Copertina
Autore Marilyn Bobes
Titolo Febbre d'inverno
EdizioneVoland, Roma, 2008, Amazzoni 48 , pag. 112, cop.fle., dim. 14,5x20,5x0,8 cm , Isbn 978-88-6243-014-2
OriginaleFiebre de invierno [2005]
TraduttoreMicol Bertolazzi
LettoreAngela Razzini, 2009
Classe narrativa cubana
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Pagina 9

I



Quando suona il telefono sto guardando una puntata della quarta serie di Sex and the City. Sullo schermo Carrie Bradshaw, dopo aver lanciato a Mr. Big una raffica di insulti, sembra pronta ad andare ancora a letto con lui nella sequenza immediatamente successiva. Nel momento in cui risuonano gli squilli nella mia stanza, si stanno baciando in un ascensore. Mi alzo e abbasso il volume del televisore. Rispondo. È Luis Enrique.

– Hai già letto le poesie di Raymond Carver? – mi chiede.

– Non posso crederci che hai quel libro – gli rispondo piena di speranza.

– Me lo hanno prestato e ho subito pensato che ti potesse interessare.

Negli ultimi mesi mi sono trasformata in una fanatica di Carver. Mi sono letta tutti i suoi racconti. Se la sua poesia mi sorprende devo ringraziare questo amico, sempre attento alle mie letture. Oggi in particolare, che mi sento così inquieta e solitaria.

Luis Enrique è pittore. Un giovane pittore che non ha mai esposto. Non segue la moda e non pensa nemmeno troppo alla tecnica, i suoi temi, molto naturalistici, provocano rigetto. L'erotismo dei suoi quadri è rozzo e, a volte, quasi volgare. Ma la sua opera irradia un'insolita autenticità. La pittura di Luis Enrique non assomiglia a nessun'altra.

Lo conobbi qualche mese fa tramite alcuni artisti che espongono nella galleria dove lavoro e di cui ho curato le mostre. Mi invitarono a una festa e c'era anche lui. Parlammo tutta la sera. Poi andai a trovarlo nel suo studio e adesso viene da me regolarmente, una o due volte alla settimana.

Erano le due di pomeriggio quando mi ha chiamata e alle tre è già a casa mia con il libro di Carver. Esco a comprare delle birre nel chiosco che hanno aperto da qualche giorno nell'ingresso attiguo al mio cortile. In questo edificio visse Grau, un vecchio presidente della repubblica. Poi ospitò una scuola. Sulle rovine costruiranno un ristorante. Una trattoria italiana. Intanto c'è una rivendita: bibite, rum, birra e pollo fritto. Una tentazione per le mie povere tasche. Ma faccio uno strappo alla regola. E oggi ho bisogno di una birra. Qualcosa che mi aiuti a rilassarmi.

Quando mi volto, lo vedo. È appoggiato al cancello, con la maglietta rossa e lo zaino in spalla. Mi innervosisco un po'. Cerco di essere naturale.

Camminiamo qualche metro fino a casa mia. Lui porta le birre. Nel tragitto gli confesso:

– Oggi sei una manna dal cielo. Mi sento ansiosa. Sono molto demotivata.

Apro la porta con la chiave. La mia cagnetta Virginia, una trovatella di quasi nove anni, si precipita, contenta, verso di me e Luis Enrique. Vado in cucina a mettere le birre in frigorifero e lascio Luis Enrique nel mio studio. Invece di riceverlo in sala, come sempre, penso che qui staremo più tranquilli. In questa stanza si respira un'aria più intima. Era il posto dove io e Marcelo conversavamo. Qualche minuto dopo il mio rientro dal lavoro. Prima di andare a dormire. Parlavamo di libri e di malattie. Delle sue malattie. Reali e immaginarie. A volte, se lo decideva lui, bevevamo anche qualcosa.

Marcelo è uno scrittore famoso ed è stato mio marito per dieci anni. Ci siamo separati tempo fa. Mi lasciò per sposarsi con una delle mie migliori amiche: Benvenuta, una pittrice non ancora trentenne per cui nutro un rancore incurabile. È la prima volta che un uomo entra nel mio studio dopo il divorzio da Marcelo.

– Le poesie di Carver che mi hai portato sono l'unica cosa bella che mi è successa questa settimana – dico a Luis Enrique quando ritorno dalla cucina.

Lui si è accomodato su una delle poltrone Regina Anna davanti alla scrivania, la stessa poltrona dove si sedeva Marcelo. Virginia è sdraiata ai suoi piedi. Mi tende il libro che ha tra le mani. È un'edizione Visor. Osservo con attenzione l'illustrazione del flautista sulla prima pagina.

– Un Manet – mi dice Luis Enrique quando vede che fisso la copertina.

– Lo riconosco. Ho fatto la tesi sugli impressionisti.

Non so se Luis Enrique sa che sono laureata in Storia dell'Arte. Non abbiamo parlato molto della mia vita. Lui mi conosce solo come critica. E in effetti sono abbastanza famosa: a volte vado in televisione, ho pubblicato due saggi e scrivo articoli su pittori per alcune riviste specializzate.

– Oggi è una pessima giornata – gli dico mentre mi dondolo su un'altra poltrona separata dalla sua da un tavolino. – Mi sento come Dylan Thomas: "muta per dire alla rosa incurvata che questa febbre d'inverno piega anche la mia giovinezza." – Cito, senza sapere se lui conosce la poesia.

– Cos'hai? Le mestruazioni?

Luis Enrique è così. Senza pudore.

– Anche – rispondo con un sospiro di rassegnazione e indolenza. Ma non gli confesso che ultimamente non sono regolare. Questo mese il ciclo mi è arrivato con quarantacinque giorni di ritardo.

Faccio una breve pausa. Ho bisogno di sfogarmi con qualcuno.

– Ce la fai a sopportarmi? – gli chiedo.

Lui mi sorride enigmatico.

– Non sono contenta della mia vita.

Mi guarda con attenzione. Non ci siamo mai permessi confidenze. Abbiamo informazioni vaghe uno dell'altra.

Tra di noi ci sono state, soprattutto, molta letteratura e molta arte. Non ci siamo mai confidati i problemi intimi.

Ma è stata una giornata terribile e adesso ho solo Luis Enrique con cui sfogarmi. È seduto davanti a me come un confessore. Lo sommergo. Gli racconto un sacco di cose sconclusionate: il concorso di critica in cui pensavo di meritare il primo premio e non ho vinto. La mia costante sensazione di fallimento.

Non entro nei dettagli. Non gli rivelo i miei segreti di alcova né gli confesso quanto desidero Marcelo. Marcelo o chiunque altro. In ogni caso non nomino gli uomini. Men che meno Leo, l'ultima delusione che ho vissuto. Una sorta di pudore mi impedisce di nominarli, anche se mi sento come una gatta in calore. Soprattutto dopo aver visto il video di Sex and the City. Lo affitto in una videoteca clandestina dietro casa mia. È una serie televisiva in cui tutte le donne, per quanto vecchie siano, hanno delle avventure. Come se fosse così facile.

Luis Enrique si accomoda al suo posto. Raccoglie i capelli in una coda all'altezza della nuca. Bella capigliatura quella di Luis Enrique, penso. Appoggia lo zaino sul pavimento. Mi piace la sua calma. Ammiro la sua serenità.

– E la mia birra? – chiede.

Vado in cucina. Porto le bottiglie e i bicchieri e li appoggio sul tavolino. Lui estrae un cartoncino dallo zaino. Nel disegno riconosco il mio viso sul corpo di una donna di vent'anni. Forse quello della sua modella preferita. Due efebi mi penetrano mentre un terzo mi bacia. È un quadro che ferisce per la sua sfrontatezza.

Prende tempo prima di interrogarmi.

– Ti piace? È il tuo ritratto futuro.

Penso che in Luis Enrique si nascondano diversi tipi di amante. Uno è molto perverso. Così perverso che potrebbe diventare un sadico. Un altro è altrettanto disinibito ma più sensuale. Un altro è tenero. Un altro profondo e, l'ultimo, sofisticato. Preferisco quello sofisticato. Ma tengo per me i miei pensieri. Non voglio che scopra cosa mi piace. Lui ha trentasei anni e io quarantacinque. È un seduttore e per di più innamorato. Anche se non me l'ha detto. Io lo so che è innamorato. Di una delle sue modelle. Quella che compare più spesso nei suoi quadri. Una donna perfetta, di venticinque anni, senza una smagliatura né un filo di grasso.

– Non ha niente a che vedere con me, ma è bello – gli rispondo, a metà tra l'offeso e il pudico.

– Schizzi per la mia prima esposizione – e ride.

– Sei molto produttivo. Non so come fai a lavorare tanto – gli rispondo per uscire dal silenzio imbarazzante che si è creato dopo la contemplazione di un'immagine così oscena.

Mi guarda un'altra volta. Prende il bicchiere e versa la birra senza smettere di guardarmi. Io mi agito. Lui infila il cartoncino in una busta. Mette la busta nello zaino e ricomincia a guardarmi.

– Sei in crisi – mi dice.

– Non immagini quanto sto male. Ho addirittura pensato di lasciare la galleria.

– E chi mi organizzerà una mostra?

– Cercherei di farlo prima di andarmene. Dovresti esporre. Anche se quello che dipingi non è particolarmente gradevole. Qualcuno potrebbe risentirsi.

– Non essere ingenua. Cosa significa essere sgradevole? Mostrare alla gente ciò che vuole davvero ma che non ha il coraggio di fare? Comunque, sto scherzando. Lo sai che non ho bisogno di esporre. Mi basta dipingere. E questo è il punto. La differenza tra me e te. La questione è più complicata.

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Provo a ripescare nella memoria il ricordo più lontano che conservo di Marcelo e comincio a scrivere:

Marcelito appoggia il pene nell'anello formato da pollice e indice. Tra le gambe gli pende una sacca con dentro due piccole palline. E siccome ha voglia di orinare, invece di accucciarsi lasciandosi coprire dall'acqua, come avrei fatto io, si alza in piedi e lascia uscire, dalla piccola apertura di quello che sembra un tubicino, un getto giallo che mi inzuppa la faccia.

Il sapore della sua orina è amaro e salato ma molto meno schifoso di quello della sua cacca. La settimana prima mi aveva obbligato ad assaggiarla. Si era accucciato in giardino e, terminato lo sforzo, aveva scavato con la mano sinistra nel mucchietto di merda molle. Poi si era alzato e, con la destra, mi aveva stretto le guance e costretta ad aprire la bocca. Aveva strofinato le dita sporche di escremento contro i miei denti e premuto finché non era stato sicuro che avessi ingoiato.

Non c'è niente che diverta Marcelito come le mie lacrime o il vedermi attraversare spaventata, rossa di vergogna e di indignazione, quella terra di nessuno che separa la mia casa dalla sua. È lì, in quello spiazzo, che di solito la nonna di Marcelito mette la piscina di plastica dove, in giorni come questo, quando il sole picchia forte, ci ordinano di fare il bagno insieme.

Liopa, la nonna di Marcelito, è la migliore amica di mia madre, e io devo sopportarlo anche nelle lunghe serate trascorse insieme dalle due donne a commentare gli avvenimenti del rione o a criticare le bambinaie giamaicane che vanno di moda e inculcano ai bambini di buona famiglia usanze e superstizioni da selvaggi. Proprio adesso le due donne sfogliano riviste d'arredamento e fumano (anche se credo che fumi solo mia madre) sigarette Chesterfields adagiate sulle scomode poltroncine di ferro che costituiscono gli unici mobili da giardino e da terrazza in queste case tanto diverse, ma con la stessa atmosfera da famiglia media e pretenziosa, del quartiere residenziale in cui i miei genitori acquistarono un terreno qualche mese prima della mia nascita ufficiale.

Nascita ufficiale perché a partire dal giorno esatto, e anche prima, del matrimonio dei miei genitori, il mio arrivo in questo mondo era garantito. Mia madre si sposò con l'unico scopo di formare una famiglia ma, ironia della sorte, solo alla fine di quattro anni di tentativi infruttuosi, una promessa alla Vergine della Regla o il consiglio di un ginecologo di rimanere sdraiata dopo il coito, con le gambe piegate per impedire agli spermatozoi di fuoriuscire, avvenne il miracolo.

Mio padre è convinto che la moglie rimase incinta grazie al consiglio del ginecologo. Mia madre ha i suoi dubbi. E anche i suoi timori. La promessa alla Vergine potrà essere mantenuta solo a metà. Se arrivo ai quindici anni, questione che ora dipende dalla misericordia della santa, dovrò attraversare la Baia dell'Avana su una lancia precaria e gettare in mare delle monete. Toccherò terra in un paesino d'oltremare da cui, probabilmente, prende il nome la Vergine. Mia madre mi obbligherà a prostrarmi sugli inginocchiatoi di un tempio sincretico dove si danno appuntamento, come in un gigantesco Olimpo cattolico-yoruba, le icone di tutti i santi conosciuti. Io ringrazierò la Signora delle Acque per il semplice, e tuttavia difficoltoso, fatto di esistere. Così mia madre avrà mantenuto la parola data. Almeno per metà. Perché, come mi avrebbe confessato in quegli stessi giorni con il volto deformato dall'angoscia e dal rimorso, la tormenta l'aver mancato a uno dei suoi voti: non mi battezzò con il nome di Regla Maria, come aveva promesso alla dea.

Mio padre e la sua famiglia decisero che mi sarei chiamata Jacqueline. Mia madre si arrese davanti al ragionamento secondo cui Regla Maria era un appellativo ignominioso, un bel nome per una negretta di quartiere ma assolutamente inadatto a una bambina di buona famiglia.

– Ricordiamoci – disse mia nonna paterna – che dai tempi delle colonie questa Vergine, quella della Regla, è stata la patrona dell'aguardiente e delle lotte dei galli e, anche se troviamo la sua leggenda nell'agiografia cattolica e le dedicano villancicos identificandola con la santissima madre di Cristo, sono il popolino, la classe bassa, gli schiavi e i loro discendenti a venerarla come un'incarnazione di Yemaya.

Sarebbe stato molto diverso, pensava mia nonna, se la promessa fosse stata fatta a Santa Rita o all'Immacolata Concezione che non hanno un equivalente nei rituali della santeria e sono vergini pure, assolutamente cattoliche e occidentali. E poi, insisteva mia nonna, anche la Regla cristiana ha un'origine incerta, africana.

Mia nonna, esperta di santorali, sa benissimo che l'immagine della Vergine della Regla è stata portata in Spagna da terre lontane e in seguito collocata nei pressi di un casale all'Avana, all'interno di una capanna vicino allo zuccherificio di Guaicamar. Questa è la nonna che mi inizierà alla religione, obbligandomi ad andare ogni domenica nella chiesa di San Giovanni Bosco. Lì il prete proietta orrendi cartoni animati dove Mefistofele, con un mantello scarlatto e il tridente di ferro, minaccia di immergere nell'olio bollente una bambina che ha rubato una mela. Di notte mi sveglio terrorizzata nella camera dei nonni, ripensando alla sequenza e sognando il diavolo.

Mia nonna è tutta devozione. Dalle foto rimaste della sua gioventù si potrebbe definire una giovane dalla bellezza distratta e passeggera. Durante l'adolescenza passavo ore ed ore a contemplare le foto di mia nonna e mi perdevo in quei cappelli appariscenti che accentuavano la profondità di tratti molto infantili, l'artificiosità delle sue smorfie da stella silenziosa.

Mio nonno è un uomo all'antica, dai tratti energici, occhi grigi e freddi, mento sporgente ed espressione severa. Emigrò a Cuba, dalla Galizia, quando era ancora un bambino e qui divenne avvocato. Mia madre ha detto a Liopa che lui sposò mia nonna per uscire dalla miseria. Sperperò la dote della moglie in feste e baldorie e fu costretto a farsi socio di un uomo molto ricco, diventandone il procuratore.

Per me il nonno è la figura adulta di maggiore autorità. Sua moglie non permette a nessuno di toccare i giornali prima che lui li abbia letti. Quando torna dall'ufficio, verso le sei di sera, vestito con l'impeccabile abito grigio di flanella, la nonna si affretta a mettere un paio di pantofole di cuoio ai piedi della poltrona dove si riposa. Poi gli prepara un bagno caldo e gli insapona la schiena con una spugna nuova. Ci sono sere in cui i nonni non si scambiano nemmeno una parola. La nonna non si azzarda a iniziare una conversazione se il marito non le si rivolge, prima, con una domanda o un'osservazione.

Mio padre non assomiglia a mio nonno. Anche se, bisogna dirlo, ha ereditato quello che ai tropici è un privilegio: gli occhi azzurri che sottolineano la sua origine aristocratica. Tuttavia, a casa nostra, comanda una donna con gli occhi scuri. Questa donna è mia madre. Ecco perché, durante la discussione sul mio nome, mio padre si limita a sorridere senza provare a sfidare la sua dolce metà.

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Quando vidi per la prima volta una foto dei Beatles, George Harrison fu quello che mi colpì di meno. Era il più anodino. Per questo non mi risultò simpatico. A quel tempo, e forse ancora adesso, mi piacevano gli uomini che si facevano notare. Non importa come, ma dovevano essere particolari. Il volto anonimo di Harrison sullo sfondo nero di Meet The Beatles svaniva davanti ai tratti più espressivi e singolari di Lennon, alla simpatia di Ringo e al misterioso carisma di McCartney. Quel disco apparteneva a Jimmy Sierra. Il padre di Jimmy lavorava al Commercio Estero. Andava spesso in Inghilterra e lì fu assalito dalla beatles-mania, trasmettendo poi la passione al figlio. I Sierra erano una famiglia di melomani. Noi, i compagni di Jimmy, ci riunivamo a casa sua, una penthouse del Vedado. Bevevamo bibite, accendevamo il giradischi e ballavamo a ritmo di Twist And Shouts. Prima che apparissero i Beatles ci accontentavamo degli Zafiros o dei dischi di scomparsi interpreti di twist che compravamo alla Casa della cultura cecoslovacca. Ma un bel giorno del 1968, Jimmy ci sorprese con una musica insolita: quella di Meet The Beatles che, come abbiamo saputo più tardi, era una raccolta di successi e non proprio un album come Revolver o Rouber Soul. Da allora abbiamo avuto orecchie solo per i ragazzi di Liverpool, le loro urla insolenti e i loro accordi scatenati.

Fu nella penthouse di Jimmy che rincontrai Marcelo. Eravamo stati vicini di casa durante la nostra infanzia. I genitori di Jimmy e di Marcelo, come i miei, erano amici e Marcelo andava da Jimmy perché gli piaceva la musica e sapeva che lì si ascoltava sempre qualcosa di nuovo. Attraverso Jimmy conobbe i Beatles e, siccome aveva studiato bene l'inglese, lesse anche alcune riviste e giornali londinesi dove si diceva di fare l'amore e non la guerra. Marcelo si unì al nostro gruppo e durante la scuola superiore iniziò a frequentare i Chicos de la Flor, un gruppo di hippy famoso all'Avana a cui lui non apparteneva ma con cui condivideva una certa filosofia psichedelica.

I Chicos de la Flor non facevano uso di droga ed erano appassionati più alla musica che alle idee d'avanguardia. In questo senso, Marcelo era un caso particolare. Conosceva Timothy Leary e leggeva poesie di Dylan Thomas. Lo affascinava tutto quello che riguardava la cultura pop.

Tra i Chicos, scelse Filmoteca come suo migliore amico. Il Filmo, come lo chiamavano quasi tutti, era un personaggio pittoresco che portava una camicia nera con le maniche tagliate sotto un gilet sintetico nero. Sulle spalle gli ricadevano ciocche bionde e spettinate legate con una fascia attorno alla fronte o raccolte in una coda di cavallo. Ogni pomeriggio, Filmoteca si appostava nel parchetto accanto alla nostra scuola e ci vendeva un tiro di sigaretta a cinque pesos. Allora un pacchetto poteva costarne anche venti, al mercato nero. Con i soldi che raccoglieva affittava un garage vicino al Malecón. Mangiava tutti i giorni alla pizzeria Vita Nuova: prendeva gli avanzi lasciati dai clienti nei piatti e se li metteva direttamente in bocca, senza usare le posate. Filmoteca passava le giornate a parlare di film famosi. Da lì il soprannome. Ma fra i suoi temi ricorrenti c'era anche San Francisco, la città nordamericana mecca del movimento hippy che lui aveva scoperto attraverso le fotografie della rivista Life.

Marcelo e Filmoteca avevano un inno: una canzone di Scott McKenzie, intitolata proprio San Francisco, che parla di "people in motion and flowers in your hair". L'ascoltavano continuamente alla radio, sintonizzandosi su un'emittente yankee, la WQAM. Noi conoscevamo solo la versione spagnola dei Mustang trasmessa dalla radio nazionale.

– Questi galiziani insulsi hanno trasformato San Francisco in una merda – ci disse una volta Marcelo, obbligando Jimmy a spegnere il registratore dove ascoltavamo il gruppetto spagnolo.

Per via dell'atteggiamento irriverente e per le cattive frequentazioni, Marcelo ebbe molti problemi a scuola. E con la sua famiglia. Il padre lo cacciò di casa. Lo cacciò il giorno in cui, passeggiando per calle 23, una vecchia estremista che faceva l'attrice televisiva, protetta da un'uniforme militare, gli tagliò la chioma codarda nascosta sotto uno strato di vaselina. Marcelo arrivò alla penthouse con il cranio coperto da un fazzoletto rosso, tipo pirata.

– Mi scoppia la testa, amico – disse a Jimmy.

Aveva raccontato al padre l'accaduto e il padre l'aveva preso a pugni. Lo cacciò di casa.

– Quello che ha fatto incazzare di più mio padre – insisteva – è che io sarei andato a La Rampa, insieme ai lumpen, come li chiama lui. Pensa che i Chicos siano lumpen. Io gli ho parlato della pace. E di Timothy Leary. Ma lui non capisce. Non capisce niente. Mio padre, un tipo così in gamba e intelligente. Non sono riuscito a convincerlo – e quest'ultima cosa, Marcelo, la diceva con rammarico.

Andò a vivere nel garage di Filmoteca. E fu lì che mi portò quel pomeriggio, con la scusa di un'audizione speciale. Avremmo ascoltato White Album, mi disse, l'ultima novità dei Beatles. Avremmo bevuto anche frappé alla menta. Offriva Filmoteca.

Ricordo che quel giorno, prima di arrivare al garage, facemmo una deviazione fino al rione Almendares. Lì, in un'abitazione lussuosa, viveva con la sua famiglia l'uomo che non aveva mai voluto riconoscere Filmoteca come figlio legittimo. Quella mattina la madre del nostro amico era stata ricoverata in un ospedale psichiatrico e Filmo era sicuro che la notizia avrebbe dato una grande gioia al Figlio di puttana, come chiamava suo padre. L'uomo che aprì la porta ci rivolse un freddo sorriso di cortesia.

– È che non ha il coraggio di trasformare in parole l'indignazione che prova ogni volta che Filmoteca, tutto trasandato, apre il cancello del giardino ed entra come un insulto in casa – mi disse più tardi Marcelo, commentando lo sgradevole incidente.

Il Figlio di puttana mentiva a sua moglie. Le aveva detto che Filmoteca era il bastardo di un loro amico che, poco prima di morire, gli aveva strappato la promessa di occuparsi del ragazzo. E Filmoteca doveva interpretare quel ruolo.

Perciò la "matrigna" di Filmoteca ci invitò a sederci e, con grande cortesia, ci offrì il caffè e si prodigò in attenzioni ben poco corrisposte visto che il Filmo rimase in piedi finché suo padre non gli diede un po' di soldi. Lui li prese con un'aria insolente e sprezzante, senza neppure ringraziare.

Eravamo andati a prendere i soldi per la bottiglia di liquore alla menta. Filmoteca voleva prepararci quello che beveva Geraldine Chaplin in Peppermint Frappé, un film di Carlos Saura che avevamo visto il sabato precedente al cinema e che io e Marcelo non avevamo capito per niente. Ero sorpresa per il comportamento di Filmoteca. La condizione di sua madre sembrava non riguardarlo. È vero che lo avevo sentito parlare di lei con avversione. L'accusava di preferire il fratello minore, concepito all'interno di un matrimonio ufficiale. Era uno dei motivi per cui era andato a vivere nel garage, mollando tutto. Tutto voleva dire una piccola stanza e una vecchia chitarra rivendicata dal fratellino al momento della sua partenza. Filmoteca ci disse che avrebbe approfittato del ricovero in ospedale di sua madre per andare la notte stessa nella stanzetta e perlustrare gli armadi. Forse avrebbe trovato qualcosa da vendere e avrebbe potuto dare a un tecnico del suono dei soldi per farsi registrare su un nastro il White Album che avevano prestato a Marcelo.

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