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Erano lì per riposarsi, rilassarsi, l'uno accanto all'altra,
lontani da tutto, la finestra della loro camera dava sul Mar
dei Caraibi, un mare azzurro, calmo, con un cielo che quasi scompariva nei
riflessi di un sole potente, prima di partire il giudice aveva confermato il suo
verdetto di colpevolezza, ma non era quella giusta sentenza a tormentare sua
moglie, pensava, era un uomo giovane, poco abituato ai
tribunali, e quel caso di delinquenti e protettori mandati in
carcere lo aveva già molto avvilito, che mestiere tremendo
quello del magistrato, un mestiere che un tempo era stato
di suo padre e che forse non sarebbe rimasto a lungo il
suo, pensava, Renata aveva smesso di colpo di difendere i
suoi clienti e non era per niente contenta di dover stare a
riposo per qualche mese, ma non c'era solo la preoccupazione per la sua salute a
un tratto fragile, a rischio, c'era
anche quella storia che ormai faceva da sfondo a ogni loro
abbraccio e a ogni loro discussione, quella storia, quell'avvenimento, che in
apparenza era accaduto lontano da loro,
dalla loro vita, in una stanza, una cella in cui per tanto
tempo avrebbero regnato i vapori freddi dell'inferno, l'esecuzione di un nero
sconosciuto in una prigione del Texas, la morte mediante iniezione letale, una
morte dissimulata, discreta perché del tutto silenziosa, una morte liquida per
via endovenosa, di un'efficienza esemplare visto
che il condannato poteva infliggersela da solo alle prime
luci dell'alba, era sicuro che lei aveva pensato a quell'uomo, al suo corpo
caldo, o divenuto solo lievemente più
freddo dopo essere stato scosso da impercettibili spasmi,
un corpo da cui qualche ora dopo emanava ancora l'odore
acre, pestilenziale della paura, della sterile angoscia che
aveva avuto il tempo di provare, forse per un secondo, prima di fare quella fine
spaventosa, entrambi avevano pensato tutta la notte al condannato del Texas,
avevano parlato a lungo di lui, poi lo avevano dimenticato, gettandosi
l'uno nelle braccia dell'altra in preda a un'allegra frenesia
che ora appariva incomprensibile a tutti e due, perché
sciolto il tenero abbraccio avevano sentito lo stesso identico senso di
impotenza, quell'uomo non sarebbe dovuto
morire, ripeteva caparbiamente Renata, quell'uomo forse
era innocente, diceva, mentre un ruga inquieta le solcava la
fronte, quella fronte da pensatore in una donna, si diceva
il giudice guardando sua moglie dritto negli occhi, mentre
l'uomo che era cercava di indossare i panni dell'altro sesso, Renata non era
solo in disaccordo con lui, era inferocita, e chissà perché non la prendeva per
mano per trattenerla, alla fine sarebbe scappata lontano da lui, sarebbe uscita,
si stava già vestendo per andare al casinò, il casinò, lei che
non era per niente frivola sembrava a un tratto di una frivolezza disarmante, e
vedendola già allontanarsi, con quella ruga severa della fronte e quell'aria di
vigile apprensione nello sguardo che non si posava più su di lui, dal
quale lui era stato bandito in nome di preoccupazioni più
alte, come la morte di un condannato in una prigione del
Texas, aveva pensato che la caparbietà di Renata lo spingeva costantemente verso
un'aspra resistenza, sì, perché era
chiaro che lei voleva renderlo un uomo migliore, diverso o
migliore, quella era la speranza che aveva sempre riposto
negli uomini giovani di cui si innamorava, che riuscissero
a superare sé stessi, come Franz nella musica, ma Franz
non le aveva forse detto che era impossibile aspettarsi
azioni onorevoli da un'indole inetta, sensuale e pigra, e
non era forse inetta l'indole degli uomini, pensava il giudice, non lo aveva
notato Renata che tra tutti i giudici solo
uno aveva alzato la voce contro la pena di morte negli Stati Uniti, e nessuno lo
aveva ascoltato, ah, l'inettitudine degli uomini, non era passato poi tanto
tempo da quando il padre di Claude, il padre, il nonno, non era passato tanto
tempo dall'epoca in cui quei giudici accettavano che nel
loro paese delle donne e degli uomini fossero giustiziati
mediante impiccagione, pensava Claude, superare sé stessi, non c'era verso di
riscattare le colpe dei padri, chissà se
ci sarebbe mai stata una generazione di uomini equi, pensava avvilito, e gli
orecchini, non doveva dimenticare di
mettere gli orecchini per andare al casinò, nel raccomandare a Renata di pensare
agli orecchini dissimulava il suo
avvilimento, il senso di vergogna che provava a un tratto
in quella stanza, e aveva anche l'impressione che, quando
uscivano insieme per strada, tutti gli uomini guardassero
Renata, ma forse era per il sentore di vita, di morte, dovuto alla
convalescenza, che aleggiava attorno a loro, sua
moglie gli sembrava fragile, con quella sua fronte larga, le
orecchie sguarnite, il lobo trapassato da una luce rosa,
come la carne dei bambini quando si feriscono, quelle
orecchie sguarnite doveva ornarle, coprirle con gli orecchini, stai molto
meglio, disse, ma perché frequenti quel
casinò, lì dentro la gente fuma un sacco, l'aria è viziata, poi
andando verso la finestra aveva sentito Renata avvicinarsi,
la sua testa regale sfiorargli la spalla, era scomparsa diretta
verso l'ascensore, la hall dell'albergo, era già in mezzo alla
folla, dove si accendeva subito una sigaretta e poi un'altra,
aveva aspettato tanto quel momento, nessun affetto, nessuna premura avevano
potuto trattenerla, pensava lui,
quella sete smaniosa era tipicamente sua, la sete di Renata,
quanto oscuro e incontrollabile appariva il suo modo di
fare, quando sapeva che poteva morirne, l'aveva vista tante
volte persa in quell'atteggiamento di distanza assorta e
poi, immobile, senza guardarlo, animarsi di colpo per ripetere un gesto da
automa, quello di fissare avidamente la
sigaretta, di cui soffiava subito fuori il fumo, posando intanto l'accendino dai
riflessi lucenti su un mobile, accanto
al letto, l'oggetto malefico li perseguitava fin nei recessi
della loro vita intima, adesso, pensava, bisognava cancellare dalla camera
quelle tracce sinistre, ciò che ancora restava della conversazione notturna, un
giornale che avevano letto insieme la sera prima, il nome del condannato, la sua
fotografia, a che pro, era troppo tardi, ah, l'inettitudine
degli uomini, l'animo umano è gravato da un'eternità di
pene, ma nonostante tutto continua a vivere nell'oblio, nel
piacere, nella spensieratezza, sentiva un brusio di risate
frivole, sulla spiaggia, nelle camere, Claude era come gli
altri villeggianti, sguazzava come loro nell'acqua e nella
crema solare, ognuna di quelle persone era viva, raggiante,
soddisfatta della propria precaria permanenza sulla terra,
ma se Renata gli sfuggiva per placare la sua sete, pensava,
probabilmente era perché era stato troppo severo nel pronunciare la sentenza
contro quei delinquenti e quei protettori, rivedeva l'espressione di
commiserazione stampata sul suo volto, e intanto rifletteva sulle cose
sconcertanti che si erano detti nella notte, lui le aveva proibito ancora
una volta di fumare a letto e lei si era ribellata, e a un tratto
avevano parlato di Dostoevskij, all'ultimo secondo uno
zar svagato aveva graziato Dostoevskij, altrimenti sarebbe
stato assassinato come in passato lo era stato suo padre,
era incredibile la storia di quel sovrano scapestrato che
aveva salvato un uomo, in ogni caso il pensiero dell'ultimo
secondo non aveva più abbandonato Dostoevskij, che
aveva continuato a lungo a sentire il rumore della salva, e
Renata camminava da sola verso il casinò, da sola, per una
donna contava ancora qualcosa il senso della propria libertà, della propria
dignità, in fondo era costantemente
osservata, tenuta d'occhio, lo sguardo degli altri era legato
indissolubilmente al suo modo di camminare, al movimento delle sue anche, dei
collo, al luccichio dei gioielli dietro i quali dissimulava la sua fragilità, da
lì, vicino alle tempie, dove Renata lisciava con le dita i suoi sottili capelli
argentati, più su, verso la fronte, veniva da lì l'illuminazione, il lampo di
quella pallida verità che a volte le balenava incerto nell'anima, le sembrava di
sentire distintamente queste parole, il destino di una donna, il mio destino è
un destino incomprensibile e amorfo, non ero contemplata
nei piani di Dio, quale dolorosa indolenza l'aveva spinta a
dire al suo medico, mi liberi di questo tumore maligno, la
cosa più penosa era il pensiero dell'accendino dimenticato
in albergo, forse i suoi sensi sarebbero stati sempre troppo
deboli per assaporare il mondo, il suo mondo, non quello
di Claude e di Franz, il suo mondo, un giardino magnifico, frammentario,
frantumato, ma suo, pensava Renata,
avere trent'anni come i suoi nipoti Daniel e Mélanie che
presto avrebbe rivisto, i suoi unici parenti, avere trent'anni
come loro, vivere la gioia spensierata di crescere in quel
luogo la propria famiglia, domani avrebbe visitato un museo, camminava a passo
deciso, entusiasta, non aveva pensato a quanto fosse audace il suo gesto, ma del
gesto non era forse essenziale scrollarsi di dosso il giogo di una libertà
negata, quando aveva tratto a sé un uomo in abito bianco a cui aveva chiesto di
farle accendere, l'uomo era un nero americano, slanciato, si era chinato su di
lei, che pure era alta, facendo schermo con la mano alla fiamma, fiamma che era
guizzata tra i loro sguardi, mentre lei lo ringraziava umilmente, l'uomo aveva
rialzato la testa, squadrando con alterigia la tizia che lo aveva abbordato in
quel modo, mentre lui era in compagnia di una donna, poi l'aveva vista scappare
via di corsa, con quel gesto di toccare
un uomo per chiedergli da accendere, vincendo il proprio
turbamento, Renata aveva conquistato un altro po' di spazio nel territorio in
cui si dibatteva il suo pensiero, era il
suo destino particolare, pensava, osare quei gesti che le davano la certezza di
esistere liberamente, di essere autonoma e ribelle, quel nome sulla porta inciso
in lettere nere su una targa dorata, Renata Nymans, avvocato, serviva solo a
tutelare, a difendere la condizione femminile perennemente violata, ma forse era
anche un nome legato alla sua cattività, cattività borghese accanto a un marito
o cattività professionale, con i privilegi del suo ceto, era solo l'inizio
della convalescenza e già stava rinascendo diversa, pensava, aveva sentito
l'alito dell'uomo passare sulla fiamma, al di sopra della sigaretta, lui veniva
da Los Angeles, una fiamma li aveva uniti, per un attimo, su un'isola straniera,
[...]
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Pagina 25
[...] ma non possono confessarli a nessuno, cosa aveva visto
quel giorno che aveva desiderato non dimenticare mai,
un'adolescente che nuotava con il suo cane tenendolo per
il collare, andavano alla deriva, portati dalla corrente, l'innocenza di
un'immagine che non voleva dimenticare, e se
la donna al volante della macchina aveva suscitato in lui
quell'emozione indicibile, era anche perché era viva, perché avrebbe continuato
a vivere quando lui non ci sarebbe
più stato, anche se per l'età avrebbe potuto essere sua madre, e mentre
sprofondava nei cuscini della macchina era
stato sopraffatto da una paura agghiacciante, l'alba e il tramonto sul mare, la
ragazza che tirava il cane per il collare
in mezzo alle onde, tutto quel fermento vitale, imperturbabile e allegro,
destinato a perdurare anche in sua assenza, si sarebbe invece dovuto fermare,
l'aereo si sarebbe dovuto ridurre in polvere per poi disperdersi tra i granelli
di sabbia in un frastuono metallico, lui non si sarebbe mai
dovuto trovare a rispondere con voce sconsolata se stava
comodo tra i cuscini, su una macchina che lo conduceva
all'ultima tappa della sua esistenza, in un luogo paradisiaco,
lui che aveva sempre disprezzato l'idea cristiana del
diletto nella sofferenza, nel castigo, lo aveva anche insegnato ai suoi studenti
nei corsi su Kafka, la
Lettera al padre
era uno degli esempi più eloquenti, in letteratura, di
voluttà nell'umiliazione, perché l'appello disperato di
Kafka al padre messo sotto accusa e denunciato non aveva
mai trovato ascolto, sì, ma chissà se gli studenti avevano
capito il senso di quei discorsi noiosi, studenti che non
avrebbe più rivisto, e in fondo Jacques invidiava le lucertole che osservava
strisciare pigramente sulle pietre per
tutto il giorno, con le gole rosse che si gonfiavano in un
moto di gioia pacata, invidiava l'amore, il ricordo del fermento allegro,
imperturbabile che era la vita, presto sarebbero stati annunciati nuovi
progressi della scienza, la malattia sarebbe regredita, ah, magari si facesse
strada in lui la speranza di potersi liberare dai suoi mali, ma intanto lì lo
aspettava il suo lavoro, avrebbe finalmente terminato la
monografia su Kafka, in autunno l'avrebbe presentata ai
colleghi dell'università, avrebbe sottolineato il rapporto di
ostilità che legava Kafka a suo padre, l'aberrante unione
biologica di quei due individui, uno sensibile e raffinato,
l'altro perverso, unione di cui
La metamorfosi
era stata l'unica possibile via d'uscita, attraverso la maledizione
della scrittura, perché in fondo con il simbolo dell'insetto
prigioniero in una camera Kafka aveva punito sia il padre
sia il figlio, avrebbe parlato del tema del castigo gratuito,
della maledizione, con un tono di amara insolenza, di disillusione, perché prima
di quel giorno non aveva mai pensato che l'oggetto del suo studio su Kafka
fossero lui stesso e la fauna malsana che gli brulicava sotto il carapace;
tutt'a un tratto in preda al sonno, al torpore, fissava con gli occhi
socchiusi uno di quei rettili che era saltato sul davanzale
della finestra, la minuscola lucertola sembrava fissarlo a
sua volta da dietro le palpebre guizzanti, era l'immagine
stessa della pigrizia e del languore, pensò Jacques, e per
quanto invalida e menomata nel fisico fosse la sua presenza lì al sole, forse
anche la lucertola stava diventando,
come l'adolescente con il cane in mezzo alle onde o come
la donna che lo aveva accompagnato a casa dall'aeroporto,
una di quelle figure indimenticabili che avanzavano con
Jacques verso le rive dell'eternità, [...]
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Pagina 42
[...] Mama raccoglieva i piatti sporchi di salsa e di fave scure
tra le erbacce del giardino, la sua voce acuta risuonava nelle orecchie di
Carlos, che cercava di scappare verso la strada e che Mama riacciuffava e si
stringeva al petto, al prosperoso seno ansimante di rabbia sotto il vestito di
cotone lilla, il vestito della domenica, che le scendeva lungo le
robuste gambe nere fino alle caviglie, con le scarpe bianche che calpestavano
l'erba ingiallita, questa furia esplosiva gravitava attorno a Carlos, lo
incalzava mentre lui stringeva il pallone da calcio, i lucchetti, le catene di
bicicletta, e sua madre si lamentava, che il Signore abbia pietà
di noi, i ceffoni piovevano sulle guance di Carlos, sulla sua
nuca robusta china in avanti, voleva la fine dei fratelli
Escobez di via Havana, eh, voleva fare quella fine, e nel
ronzio dei colpi che gli martellavano le tempie a un tratto
lui sentì tutto intorno, come se quei suoni cristallini, separati dal resto,
zampillassero dalla terra solo per lui, il canto
delle cicale e lo sciabordio delle onde, vide il Santo Reverendo in piedi su una
nuvola in mezzo al cielo, sembrava
preoccupato per qualcosa perché si asciugava la fronte con
un fazzoletto e diceva con voce grave, Carlos, un tempo
avevo un sogno, ed era per te, figlio mio, che cosa è successo, ma l'annuncio
televisivo sfumava presto lasciando il
posto a un altro annuncio, quello del gelato alla vaniglia
che Carlos doveva mangiare, era da un sacco di tempo che
il Santo Reverendo si rivolgeva a Carlos stando in piedi su
una nuvola con indosso una toga imbrattata di chiazze
scarlatte all'altezza del cuore, a volte piangeva, con tutto
quello che ho fatto per te, figlio mio, tu passi il tempo a
sniffare cocaina con i Negri Cattivi, ricordi le trentaquattro Pantere nere
uccise per le strade di New York, no, perché quello che piace a te è il gelato
alla vaniglia fabbricato dai bianchi, perché la luce, figlio mio, è anche quella
del fulmine, e alla voce grave del Santo Reverendo nel cielo, al
canto delle cicale e allo sciabordio delle onde si mescolava il
tump tump
di un'orchestra nera che ripeteva a Carlos la marca commerciale del
gelato alla vaniglia che doveva mangiare,
tump tump,
e sulle note ritmate di quel
tump tump
lui ballava saltellando su un piede e poi sull'altro,
dondolando la testa sotto i colpi di sua madre, con un movimento lento di
estrema indolenza, dopodiché a poco a poco i ronzii alle tempie di Carlos
cessarono, la mano vigorosa che l'aveva scrollato e schiaffeggiato, in preda a
un raptus incontrollabile ricadeva esausta lungo il vestito lilla, Carlos
riprese il pallone che era rotolato sull'erba, [...]
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Pagina 46
[...] E in fondo, pensava Renata, lei e Claude, che si erano ritrovati
improvvisamente l'uno accanto all'altra davanti al
mare, attratti dai profumi di una notte odorosa, non ricordavano un po' una
coppia di fuggiaschi che faceva l'amore
in fretta e furia nella promiscuità di una camera d'albergo,
prima di una partenza, di una separazione, in un'atmosfera febbrile di
clandestinità, uno specchio sul soffitto della
camera aveva riflesso le domande audaci che si erano fatti
mentre si baciavano, si avvinghiavano l'uno all'altra, e a un
tratto, nel silenzio della notte, lo specchio aveva rimandato l'immagine di quei
corpi smarriti, ora immobili, intorpiditi nello stesso benessere, Renata ricordò
al marito i rischi che stava correndo, era incomprensibile quanto fosse
imprudente, gli disse, Claude si difese ribattendo che i
trafficanti, con le loro miscele esplosive, avevano fatto saltare in aria solo
le pareti traslucide della serra che ospitava
le piante tropicali durante l'inverno, a lei non era mai piaciuto il lusso di
quella serra, insistette, e mentre parlavano
senza smettere di accarezzarsi il viso a vicenda, Renata rivide la coppia
volgare che strepitava accanto al pianoforte,
nel bar, a un tratto le affioravano alla coscienza tutte le
desolanti apparizioni di quella notte, c'era stato anche il
vecchio sdentato che, sonnecchiando dietro ai banconi
polverosi di una libreria della città, le aveva detto con aria
rassegnata, prenda il libro che le piace, signora, io non so
leggere, mi limito a vendere libri agli scolaretti, e proprio
in quel momento lei aveva provato una languida sensazione di sete, una
sensazione così irreprimibile da farla girare
verso una turista che stava bevendo una gazzosa in un bicchiere di carta, la
turista sembrava leggere senza ritegno da
dietro la sua spalla, e intanto sorbiva avidamente la bibita
con una cannuccia, e ormai la sete, la presenza indiscreta
che le sfiorava la spalla permeavano i versi di Emily Dickinson che aveva letto
nell'aria surriscaldata della libreria,
Because I could not stop for Death -/ He kindly stopped for me -/ The Carriage
held out just Ourselves -/ And Immortality...
sì, perché in quelle parole scritte in un'altra
lingua scorreva un denso fiume di ricordi, di vivide emozioni che Renata provava
nel presente, come se, mentre degli scolaretti neri la spintonavano, mentre una
straniera che le stava appiccicata alle spalle sorseggiava una gazzosa
al limone facendogliene venire la voglia, il desiderio, avesse sentito a un
tratto balenare dentro di sé, sotto il sudore
che le colava sulla fronte, la rivelazione che aspettava fin
dall'inizio della sua convalescenza lì, in un luogo in cui,
come aveva detto a suo marito, aveva l'impressione di trovarsi in una sorta di
limbo, la rivelazione dello stato di turbamento in cui versava dal giorno in cui
aveva pensato che stava fumando per l'ultima volta, nel corridoio di un
lugubre ospedale di New York, da quel momento in cui,
come nella poesia di Emily Dickinson, la morte non si era
fermata, lasciandola sola con il candore del suo passaggio
e con quel sapore indimenticabile dell'ultima sigaretta, [...]
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Pagina 119
[...] Madre aveva perso la sua Euridice e, quando si sentiva così umiliata e
provava quel senso di fallimento accanto a sua figlia, si
vergognava dell'opulenza in cui vivevano lei e i suoi cari,
era una donna serena e benestante, a cui non mancava nulla, neppure il
superfluo, mentre i suoi cugini polacchi,
quelli che Madre chiamava così benché non li avesse mai
conosciuti, quei cugini, quei lontani cugini che, nell'arco
di due generazioni, non erano riusciti a fuggire verso il
Canada o gli Stati Uniti, erano morti tutti a Luków, un
paese del distretto di Lublino, si potevano ancora vedere
in certe fotografie riportate in luce da storici e giornalisti,
mentre alzavano la mano, come se la scena fosse eternamente presente, verso i
loro massacratori, i loro assassini, in un gesto di resa estremo e sconvolto, ma
in cui non c'era il minimo cenno di ribellione, perché i cugini polacchi
avevano capito che non c'era scampo, erano schierati in
diverse file e stavano in piedi davanti a delle baracche da
cui fuoriusciva odore di gas e di cadaveri, nella stessa fila,
in ginocchio, i rabbini si inchinavano in segno di accettazione di una legge
spirituale che avevano scelto ma che, a un tratto, li perdeva, ognuno scuoteva
la testa sotto il berretto, in una macabra danza di terrore nella neve e nel
freddo, e tutti quegli occhi sbarrati, quei corpi ansimanti
imploravano disperatamente una via di fuga, quando invece, di lì a poco, il
cielo muto e grigio si sarebbe richiuso sui
loro gemiti, sulle grida dei bambini separati dalle madri,
mentre Madre viveva nell'opulenza, con sua figlia, i sui
figli, che erano la gioia della sua vita, anche se non mancavano mai le zone
d'ombra; forse era stata l'apparizione di
Renata attraverso l'ingresso principale a far riaffiorare nella mente di Madre
il ricordo dei cugini polacchi, o forse
quei cugini erano sempre presenti nel suo pensiero, anche
se irrecuperabili, pensava, relegati appena sotto la superficie della sua
coscienza, anche Renata, come Madre, di quei
parenti, di quei cugini polacchi di cui Madre avrebbe preferito cancellare per
sempre il ricordo, conosceva solo le
facce apparse nelle fotografie e nei giornali, ma né Madre
né Renata potevano ignorare l'esistenza, finita in modo
così brutale, di quelle persone che non erano riuscite a
scappare da Luków, nel distretto di Lublino, non a caso
Samuel aveva il nome di uno di quei prozii trucidati in
quell'inverno del 1942, Samuel, il bambino, quello che
aveva cantato
easy, easy living,
imitando una voce nera
con sapiente voluttà, Samuel, e forse quello avrebbe dovuto essere un
sufficiente motivo di consolazione per Madre,
avrebbe dovuto alleviare la sua sofferenza, grazie a Samuel, ad Augustino, a
Vincent, quei volti di Luków nel distretto di Lublino erano un po' più lontani,
perché dalla morte rinasceva la vita, Samuel era la gloriosa fenice che
rinasce dalle sue ceneri, come dopo un incendio rispuntano le foglie,
probabilmente era stata l'apparizione di Renata attraverso l'ingresso principale
a ridestare in lei quei ricordi ossessionanti, la complicità in una lotta
segreta tra loro, donne adulte, il ricordo incancellabile dei cugini polacchi,
quanto ai più giovani, chissà se ci pensavano spesso
a quelle cose, perché dalla morte rinasceva la vita, ma per
quale motivo Madre in quel preciso istante aveva pensato
al sapore dolce delle fragole sul pesce fresco servito a cena,
le venivano le lacrime agli occhi per la tristezza pensando
ai cugini polacchi che il viso di Renata le riportava alla
mente, quel ricordo incancellabile, [...]
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