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| << | < | > | >> |Indice7 Presentazione 10 Gli autori Not in my name I testimoni 13 Il senso delle parole di Gino Strada 18 Al Medical Relief di Ramallah di Luisa Morgantini 27 Le sanzioni sulla salute di Maurizio Bonati 36 Noi ebrei israeliani di Ruchama Marton 40 Guerra e informazione di Giulietto Chiesa Le politiche energetiche 49 Fucili e petrolio: politica di potenza e guerre per l'energia di Alberto Negri 54 L'industria del petrolio e il mondo politico repubblicano di Guglielmo Ragozzino Punti di vista dagli Usa 61 I veri piani di George W. Bush di Michael Klare 72 L'eclisse dei diritti umani di Richard Palk Guerra e diritto internazionale 89 La dottrina della guerra giusta di Prançois Rigaux 123 Guerra e legalità di Phil Shiner 134 Guerra al terrorismo e guerra preventiva nel diritto internazionale di Antonietta Di Blase 158 La guerra «umanitaria». Il caso del Kosovo di Giuseppe Palmisano Esame critico delle guerre degli anni '90 185 Gli anni '90, la restaurazione di fine secolo di Raniero La Valle 199 Dalla guerra moderna alla guerra globale di Danilo Zolo Guerra e democrazia 215 Uno sguardo sul XXI secolo. Il ruolo delle Nazioni Unite. Universalità e globalità di Salvatore Senese 226 La guerra e il futuro del diritto internazionale di Luigi Ferrajoli |
| << | < | > | >> |Pagina 7PresentazioneQuesta raccolta di testimonianze e di saggi parte da una realtà ferita dalla follia della guerra. Il filo conduttore è la denuncia circostanziata e interdisciplinare dove i testimoni si alternano a giuristi, politologi e filosofi. Ma la denuncia è sostenuta dall' annuncio che esistono sentieri non ancora devastati verso una società di condivisione: dei diritti, delle risorse e anche delle culture e delle fedi. L'essere umano, cui è toccato in sorte vivere l'inizio del terzo millennio, è sperduto e impaurito: sperduto dal bombardamento di informazioni false e contraddittorie, impaurito in quanto percepisce l'imminenza strisciante di una stagione di follia, che è la guerra omnium contra omnes. Come illustra Richard Falk, la follia è il conflitto globale tra entità globali, tra gli Usa nuovo Stato globale e il terrorismo globale. La guerra preventiva proclamata da G.W. Bush nel discorso tristemente famoso del 2 settembre 2002, cosi come la guerra umanitaria e la guerra infinita, sono eufemismi per legittimare la guerra di aggressione e chi la invoca si colloca ai margini del diritto e converte le sue azioni in mero esercizio di potere, come dicono i saggi di grande spessore culturale di Antonietta Di Blase, Giuseppe Palmisano e Danilo Zolo. Tutto il volume si può considerare un laboratorio di ricerca aperto a coloro che hanno a cuore la salvaguardia della dignità umana ed è orientato, con strumenti di riflessione e piste di fattibilità, a persone e gruppi con scarsa visibilità e deliberatamente marginalizzate dalla cultura dominante. L'espressione «giustizia per tutti», abusata dai mezzi di informazione che tradiscono realtà e linguaggio, resta la radice profonda verso cui è orientata la ricerca umana, o meglio la perla preziosa nascosta nel terreno calpestato che può essere riscoperta con paziente e lucido lavoro di scavo nelle stratificazioni della coscienza. Siamo qui nel nucleo della causa delle cause che colpirebbe a morte la follia della guerra universale e infinita e che si potrebbe esprimere come «tutti i diritti per tutti». Da tale impegno scaturirebbero strategie di contrasto cui il volume non accenna apertamente ma sottintende, in modo inequivocabile. La denuncia nel presente volume viene anche da testimoni: piú che il contenuto delle testimonianze, interessa lo spirito, perché i diritti, come diceva Lelio Basso, camminano nella storia con le gambe delle donne e degli uomini. Mentre gli specialisti elaborano nei centri di studio, gli esseri umani fecondano e danno dignità di storia al dolore che demolisce i tasselli del vasto disegno dell'impunità. Nei saggi conclusivi di Luigi Ferrajoli e Salvatore Senese è ripreso con forza il motivo dell'annuncio. Dice Ferrajoli: «Non possiamo permetterci il lusso di essere pessimisti e di dichiarare la bancarotta del diritto internazionale, che continua comunque a essere la sola alternativa razionale a un futuro di guerre, di terrorismi, di violazioni massicce dei diritti umani». Dunque l'idea che la crisi è priva di alternative equivarrebbe a una abdicazione della ragione. Il futuro di pace non solo è possibile ma è l'unica alternativa realistica, oltre che razionale, al futuro di guerre e violenze prospettato dalle attuali politiche dominanti. Il messaggio di fondo è la ricerca costante e irrinunciabile (perché la ricerca è fattore fondante di vera dignità). Il cambiamento delle strutture mentali tra la gente comune, nell'oceano attuale di parole insignificanti che tradiscono il valore semantico del discorso, è una sponda proponibile e ragionevole. L.B. | << | < | > | >> |Pagina 13Gino Strada
Il senso delle parole
Non sono un esperto, di mestiere faccio il chirurgo, però ho un'impressione: mi sembra di vivere in un mondo in cui sta cambiando - anzi in qualche misura è già cambiato - il senso delle parole e diventa difficile capirsi, ci troviamo in una specie di torre di Babele. La prima parola alla quale è stato cambiato il significato è la parola guerra. Abbiamo assistito a un cambiamento del contenuto della parola: il contenuto della guerra è rappresentato dalle sue vittime. Nel primo conflitto mondiale le vittime civili sono state il 15% del totale dei morti, nel secondo conflitto mondiale le vittime civili sono salite al 65 % rispetto al totale, negli ultimi decenni, in tutti i conflitti interni o internazionali, le vittime civili sono state oltre il 90%. Ho l'impressione che usare la stessa parola per definire fenomeni casi radicalmente diversi, e anche statisticamente opposti, sia fonte di confusione. L'altra parola a cui è stato cambiato senso è la parola terrorismo. Forse a questa parola noi non vogliamo dare il significato appropriato perché nella nostra testa, e nella testa di milioni di esseri umani, alla parola terrorismo viene associato solo quello che ci è stato fatto vedere del terrorismo: le immagini ripetute in modo ossessionante della caduta delle torri gemelle a New York. Nessuno però ha mai visto nemmeno uno dei 5.000 morti civili caduti in Afghanistan dopo il 7 di ottobre 2001 e nei mesi successivi; non li hanno fatti vedere, ma ci sono stati. In Afghanistan noi li abbiamo visti e non ci è stato permesso di parlarne, perché ogni volta che si cercava di raccontarlo venivamo tacciati di essere amici dei terroristi. Credo che anche la parola democrazia abbia oggi un senso profondamente diverso. Faccio fatica a utilizzare questa parola per molti paesi che definirei democratici, primo tra tutti gli Stati Uniti d'America, perché alla mia nozione di democrazia è associata in modo inscindibile la nozione di partecipazione delle persone. Quando vedo lo Stato militarmente piú potente e probabilmente piú ricco, nel quale solo un cittadino su tre partecipa all'attività elettorale e nel quale, alla fine del periodo elettorale una Corte dichiara, «non si contano i voti alle elezioni, ha vinto lui», il mio concetto di democrazia entra in crisi. Ed entra in crisi anche il mio concetto di diritto quando vedo spacciare per diritti quelli che sono i privilegi di pochi, che per un puro caso sono anche i piú potenti, i piú ricchi e i piú armati. Entra in crisi il mio concetto di diritto anche quando osservo le istituzioni internazionali: oggi nel mondo ci sono molte decine di conflitti nei quali i civili vengono ammazzati, si compiono massacri - genocidi in alcuni casi - e molti di questi massacri non solo sono stati organizzati, incoraggiati, finanziati, nei decenni passati, dalle cosiddette democrazie, ma, in questi conflitti, l'85% delle armi con le quali vengono uccisi degli esseri umani sono vendute direttamente dai cinque Stati membri permanenti del Consiglio di sicurezza dell'Onu. Ecco il problema: mi ritrovo oggi con un dizionario in cui le pagine sono state strappate e rimescolate come in un mazzo di carte. | << | < | > | >> |Pagina 61Michael Klare
I veri piani di George W. Bush
Rinfrancato dalla schiacciante vittoria ottenuta alle elezioni di medio termine del 5 novembre scorso e della maggioranza conquistata nelle due Camere, il presidente degli Stati Uniti George W. Bush sta imprimendo l'accelerazione finale al già pianificato intervento armato contro Baghdad. Subito dopo la vittoria elettorale, Bush ha presentato un progetto di risoluzione particolarmente duro sull'Iraq, lanciando un vero e proprio ultimatum ai membri del Consiglio di sicurezza dell'Onu. Ma la ferma volontà del presidente americano di far approvare i suoi piani dalle Nazioni Unite si scontra per il momento sia con l'opposizione dell'opinione pubblica europea e araba che con la resistenza della Francia e della Russia. Riusciranno questi due elementi a bloccare la marcia verso la guerra? Nulla di meno sicuro: la campagna contro l'Iraq si inserisce di fatto in una strategia globale imposta a Washington da una cricca di nostalgici della guerra fredda, che antepongono a qualsiasi altra cosa la loro particolare visione degli interessi strategici, militari, ideologici ed economici degli Stati Uniti. Dopo l'11 settembre, gli Stati Uniti si sono lanciati nella guerra al terrorismo con tanto impeto da dare l'impressione che questo sia il solo obiettivo della politica estera dell'amministrazione Bush. In effetti il presidente Usa ha ribadito piú volte di vedere oggi in questa campagna globale la sua principale responsabilità. Ma anche se lo sforzo compiuto dagli Stati Uniti in questo campo è enorme, non si può certo dire che la lotta al terrorismo sia l'unica preoccupazione del governo americano. Fin dal giorno dell'investitura di Bush, la Casa Bianca ha dedicato un'attenzione non minore ad altre due priorità strategiche: la modernizzazione ed espansione dell'apparato militare americano e l'acquisizione di ulteriori fonti petrolifere all'estero. Benché inizialmente diversi, questi obiettivi hanno finito per fondersi tra loro, dando vita a un unico disegno strategico che orienta oggi la politica estera americana. Questa nuova strategia non ha un nome ufficiale, e non sembra che a Washington sia stata esplicitamente formulata o espressa in una dichiarazione di principi. Ma senza alcun dubbio sono quelle tre priorità, confluite in un unico piano, che hanno determinato un profondo cambiamento nel comportamento dell'America sul piano militare. Per meglio comprendere la natura di questo cambiamento sarà utile esaminare le recenti iniziative degli Stati Uniti in alcuni settori critici. | << | < | > | >> |Pagina 185Raniero La Valle
Gli anni '90, la restaurazione di fine secolo
L'ultimo decennio del Novecento, che non è un secolo breve se non viene amputato dagli storici, è stato un decennio che si è posto in netta discontinuità con la storia del dopoguerra. Il decennio che avrebbe dovuto essere quello della distribuzione dei dividendi della pace e della costruzione di un ordine unitario del mondo dopo la rimozione del muro di Berlino e la fine dei blocchi è stato invece il decennio delle speranze frustrate, di grande disordine e di nuove, piú gravi divisioni. Avrebbe dovuto essere, come l'aveva proclamato l'Assemblea generale dell'Onu, il «decennio del diritto internazionale», ed è stato invece il decennio in cui è stata ripristinata la guerra come mezzo ordinario di governo del mondo, tanto che dal 1991 al 2001 si sono addirittura celebrate tre guerre che, se viste nella continuità dei soggetti che le hanno intraprese e nella logica che le accomuna, sono in realtà un'unica guerra, probabilmente destinata a prolungarsi nell' annunciata guerra contro l'Iraq. Per capire come ciò sia potuto accadere, occorre ripensare la storia del Novecento come una storia segnata da due grandi discontinuità. Non si può capire la storia se la si immagina come un tempo continuo e omogeneo. Walter Benjamin, facendo appello alla sua comprensione ebraica, nelle Tesi di filosofia della storia dice che ci sono degli «arresti», delle «irruzioni» messianiche che scuotono il tempo ordinario. Ci sono delle discontinuità. Ci sono dei potenti deposti dai troni e degli umili esaltati, dei castelli che cadono, altri si costruiscono, poi di nuovo cadono e quelli di prima risorgono. La storia è fatta di continuità, ma anche di rivoluzioni, di controrivoluzioni e di restaurazioni. Oggi, nel tempo della guerra globale e infinita, siamo nel pieno di una controrivoluzione e di una fosca restaurazione. [...] L'occasione perduta dell'89 Nel 1989 si produce la seconda grande discontinuità. Quando finisce l'Unione Sovietica, si chiude la fase della dissoluzione degli imperi e si può ricominciare. Gli Stati Uniti sono pronti a raccogliere l'eredità di una sovranità universale. Il decennio successivo, dalla guerra del Golfo agli attentati terroristici dell'l1 settembre 2001, è il periodo in cui questo progetto prende corpo, si perfeziona, si chiarisce agli stessi americani. La rimozione del muro di Berlino è la grande occasione perduta per la costruzione di un mondo diverso, di «quell'altro mondo possibile» che il movimento no-global comincerà a invocare sulle soglie del nuovo millennio.
L'ipotesi che qui vorrei avanzare è che l'Occidente ha sbagliato la lettura
e la risposta agli eventi dell'89, prima favorendo la dissoluzione dell'Urss,
poi concependo un mondo di cui esso fosse l'unico gendarme e padrone;
l'Occidente non ha saputo uscire dal sistema di dominio e di guerra che era
legato alla diarchia del terrore ma, venuta meno l'Unione Sovietica, ha
proseguito quel medesimo sistema mettendosi alla sua testa da solo; esso
pertanto non ha saputo cogliere l'occasione di quella inaudita e pacifica
discontinuità storica, non ha saputo concepire e gestire un progetto nuovo per
il mondo che rappresentasse un vero superamento del vecchio sistema bipolare, e
cosi facendo si è inserito nella traiettoria della sua caduta, giungendo oggi a
una crisi che è speculare a quella che fu la crisi del comunismo e che può
essere considerata come la fase finale della crisi di quell'ordine.
Che fare del mondo? Per capire dov'è stato l'errore, occorre ricordare gli eventi di quel 1989. Il 14 novembre 1989 una telefonata allarmata da Berlino informava Mosca che i tedeschi dell'Est, trattenuti dal Muro, volevano passare dall'altra parte. E Gorbacev rispose: fateli passare. Solo qualche anno prima l'Unione Sovietica avrebbe risposto: schierate i carri armati. Dunque c'era una novità. Questa decisione politica è passata alla storia come la «caduta del Muro di Berlino». Ma l'Occidente non era preparato a capire quella novità. Non cosi aveva pensato che potesse venire meno la minaccia armata del comunismo. E cosí si aprí un vuoto che non si era minimamente preparati a riempire. L'unica cosa che l'Occidente riusci a dire fu che la guerra fredda era finita, e che lui l'aveva vinta. Ma che fare del mondo? Questo è il problema dei vincitori, ormai non piú trattenuti da nessuno. Finalmente il capitalismo ha prevalso, il mercato è ormai universale, le piu ardite speranze dei teorici del liberalismo che avevano profetato: col libero commercio, l'eterna pace, si possono realizzare. La storia è giunta al suo adempimento e noi ce l'abbiamo portata. D'altra parte il capitalismo che dai grandi paesi dell'Occidente si presenta a raccogliere l'eredità del mondo, è un capitalismo attraente, un capitalismo non solo di ricchezze e di lustrini televisivi, ma anche di diritti, di protezione sociale, di pluralismo politico. Non è il capitalismo selvaggio di oggi, è un capitalismo ancora profondamente influenzato dall'esistenza di un campo antagonista, dalla sfida esterna del mondo socialista, dal condizionamento interno delle sinistre e dei sindacati, dal compromesso keynesiano. E quindi tutti ci vogliono entrare, o immigrandoci dentro, o facendosene invadere a casa loro. Ma a questo punto, caduto il limite esterno, il capitalismo realizzato si accorge di non essere affatto universale. È il sistema migliore possibile, ma non è per tutti, i suoi benefici non si possono estendere a tutti. Esso non può reggere la vita e lo sviluppo del mondo. Non può sfamare tutti, non può avere acqua e medicine per tutti, non può permettere la democrazia a tutti. I meccanismi economici non sono attrezzati per questo, perché sono fatti per incrementare il denaro e non per soddisfare i bisogni. Ma questo non è il solo problema. È lo stesso ordine fisico della terra che presenta limiti invalicabili a una fruizione universale del livello di vita conseguito dalle aree privilegiate del sistema. Il Club di Roma già nel 1971 aveva proiettato nel futuro i limiti dello sviluppo, e quelle previsioni erano risultate fondate. Stava per finire il petrolio, il gas naturale, il carbone, stava per cambiare il clima, stavano per ritrarsi le acque da bere e innalzarsi le acque marine, i tassi di inquinamento stavano per raggiungere livelli catastrofici. [...] La Carta dell'impero Un anno dopo, il 17 settembre 2002, la dottrina dell'impero viene formalmente enunciata nel documento sulla nuova strategia della sicurezza nazionale degli Stati Uniti, che in realtà è la Carta istitutiva dell'impero. Essa proclama che c'è un unico modello accettabile per le nazioni, che è definito con tre termini: libertà, democrazia e libera impresa. Dunque è un modello politico, che è quello dello Stato liberale, è un modello istituzionale, che è quello delle democrazie occidentali, ed è un modello economico che è quello del capitalismo; ogni alternativa, ogni pluralismo di dottrine e di sistemi sono negati. Poi il documento afferma l'unicità e insuperabilità degli Stati Uniti: gli Stati Uniti, dice il documento, «godono di una potenza militare senza eguali e di una grande influenza economica e politica». Questa unicità dovrà essere mantenuta per sempre; dice infatti il documento: «le nostre Forze (armate) saranno abbastanza forti per dissuadere potenziali avversari dal perseguire un potenziamento militare nella speranza di sorpassare o eguagliare il potere degli Stati Uniti»; nessuno potrà mai pensare non solo di poter superare, ma nemmeno eguagliare il potere americano. Mai piú una potenza come l'Urss, ma anche mai una potenza come la Cina o come l'Unione Europea. In questo contesto il documento enuncia la dottrina della guerra preventiva - «la migliore difesa è una buona offesa» - e dichiara che gli Stati Uniti agiranno anche da soli. C'è una rivendicazione della solitudine americana. E quando il documento cita le alleanze, le organizzazioni internazionali con le quali gli Stati Uniti intendono collaborare, cita l'Onu, l'Organizzazione mondiale del commercio, l'Organizzazione degli Stati americani e la Nato, ma la Nato non è piú al primo posto, è un'alleanza tra tante. E in un altro punto del documento si citano come distinti gli Stati Uniti e la comunità euroatlantica. Dunque la novità è che gli Stati Uniti non sono piú una potenza dell'Occidente, non sono piú l'Occidente. Se eravamo abituati fino a oggi a parlare degli Stati Uniti e dell'Occidente come di una cosa sola, anzi a parlare dell'America come dell'espressione stessa dell'Occidente, d'ora in poi non sarà piú cosi: l'America si pone come altro dall'Occidente. Non sta piú da una parte del mondo, ma sta sopra il mondo come sovrano universale di una geografia globale di cui lo stesso Occidente è solo una parte. | << | < | > | >> |Pagina 199Danilo Zolo
Dalla guerra moderna alla guerra globale
Premessa Siamo in presenza di un processo di transizione dalla «guerra moderna» alla «guerra globale». Per «guerra moderna» intendo qui, sommariamente, la guerra limitata dal diritto internazionale, caratteristica dello jus publicum europaeum. All' espressione «guerra globale» attribuisco sia il senso geopolitico di guerra despazializzata, sia il senso sistemico di guerra egemonica, sia infine quello, propriamente normativo, di guerra non limitata dal diritto e, perciò, illimitata. Per cogliere il senso di questa profonda trasformazione è necessaria una minima dilatazione analitica dell'arco temporale dell'ultimo decennio del Novecento. Occorre anzitutto includervi la riflessione strategica che negli Stati Uniti ha fatto prontamente seguito alla conclusione della guerra fredda e al crollo dell'impero sovietico. È una riflessione nel corso della quale gli Stati Uniti hanno preso coscienza del fatto che avevano vinto l'ultima guerra mondiale, la vittoria piú importante di tutta la loro storia. Essi erano ormai la sola superpotenza politica ed economica del pianeta, in grado di presidiarlo con il loro potenziale bellico e le loro tecnologie militari e informatiche in continuo sviluppo. È da qui che bisogna partire - non certo dall'11 settembre - per cogliere il senso del processo di globalizzazione della guerra oggi in atto. In secondo luogo, occorre prendere in considerazione anche la guerra contro l'Afghanistan e la guerra contro l'Iraq. Entrambe rispondono, nel senso piú pieno, al modello della guerra globale. La guerra contro l'Iraq è già di fatto in corso da mesi - e forse si potrebbe dire da anni - e si può dare per scontato che l'azione militare decisiva sia ormai imminente. Sono a mio parere quattro le tappe fondamentali del processo di dilatazione e di diffusione «globale» della guerra di cui occorre tenere conto. A ciascuna di esse, come dirò, corrisponde un illuminante documento strategico prodotto dalle alte gerarchie politico-militari statunitensi: la Casa Bianca, il Dipartimento di Stato, il Pentagono, i vertici della Nato. Le tappe del processo sono ovviamente quattro eventi bellici: la guerra del Golfo del 1991, la duplice guerra nei Balcani, durata a piu riprese dal 1991 al 1999, la guerra in Afghanistan iniziata nel 2001 e mai conclusa, la guerra contro l'Iraq, di fatto già iniziata. Si tratta di eventi bellici che si sono svolti tutti - questo non può essere considerato casuale dal punto di vista geopolitico e geoeconomico - in un'area relativamente ristretta del pianeta, che include i Balcani, il Medio Oriente e l'Asia centromeridionale. In questa cornice analitica l'attentato terroristico dell'11 settembre (2001) presenta un rilievo marginale. Lo sottolineo perché recenti interpretazioni filosofico-politiche - penso ad esempio al recente saggio di Carlo Galli, La guerra globale - assumono invece l'11 settembre come uno spartiacque cruciale, addirittura come il discrimine fra età moderna ed età globale. [...] La guerra contro l'Iraq La «guerra preventiva» contro l'Iraq conclude e compendia il panorama bellico sin qui illustrato. Si tratta per ora di una guerra allo stato latente, ma che già si profila come uno sviluppo perfettamente coerente della strategia elaborata e praticata dagli Stati Uniti a partire dai primi anni '90 del Novecento. L'obiettivo principale della guerra sembra quello di controllare militarmente - e di «democratizzare» con la forza - l'intera area mediorientale. Quest'area è nello stesso tempo il piú ricco deposito di risorse energetiche del mondo, una regione altamente instabile e il crogiolo del terrorismo islamico. Al suo centro sta l'irrisolta questione del conflitto fra lo Stato di Israele e l'Autorità nazionale palestinese: una questione che la guerra potrebbe avviare verso la sua soluzione finale: l'etnocidio del popolo palestinese. Ancora una volta è un documento della Casa Bianca, - il «National Security Strategy of the United States of America», del 17 settembre 2002 - a gettare luce su una prospettiva bellica che si profila come radicalmente eversiva non solo della Carta delle Nazioni Unite ma dell'intero diritto internazionale generale, cosi come si è consolidato nei secoli della modernità. Le linee fondamentali del documento sono le seguenti quattro: 1) L'introduzione della nozione di «guerra preventiva» contro qualsiasi possibile nemico. Si tratta di una nozione che si oppone all'intera struttura del diritto internazionale di guerra oggi in vigore; 2) il ricorso strategico alla minaccia dell'uso della forza contro paesi unilateralmente definiti dagli Stati Uniti medesimi come «Stati canaglia» | << | < | > | >> |Pagina 226Luigi Ferrajoli
La guerra e il futuro del diritto internazionale
[...] Dobbiamo allora domandarci in che cosa consisterebbe questo «nuovo ordine internazionale» alternativo a quello disegnato dalla Carta dell'Onu e basato sulla guerra. Non dobbiamo fare sforzi di fantasia. Si tratterebbe della legittimazione, oltre che della guerra e della legge del piú forte, dell'assetto attuale del mondo: segnato da una disuguaglianza senza precedenti, che si manifesta nei milioni di morti ogni anno per fame, per mancanza di acqua e di farmaci essenziali. Con una decisiva differenza: il crollo della credibilità, agli occhi del resto del mondo, di tutti i valori dell'Occidente - la democrazia, lo Stato di diritto, la legalità, i diritti fondamentali, l'uguaglianza, la dignità della persona - e perciò l'esplicitazione, senza piú veli ideologici, del latente razzismo espresso dalle nostre politiche, o meglio dall'assenza di qualunque politica che non sia quella delle armi idonea a fronteggiare i grandi problemi del pianeta. È questo latente razzismo, piú ancora dell'oggettiva ingiustizia e disuguaglianza, che sta provocando in tutto il mondo una crescita dell'odio e dello spirito di rivolta nei confronti dell'Occidente e sta minando le basi delle nostre stesse democrazie. Il razzismo, scrisse Michel Foucault 27 anni fa, consiste precisamente nell' «introdurre una separazione, quella tra ciò che deve vivere e ciò che deve morire»: è «la condizione d'accettabilità della messa a morte..., la condizione in base alla quale si può esercitare il diritto di uccidere». È la condizione, appunto, che ci consente di tollerare e perfino di applaudire le nuove guerre di questi anni «senza perdite di vite umane» dalla nostra parte e con migliaia di vittime innocenti - evidentemente avvertite come «inferiori» - nei paesi bombardati. È lo stesso, tacito razzismo, che ha reso possibile negli Stati Uniti l'approvazione delle cosiddette «leggi patriottiche» che hanno istituito tribunali speciali e processi sommari per i soli noncittadini; che rende possibile accettare le attuali politiche contro l'immigrazione, incluso il dramma di migliaia di migranti respinti ogni anno alle nostre frontiere e di decine di altri che muoiono ogni anno affogati prima di approdare sul nostro territorio; che infine permette all'opinione pubblica dei nostri ricchi e spensierati paesi di sopportare o almeno di rimuovere la morte per fame o mancanza di cure di milioni di esseri umani ogni anno. Solo il razzismo, cioè il senso di una radicale asimmetria tra «noi» e «loro», consente di promuovere e di praticare queste politiche di morte. E il rapporto tra politiche di morte e razzismo è un circolo vizioso: le une sono legittimate e assecondate dall'altro. Le nostre leggi con cui migliaia di immigrati vengono ogni anno espulsi o respinti alle nostre frontiere, non diversamente dalle nuove guerre e dalle gabbie di Guantanamo, vengono decise per soddisfare le pulsioni razziste e le richieste di vendetta indiscriminata dell'opinione pubblica (e dell'elettorato) occidentale, che da quelle politiche, a loro volta, vengono legittimate, alimentate e rafforzate. Il razzismo, del resto, è sempre stato l'effetto piú che la causa delle discriminazioni e delle oppressioni. Fu necessario il razzismo per rendere tollerabili, in età moderna, la conquista del nuovo mondo, le colonizzazioni e la schiavitú. È necessario il razzismo per rendere oggi accettabile, al di là degli incredibili argomenti della propaganda, il progetto di bombardare un paese con una guerra di aggressione che provocherà migliaia di morti a beneficio di una lobby di petrolieri.
C'è poi un altro effetto che sarebbe provocato dalla guerra e che in parte è
già stato prodotto dalle guerre passate e dal clima di guerra in cui stiamo
vivendo: la crisi della democrazia.
In primo luogo la crisi delle libertà e l'involuzione poliziesca della
democrazia all'interno dei nostri stessi paesi. Ho già detto delle leggi
patriottiche fatte votare da Bush negli Stati Uniti. Ma si pensi anche al
decreto antiterrorismo inglese, che di fatto sopprime l'
habeas corpus
per i sospetti di terrorismo; o al nostro decreto legge n. 374 del 2001, che
estende in maniera indeterminata i presupposti delle intercettazioni telefoniche
«preventive» e i poteri della polizia nelle indagini sul terrorismo; o alla
crescita delle paura, delle politiche di esclusione e del clima di intimidazione
che soprattutto negli Stati Uniti, come ha riferito Richard Falk, si è
sviluppato in nome dell'emergenza nei confronti del dissenso.
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