|
|
| << | < | > | >> |IndiceIngresso nella fantasmagoria delle molteplici vite 7 Etalide, l'ermetico argonauta 45 Euforbo, il guerriero frigio 67 Ermotimo, l'intellettuale vagante 119 Pirro, l'oscuro pescatore 139 Pitagora, il sedicente soggetto 155 L'ultima comparsa di Pitagora 177 Note 191 |
| << | < | > | >> |Pagina 7Nell'ambito della filosofia occidentale, la teoria della metempsicosi viene fatta risalire a Pitagora, nonostante si rinvengano tracce che accreditano la concezione dell'anima già a Talete e a Ferecide e che attestano nei frammenti superstiti di Eraclito la prima consistente presenza del termine psyché, conforme ad un significato distinto dal patrimonio omerico. Secondo la tradizione ricostruita da Rohde, prima di Pitagora gli Elleni credevano che gli uomini avessero un'anima, ma giudicavano che, dopo la morte, sostasse senza vita e senza luce entro un antro buio, simile alla vacua visione di uno spettro; infatti, nel poema di Omero, Odisseo discende nell'Ade su consiglio della magica Circe e vi incontra il fiero Achille in compagnia del fedele Patroclo e del risentito Aiace: ora che non vivono più, resteranno per sempre solo quello che sono stati, la loro vita è adesso un'ombra, la loro anima è solo un simulacro, un'apparenza vana, non è viva, ma illusoria. Invece, con la diffusione delle dottrine pitagoriche, si profilò il pensiero che le anime non muoiano, ma continuino a vivere in modo incorporeo e in una condizione anche migliore non nei recessi bui sotto terra, ma negli spazi siderei, da cui possono perfino rientrare in altri corpi, riprendendo vita anche sulla terra. Questa sarebbe stata la nota teoria di Pitagora, l'unica forse che, ad un esame critico severo, la frammentarietà e l'incertezza delle fonti consentono di attribuirgli di sicuro. Anche su questo tema, tuttavia, resta incerto se proprio Pitagora avesse inteso l'anima come numero o come frammento di etere, e se avesse concepito proprio la metempsicosi e che cosa significasse, visto che l'apparizione del termine è posteriore al filosofo di almeno cinque secoli.
Se è comunque ammesso che a Pitagora sia ascritta la teoria della
metempsicosi, meno studiato, quantunque non ignoto, è il fatto che
una certa tradizione gli abbia attribuito effettive reincarnazioni in
determinate persone o, anzi, in personaggi mitologici ed epici, come
Etalide, un figlio di Ermes, o come Euforbo, un guerriero frigio che
prese parte alla difesa di Troia. Poiché le testimonianze superstiti di
Aristotele non lo documentano compiutamente, e poiché quelle aristoteliche
costituirono le direttive fondamentali per la ricostruzione
del pensiero presocratico, a partire dall'impostazione filosofica di
Hegel e dalla critica storiografica di Diels, il particolare delle molteplici
vite precedenti di Pitagora è passato di mano o è stato assunto
come un elemento secondario rispetto alla concezione dottrinaria,
come un orpello favolistico e inessenziale di una teoria, fra l'altro
meglio sviluppata ed esposta dagli scritti di Platone, quali il
Fedone
e il
Fedro.
Taluni autori, come lo stesso Hegel, sostennero che le fantastiche
facezie, fra cui rientrano le determinate reincarnazioni, facessero parte di
compilazioni molto tarde, ricalcate sul repertorio del
Cristianesimo in modo da controbatterne la crescita sullo stesso
campo. Ma, forse più verosimilmente, le reincarnazioni di Pitagora
vennero proposte fin dal V secolo a.C., proprio per dimostrare con la
vita del filosofo la sua dottrina; questa dimostrazione leggendaria fu
avanzata da testi meno razionalistici di quelli di Aristotele, ma più esoterici
ed ermetici. Ad ogni modo, la fonte primigenia e più ampia – la
più importante, ma non l'unica – delle favolose incarnazioni di
Pitagora è proprio la testimonianza di un insolito frequentatore del
Peripato, un aristotelico
sui generis:
il platonico, ma non accademico, Eraclide Pontico (vissuto nel IV secolo a.C.).
Eraclide Pontico riferisce che Pitagora diceva di se stesso, che una volta fu Etalide e che si credeva figlio di Ermes e che Ermes gli consentì di scegliersi ciò che volesse, eccetto l'immortalità. Egli chiese di avere, tanto vivo che morto, il ricordo di quanto accadesse. E pertanto in vita ebbe memoria di tutto e, dopo la morte, conservò la stessa memoria. Successivamente venne nel corpo di Euforbo e fu ferito da Menelao. Ed Euforbo diceva che una volta era stato Etalide e che da Ermes aveva avuto quel dono e raccontava le peregrinazioni della sua anima, in quante piante e in quanti animali era migrata e quante sofferenze aveva sofferte nell'Ade e quali le altre anime soffrivano. Morto Euforbo, la sua anima trapassò in Ermotimo che, volendo anch'egli darne prova, si diresse a Branchide ed entrato nel tempio di Apollo mostrò lo scudo che aveva dedicato Menelao (diceva infatti che costui, nel far ritorno da Troia, aveva dedicato lo scudo ad Apollo), ormai imputridito di cui permaneva soltanto la superficie d'avorio.
Morto Ermotimo, divenne Pirro, pescatore di Delo; e tutto di nuovo
egli ricordava, come prima fosse stato Etalide, poi Euforbo, poi Ermotimo, poi
Pirro. Morto Pirro, diventò Pitagora e ricordò tutti i mutamenti predetti.
Questa nota venne trasmessa da Diogene Laerzio (attivo nel III secolo d.C.), ma bisogna precisare che, allorché trascrisse concisamente questa storiella pseudobiografica, egli non intese introdurre il concetto pitagorico di anima (che espose in seguito, sulla base di un'altra fonte, le anonime Memorie pitagoriche, lette in Alessandro il Poliistore), ma volle inquadrare i luoghi natali di Pitagora, delineando una griglia di ipotesi completa: mentre Ermippo il Callimacheo li collocava a Samo e Aristosseno di Taranto nella zona del Tirreno, Eraclide li raccontava fantasiosamente partendo da una famigerata filiazione da Ermes per giungere ad un'esemplare adozione di Apollo. Non è evidente che Diogene Laerzio avesse compulsato direttamente il testo di Eraclide, dato che non indicò neppure il dialogo in cui la storiella era contenuta e, a parte questo caso delle quattro vite pregresse, non citò altrimenti Eraclide Pontico nel contesto della Vita di Pitagora, né riferì niente d'attiguo e consono a questo riguardo nella trattazione specificamente dedicata alla Vita di Eraclide Pontico. Il passo venne, dunque, estratto da altra e imprecisata fonte, che lo conteneva e che non dovette essere distante dalle Successioni dei filosofi di Sozione di Alessandria, eventualmente letta nelle epitomi del Lembo o di Sosicrate, poi rifuse nell'opera di Alessandro il Poliistore. È meno probabile che fosse a disposizione del Laerzio uno dei dialoghi di Eraclide, quali Sui Pitagorici e sulle scoperte, Sulle cose nell'Ade, Sull'anima, i cui titoli paiono consentanei con il contenuto delle reincarnazioni, ed è più verosimile che egli si avvalesse di un manuale dossografico. Non è dunque credibile che Diogene Laerzio abbia conosciuto il testo di Eraclide Pontico, poiché il capitoletto a lui riservato risulta superficiale, non riporta alcuna dottrina speculativa e rientra nei confini dell'aneddotica biografica, attinta per lo più da fonti comuni a quelle stesse utilizzate per Pitagora. Tuttavia, fu sempre Diogene Laerzio a documentare un'altra significativa informazione di Eraclide Pontico relativa a Pitagora; si tratta della definizione di cosa sia la filosofia, ovvero della nascita di questo vocabolo, secondo il senso specifico che avrebbe avuto da Pitagora in poi: Per primo Pitagora usò il termine "filosofia" e per primo si chiamò filosofo, discorrendo in Sicione con Leonte tiranno dei Sicionii o dei Fliasii, come attesta Eraclide Pontico nell'opera Sulla femmina esanime: nessuno è sapiente, eccetto la divinità. Più anticamente si chiamava "sapienza" e sapiente chi la professasse, ed eccellesse nell'estrema cura dell'anima; filosofo era colui che accoglie la sapienza° | << | < | > | >> |Pagina 20Infatti, il suo resoconto si basò sull'opera di Antonio Diogene Meraviglie oltre Tule, da lui espressamente menzionata, in cui era contenuta l'intera serie delle quattro personificazioni, risalente a Eraclide Pontico, come ancora una volta dimostra la comparazione con il De mensibus di Giovanni Lido sempre riguardo al segreto della fava chiusa in un pentolino coperto. Il fatto che tali notizie fossero incluse non in un trattato, ma in una narrazione di carattere fantastico, può spiegare perchè la loro trasmissione abbia comportato il depauperamento della loro specificità filosofica e l'agglomerazione di elementi allotri. Per altro, Antonio Diogene avvalorava le inverosimili avventure da lui narrate con una nolteplicità di riferimenti ad autori e opere effettivamente esistenti in modo da rendere credibile la narrazione stessa, acuendo così la loro portata stupefacente. La trama del romanzo Meraviglie oltre Tule può fornire chiarimenti sul valore delle informazioni trasmesse.Nell'isola di Tule, posta ai confini settentrionali del mondo, un giovane viaggiatore di nome Dinia alla ricerca della conoscenza, vede un fantasma di fanciulla tutte le notti e solamente di notte: è un sogno o un'apparizione? È un incantesimo? È una presenza? È Dercillide e, per una traversa disavventura, è incappata in un inganno: può vivere solo col favore delle tenebre e di giorno è come morta, inerte, esanime. Un poco per volta ogni notte, Dercillide narra a Dinia la sua storia: a Tiro, dove viveva, aveva incontrato un sapiente egizio, chiamato Paapis, e ne era rimasta affascinata; aveva appreso conoscenze magiche ed era stata richiesta in sposa, ma poi la sua casa era crollata, i suoi genitori erano morti, la sciagura era sopraggiunta e Paapis si era rivelato un falso in toto: aveva ambito al suo amore, l'aveva chiesta in sposa, ma in segreto si era sollazzato con la sua serva Mirto, a cui aveva promesso le nozze e a cui aveva invece inflitto una crudele condanna, poiché, per impedirle di spifferare tutta la verità alla sua signora, prima l'aveva resa muta e poi l'aveva uccisa. Dercillide aveva peregrinato attraverso molte isole e coste del Mediterraneo, era stata aiutata dall'anima della fedele Mirto, ormai morta ma capace di condurla dentro l'Ade, aveva conosciuto Astreo e lo spettacolo favoloso dei suoi occhi: s'ingrandivano o stringevano in rapporto alle fasi crescenti o calanti della luna e potevano mirare il sole senza chiudere le palpebre, segnalavano cioè la vita degli astri con cui erano in perfetta sintonia. Astreo era stato adottato come fratello di Pitagora, fin da quando venne rinvenuto dal padre Mnesarco vicino ad un pioppo, intento a scrutare il cielo e a nutrirsi di rugiada; era stato poi istruito dallo stesso Pitagora sulle sue dottrine apprese in Egitto e a e Babilonia. Dunque, insieme al pitagorico Astreo, Dercillide era riuscita ad uscire dall'Ade presso la terra dei Cimmeri nel Partenopeo, si era recata alla tomba della Sirena Partenope dov'era stata introdotta ai misteri, aveva compiuto viaggi presso popoli diversi durante i quali aveva assistito ai prodigi di Astreo, che col suono di un flebile flauto ammansì i nemici degli ospitali Iberici e con altra arte mutò il colore dei cavalli per fuggire gli ostili Celti e meglio nascondersi fra la vegetazione e la notte; rimasta sola e incappata di nuovo nel malefico Paapis, rinvenuto presso un tiranno di Leontini, da cui era stata condotta dopo esser stata arrestata a Erice, Dercillide era poi fuggita a Metaponto, dove aveva ritrovato Astreo, e insieme a lui, ma sempre inseguita dall'ossessionante Paapis, si era diretta ín Tracia per chiedere consiglio ad un vero esperto di profezie: qui, infatti, Astreo aveva interrogato Zalmossi sul destino di Dercillide. Zalmossi era stato lo schiavo di Pitagora, era divenuto libero e sapiente grazie a lui e, perciò, aveva potuto rivelare a Dercillide la sconosciuta colpa, che l'aveva legata al suo improbo destino: senza saperlo, Dercillide aveva concorso alla morte dei suoi genitori operata coi malefici del falso Paapis, di cui si era improvvidamente fidata, aspirando a una facile felicità, piuttosto che seguire un'esperienza sapienziale autentica, ma impegnativa. Quindi, mentre Astreo era rimasto in Tracia insieme a Zalmossi, con cui celebrava in comune lo stile di vita pitagorico, Dercillide aveva dovuto ricercare fra ulteriori e convulse peripezie la via della sua catarsi, finché era giunta all'isola di Tule, dove era incorsa nell'ira inferocita di Paapis che, con rito magico, le aveva sputato in faccia in aperto pubblico e le aveva inflitto così la pena di morire di giorno e vivere di notte. Dunque, soltanto di notte vive Dercillide, vittima del sortilegio di Paapis, risentito e vendicativo, ma anche intenzionato a prevenire la possibile purificazione di Dercillide, consigliatale dal pitagorico Zalmossi; appunto di notte Dercillide incontra Dinia, un curioso navigatore partito dall'Arcadia e sbarcato anche lui a Tule, attraverso il percorso opposto al Mediterraneo, cioè tramite il Ponto. Dercillide se ne innamora e, in tal modo, gli racconta la propria vita con la sua storia e i suoi viaggi. Finalmente, il ritmo alterno di veglie e morti, vigili racconti e inerti sonni, s'interrompe: Paapis muore, lo uccide un abitante di Tule per vendicare Dercillide, amata anche da lui e da lui creduta morta; allora un compagno di Dinia scova e sottrae dalla borsa di Paapis defunto l'antidoto al maleficio di rimanere in triste alternativa fra la morte e la vita; libera Dercillide dalla sua morte altalenante e le dona l'antidoto, con cui lei stessa, una volta ritornata a Tiro, guarisce i suoi genitori, morti solo in apparenza, e li riporta in vita. Intanto Dinia, rimasto a Tule, si reca al di là dell'isola e, seguendo i flussi delle alte maree più settentrionali, sale fin quasi sulla luna, che è raggiungibile con lo sguardo proprio dalla terra posta al di là di Tule, tanto che vi si può scorgere chiaramente la vita che vi si svolge. Incantato dalla stuporosa visione, Dinia si addormenta e si risveglia nel tempio di Eracle a Tiro, poiché ha potuto effettivamente viaggiare in sogno, sognando di essere in viaggio verso Tiro: qui ritrova Dercillide, i due si amano e possono finalmente sposarsi. In base all'intera trama, è possibile congetturare in quale posizione fossero dislocate le notizie sulle vite precedenti di Pitagora e sulle sue dottrine; non arrestandosi alle sole analogie, ma attuando un confronto con il referto di Porfirio, si può ravvisare l'anello di congiunzione fra il romanzo e la filosofia nei personaggi di Astreo e Zalmossi. Con tutta probabilità, nelle Meraviglie oltre Tule le molteplici incarnazioni di Pitagora dovevano costituire un erudito inserto collocato nel punto in cui Astreo istruisce Dercil ide durante il viaggio nell'Ade e in occasione del sacrificio sulla tomba della Sirena Partenope per iniziarla ai misteri dell'al di là e, in seguito, per condurla davanti a Zalmossi. Non è affatto improbabile che Antonio Diogene abbia accluso, riadattato e trascritto proprio in questo punto il contenuto del dialogo di Eraclide Pontico, forse Sulle cose nell'Ade, che esibisce un titolo tanto affine all'argomento esposto da Astreo, oppure Sulla femmina esanime, in cui Empedocle rassicura l'amico e allievo Pausania sulla possibilità di una rinascita della fanciulla ormai morta all'apparenza, ma dall'anima ancora viva; anche Dercillide nell'Ade insieme a Mirto o a Tule in compagnia di Dinia appare esattamente esanime ogni giorno, come la donna curata da Empedocle nel dialogo di Eraclide Pontico. Poiché Porfirio richiamò il romanzo di Antonio Diogene sulle Meraviglie oltre Tule proprio per fornire informazioni su Pitagora e la favola della sua vita, non è improprio ritenere che questo romanzo abbia compreso numerose notizie a questo proposito e che Porfirio abbia perciò epitomato i discorsi di Astreo e di Zalmossi con la parte relativa a Pitagora: infatti, il referto di Porfirio dipendente da Antonio Diogene giunge al punto in cui Pitagora compie una catabasi nell'antro di Creta, che evidenzia non poche somiglianze con Dercillide discesa nell'Ade. | << | < | > | >> |Pagina 30La lettura di Rohde, svolta non solo in Psiche, ma anche nel saggio Le fonti di Giamblico, ebbe il considerevole merito di sovvertire la concezione allora invalsa, confacente all'impostazione di Zeller in linea con Aristotele: Pitagora non era affatto il filosofo iniziatore della scienza dei numeri, bensì un saggio, quasi una specie di santone, su cui intercorse una primitiva leggenda, parzialmente legata alla miracolosa metempsicosi e allo stile di una vita esemplare; l'errore sarebbe sorto a causa dell'agglutinarsi scomposto delle testimonianze date da una tradizione solo successiva e più tarda, dato che in Empedocle, così sensibile ai temi pitagorici, non c'era traccia di teorie matematiche, ma solo di una figura eccezionale, riconoscibile in Pitagora (cfr. DK 31 B 129) e caratterizzata da una mirabile memoria. In seguito al costituirsi della leggenda di Pitagora, sarebbe maturata nei circoli pitagorici una divisione che, da un lato, prevedeva lo studio scientifico e, d'altro lato, si soffermava sugli aspetti magico-religiosi: i matematici si distinsero dagli acusmatici e svilupparono per conto proprio geometria, aritmetica, astronomia e musica, continuando ad attribuire le loro scoperte a Pitagora. Come si vede, tale assetto comprometteva anche l'idea di filosofia antica risalente a Hegel e mantenuta perfino da un positivista come Gomperz. Hegel aveva definito «non di rado assurde» le informazioni dei tardi neopitagorici su Pitagora e aveva in tal modo scartato gli aspetti taumaturgici e favolosi, che per Rohde furono invece quelli originali e primigenii. Hegel aveva così individuato il sapere «non tanto di Pitagora, quanto dei Pitagorici» illustrati da Aristotele come «il trapasso dalla filosofia realistica all'intellettualistica»: nel suo processo il pensiero dello Spirito concepiva con Pitagora l'assoluto, ma ancora in astratto, poiché lasciava il campo esteriore dei sensi e trovava se stesso, ma non ancora nel suo essere per sé, in quanto non si riconosceva anche nello sviluppo oggettivo esteriore e nella sua successiva mediazione con l'interiorità, come veniva realizzato in modo compiuto con Platone e la dottrina delle idee, ben più determinate ontologicamente degli astratti numeri dei Pitagorici. Hegel non volle, tuttavia, ammettere che anche la sua esposizione dell'assoluto, così come viene definita nella sua Fenomenologia dello Spirito, non solamente conserva non pochi tratti di astrazione, ma palesa, e non troppo alla lontana, molti punti in comune con una visione pitagorizzante, dato che lo Spirito si riconosce in diverse figure in successione, quasi come incarnazioni spirituali e storiche che debbano farsi carico della morte per riapparire in un altro momento. Del resto, Hegel ritenne che questa concezione dello Spirito di volta in volta incarnato in questo o quel momento progressivo fosse non pitagorica, ma cristiana e, anzi, luteranamente cristiana, poiché ritrovava l'incarnazione dello Spirito non tanto nel cattolico culto del sepolcro vuoto di Cristo, ma nella storia di una comunità civile e spirituale, cioè di un popolo e di uno Stato. Non per nulla, dunque, le favolose incarnazioni di Pitagora furono percepite da Hegel come scimmiottature grossolane delle ben più veraci tradizioni evangeliche.Rispetto a questa idea del principio storico del pensiero filosofico, datato nel momento del passaggio dai fisici Jonici agli intellettualisti Pitagorici, la posizione di Rohde si configurò come diametralmente opposta e Rohde influenzò positivamente l'amico Nietzsche, che intraprese una lettura diversa dei primi filosofi, al di fuori degli schemi idealisti e dialettici, fino a formare le premesse per la caratteristica ermeneutica di Heidegger. Si può riassumerla in sintesi: i filosofi che precedettero Platone, non furono gli acerbi inauguratori di un sapere razionale e scientifico meglio sviluppato in seguito, ma espressero una sapienza di verità che i loro successori non seppero cogliere, né sviluppare; pertanto, ancor oggi, a fronte del declino della meditazione filosofica nel calcolo scientifico, la filosofia più antica appare piuttosto come la filosofia futura, in quanto rappresenta tuttora un nucleo ancora da comprendere, una meta da raggiungere, pur rimanendo il primo inizio. Ma, nonostante questa svolta nello sguardo sui filosofi greci, come Heidegger poi, così Nietzsche prima si trovò a mal partito con Pitagora e lo escluse dalla serie dei grandi pensatori de La filosofia nell'epoca tragica dei Greci, ben consapevole che «Pitagora [...] rifiuta le orge dionisiache», ma anche del fatto che quanto gli si attribuiva di norma, era frutto di un retaggio posteriore a Socrate e più vicino ai Platonici: solo con Filolao, infatti, sarebbero nati gli studi matematici e il pensiero che principio fosse il numero, ma tali nozioni sarebbero state retrodatate in onore al capostipite leggendario dell'indirizzo. Nietzsche fu di certo al corrente che l'eterno ritorno fu sostenuto dai Pitagorici, ma ritenne costoro senz'altro posteriori a Eraclito, a cui trovò come antecedente possibile il solo Anassimandro. Questo assunto di Nietzsche, maturato anche sotto il condizionamento di Rohde, ebbe il suo esito in Heidegger, che dagli anni Trenta in poi interpretò appunto questi "presocratici" come soluzione e sbocco (o, secondo lui stesso, come «passo indietro» e «salto oltre») per la filosofia ferma alle cose del presente (i cosiddetti «enti sottomano» o, con altra traduzione, «semplici-presenze») e non ammise in alcun modo la visuale storicista e progressiva, rivendicando la necessità di un esame più filologico delle fonti condotto fino all'analisi lessicale dei testi e, perfino, delle singole parole. Insieme a qualcuno loro affine, come Gadamer, e a parte qualche eccezione, come Cassirer e Popper, Nietzsche e Heidegger furono gli unici pensatori recenti a dare un cospicuo rilievo, anche speculativo, ai cosiddetti presocratici, senza prodursi in mero antiquariato, e tale rilievo non fu esente dal contesto delle riserve critiche partite con Rohde e svolte da studiosi come Karl Reinhardt, York von Wartenburg, John Burnet, attentamente considerati. | << | < | > | >> |Pagina 36Abbozzo di una riflessione quasi filosoficaPoiché al certum va aggiunto il verum, come insegnò Giambattista Vico, l'accertamento filologico dei testi e delle loro fonti non è sufficiente alla loro comprensione, se non viene integrato con una problematica filosofica o, almeno, con una riflessione pensante che motivi e diriga l'indagine. In questa direzione, il racconto sulle favolose incarnazioni di Pitagora concerne il problema dell'anima e della sorte umana e la sviluppa non in una teoria psicologica, ma in una narrazione della vita, che tocca il senso della morte e lo supera con la verità (o il sogno?) della rinascita. Parafrasando le parole di un poeta, perché "con un amore come questo, noi (...) dobbiamo morire"? E, soprattutto, perché mai è morto chi ci era vicino con un tenero legame? La sua scomparsa, quasi come fosse una sua azione involontaria o, meglio, un destino subìto e a noi ostile, non comporta solo l'angoscia di Gilgamesh davanti al vuoto di una domanda: "morirò anch'io, come Enchidu?", ma trascina con sé anche l'urgenza di un ripensamento. Se ci fosse una qualche sopravvivenza che non sia solo il ricordo altrui dopo la propria morte, quale potrebbe essere la sua entità? Un'energia dispersa nell'universo e spersonalizzata o una persona spirituale alle soglie di un Dio nei cieli? Se invece, più concretamente, questa vita in corso è la sola che ci resta, anche quando restiamo soli, e se proprio questa vita finisce in una morte che infirma ogni senso dato alla vita, perché si deve vivere? Oppure, perché si vuole vivere ancora? La storiella di Pitagora che vive più volte, propone implicitamente queste risposte: si vive per una migliore rinascita e per conseguire una condizione pura. Ma, in particolare, essa si pone a distanza dalla resurrezione del corpo alla fine dei tempi, così come dal ricordo della storia nelle generazioni dei posteri: dista, dunque, tanto dalla fede cristiana, quanto dalla mentalità moderna e, a dire il vero, le precede entrambe e, in parte, le prepara. Potrebbe suscitare qualche curiosità la sua presentazione di vite esclusivamente virtuali, la cui unica esistenza consiste nell'essere un dato di una memoria pluripersonale, quasi che sia persino piacevole disperdersi in un circolo multiplo di esseri e potersi dissolvere, sciogliendosi da questo vecchio ed unico "io" fin troppo assillante con le sue dovute responsabilità ed i suoi obiettivi mancati. Con un alter ego provvisto di tante rinascite di continuo, la crudele domanda "perché dobbiamo morire?" verrebbe accompagnata da una mancata risposta e una replica di rimbalzo in contraccambio: "perché dovremmo pensare proprio alla morte?" Sicché si può vivere, perché si vive, e si vive come se non si dovesse mai morire o comunque senza doverci necessariamente pensare. Pertanto alla richiesta "perché vogliamo vivere?" di solito si risponde: "perché già viviamo, anche senza volerlo". Il problema della morte, tuttavia, si sposta e conduce a un'idea della vita, riguardante la sua esperienza, ma diretta anche a ciò che può andare oltre o, per lo meno, a ciò che resta quando la si considera a distanza, senza che sia ancora finita. Talvolta avverte di più la morte chi rimane in vita, non solo perché di frequente la vita diventa vuota, ma anche perché fallimenti e dimenticanze, cesure dell'io e sparizioni degli altri, imprimono la sensazione di non aver mai potuto vivere appieno. Proprio a partire dal problema della morte, sperimentato in questo modo assurdo in cui non si riesce neppure a morire, ma lo si sente, scaturisce la domanda su come sia possibile comprendere questo vivere. Se è stato detto poco fa che il racconto delle varie vite preventive di Pitagora non produce una teoria psicologica, ma svolge il tema dell'anima in una narrazione della vita, è il momento di constatare ora che, introdotta come metensomatosi (da Ippolito e Tertulliano), come palingenesi (dallo scoliaste dell' Elettra), come metempsicosi (dallo scolio delle Argonautiche e ancora da Tertulliano e Girolamo) e come immortalità (da Porfirio), la vicenda di una vita frammentata in molteplici persone e di continuo rinascente costituisce, più propriamente, un divenire della vita, come significato dell'anima che è piuttosto un «esser-divenuto [...]» nel vivere: ogni versione afferma infatti che Euforbo o Etalide «divenne» Pitagora. Viene, dunque, implicato il problema del «divenire» della vita. La domanda sul senso (in quanto direzione ultima e significato complessivo, non meno che di volta in volta contingente) del vivere si risolve in un racconto, una narrazione degli eventi della vita stessa, delle età siglate dai singoli personaggi intervenuti via via, in cui pare appunto che Pitagora, come ciascuno di noi, percorra e attraversi varie epoche, quasi subendo metamorfosi di identità e fisionomia. Se è permesso un paragone, in questa pausa quasi filosofica, il protagonista sembra simile a un'oscura maschera, un personaggio dalle molte facce nella Commedia umana di Balzac: qui appare al principio come il signor Vautrin, un distinto borghese, un servizievole e sorridente villeggiante in una pensioncina familiare; ma poi svela d'essere stato un criminale imperterrito e d'essere lui il tanto ricercato Trompe-la-Mort (ossia l'"Inganna-la-morte"): è un evaso dai lavori forzati che gestisce i capitali nascosti fuori di galera dei carcerati e viene arrestato dal capo di polizia, che tuttavia non riesce a ucciderlo come aveva tramato; dunque, fuggito ancora dalla prigione, diviene il prete Carlos Herrera, il canonico onorario di Toledo in missione speciale in Francia per conto del re spagnolo Ferdinando VII, e in questa veste consola una prostituta derelitta e salva dal suicidio un aspirante poeta fallito, ma poi finisce per traviarli entrambi; si manifesta, infine, come Jacques Collin, il quale altri non era stato che il signor Vautrin, l'evaso Trompe-la-Mort, l'abate Carlos Herrera... e, come sua ultima incarnazione, diventa lui il capo di polizia, svolgendo degnamente l'incarico per ben quindici anni, finché non andrà in riposo come un onesto pensionato. Il pellegrinaggio nella vita di questo Jacques Collin passa dunque dalla condizione di pensionante a quella di pensionato, attraverso quelle altre di galeotto e poliziotto, nonché di un prete che crede più nella Chiesa che in Dio: in questi mutamenti, egli sembra un mefistofelico individuo che divenga una persona angelica per poter proteggere prima e vendicare dopo quel poeta salvato dalla morte ma poi perduto. Alla fin fine, chi altri sa, se non la polizia, che il nuovo capo Jacques Collin non era altro che il condannato Trompe-la-Mort? Anche se egli compie in una vita sola quello che la storia di Pitagora distribuisce in molte, le somiglianze sono evidenti e, del resto, lo stesso Balzac non si peritò di scrivere che Jacques Collin «compiva la metamorfosi davanti al cadavere del prete prima di farlo sparire» e pareva un santo asceta che «riesce a entrare, lui vecchio, in un corpo giovane». Il paragone con Balzac permette di comprendere come anche il racconto di Eraclide Pontico tematizzi la problematica della vita, allorché ne narra le vicissitudini alterne, dato che lo stesso Pitagora vi figura come un personaggio che debba adempiere diversi ruoli, a seconda dell'oscuro scrittore del suo destino. In tal modo s'intende anche suggerire il fatto che nello sforzo di enucleare un'idea della vita, la filosofia s'è trovata di solito a mal partito, quando non se la sia voluta cavare a buon mercato (come rilevò Hegel a proposito di Kant alle prese con le categorie), e pertanto si è vista costretta sovente a ricorrere alla narrazione, cioè al mito, o, con migliore cautela, all'esegesi di un mito già diffuso e all'interpretazione filosofica di un romanzo. | << | < | > | >> |Pagina 40Invece, in questi tempi odierni, in cui la maggior memoria risiede in un archivio virtuale e sembra connessa al calcolatore collegato alla rete informatica intercontinentale, il significato della filosofia è parso divenire evanescente, come l'essere della logica di Hegel che fa tutt'uno con il nulla, sicché con quella contraddizione che corrisponde al corso logico delle cose reali, viene tralasciata anche «la coscienza del proprio tempo appreso col pensiero». A dire il vero, si professa non solo l'infinito svanire nell'evanescenza, ma perfino la fine della filosofia, allorché si ritiene che la stessa verità è un errore e, dunque, si spiega «come il mondo vero divenne favola». Con la rielaborazione ermeneutica compiuta da Heidegger e diffusa da più accessibili scrittori, le ultime analisi filosofiche hanno ripreso il famoso e indimenticato discorso che fu già di un ideatore della critica e dei maestri del sospetto: si deve abbandonare l'orgoglioso nome di ontologia! La filosofia è finita, andate in pace. Plaudite, amici, finita est comoedia! Ora, in realtà, di filosofia se ne parla, come Sancho Pança parlava di Dulcinea del Toboso, che aveva visto «per sentito dire». Ma questa filosofia, che adesso è finita, grazie a Heidegger ed anche a Carnap, ambedue a favore della distruzione della metafisica ed entrambi in disaccordo fra loro, sarebbe stata proprio quella forma di erronea verità imperniata sul concetto di anima, che da Pitagora in poi, con Platone che l'ha definita e Sant'Agostino che l'ha cristianamente corretta, avrebbe subito varie trasformazioni fino a profilarsi come l'attuale concetto di soggetto, in quanto coscienza, quale fu posto nella modernità dal cogito cartesiano fino all' Io della psicoanalisi: se questo cammino fu chiamato metafisica, allora il suo inizio e la sua sorgente si dislocano e datano presso quel Pitagora, che fu trascurato in toto da Heidegger, l'obliteratore per eccellenza della filosofia in questo modo intesa e il sostenitore più pervicace della tesi secondo cui il pensiero s'è dissolto in calcolo, dimenticandosi la verità e l'esserci dell'uomo nell'apertura della verità. Le notizie di Eraclide Pontico offrono un nesso proprio fra la filosofia e l'anima, ma non lo affrontano speculativamente, bensì come una storiella ermetica che necessita di un'ermeneutica esplicativa; dunque, un'analisi anche favolistica delle incarnazioni potrebbe chiarire la stessa nascita della filosofia. Si vedrà alla fine della ricerca. Intanto, si può constatare subito che fin dal principio, e non solo nel suo ultimo stadio, la filosofia si presentò in forma di favola e di conversazione. L'idea che lo sia divenuta soltanto alla fine, maturata sulla scorta del passo di Nietzsche su «come il mondo vero divenne favola», costituisce un'erronea interpretazione, non una scoperta. Inoltre, il racconto di Eraclide Pontico esibisce un concetto dell'anima tutt'altro che speculativo e lo risolve piuttosto nel vissuto o, meglio, lo descrive nel riepilogo narrativo delle vite precedenti dell'uomo divenuto infine filosofo grazie al ritrovamento del suo passato con uno sguardo a ritroso e un'anamnesi; l'anima vi appare come la vita vissuta e non è concepita con un pensiero metafisico, che costituisca un duplicato invertito dell'essere vivo e mortale; emerge piuttosto come l'esperienza trascorsa delle passate età e, dunque, la storia spiega l'anima con la vita, piuttosto che esporre e dedurre una teoria.Risulta allora, auspicabile che l'esame e il racconto delle prodigiose vite di Pitagora possano svelare (o solo ripetere) anche il significato originario della filosofia, ricordandone la primitiva sorgente sulle rocciose rupi di introvabili scritti, contenenti notizie di dubbia credibilità e conosciuti solo per vie indirette. Quindi, da un punto di vista critico-storiografico, questa ricerca esamina principalmente la storiella delle periodiche rinascite di Pitagora, soffermandosi in particolare sul frammento di Eraclide Pontico (fr. 89 Wehrli; DK 14 A 8), in direzione del quale viene impostato il confronto con il plesso delle testimonianze attigue. Ma, rispetto ad una visuale più filosofica, si ripromette una riflessione sull'idea della vita, posta di fronte al problema della sua mortalità e, nondimeno, alla suggestione del suo superamento con il concetto di rinascita, configuratosi nella tradizione pitagorica ed esposto nello stesso frammento di Eraclide Pontico, come l'essenza e il principio della filosofia. In questo modo, si rischierà forse che «l'opera sia un cammello fra gli Egizi», come esclamò scherzando Luciano di Samosata, che faceva filosofia con le facezie e che pure era un Prometeo nei discorsi, ma, se coinvolgerà il senso della stessa configurazione iniziale della filosofia, sarà un'opportunità per non dichiarare: [...]. Naturalmente, si troverà sempre un qualche Momo che rimprovererà agli dèi di non aver messo gli occhi sulla cima delle corna dei tori, perché potessero guardare dove colpire con le loro incornate, ma non è detto in alcun luogo, eccetto Luciano, che «a cominciare subito dal Caos e dalla prima formazione dell'universo fino ai tempi di Cleopatra l'Egizia, il danzatore deve conoscere tutto» e così si potrà discutere della verità e della vita anche con piccoli passi, con frammenti di opere perdute e rimeditate. Il presente studio, pur essendo del tutto autonomo, si richiama nondimeno a quanto esposto in Basilide. La filosofia del Dio inesistente, in cui il concetto di reincarnazione proprio dei filosofi greci è presentato come l'antecedente più significativo del dogma cristiano della preesistenza incorporea di Cristo in quanto Logos di Dio e, dunque, della sua incarnazione; in seguito all'assorbimento del concetto greco di incarnazione, la speranza cristiana nella resurrezione del corpo si è mutata nella fede intellettiva in una reintegrazione, o apocatastasi, dello spirito presso Dio, limitando perciò la salvezza alla sola anima. Infatti nel saggio sullo gnostico cristiano Basilide, la testimonianza di Eraclide Pontico su Pitagora è già accostata ai misteri concernenti i Dioscuri, Eracle e, soprattutto, Dioniso e viene compresa come lo spostamento delle loro sorti divine o semidivine sul piano strettamente umano, che in tal modo viene esso stesso elevato alla divinità e alla salvezza al di sopra della morte contraria; quindi, le sorti della divinizzazione di Pitagora sono mostrate come uno dei precedenti cruciali per il dogma dell'incarnazione del Logos in Gesù Cristo, qual è scritta nel Vangelo secondo Giovanni, in cui l'espressione «il Logos divenne carne [...]» (Gv 1,14) echeggia, non senza i debiti riadattamenti in conformità alla tradizione giudaica, proprio lo stilema di questo racconto: Pitagora narrava, infatti, che «era divenuto [...] Pirro» e che «quando Pirro morì, divenne [...] Pitagora». Inoltre, il presente studio, in quanto verte sulla rinascita, riprende anche L'enigma della serpe secondo Nietzsche, dove dialogando con se stesso "il vivente dialoga col defunto" e le due figure si confondono, finché chi vive si chiede "come sopporto di vivere ancora?" La visione dell'eterno ritorno, propugnata da Nietzsche, è sottratta da una valenza cosmologica (o metafisica, come sostenne Heidegger) e viene ristabilita nella sua connessione più stringente con la verità della rinascita, tramite il riferimento ai misteri ellenici e il loro riflesso nei pensatori tragici (fra cui lo stesso Pitagora) posti alle dipendenze di sapienze egizie e persiane; la rinascita rinvenuta nello Zarathustra di Nietzsche, non è un ritorno effettivo del tempo, ma può essere intesa (e vissuta) in senso psicologico come una trasformazione alchemica della psiche, postasi a distanza dalla stabilità inerte di un io senza vita e con idee mortifere, tanto tristi e micidiali che uccidono uno stato d'animo più di un fucile; il ritorno viene perciò rappresentato come un ritorno in vita simbolico e in immagine, ossia come rinnovamento e rigenerazione del desiderio di vivere. Sempre in L'enigma della serpe viene mostrato come il canovaccio della Vita di Pitagora ed i reperti sulla morte di Empedocle (fra cui spiccano proprio quelli di Eraclide Pontico conservati nelle Vite di Diogene Laerzio) abbiano costituito il modello espositivo e uno dei motivi d'ispirazione dell'opera di Nietzsche Così parlò Zarathustra e, in particolare, del capitolo su La visione e l'enigma. Pertanto, il presente studio su Pitagora considera propriamente il tema della rinascita che trova nella reincarnazione la sua forma più antica in ambito occidentale, poiché dal suo ripensamento sono state sviluppate le concezioni della resurrezione in quanto reintegrazione nel Cristianesimo e la persistenza dell'io o la rigenerazione interiore nella Modernità intercorsa da Cartesio a Nietzsche. Mentre i problemi più propriamente teoretici esposti in questo Ingresso nella fantasmagoria delle molteplici vite, a titolo d'introduzione, saranno affrontati in modo compiuto in un secondo volume su Pitagora e le maestrie di Zarathustra, in particolare nel capitolo con l' Uscita alla luce di un'idea della vita, sono qui svolte ed esaminate le fisionomie dei personaggi della favola di Euforbo, che comincia con Etalide. | << | < | > | >> |Pagina 177Nella storia di Pitagora, l'esito conclusivo non consiste in un ripetuto ritorno in vita, né in una sostituzione dello spazio riservato al dio. Secondo la visione della cosa, un ritorno tanto ripetuto e mascherato avrebbe denunciato una colpa recidiva e non un'avvenuta purificazione prossima alla divinità. Pitagora, una volta divenuto se stesso, non riappare più e non si reincarna nuovamente. Nessun autore, per quanto avesse presentato la vicenda esclusivamente sotto la sua trama esteriore senza un intelligente svelamento delle sue implicazioni dottrinarie, descrisse le reincarnazioni di Pitagora successive alla sua vita personale. Si verificò solo un caso al di fuori di questa norma. Nel II secolo d.C. la figura di Pitagora reincarnato fu sottoposta ad una curiosa parodia da parte di Luciano di Samosata nel dialogo Il Gallo. Soltanto qui avvennero metamorfosi e incarnazioni postume. Et incarnatus est in ave gallico Pythagoras! Quando il gioco della vita è già finito, si pongono in gioco non vite anticipate, ma ripetizioni di vite già vissute.
Micillo, un poveraccio diseredato, dorme sognando d'essere
ricco fra mille fortune, con piacere e onore, ma un modesto e petulante gallo lo
sveglia prematuramente in modo quanto mai improvvido:
pone termine a una vita da sogno. Agli acrimoniosi improperii di
Micillo, il gallo si giustifica mettendosi a parlare: meraviglia! Ma poi il
gallo rivela d'essere un'incarnazione
a posteriori
di Pitagora: meraviglia stupefacente! Non solo un gallo parla, ma è anche
filosofo!
Gallo: Io mi sono mutato in un gallo molto recentemente. Micillo: Come? Voglio sapere questo più di ogni altra cosa. Gallo: Hai sentito di un certo Pitagora, figlio di Mnesarco, nativo di Samo? Micillo: Vuoi dire il sofista, il ciarlatano che prescriveva di non assaggiar carni e di non mangiar fave, bandendo dalla tavola un cibo che a me piace moltissimo, e inoltre cercava di convincere la gente che prima di essere Pitagora era stato Euforbo? Dicono, o gallo, che fosse un ciurmatore e uno stregone. Gallo: Ebbene, quel Pitagora sono io in persona, cosicché mio caro, devi smettere di insultarmi, tanto più che non sai che uomo ero per mia natura.
Micillo: Ma questo è un prodigio ben maggiore dell'altro: un gallo filosofo!
Pitagora, incarnatosi in un gallo che si esprime con parola
umana, espone ancora una volta la propria celeberrima incarnazione,
ma ora si è anche ringalluzzito e non solo rianimato:
Gallo: Come in principio la mia anima, volata da Apollo fin giù sulla terra,
entrò nel corpo di un uomo, e quale condanna scontando, sarebbe lungo
dire e, per altro verso, sarebbe sacrilego per me raccontare [...]. Quando
divenni Euforbo [...] combattei ad Ilio e, ucciso da Menelao, entrai
tempo dopo in Pitagora. Ma per un po', fino a che Mnesarco mi avrebbe
fatto la casa, aspettai privo, com'ero, di abitazione.
II racconto di Pitagora stesso sotto forma di gallo esclude altre figure precedenti che non siano Euforbo, ma relaziona su molte vite seguenti, senza prevedere la finale divinizzazione in Apollo. Dopo la sua seconda vita in prima persona, Pitagora divenne Aspasia, la celebre etera di Mileto e l'amante di Pericle ad Atene, esperta nell'arte retorica e competente in fluide conversazioni, poiché Pitagora era già stato remissivo come una loquace prostituta in ossequio al potente Policrate di Samo e nel suo tempo postumo scoprì in tal modo cos'era già divenuto in passato; quindi assunse le vesti sudice e la vita grama del cinico Cratete, il maestro dello stoico Zenone, e, in seguito, ebbe la bizzarria d'essere re, povero, satrapo, attraversando ogni stato sociale; sperimentò poi ogni faunistica situazione, sia in terra che in cielo e in acqua, e si trasformò in cavallo, cornacchia, rana; infine, dopo altre spericolate ipotesi di esistenza animale, del tutto dimostrate vivendole, divenne gallo più volte e, ritornato gallo ancora una volta, rimase finalmente un gallo, finché non apparve in queste sembianze a un Micillo rimpannucciato nel suo unico cantuccio, per svelargli la miseria del mondo, ben conosciuto mediante le molte vite provate in ogni condizione. Dunque, l'anima di Euforbo si reincarna tre volte per tre volte: tre filosofi, tre cittadini, tre animali; rispetta la regola dell' estrìs pindarico e passa di secolo in secolo: inizia con la filosofia di Pitagora nel sec. VI a.C., prosegue con la retorica di Aspasia nel sec. V e finisce nel cinismo di Cratete del sec. IV, tracciando così un curioso corso del pitagorismo. La conclusione del dialogo è sorprendente, poiché, tutto sommato, il gallo pitagorico non denuncia una verità distante dal verbo cinico dell'autore e Pitagora, alterato e ciarliero, fa le veci di Luciano medesimo, e viceversa, poiché sembra esprimersi con neocinici discorsi: se la preoccupazione più necessaria è non soffrire, a niente vale la pena affezionarsi, neppure a un sogno che sia soave, e se molte sono le rinunce, nessuna in particolare pesa in modo insopportabile, ma ciascuna aiuta a distaccarsi da sé stessi e dal mondo, fino a prendere (e lasciare) le cose come una risibile burla; ci si deve divertire per forza, se ci si vuole servire della saggezza: non è serio essere seri in questo mondo, qualunque sia il tipo di vita; se si è perso l'importante, ogni situazione è indifferente.
A questi esiti in parte cinici, in parte neosofisti o retorici, non fu
alieno neppure un certo pitagorismo, quale era stato illustrato nella
commedia di mezzo del IV secolo a.C.: la coscienza di aver già vissuto
altre frazioni di vita suggerisce, infatti, la transitorietà relativa di ogni
singolo stato e pone in parentesi il presente, decurtato d'ogni consistenza
stabile e reale. Ma, a differenza di quanto accade nella commedia di miseri
pitagoristi, in Luciano l'enigmatica figura di Pitagora, che
alla fine s'è risolto in un gallo che sveglia nell'ora della disillusa saggezza,
non viene dileggiata, nonostante la sua serenità armonica si rovesci
in una sprezzante buffoneria e in una beffa quasi ironica, segnata dalla
rassegnazione di fronte all'insignificanza delle cose passeggere ed estranee.
Neppure il principio del dialogo di Luciano appare banale: la scelta
dell'animale, in cui scorgere l'ultima apparizione di Pitagora, non è
balzana, ma risulta confacente al filosofo, che considerò sacro il gallo,
perché caro ad Apollo (e ad Ermes, a dire di Luciano): è l'araldo che
annuncia la sua venuta, il suo canto saluta il sorgere del sole, ossia di
Apollo stesso. (Fra parentesi, era detto Gallo anche il sacerdote di
Attis... e Attis poteva significare anche il sole... ossia,
mutato nomine,
Apollo.) Dunque, se Pitagora s'è mutato in gallo e in modo risolutivo,
allora è divenuto qualcosa di apollineo... Era inoltre un enigma il detto
pitagorico che accomunava l'uomo, l'uccello e Pitagora sulla base del
fatto che tutti e tre, pur non essendo identici, sono ugualmente bipedi!
In questo caso, ridere significa comprendere. Si noti che Luciano rimase l'unico
a novellare icasticamente sulle reincarnazioni di Pitagora successive alla sua
vita, quasi che Pitagora non avesse affatto ottenuto la
liberazione dal corpo in conseguenza di un'incompleta virtù.
Ovviamente, non si trattava di un errore di teoria: Pitagora, infatti, si
reincarnava, eccome!
|