asma, andava e veniva dalla stanza di Ventura al bagno zeppa di stracci pregni d'una specie di gelatina. Una cosa schifosa, ma al termine il nostro Ventura aveva ancora tanto sangue in corpo che hanno dovuto riempirlo di tamponi, e forse cucirgli dentro la stoppa o la segatura, come si fa con le bambole. Certo, ora che è morto Ventura piace, non c'è che dire. Qualcuno dice di non averlo mai visto così in carne.
A guardarlo vien voglia di dargli da bere, direttamente dalla sua fiasca
boliviana.
Mio padre ha socchiuso le persiane della porta d'ingresso sul lungomare. C'è un vento tiepido di mezzogiorno, il mare lievita e a tratti si increspa, le onde lunghe flosciano sulle dighe e poi, quel che ne resta, vengono a pizzicare la muraglia di scogli che fa da parapetto alla passeggiata a mare e alle case allineate sui marciapiedi di fronte. Padre Antonio, anche lui ha avuto il suo colloquio a quattrocchi con Ventura e adesso torna all'Orfanotrofio dove lo aspettano, nel refettorio, per ringraziare Dio e benedire il pane quotidiano. È l'una, e siamo soli io e mio padre nella stanza in penombra che alcuni anni fa abbiamo affittato a Ventura. Lo specchio del comò è coperto da un foulard verde pallido a macchioline viola. È un foulard del mio corredo, e che fu di mia madre: e se copre lo specchio è per far sì che i morti non si sentano offesi dalla vanità dei vivi. Ne discutiamo, più tardi, con due operai della Fabbrica dei Motori Marini. Il più anziano è d'accordo ma aggiunge che i vivi hanno diritto, eccome, allo stesso rispetto. L'altro operaio gli dà ragione; però noi sappiamo che la sua mano, quella che tiene nella tasca del giubbotto, è un moncherino, e sappiamo quanto se ne vergogna. Fu Ventura, di servizio quel giorno allo stesso reparto, a raccogliere le dita mozzate nel contenitore degli scarti. Dovremmo spedirle, ebbe poi a dirgli. E dove?, chiese l'operaio monco. A Cuba, rispose Ventura. Gli venne detto Cuba perché, se ve ne ricordate, giusto in quei giorni qualcuno aveva rivelato che al Che Guevara erano state mozzate le mani e che erano state recapitate a Cuba, insieme al Diario... Sono stanca a sera che ho le ossa rotte. Abbiamo chiuso casa, mio padre beve e fuma. Beve la sua birra messicana e della sua asma bronchiale dice: che venga, che si accomodi – e sbadigliando anelli di fumo la sfida. Io leggiucchio, distratta. Adesso non mi va di pensare alle faccende dell'indomani: alla divisa di mio padre da inamidare e stirare, i pantaloni e la giacca bianca da capitano di lungo corso, e alle mie, di cose da mettere per il funerale. Fuori, dietro l'orto di casa, una famiglia rientra dalla scampagnata. Un bambino piange, oppure no, è un cane, un cucciolo. Fuori c'è la nostra pergola d'uva canadese, coi rampi che ancora si cercano e l'amaca di mio padre già imbretellata ai pali, e c'è, sparso come un grande ricamo sul muro di cinta, tutto fiorito il glicine. Ci sono gli odori del basilico e del rosmarino. Ieri sera, là fuori, Ventura ci ha raccontato l'ultima storia del suo pellegrinaggio di tre estati in Bolivia. Si era definito vecchio – era la storia a volerlo così, sono tutti vecchi coloro che giungono nel paese di Aguararenta; e durante il racconto si era immalinconito fino al punto di zittirsi: e questo perché non è dato a nessuno di tornare una seconda volta nel paese di Aguararenta. Mio padre lo aveva ascoltato a occhi chiusi; io, al solito, disegnavo, provavo a rappresentare con i miei pastelli la storia che stavo ascoltando. Ricordo di aver disegnato il nostro Ventura scarmigliato e barbuto nel suo poncho, e poi di aver disegnato un pesce, un pesce che nelle parole del racconto di Ventura era una triglia di scoglio, e il pesce se ne stava all'impiedi sulle sue pinne natatorie davanti a Ventura e aveva tutto attorno un alone di squame, di lustrini e pagliuzze. | << | < | > | >> |Pagina 29No, Ventura non è gobbo. Lo dicevano gobbo, così come dicevano che mio padre aveva un occhio di vetro. Le carte d'identità, in un paese, è il paese a riscriverle, specie alla voce «segni particolari». Il problema è che Ventura aveva questo suo modo di incassare le spalle, a testuggine: e si ingroppava, ingobbiva. Eppoi era nato e cresciuto all'Orfanotrofio impagliando sedie e dopo, grazie a padre Antonio, ricopiando registri e archiviando pratiche in una stanzetta che neppure i nani. Mio padre e l'occhio di vetro invece è un'altra storia; ci fu un eclisse di sole dall'altra parte del mondo, e mio padre fu troppo curioso, e un occhio sbiancò... Comunque fu allora che mio padre conobbe Ventura. Accadde al bar della Foce, una sera tardi. Il vento sbatacchiava le imposte e una donna provocava Ventura, io te la dò, gli diceva, e tu mi dai il grammofono che ho visto sul carretto della mercanzia. E pigliala, ridevano gli avventori. E daglielo, ridevano gli avventori. E rideva il gestore, e rideva quel vecchio sporcaccione del rigattiere. Cosa non si farebbe per ridere un po' in un paese ridotto a una fila di case, a un casamento sul mare. Anche pagare una donna, quei paesani. Anche inventarsi un bordello. E Ventura annaspava a quattro zampe tra i tavoli, e giù sberle, giù calci in culo... Poi la porta si apre e annunciato da sbuffi di fumo entra in scena mio padre. Che è un marittimo, un ufficiale della Marina svizzera, e quel che vede, un'occhiata e il saloon dell'Isola dei Ladri è ormai lontano, nessuno ne sa abbastanza, qui, dell'arte di attaccare briga, nessuno dubita dell'esistenza della Marina Svizzera... La sanno tutti lunga qui. Così mio padre va al banco e ordina una birra e un'anisetta. Prima beve la birra, poi domanda alla donna chi è quel disgraziato e se, putacaso, è in vendita. La donna molla la collottola di Ventura, mio padre beve l'anisetta. La donna dice che sì, si può fare, però in cambio vuole un grammofono. D'accordo, dice mio padre. Col cavolo, protesta il vecchio rigattiere. Un tizio si alza e dice che è venuto tardi, buonanotte a tutti. Aspetta che ti accompagno, dice un altro tizio. Si chiude, dice il gestore. La donna e il vecchio escono per ultimi. Mio padre invita Ventura a sedersi, ordina due birre e gli spiega che andare per mare o dà alla testa o mette una gran sete. Andare per mare, e la testa va dove va il mare. Andare per mare, e la sete è grande quanto grande è il mare. Mio padre spiega a Ventura che la gente non sa mai che pesci prendere quando ha a che fare con un marinaio. La gente è strana, ma ha paura di sapersi strana. Il marinaio, se è un marinaio, gioca con la paura della gente. Finisce che mio padre brinda al mare, Ventura e il gestore brindano ai marinai. | << | < | > | >> |Pagina 67Il naso mi si spellò, e ci piansi. Invece dei fuochi d'artificio, la sera di Ferragosto dovemmo accontentarci di un temporale elettrico. I fulmini e le saette attraverso il cielo di ponente, e mio padre si scolò due birre e disse che, in verità, quel che vedevamo era un corto circuito. Un'estate tutta da dimenticare quella del 1968. Un ragazzo mi giurò che avevano preso la Bastiglia, i ragazzi francesi. Raccontava balle, e comunque la sua Bastiglia era la minigonna che voleva sfilarmi di dosso. In quanto ai carri armati russi che avevano invaso la Cecoslovacchia, neanche uno imitò gli elefanti di Annibale e valicò le Alpi... La stagione passava; accampati sugli scogli o in pineta gli studenti scroccavano il sole e il mare: e chi aveva pagato, cioè i villeggianti, si vergognava dei soldi spesi e rifaceva i bagagli maledicendo il mondo. Ma quale mondo? Per la gente, in paese, il mondo era i clienti che se ne andavano, scontenti, era i conti che non tornavano, gli chalet vuoti, le cabine dei Bagni abbandonate – ed era, soprattutto, il mare. Non questo mare, sciatto e sporco di rigovernature. Non questo mare, l'altro. E, badate, la gente aveva le sue ragioni. La gente aveva fisso in mente, come un chiodo, l'altro suo mare: quello delle grandi spiaggie bianche che ornava come una trina di pizzi la vista davanti alle case, e non c'erano scogli, né muraglie, né dighe, ma solo sabbia pepe e sale rigonfia di cotoni e di dune, e di padiglioni, e delle impalcature degli stabilimenti... Io non me ne ricordo, ma la gente sì. E incolpava il mare, la sua fame di terra, la sua ingordigia; ne aveva nostalgia, e lo malediva. C'era gente in paese che ancora sollevava i bambini sugli scogli, indicava loro con un gesto largo il mare e poi diceva: c'era una volta il mare... La gente non sopportava il ricordo del mare; e del resto anche mio padre, un giorno, mi aveva detto che il mare è ricordarsi del mare... Per fortuna noi Pfeiffer avevamo un mare di scorta; ce lo tenevamo in casa come si tiene un cane al guinzaglio e la sera sotto la pergola mio padre gli dava corda tra un bicchiere e l'altro di quella birra in cui era convinto di poter affogare l'asma. Era una birra messicana color pipì, e andava bevuta con una scorza di limone. Io che non bevevo, disegnavo; già provavo a dipingere con gli acquarelli, e tanta era la birra, e così poco somigliava alla birra, che spesso mi sorprendevo a pensare cos'è che in realtà dipingevo: il mare, la birra, o un mare di birra? Ero allegra, se parlavo la mia voce squillava tra le mura che cingono l'orto. Mio padre mi guardava con l'occhio striato di bianco, e anche lui era allegro. Mare o birra? Dovevo decidermi. Dovevo decidere se era schiuma di mare o di birra quella in cui intingevo i miei pennellini. | << | < | > | >> |Pagina 90Giacché in Bolivia, perlomeno nel 1969, certe storie un po' vere e un po' no, bisogna pazientare: e può essere che si avverano, accadono.La conoscete, la storia delle taparacos? ... ... Le taparacos sono quelle farfalle notturne che abitano la regione del Río Grande. Hanno grandi ali nere e pelose, e hanno impresso sul dorso (come sull'anello dell'Uomo Mascherato) un teschio. Sono tanto brutte quanto innocue, le taparacos: vivono di notte, come nascondendosi, e le più campano di espedienti e di elemosine ma senza dare fastidio a nessuno. Eppure, all'alba del 12 ottobre del 1967, eccole sorgere da ogni dove, a torme, e invadere le colline e le piane della regione, eccole risalire i canaloni del Nancahuazú e il letto pietroso del Rosita e del Río Grande: eccole che in formazioni guerresche, a cuneo o a falange, si precipitano incontro agli accampamenti della VIII Divisione e ai convogli militari, invadono le proprietà, i latifondi e le piantagioni del tabacco e della coca... E questo dall'alba al tramonto, ogni giorno, le taparacos. E questo tutti i santi giorni delle stagioni calde fino al 27 aprile del 1969, le taparacos. ... ... La follia delle taparacos ebbe inizio il pomeriggio dell'11 ottobre 1967, dopo l'annuncio che il corpo morto del Che Guevara - già mostrato, fotografato e filmato a Valle Grande - era stato incenerito e disperso al vento. Uno dei luogotenenti del Che, l'indio amazzonico Inti Peredo, maledì i suoi assassini e invocò il castigo di Dio per gli uccisori, a cominciare dal Presidente della Bolivia, il generale René Barrientos. Fu così che mentre Inti Peredo e gli altri superstiti della colonna del Che ripresero la guerriglia, su tutta quanta la regione delle terre basse si materializzò, al sorgere del giorno, l'ombra nera e cattiva, e fino ad allora sconosciuta, delle taparacos. Animali notturni e pacifici, da allora le taparacos comparvero sul far del giorno e simili a nuvole minacciose ne oscuravano le luci, l'aria più limpida, i cieli chiari. Comparivano, assediavano le valli e i fiumi, i boschi delle sierras, le radure degli attendamenti dei soldati e le piste sterrate su cui si posavano gli elicotteri dei rangers e correvano le jeep dei Comandi e dei consiglieri militari americani; comparivano, sempre più numerose e compatte, a migliaia, a decine di migliaia, a milioni, irrompevano nei campi, terrorizzavano le greggi e i muli: e poi che erano trascorse, ritornavano, e il loro era un migrare senza posa e senza fine. Chi dormiva - la siesta, il dormiveglia -, il sonno era breve e pauroso, i sogni incubi di morte. Cacciarle via era impossibile, invano l'esercito sparava loro contro, l'aviazione bombardava quegli sciami neri coi gas lacrimogeni, il napalm e cento altri veleni. Dichiararle fuorilegge o contronatura era impossibile, e invano il Comando della VIII Divisione aveva impartito ai parroci e ai padri gesuiti e domenicani l'ordine di scomunicarle. Invano i corregidores si erano appellati a Inti Peredo, ai suoi fratelli Coco e Roberto, a Urbano, Pombo e Alarcón, i guerriglieri su per le montagne. Le taparacos erano venute a sfidare gli assassini del Che, e a castigarli. E qui bisogna dire del dottor Klaus Altman Hansen. Costui, questo tedesco, era all'epoca del Che Guevara e delle taparacos il capo della polizia segreta del Presidente Barrientos. Era un uomo di mezza età che aveva praticato tutti i tipi di guerra al tempo dei suoi comandi in Europa e specialmente in Francia, a Lione. Da esperto qual era, il dottor Klaus Altman Hansen aveva spiegato al Presidente Barrientos che fare la guerra al Che Guevara era, innanzitutto, fare la guerra alla leggenda del Che Guevara. Il Che Guevara era uno, la sua leggenda era uno, cento, mille Che Guevara. Chi erano i bambini che sui muri delle scuole scrivevano coi gessi Viva el Che? Chi erano quegli artisti, scrittori, editori venuti in Bolivia a cercarlo? Chi erano i minatori che scioperavano, gli studenti che occupavano le Università, i preti che dicevano messa in suffragio del Che? Chi erano gli ufficiali ribelli e le donne innamorate? Chi erano quelle farfalle impazzite, le taparacos? Chi erano tutti costoro se non gli uno, cento, mille Che Guevara della leggenda del Che Guevara? La guerra al Che Guevara, pertanto, era diventata la guerra alla sua leggenda. Combatterla era ammazzare, imprigionare, distruggere: ma, soprattutto, era mostrare di non crederci, di non averne paura. Mostrasse, il Presidente Barrientos, di non aver paura delle taparacos. Andasse nelle terre d'oriente, in pieno giorno, e volando come loro. Andasse nel villaggio di Arque dove lo avevano invitato per inaugurare la nuova scuola elementare intitolata a John F. Kennedy... E il Presidente Barrientos andò in elicottero fino ad Arque, e una volta lassù guardò in basso, vide i bambini con le bandierine e gonfiò il petto, soddisfatto – ma non abbastanza, evidentemente, e le taparacos subito subito ne approfittarono. Oscurato il sole, le farfalle si avventarono sull'elicottero presidenziale, lo accecarono e vorticando insieme precipitarono sulle ortiche della radura dove il velivolo sarebbe dovuto atterrare... Era il 27 aprile del 1969. Quello stesso giorno le taparacos scomparvero dai cieli diurni delle terre basse. Così com'erano venute, scomparvero, erano farfalle suicide dopotutto, e la loro missione era compiuta. Però potevano tornare, erano milioni e milioni queste strane farfalle, e potevano tornare, magari sotto forma di leggenda o di diceria, e inventarsi altri castighi, sabotaggi e male azioni. E qui finisce la storia delle taparacos, e qui comincia la leggenda o la diceria che vuole gli abitanti della regione del Río Grande recitare ogni sera, prima di coricarsi, tre Pater, tre Ave e tre Gloria.
Qui finisce anche la storia, e la carriera boliviana, del dottor Klaus
Altman Hansen. Il quale, in realtà, si chiamava Klaus Barbie.
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