Autore Marie-Claire Blais
Titolo La sete
EdizioneSafarà, Pordenone, 2021 , pag. 328, cop.fle., dim. 13,5x20,5x2,5 cm , Isbn 978-88-32107-18-0
OriginaleSoifs
TraduttoreFederica Di Lella
LettoreAngela Razzini, 2021
Classe narrativa canadese









 

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Pagina 13

Erano lì per riposarsi, rilassarsi, l'uno accanto all'altra, lontani da tutto, la finestra della loro camera dava sul Mar dei Caraibi, un mare azzurro, calmo, con un cielo che quasi scompariva nei riflessi di un sole potente, prima di partire il giudice aveva confermato il suo verdetto di colpevolezza, ma non era quella giusta sentenza a tormentare sua moglie, pensava, era un uomo giovane, poco abituato ai tribunali, e quel caso di delinquenti e protettori mandati in carcere lo aveva già molto avvilito, che mestiere tremendo quello del magistrato, un mestiere che un tempo era stato di suo padre e che forse non sarebbe rimasto a lungo il suo, pensava, Renata aveva smesso di colpo di difendere i suoi clienti e non era per niente contenta di dover stare a riposo per qualche mese, ma non c'era solo la preoccupazione per la sua salute a un tratto fragile, a rischio, c'era anche quella storia che ormai faceva da sfondo a ogni loro abbraccio e a ogni loro discussione, quella storia, quell'avvenimento, che in apparenza era accaduto lontano da loro, dalla loro vita, in una stanza, una cella in cui per tanto tempo avrebbero regnato i vapori freddi dell'inferno, l'esecuzione di un nero sconosciuto in una prigione del Texas, la morte mediante iniezione letale, una morte dissimulata, discreta perché del tutto silenziosa, una morte liquida per via endovenosa, di un'efficienza esemplare visto che il condannato poteva infliggersela da solo alle prime luci dell'alba, era sicuro che lei aveva pensato a quell'uomo, al suo corpo caldo, o divenuto solo lievemente più freddo dopo essere stato scosso da impercettibili spasmi, un corpo da cui qualche ora dopo emanava ancora l'odore acre, pestilenziale della paura, della sterile angoscia che aveva avuto il tempo di provare, forse per un secondo, prima di fare quella fine spaventosa, entrambi avevano pensato tutta la notte al condannato del Texas, avevano parlato a lungo di lui, poi lo avevano dimenticato, gettandosi l'uno nelle braccia dell'altra in preda a un'allegra frenesia che ora appariva incomprensibile a tutti e due, perché sciolto il tenero abbraccio avevano sentito lo stesso identico senso di impotenza, quell'uomo non sarebbe dovuto morire, ripeteva caparbiamente Renata, quell'uomo forse era innocente, diceva, mentre un ruga inquieta le solcava la fronte, quella fronte da pensatore in una donna, si diceva il giudice guardando sua moglie dritto negli occhi, mentre l'uomo che era cercava di indossare i panni dell'altro sesso, Renata non era solo in disaccordo con lui, era inferocita, e chissà perché non la prendeva per mano per trattenerla, alla fine sarebbe scappata lontano da lui, sarebbe uscita, si stava già vestendo per andare al casinò, il casinò, lei che non era per niente frivola sembrava a un tratto di una frivolezza disarmante, e vedendola già allontanarsi, con quella ruga severa della fronte e quell'aria di vigile apprensione nello sguardo che non si posava più su di lui, dal quale lui era stato bandito in nome di preoccupazioni più alte, come la morte di un condannato in una prigione del Texas, aveva pensato che la caparbietà di Renata lo spingeva costantemente verso un'aspra resistenza, sì, perché era chiaro che lei voleva renderlo un uomo migliore, diverso o migliore, quella era la speranza che aveva sempre riposto negli uomini giovani di cui si innamorava, che riuscissero a superare sé stessi, come Franz nella musica, ma Franz non le aveva forse detto che era impossibile aspettarsi azioni onorevoli da un'indole inetta, sensuale e pigra, e non era forse inetta l'indole degli uomini, pensava il giudice, non lo aveva notato Renata che tra tutti i giudici solo uno aveva alzato la voce contro la pena di morte negli Stati Uniti, e nessuno lo aveva ascoltato, ah, l'inettitudine degli uomini, non era passato poi tanto tempo da quando il padre di Claude, il padre, il nonno, non era passato tanto tempo dall'epoca in cui quei giudici accettavano che nel loro paese delle donne e degli uomini fossero giustiziati mediante impiccagione, pensava Claude, superare sé stessi, non c'era verso di riscattare le colpe dei padri, chissà se ci sarebbe mai stata una generazione di uomini equi, pensava avvilito, e gli orecchini, non doveva dimenticare di mettere gli orecchini per andare al casinò, nel raccomandare a Renata di pensare agli orecchini dissimulava il suo avvilimento, il senso di vergogna che provava a un tratto in quella stanza, e aveva anche l'impressione che, quando uscivano insieme per strada, tutti gli uomini guardassero Renata, ma forse era per il sentore di vita, di morte, dovuto alla convalescenza, che aleggiava attorno a loro, sua moglie gli sembrava fragile, con quella sua fronte larga, le orecchie sguarnite, il lobo trapassato da una luce rosa, come la carne dei bambini quando si feriscono, quelle orecchie sguarnite doveva ornarle, coprirle con gli orecchini, stai molto meglio, disse, ma perché frequenti quel casinò, lì dentro la gente fuma un sacco, l'aria è viziata, poi andando verso la finestra aveva sentito Renata avvicinarsi, la sua testa regale sfiorargli la spalla, era scomparsa diretta verso l'ascensore, la hall dell'albergo, era già in mezzo alla folla, dove si accendeva subito una sigaretta e poi un'altra, aveva aspettato tanto quel momento, nessun affetto, nessuna premura avevano potuto trattenerla, pensava lui, quella sete smaniosa era tipicamente sua, la sete di Renata, quanto oscuro e incontrollabile appariva il suo modo di fare, quando sapeva che poteva morirne, l'aveva vista tante volte persa in quell'atteggiamento di distanza assorta e poi, immobile, senza guardarlo, animarsi di colpo per ripetere un gesto da automa, quello di fissare avidamente la sigaretta, di cui soffiava subito fuori il fumo, posando intanto l'accendino dai riflessi lucenti su un mobile, accanto al letto, l'oggetto malefico li perseguitava fin nei recessi della loro vita intima, adesso, pensava, bisognava cancellare dalla camera quelle tracce sinistre, ciò che ancora restava della conversazione notturna, un giornale che avevano letto insieme la sera prima, il nome del condannato, la sua fotografia, a che pro, era troppo tardi, ah, l'inettitudine degli uomini, l'animo umano è gravato da un'eternità di pene, ma nonostante tutto continua a vivere nell'oblio, nel piacere, nella spensieratezza, sentiva un brusio di risate frivole, sulla spiaggia, nelle camere, Claude era come gli altri villeggianti, sguazzava come loro nell'acqua e nella crema solare, ognuna di quelle persone era viva, raggiante, soddisfatta della propria precaria permanenza sulla terra, ma se Renata gli sfuggiva per placare la sua sete, pensava, probabilmente era perché era stato troppo severo nel pronunciare la sentenza contro quei delinquenti e quei protettori, rivedeva l'espressione di commiserazione stampata sul suo volto, e intanto rifletteva sulle cose sconcertanti che si erano detti nella notte, lui le aveva proibito ancora una volta di fumare a letto e lei si era ribellata, e a un tratto avevano parlato di Dostoevskij, all'ultimo secondo uno zar svagato aveva graziato Dostoevskij, altrimenti sarebbe stato assassinato come in passato lo era stato suo padre, era incredibile la storia di quel sovrano scapestrato che aveva salvato un uomo, in ogni caso il pensiero dell'ultimo secondo non aveva più abbandonato Dostoevskij, che aveva continuato a lungo a sentire il rumore della salva, e Renata camminava da sola verso il casinò, da sola, per una donna contava ancora qualcosa il senso della propria libertà, della propria dignità, in fondo era costantemente osservata, tenuta d'occhio, lo sguardo degli altri era legato indissolubilmente al suo modo di camminare, al movimento delle sue anche, dei collo, al luccichio dei gioielli dietro i quali dissimulava la sua fragilità, da lì, vicino alle tempie, dove Renata lisciava con le dita i suoi sottili capelli argentati, più su, verso la fronte, veniva da lì l'illuminazione, il lampo di quella pallida verità che a volte le balenava incerto nell'anima, le sembrava di sentire distintamente queste parole, il destino di una donna, il mio destino è un destino incomprensibile e amorfo, non ero contemplata nei piani di Dio, quale dolorosa indolenza l'aveva spinta a dire al suo medico, mi liberi di questo tumore maligno, la cosa più penosa era il pensiero dell'accendino dimenticato in albergo, forse i suoi sensi sarebbero stati sempre troppo deboli per assaporare il mondo, il suo mondo, non quello di Claude e di Franz, il suo mondo, un giardino magnifico, frammentario, frantumato, ma suo, pensava Renata, avere trent'anni come i suoi nipoti Daniel e Mélanie che presto avrebbe rivisto, i suoi unici parenti, avere trent'anni come loro, vivere la gioia spensierata di crescere in quel luogo la propria famiglia, domani avrebbe visitato un museo, camminava a passo deciso, entusiasta, non aveva pensato a quanto fosse audace il suo gesto, ma del gesto non era forse essenziale scrollarsi di dosso il giogo di una libertà negata, quando aveva tratto a sé un uomo in abito bianco a cui aveva chiesto di farle accendere, l'uomo era un nero americano, slanciato, si era chinato su di lei, che pure era alta, facendo schermo con la mano alla fiamma, fiamma che era guizzata tra i loro sguardi, mentre lei lo ringraziava umilmente, l'uomo aveva rialzato la testa, squadrando con alterigia la tizia che lo aveva abbordato in quel modo, mentre lui era in compagnia di una donna, poi l'aveva vista scappare via di corsa, con quel gesto di toccare un uomo per chiedergli da accendere, vincendo il proprio turbamento, Renata aveva conquistato un altro po' di spazio nel territorio in cui si dibatteva il suo pensiero, era il suo destino particolare, pensava, osare quei gesti che le davano la certezza di esistere liberamente, di essere autonoma e ribelle, quel nome sulla porta inciso in lettere nere su una targa dorata, Renata Nymans, avvocato, serviva solo a tutelare, a difendere la condizione femminile perennemente violata, ma forse era anche un nome legato alla sua cattività, cattività borghese accanto a un marito o cattività professionale, con i privilegi del suo ceto, era solo l'inizio della convalescenza e già stava rinascendo diversa, pensava, aveva sentito l'alito dell'uomo passare sulla fiamma, al di sopra della sigaretta, lui veniva da Los Angeles, una fiamma li aveva uniti, per un attimo, su un'isola straniera, [...]

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Pagina 25

[...] ma non possono confessarli a nessuno, cosa aveva visto quel giorno che aveva desiderato non dimenticare mai, un'adolescente che nuotava con il suo cane tenendolo per il collare, andavano alla deriva, portati dalla corrente, l'innocenza di un'immagine che non voleva dimenticare, e se la donna al volante della macchina aveva suscitato in lui quell'emozione indicibile, era anche perché era viva, perché avrebbe continuato a vivere quando lui non ci sarebbe più stato, anche se per l'età avrebbe potuto essere sua madre, e mentre sprofondava nei cuscini della macchina era stato sopraffatto da una paura agghiacciante, l'alba e il tramonto sul mare, la ragazza che tirava il cane per il collare in mezzo alle onde, tutto quel fermento vitale, imperturbabile e allegro, destinato a perdurare anche in sua assenza, si sarebbe invece dovuto fermare, l'aereo si sarebbe dovuto ridurre in polvere per poi disperdersi tra i granelli di sabbia in un frastuono metallico, lui non si sarebbe mai dovuto trovare a rispondere con voce sconsolata se stava comodo tra i cuscini, su una macchina che lo conduceva all'ultima tappa della sua esistenza, in un luogo paradisiaco, lui che aveva sempre disprezzato l'idea cristiana del diletto nella sofferenza, nel castigo, lo aveva anche insegnato ai suoi studenti nei corsi su Kafka, la Lettera al padre era uno degli esempi più eloquenti, in letteratura, di voluttà nell'umiliazione, perché l'appello disperato di Kafka al padre messo sotto accusa e denunciato non aveva mai trovato ascolto, sì, ma chissà se gli studenti avevano capito il senso di quei discorsi noiosi, studenti che non avrebbe più rivisto, e in fondo Jacques invidiava le lucertole che osservava strisciare pigramente sulle pietre per tutto il giorno, con le gole rosse che si gonfiavano in un moto di gioia pacata, invidiava l'amore, il ricordo del fermento allegro, imperturbabile che era la vita, presto sarebbero stati annunciati nuovi progressi della scienza, la malattia sarebbe regredita, ah, magari si facesse strada in lui la speranza di potersi liberare dai suoi mali, ma intanto lì lo aspettava il suo lavoro, avrebbe finalmente terminato la monografia su Kafka, in autunno l'avrebbe presentata ai colleghi dell'università, avrebbe sottolineato il rapporto di ostilità che legava Kafka a suo padre, l'aberrante unione biologica di quei due individui, uno sensibile e raffinato, l'altro perverso, unione di cui La metamorfosi era stata l'unica possibile via d'uscita, attraverso la maledizione della scrittura, perché in fondo con il simbolo dell'insetto prigioniero in una camera Kafka aveva punito sia il padre sia il figlio, avrebbe parlato del tema del castigo gratuito, della maledizione, con un tono di amara insolenza, di disillusione, perché prima di quel giorno non aveva mai pensato che l'oggetto del suo studio su Kafka fossero lui stesso e la fauna malsana che gli brulicava sotto il carapace; tutt'a un tratto in preda al sonno, al torpore, fissava con gli occhi socchiusi uno di quei rettili che era saltato sul davanzale della finestra, la minuscola lucertola sembrava fissarlo a sua volta da dietro le palpebre guizzanti, era l'immagine stessa della pigrizia e del languore, pensò Jacques, e per quanto invalida e menomata nel fisico fosse la sua presenza lì al sole, forse anche la lucertola stava diventando, come l'adolescente con il cane in mezzo alle onde o come la donna che lo aveva accompagnato a casa dall'aeroporto, una di quelle figure indimenticabili che avanzavano con Jacques verso le rive dell'eternità, [...]

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Pagina 42

[...] Mama raccoglieva i piatti sporchi di salsa e di fave scure tra le erbacce del giardino, la sua voce acuta risuonava nelle orecchie di Carlos, che cercava di scappare verso la strada e che Mama riacciuffava e si stringeva al petto, al prosperoso seno ansimante di rabbia sotto il vestito di cotone lilla, il vestito della domenica, che le scendeva lungo le robuste gambe nere fino alle caviglie, con le scarpe bianche che calpestavano l'erba ingiallita, questa furia esplosiva gravitava attorno a Carlos, lo incalzava mentre lui stringeva il pallone da calcio, i lucchetti, le catene di bicicletta, e sua madre si lamentava, che il Signore abbia pietà di noi, i ceffoni piovevano sulle guance di Carlos, sulla sua nuca robusta china in avanti, voleva la fine dei fratelli Escobez di via Havana, eh, voleva fare quella fine, e nel ronzio dei colpi che gli martellavano le tempie a un tratto lui sentì tutto intorno, come se quei suoni cristallini, separati dal resto, zampillassero dalla terra solo per lui, il canto delle cicale e lo sciabordio delle onde, vide il Santo Reverendo in piedi su una nuvola in mezzo al cielo, sembrava preoccupato per qualcosa perché si asciugava la fronte con un fazzoletto e diceva con voce grave, Carlos, un tempo avevo un sogno, ed era per te, figlio mio, che cosa è successo, ma l'annuncio televisivo sfumava presto lasciando il posto a un altro annuncio, quello del gelato alla vaniglia che Carlos doveva mangiare, era da un sacco di tempo che il Santo Reverendo si rivolgeva a Carlos stando in piedi su una nuvola con indosso una toga imbrattata di chiazze scarlatte all'altezza del cuore, a volte piangeva, con tutto quello che ho fatto per te, figlio mio, tu passi il tempo a sniffare cocaina con i Negri Cattivi, ricordi le trentaquattro Pantere nere uccise per le strade di New York, no, perché quello che piace a te è il gelato alla vaniglia fabbricato dai bianchi, perché la luce, figlio mio, è anche quella del fulmine, e alla voce grave del Santo Reverendo nel cielo, al canto delle cicale e allo sciabordio delle onde si mescolava il tump tump di un'orchestra nera che ripeteva a Carlos la marca commerciale del gelato alla vaniglia che doveva mangiare, tump tump, e sulle note ritmate di quel tump tump lui ballava saltellando su un piede e poi sull'altro, dondolando la testa sotto i colpi di sua madre, con un movimento lento di estrema indolenza, dopodiché a poco a poco i ronzii alle tempie di Carlos cessarono, la mano vigorosa che l'aveva scrollato e schiaffeggiato, in preda a un raptus incontrollabile ricadeva esausta lungo il vestito lilla, Carlos riprese il pallone che era rotolato sull'erba, [...]

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Pagina 46

[...] E in fondo, pensava Renata, lei e Claude, che si erano ritrovati improvvisamente l'uno accanto all'altra davanti al mare, attratti dai profumi di una notte odorosa, non ricordavano un po' una coppia di fuggiaschi che faceva l'amore in fretta e furia nella promiscuità di una camera d'albergo, prima di una partenza, di una separazione, in un'atmosfera febbrile di clandestinità, uno specchio sul soffitto della camera aveva riflesso le domande audaci che si erano fatti mentre si baciavano, si avvinghiavano l'uno all'altra, e a un tratto, nel silenzio della notte, lo specchio aveva rimandato l'immagine di quei corpi smarriti, ora immobili, intorpiditi nello stesso benessere, Renata ricordò al marito i rischi che stava correndo, era incomprensibile quanto fosse imprudente, gli disse, Claude si difese ribattendo che i trafficanti, con le loro miscele esplosive, avevano fatto saltare in aria solo le pareti traslucide della serra che ospitava le piante tropicali durante l'inverno, a lei non era mai piaciuto il lusso di quella serra, insistette, e mentre parlavano senza smettere di accarezzarsi il viso a vicenda, Renata rivide la coppia volgare che strepitava accanto al pianoforte, nel bar, a un tratto le affioravano alla coscienza tutte le desolanti apparizioni di quella notte, c'era stato anche il vecchio sdentato che, sonnecchiando dietro ai banconi polverosi di una libreria della città, le aveva detto con aria rassegnata, prenda il libro che le piace, signora, io non so leggere, mi limito a vendere libri agli scolaretti, e proprio in quel momento lei aveva provato una languida sensazione di sete, una sensazione così irreprimibile da farla girare verso una turista che stava bevendo una gazzosa in un bicchiere di carta, la turista sembrava leggere senza ritegno da dietro la sua spalla, e intanto sorbiva avidamente la bibita con una cannuccia, e ormai la sete, la presenza indiscreta che le sfiorava la spalla permeavano i versi di Emily Dickinson che aveva letto nell'aria surriscaldata della libreria, Because I could not stop for Death -/ He kindly stopped for me -/ The Carriage held out just Ourselves -/ And Immortality... sì, perché in quelle parole scritte in un'altra lingua scorreva un denso fiume di ricordi, di vivide emozioni che Renata provava nel presente, come se, mentre degli scolaretti neri la spintonavano, mentre una straniera che le stava appiccicata alle spalle sorseggiava una gazzosa al limone facendogliene venire la voglia, il desiderio, avesse sentito a un tratto balenare dentro di sé, sotto il sudore che le colava sulla fronte, la rivelazione che aspettava fin dall'inizio della sua convalescenza lì, in un luogo in cui, come aveva detto a suo marito, aveva l'impressione di trovarsi in una sorta di limbo, la rivelazione dello stato di turbamento in cui versava dal giorno in cui aveva pensato che stava fumando per l'ultima volta, nel corridoio di un lugubre ospedale di New York, da quel momento in cui, come nella poesia di Emily Dickinson, la morte non si era fermata, lasciandola sola con il candore del suo passaggio e con quel sapore indimenticabile dell'ultima sigaretta, [...]

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Pagina 119

[...] Madre aveva perso la sua Euridice e, quando si sentiva così umiliata e provava quel senso di fallimento accanto a sua figlia, si vergognava dell'opulenza in cui vivevano lei e i suoi cari, era una donna serena e benestante, a cui non mancava nulla, neppure il superfluo, mentre i suoi cugini polacchi, quelli che Madre chiamava così benché non li avesse mai conosciuti, quei cugini, quei lontani cugini che, nell'arco di due generazioni, non erano riusciti a fuggire verso il Canada o gli Stati Uniti, erano morti tutti a Luków, un paese del distretto di Lublino, si potevano ancora vedere in certe fotografie riportate in luce da storici e giornalisti, mentre alzavano la mano, come se la scena fosse eternamente presente, verso i loro massacratori, i loro assassini, in un gesto di resa estremo e sconvolto, ma in cui non c'era il minimo cenno di ribellione, perché i cugini polacchi avevano capito che non c'era scampo, erano schierati in diverse file e stavano in piedi davanti a delle baracche da cui fuoriusciva odore di gas e di cadaveri, nella stessa fila, in ginocchio, i rabbini si inchinavano in segno di accettazione di una legge spirituale che avevano scelto ma che, a un tratto, li perdeva, ognuno scuoteva la testa sotto il berretto, in una macabra danza di terrore nella neve e nel freddo, e tutti quegli occhi sbarrati, quei corpi ansimanti imploravano disperatamente una via di fuga, quando invece, di lì a poco, il cielo muto e grigio si sarebbe richiuso sui loro gemiti, sulle grida dei bambini separati dalle madri, mentre Madre viveva nell'opulenza, con sua figlia, i sui figli, che erano la gioia della sua vita, anche se non mancavano mai le zone d'ombra; forse era stata l'apparizione di Renata attraverso l'ingresso principale a far riaffiorare nella mente di Madre il ricordo dei cugini polacchi, o forse quei cugini erano sempre presenti nel suo pensiero, anche se irrecuperabili, pensava, relegati appena sotto la superficie della sua coscienza, anche Renata, come Madre, di quei parenti, di quei cugini polacchi di cui Madre avrebbe preferito cancellare per sempre il ricordo, conosceva solo le facce apparse nelle fotografie e nei giornali, ma né Madre né Renata potevano ignorare l'esistenza, finita in modo così brutale, di quelle persone che non erano riuscite a scappare da Luków, nel distretto di Lublino, non a caso Samuel aveva il nome di uno di quei prozii trucidati in quell'inverno del 1942, Samuel, il bambino, quello che aveva cantato easy, easy living, imitando una voce nera con sapiente voluttà, Samuel, e forse quello avrebbe dovuto essere un sufficiente motivo di consolazione per Madre, avrebbe dovuto alleviare la sua sofferenza, grazie a Samuel, ad Augustino, a Vincent, quei volti di Luków nel distretto di Lublino erano un po' più lontani, perché dalla morte rinasceva la vita, Samuel era la gloriosa fenice che rinasce dalle sue ceneri, come dopo un incendio rispuntano le foglie, probabilmente era stata l'apparizione di Renata attraverso l'ingresso principale a ridestare in lei quei ricordi ossessionanti, la complicità in una lotta segreta tra loro, donne adulte, il ricordo incancellabile dei cugini polacchi, quanto ai più giovani, chissà se ci pensavano spesso a quelle cose, perché dalla morte rinasceva la vita, ma per quale motivo Madre in quel preciso istante aveva pensato al sapore dolce delle fragole sul pesce fresco servito a cena, le venivano le lacrime agli occhi per la tristezza pensando ai cugini polacchi che il viso di Renata le riportava alla mente, quel ricordo incancellabile, [...]

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