Copertina
Autore Adolfo Bioy Casares
Titolo Un leone nel parco di Palermo
SottotitoloRacconti 1948-1962
EdizioneEinaudi, Torino, 2005, Supercoralli , pag. 296, cop.ril.sov., dim. 140x222x22 mm , Isbn 978-88-06-17321-0
OriginaleLa trama celeste [1948], Historia prodigiosa [1956], Guirnalda con amores [1959], El lado de la sombra [1962]
CuratoreGlauco Felici
TraduttoreGlauco Felici
LettoreRenato di Stefano, 2005
Classe narrativa argentina
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Indice

  V Nota del curatore

    Un leone nel parco di Palermo

  3 La trama celeste
 33 In memoria di Paulina
 49 Sui re futuri
 61 Lo spergiuro della neve
 93 Storia prodigiosa
119 La serva altrui
157 Un'avventura
163 Mosche e ragni
175 Rinverdire
179 Casanova segreto
183 Storia romana
189 La parte dell'ombra
217 L'opera
235 Il calamaro sceglie il suo inchiostro
249 Un leone nel parco di Palermo
259 Gli affanni

283 Un giorno d'autunno, un sentimentale
    di Glauco Felici

 

 

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Pagina 3

La trama celeste


Quando il capitano Ireneo Morris e il dottor Carlos Alberto Servian, medico omeopata, scomparvero da Buenos Aires, un 20 di dicembre, i giornali commentarono appena la notizia. Si disse che erano persone strane, gente complicata, e che una commissione stava indagando; si disse che la scarsa autonomia dell'aereo usato dai fuggiaschi consentiva di affermare che non potevano essere andati troppo lontano. In quei giorni ricevetti un pacco; conteneva: tre volumi in quarto (le opere complete del comunista Louis-Auguste Blanqui); un anello di scarso valore (un'acquamarina sul cui fondo si vedeva l'immagine di una dea dalla testa di cavallo); parecchie pagine scritte a macchina - Le avventure del capitano Morris - firmate C. A. S. Trascriverò quelle pagine.


Le avventure del capitano Morris.

Questo racconto potrebbe cominciare con una qualche leggenda celtica che ci parli del viaggio di un eroe in un paese che si trova dall'altra parte di una fonte; o di un'inespugnabile prigione fatta di teneri rami, o di un anello che renda invisibile chi lo porti, o di una nuvola magica, o di una ragaza che piange nel fondo lontano di uno specchio tenuto in mano dai cavaliere destinato a salvarla, o della ricerca, interminabile e senza speranza, della tomba di re Artú.

Potrebbe cominciare anche con la notizia, che io ho inteso con sorpresa e con indifferenza, secondo cui un tribunale militare accusava di tradimento il capitano Morris. O con la negazione dell'astronomia. O con una teoria su quei movimenti, chiamati pases, con cui si fanno apparire o scomparire gli spiriti.

Tuttavia, io sceglierò un inizio meno stimolante; se non avrà i favori della magia, avrà quelli del metodo. Ciò non comporta un rifiuto del sovrannaturale; tanto meno il rifiuto delle allusioni o invocazioni del primo paragrafo.

Mi chiamo Carlos Alberto Servian, e sono nato a Rauch; sono armeno. Da otto secoli il mio paese non esiste; ma lasciate che un armeno si accosti al suo albero genealogico: tutta la sua discendenza odierà i turchi. «Armeno una volta, armeno sempre». Siamo come una società segreta, come un clan, e sparsi per i continenti, il sangue indefinibile, occhi e naso che si ripetono, un modo di capire e godere la terra, certe abilità, certi raggiri, certe sregolatezze in cui ci riconosciamo, l'appassionata bellezza delle nostre donne, ci uniscono.

Sono, per di piú, scapolo e, come don Chisciotte, vivo (vivevo) con una nipote: una ragazza gradevole, giovane e dinamica. Vorrei aggiungere un altro aggettivo - tranquilla -, ma devo confessare che negli ultimi tempi non lo ha meritato. Mia nipote si divertiva a fare lavori da segretaria e, poiché io non ho una segretaria, lei rispondeva al telefono, scriveva in bella copia e sistemava con un certo intuito le storie mediche e le sintomatologie che io annotavo sulla base delle dichiarazioni dei pazienti (la cui regola comune è il disordine) e organizzava il mio vasto archivio. Praticava un altro svago altrettanto innocente: venire al cinema con me nei pomeriggi di venerdí. Quel pomeriggio era venerdí.

La porta si apri. Un giovane militare entrò nell'ambulatorio.

La mia segretaria si trovava a destra rispetto a me, in piedi, dietro la scrivania, e mi porgeva, impassibile, uno di quei grandi fogli su cui annoto i dati che mi forniscono i pazienti. Il giovane militare si presentò senza esitazioni - era il tenente Kramer - e dopo aver guardato insistentemente la mia segretaria domandò con voce sicura:

- Posso parlare?

Gli dissi di parlare. Continuò:

- Il capitano Ireneo Morris vuole vederla. È tenuto prigioniero all'ospedale militare.

Forse contagiato dalla marzialità del mio interlocutore, risposi:

- Ai suoi ordini.

- Quando andrà? - domandò Kramer.

- Oggi stesso. Sempre che mi lascino entrare a quest'ora...

- La lasceranno entrare, - dichiarò Kramer, e quasi immediatamente uscí.

Guardai mia nipote. Era turbata. Intesi rabbia in lei e le domandai che cosa stesse succedendo. Mi rispose:

- Sai chi è l'unica persona che ti interessa?

Ebbi l'ingenuità di guardare nella direzione che mi indicava. Mi vidi nello specchio. Mia nipote usci dalla stanza, correndo.

Da qualche tempo era meno tranquilla. In piú, aveva preso l'abitudine di chiamarmi egoista. Parte della colpa di ciò l'attribuisco al mio ex libris. Reca triplicemente inscritto - in greco, in latino e in spagnolo - il motto Conosci te stesso (non ho mai sospettato fin dove mi avrebbe portato quel motto) e mi riproduce mentre osservo, attraverso una lente, la mia immagine in uno specchio. Mia nipote ha incollato migliaia di questi ex libris in migliaia di volumi della mia versatile biblioteca. Ma c'è un altro motivo per questa fama di egoismo. Io sono sempre stato metodico, e noi uomini metodici, che siamo immersi in oscure occupazioni e trascuriamo i capricci delle donne, sembriamo pazzi, o sciocchi, o egoisti.

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Pagina 163

Mosche e ragni


Si sposarono per amore. Raúl Gigena non credeva vi fosse al mondo un posto sicuro quanto la casa paterna, ma Andrea, sua moglie, gli disse che per non perdere quell'amore avrebbero dovuto vivere da soli. Poiché non voleva contrariarla, decise di lasciare la provincia, di lanciarsi all'avventura. Ottenne, grazie a un parente che lavorava in una cantina, una rappresentanza di vini; ritirò dalla banca i suoi risparmi e partí, con Andrea, per Buenos Aires. Appena arrivarono, decise di acquistare una casa, un po' per far piacere ad Andrea, un po' per investire razionalmente il denaro: a quei tempi diceva che di rado si recupera ciò che si spende in affitti e pensioni. Non conoscevano nessuno, scoprivano la città, erano giovani, erano innamorati; la ricerca della casa lasciò loro ricordi felici. Trovarono, in Ramos Mejía, una vecchia rimessa, che avrebbero potuto facilmente trasformare in un'abitazione molto soddisfacente; era stata una dipendenza della villa di non so chi; veniva venduta insieme a un piccolo giardino, ornato di un arancio, decisamente perfetto, che allora era coperto di fiori. Per otto giorni parlarono della rimessa, delle modifiche che vi avrebbero apportato, di come vi si sarebbero sistemati; il prezzo che chiedevano era alto, ma Raúl lo avrebbe accettato, quando gli proposero, in calle Cràmer, a pochi passi dalla stazione Colegiales, una grande casa cadente, a condizioni che lui stesso definí tentatrici.

Ciò che fece pendere alla fine la bilancia a favore della grande casa fu che i suoi molti difetti nascondevano altrettanti vantaggi. La vista, sui binari, non era allegra, e il continuo transito dei treni produceva molto rumore, e anche vibrazioni, cui ci si sarebbe dovuti abituare; ma, esaminate con equanimità, queste noie non corrispondevano forse a una specie di messaggio cifrato, che rivelava all'acquirente una valida verità: lei non avrà difficoltà per arrivare in centro, né per tornare? Quanto all'aspetto deprimente dell'edificio, costituiva un altro elemento a favore, perché avrebbe indubbiamente contribuito a moderare il prezzo di una cosí considerevole quantità di metri di terreno situati nella zona migliore della capitale.

Andrea si lasciò convincere dalle ragioni del marito; non ricordò piú la rimessa di Ramos Mejía; pensò soltanto a sistemare la grande casa. Spiegava:

- Ne sistemeremo soltanto una parte, non di piú, ma quella parte la cambieremo completamente. Non vi devono restare tracce di quelli che hanno abitato qui. Chi può sapere quali fluidi ci potrebbero mandare.

Anche se si sistemarono in tre stanze e chiusero le altre, spesero parecchio denaro. Le stanze che occupavano erano molto gradevoli, ma la sola esistenza delle altre, chiuse e vuote, affliggeva Andrea. Raúl non tardò a porvi rimedio.

- Capisco ciò che provi, - disse. - È come se vivessimo in una casa abitata dai fantasmi. Credo di aver trovato la soluzione. Accoglieremo, per qualche tempo, alcuni ospiti. Non ci saranno piú stanze vuote, che è la cosa piú importante, e ci rifaremo di quanto abbiamo speso.

Portarono le loro cose al piano di sopra; quello sottostante lo dedicarono ai pensionanti. Andrea si rassegnò. Non sarebbero stati piú soli, ma dividere la casa con gli sconosciuti che invia il caso non è come dividerla con persone di famiglia, che si credono in diritto di dirigere le nostre vite e di ridire su tutto. Seguendo le minuziose raccomandazioni del marito, Andrea gestiva la pensione in economia. Ben presto ne ricavarono una rendita consistente. Il merito non era esclusivamente dello spirito organizzativo e ordinato di Raúl; lei aveva sistemato le stanze in modo ammirevole. era un ottima governante, un ottima cuoca e (forse la cosa piu importante) era anche una donna incantevole; con la sua dolcezza, con la sua giovinezza, con la sua bellezza, affascinava tutti quelli che le stavano vicino; il suo carattere era altrettanto buono, non si lagnava mai, anche se qualche volta rimproverava Raúl:

— Mi lasci troppo tempo da sola.

Il giorno in cui suo marito avrebbe mantenuto la promessa di rinunciare alla rappresentanza di vini, il pomeriggio non avrebbero piú dovuto separarsi. Anche se non era piú indispensabile - la pensione era un buon affare -, a Raúl dispiaceva abbandonarla, perché costituiva una valida fonte di guadagno. Per conquistare il consenso di Andrea spiegava: «È denaro che ottengo senza fatica». Su questo punto mentiva perché ogni sera rientrava sempre piú stanco, e quando finalmente si metteva a letto, accanto alla moglie, immediatamente cadeva addormentato. Non immaginiamolo come un uomo impaziente perché afflitto dalla sua sfortuna; ci risulta che fosse felice.

Il primo pensionante che presero fu Atilio Galimberti, Atilio l'attillato, secondo la fortunata definizione dell'altro cliente della pensione, che si chiamava Hertz. Abbastanza giovane, di bell'aspetto, Galimberti lavorava in un negozio, due volte alla settimana giocava a tennis, senza dubbio frequentava il sindacato e godeva, nel quartiere, della fama di dongiovanni (con intento ironico, Hertz commentava: «È un leone con le donne»). Galimberti, per la smania di appendere le fotografie delle sue ammiratrici, aveva rovinato con i chiodi la carta sulle pareti: e questa era una cosa che Andrea non si decideva a perdonargli. Il colpevole commentava:

- Tutte le donne sono uguali. Alla padrona le brucia che le foto non siano di lei.

Da parte sua, Raúl la incalzava:

- Non consentire che nessun pensionante, né nessun altro animale vivente, ti metta i piedi in testa. Questo mondo si divide in mosche e ragni. Cerchiamo di essere ragni, che si mangiano le mosche.

- Che orrore ! - esclamava Andrea.

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Pagina 175

Rinverdire


Continuava a guardare la tomba, perché era deciso a non muoversi fino a quando non si fossero allontanate le sorelle della povera Emilia e perché nell'istante in cui si sarebbe voltato per uscire dal cimitero sarebbe entrato nel mondo in cui non poteva piú incontrarla. Non si rassegnava ad affrontare il ritorno pronunciando devote banalità con quelle donne, né si sarebbe lasciato ingannare dalla speranza, cosí deplorevolmente inutile, di cercare in loro qualche traccia in cui poter far durare ancora la sua amica. Alla fine le donne si mossero; stava per andarsene quando scoprí, a una distanza che sarcasticamente definí rispettosa, l'uomo delle pompe funebri, con quell'atteggiamento contrito, servile, implacabile che già gli conosceva. Sin dalla notte in cui era successo l'incidente, lo aveva visto aggirarsi intorno a casa di Emilia, su un'automobile nera. Adesso avrebbe preteso, probabilmente, di vendergli un album di fotografie o di ritagli o qualche addobbo per la tomba; ma lo atterriva la possibilità che l'individuo, nell'affanno di esaltare il lavoro dell'impresa, gli comunicasse particolari macabri. Ciò che era lí sotto non era Emilia e per avvicinarsi a lei non c'era in tutta la terra un posto piú incongruente di quel rettangolo di marmo, con il nome e la croce. Finché fosse vissuto, tuttavia, vi avrebbe portato fiori. Qualcuno avrebbe dovuto farlo, e la persona indicata era lui. La persona indicata, rifletté con orgoglio, e l'unica, dato che nella vita e nella morte di Emilia era solo. Con il dolore nel cuore, ricordò che in un certo momento aveva desiderato una certezza come quella che aveva adesso: la certezza che non sarebbe potuto succedere nulla. Insieme avevano letto i versi di un poeta francese:

        Appena tu ti muovi,
        le mie angosce si ridestano,

e lui aveva esclamato: È vero. Come chiedere a un essere cosí vivo qual era Emilia di starsene tranquilla al suo fianco, di non essere incostante? Non chiese nulla, ma il miracolo della fedeltà si verificò. Forse per questo adesso era nel pieno di una solitudine cosí estrema, senza nessuno con cui dividere il dolore. La stanchezza degli ultimi giorni lo indusse a farlo pensare per immagini; poco meno che sognando a occhi aperti, vide se stesso come giardiniere delle tombe. «Tutti i venerdí metterò qui un mazzo di rose, — mormorò, — per compensare le calle che porteranno quelle donne».

Quando si accorse che quel tale se n'era andato, lentamente prese il cammino del ritorno. Attraversò luoghi aperti e desolati, scese fino in piazza e all'ombra degli alberi di calle Artigas, nell'aria tiepida o nell'odore delle foglie, ebbe il presentimento dell'ancora lontana primavera. Un pianoforte, in una delle case vicine, suonava una marcetta, circense e volgare, che non sentiva da parecchio tempo. Gli venne in mente Argüello, o Araujo: come si chiamava il suo predecessore? Era un personaggio sbiadito, che non lo aveva mai preoccupato. Da quanto poteva dedurre, aveva conosciuto Emilia quando lei aveva meno di vent'anni, e forse si era avvantaggiato di quella circostanza. Emilia non gli aveva detto niente di concreto contro quel primo amore — ne era incapace —, ma senza lasciar spazio a dubbi gli aveva fatto capire che nella sua vita aveva contato poco. L'episodio non aveva altro significato che dimostrare quanto fosse cieca e immatura la gioventú.

Si fermò per attraversare la strada. Guardò la sua casa: la facciata in finta pietra, la porta di legno stretta e scura, i due balconi laterali, quelli superiori (in previsione di un altro piano); si meravigliò di come tutto questo qualche volta gli fosse sembrato allegro. Apri la porta ed entrò come in un sepolcro.

Quel pomeriggio non seppe rinunciare a un'assurda convinzione. Quando suonavano alla porta, accorreva, tremando di speranza. Malgrado avesse condotto sempre una vita appartata, si accorse di avere molti amici e, malgrado le particolarità del suo lutto, le visite succedevano alle visite. Ma ne aveva in mente altre, di uno ieri che era rimasto molto vicino e molto lontano: non chiudeva neppure gli occhi e già credeva di vedere Emilia, arrivare un po' in ritardo, agitata per la corsa appena fatta, e credeva di sentire sul viso la freschezza della sua pelle; ma non accadde nulla che fosse fuori del normale fino al venerdí mattina, quando se ne andò al cimitero, con un mazzo di rose bianche. Sulla tomba trovò, appena avvizzito, come se fosse stato deposto lí il giorno prima, un mazzo di rose rosse. Il fatto lo sorprese per due motivi: perché le sorelle lo avevano anticipato con il loro omaggio e perché, sfidando le convenzioni, avevano scelto fiori colorati. Pensò che il caso è capace di tutto. Passarono sette giorni e dimenticò la faccenda. Il venerdí seguente tornò alla tomba, con le sue rose bianche. Lí trovò, ovviamente, un altro mazzetto di rose rosse.

Pur avendo deciso di non pensarci piú, rifletté parecchio durante quei giorni, fino alla mattina del giovedí, quando ebbe un'ispirazione. In gran fretta andò in un negozio ad acquistare fiori. A Rivadavia salí su un taxi. Ben presto depose il suo omaggio e rimase un po' perplesso: non sapeva che fare. Vagò per il cimitero mentre i minuti passavano con particolare lentezza. Scoraggiato, attraversò il portico e sulla gradinata piena di sole si fermò un istante; si voltò indietro per dare un'altra occasione al destino e in fondo al viottolo trasversale scorse con stupore la scena che per tutta la mattina aveva previsto e atteso: l'uomo che deponeva sulla tomba le rose rosse. La sua ripugnanza per le cose della morte, alquanto nevrotica e ossessiva, lo aveva indotto a scambiare per un impiegato delle pompe funebri l'uomo che si aggirava su un'automobile nera, attorno alla casa di Emilia, nei giorni dell'incidente. Adesso ricordava una fotografia di Araujo, che aveva guardato distrattamente qualche anno prima. Quell'uomo era Araujo.

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Pagina 189

La parte dell'ombra


Ero cosí abituato agli scricchiolii della navigazione che svegliandomi dalla siesta sentii il silenzio della nave. Mi affacciai da un oblò. Vidi in basso l'acqua tranquilla e in lontananza, ricca di vegetazione verde, la costa, su cui individuai palme e forse banani. Indossai l'abito di tela e salii in coperta.

Avevamo attraccato. A babordo c'era il porto, dove i negri brulicavano sul selciato, tra le rotaie, le alte gru e gli interminabili capannoni grigi; piú in là si allargava la città, circondata di colline dai ripidi pendii selvatici; con cura, come osservai, caricavano la merce. A tribordo - se tribordo è la parte destra, guardando verso prua - ritrovai la costa che avevo guardato dall'oblò, un'isola che mi ricordò fattorie dove non ero mai stato, luoghi dei romanzi di Conrad. Devo aver letto qualcosa su un personaggio che, a causa di una lenta morte della volontà, contro i desideri della sua anima, finisce per rimanere in un posto cosí, nella penisola malese, a Sumatra o a Giava. Mi dissi che non appena sbarcato sarei entrato nel mondo di simili libri ed ebbi un brivido di gioia e di paura: una goccia di ognuna, perché non ero poi troppo credulo al riguardo. Scoppi monotoni del motore di una specie di canoa che navigava verso l'isola attirarono la mia attenzione. Sulla canoa, un negro che teneva alta una gabbia di vimini, con un uccello azzurro e verde; rideva e gridava a noi della nave parole che non capii, udibili a malapena.

Entrando nella sala da fumo (una targa sulla porta diceva cosí, oltre a Fumoir e Smoking Room) ritrovai con sollievo la penombra, il fresco, il silenzio. Il ragazzo del bar preparò il mio solito bicchiere di menta.

- È incredibile, - commentai. Lascio tutto questo per andarmi a infilare in quell'inferno laggiú. E tutto per il turismo.

Faticosamente cominciai una tirata sul turismo come unica fede universale, quando il barman mi interruppe:

- Sono già scesi tutti, - disse.

- Vi sono delle eccezioni, - obiettai.

Guardai con aria eloquente in direzione del tavolo dove il vecchio generale Pulman, un polacco in esilio, mescolava le carte.

- La vita è finita, per lui, - osservò il ragazzo del bar, - ma il generale non si stanca di tentare la sorte nel mazzo delle carte.

- Solo nel mazzo delle carte, - risposi.

Bevvi la menta fino a quando la granita sul fondo del bicchiere da verde non divenne cristallina, mormorai: «Me la segna» e mi preparai a scendere. Vicino alla passerella, scritto con il gesso su una lavagna, lessi che saremmo salpati l'indomani, alle otto del mattino. «C'è tempo. Per una volta, - mi dissi, - sarò libero dalla paura di perdere la nave».

Coprendomi gli occhi con la mano, perché fuori la luce era troppo bianca, misi piede sulla terraferma. Al di là della dogana, mentre cercavo invano un'automobile a nolo e un negro ripeteva la parola taxi e faceva segno di no, si scatenò un acquazzone. Da dietro ai magazzini arrivò un vecchio tram scoperto (scoperto sui lati, ma con un tetto, s'intende). Per non inzupparmi, vi salii. Neanche il bigliettaio, un negro scalzo, voleva bagnarsi e per vendere i biglietti non usava il montatoio: calpestando i sedili e scavalcando le spalliere percorreva il veicolo nella parte interna. L'acquazzone fini molto presto. La luce lattea non era mutata affatto. Da una stradina laterale veniva giú un negro con un carico colorato sul capo. Incuriosito, guardai: il carico era una bara coperta di orchidee. Il negro apriva un corteo funebre.

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Pagina 217

L'opera


Come se non bastassero le promesse dell'aldilà, vogliamo durare a lungo sulla nostra terra, cosí vilipesa e cosí amata. Quasi ciascuno reca in sé l'ansia di sopravvivere nelle sue opere, nei suoi figli, in qualunque modo. Senza dubbio è un istinto quello che ci muove e su questo punto, almeno, uguagliamo in intelligenza due insetti, la formica e l'ape, e un roditore, il castoro o castor fiber. Se riflettessimo solo un momento attorno all'immortalità che procurano i libri, le opere d'arte, le invenzioni, i pubblici uffici, potremmo assaporare l'amarezza di chi si è lasciato prendere in una truffa. Io aspiro all'immortalità della mia coscienza e non sono cosí vanitoso da contentarmi di sopravvivere in mezza dozzina di volumi allineati su uno scaffale; tuttavia mi aggrappo con unghie e denti a quell'immortalità della mezza dozzina, il mio solido bastione contro gli assalti del tempo, ed è altrettanto vero che rimango a bocca aperta, parlando per metafora, di fronte a coloro che un giorno dopo l'altro si affannano su lavori che svaniscono un giorno dopo l'altro. Come si può capire un artista cosí grande, i cui prodotti sono sottoposti a prove tali che spazzerebbero via i quadri del Museo d'Arte Moderna, per non parlare di molti libretti dei poeti? Mi riferisco ai parrucchieri per signora e ai grandi chef, del tutto indifferenti alla rapida rovina delle loro elucubrazioni, sia che vogliamo chiamarle complicate acconciature o sapienti torte.

Quanto ai citati libretti, do per certo che mi assicureranno una nicchia - dimora poco allegra, ma cos'ha di allegro la posterità? - nella storia della letteratura argentina. Forse non sarò né tra i piú esaltati né tra gli infimi; mi rassegno a un posto secondario: per me, il piú decoroso. Il mio nome è sconosciuto ai piú dotti sulle squadre di football e sulle genealogie dei cavalli. Quando dico che sono uno scrittore, brillano gli occhi del fortuito interlocutore che mi è proposto dai sedili del vagone, o dal tavolo del casinò o del pranzo di gala, ma quando, su sua richiesta, dico il mio nome, il sorriso del momento si turba, finché una nuova speranza lo rianima: «Firma con uno pseudonimo?» «No, non firmo con uno pseudonimo». Forse l'interlocutore non ricorda lo scrittore, ma certo ricorda i suoi romanzi. Li elenco con abnegazione, anche se quella smorfia sull'ingenuo volto ormai disilluso esclude ogni dubbio: non ha mai sentito quei titoli.

Il mio errore, come scrittore, è stato probabilmente quello di raccontare finzioni, in fin dei conti menzogne; le menzogne, chi non lo sa, hanno dentro di loro un embrione di morte. Adesso racconterò un fatto vero.

Fino a oggi mi ero astenuto dallo sfruttare letterariamente questi fatti, per rispetto alle persone implicate: ma nel nostro paese l'oblio corre piú veloce della storia, per cui si può pubblicare un episodio successo dieci anni prima, perfettamente sicuri di non infastidire i vivi e di non offuscare il ricordo dei morti. Non c'è ricordo da offuscare perché nessuno ricorda nulla.

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