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| << | < | > | >> |IndiceVolume primo Giovanni Boccaccio: • la vita • profilo storico-critico dell'autore e dell'opera • guida bibliografica VII PROEMIO 1 PRIMA GIORNATA 5 I Ser Cepparello con una falsa confessione inganna uno santo frate, e muorsi; ed essendo stato un pessimo uomo in vita, è morto reputato per santo e chiamato san Ciappelletto 32 II Abraam giudeo, da Giannotto di Civigni stimolato, va in corte di Roma; e veduta la malvagità de' cherici, torna a Parigi, e fassi cristiano 48 III Melchisedech giudeo con una novella di tre anella cessa un gran pericolo dal Saladino apparecchiatogli 53 IV Un monaco, caduto in peccato degno di gravissima punizione, onestamente rimproverando al suo abate quella medesima colpa, si libera dalla pena 57 V La marchesana di Monferrato con un convito di galline e con alquante leggiadre parolette reprime il folle amore del re di Francia 62 VI Confonde un valente uomo con un bel detto la malvagia ipocresia de' religiosi 66 [...] IX Il Saladino in forma di mercatante è onorato da messer Torello; fassi il passaggio, messer Torello dà un termine alla donna sua a rimaritarsi; è preso, e per acconciare uccelli viene in notizia del Soldano, il quale, riconosciutolo e sé fatto riconoscere, sommamente l'onora; messer Torello inferma, e per arte magica in una notte n'è recato a Pavia, e alle nozze che della rimaritata sua moglie si facevano, da lei riconosciuto, con lei a casa sua se ne torna 906 X Il marchese di Saluzzo da' prieghi de' suoi uomini costretto di pigliar moglie, per prenderla a suo modo, piglia una figliuola d'un villano, della quale ha due figliuoli, li quali le fa veduto di uccidergli; poi, mostrando lei essergli rincresciuta e avere altra moglie presa, a casa faccendosi ritornare la propria figliuola come se sua moglie fosse, lei avendo in camiscia cacciata e ad ogni cosa trovandola paziente, più cara che mai in casa tornatalasi i suoi figliuoli grandi le mostra, e come marchesana l'onora e fa onorare 927 CONCLUSIONE DELL'AUTORE 943 INDICE 951 |
| << | < | > | >> |Pagina 1Umana cosa è l'aver compassione agli afflitti; e come che a ciascuna persona stea bene, a coloro è massimamente richesto li quali già hanno di conforto avuto mestiere, e hannol trovato in alcuni: fra' quali, se alcuno mai n'ebbe bisogno, o gli fu caro, o già ne ricevette piacere, io son uno di quegli. Per ciò che, dalla mia prima giovanezza infino a questo tempo oltre modo essendo stato acceso d'altissimo e nobile amore, forse più assai che alla mia bassa condizione non parrebbe, narrandolo io, si richiedesse, quantunque appo coloro che discreti erano e alla cui notizia pervenne io ne fossi lodato e da molto più reputato, nondimeno mi fu egli di grandissima fatica a sofferire, certo non per crudeltà della donna amata, ma per soperchio fuoco nella mente concetto da poco regolato appetito: il quale, per ciò che a niuno convenevol termine mi lasciava contento stare, più di noia che bisogno non m'era spesse volte sentir mi facea. Nella qual noia tanto rifrigerio già mi porsero i piacevoli ragionamenti d'alcuno amico e le sue laudevoli consolazioni, che io porto fermissima oppinione per quello essere avvenuto che io non sia morto. Ma, sì come a Colui piacque, il quale, essendo Egli infinito, diede per legge incommutabile a tutte le cose mondane aver fine, il mio amore, oltre ad ogni altro fervente, e il quale niuna forza di proponimento o di consiglio o di vergogna evidente, o pericolo che seguir ne potesse, aveva potuto né rompere né piegare, per se medesimo in processo di tempo si diminuì in guisa, che sol di sé nella mente m'ha al presente lasciato quel piacere che egli è usato di porgere a chi troppo non si mette ne' suoi più cupi pelaghi navigando: per che, dove faticoso esser solea, ogni affanno togliendo via, dilettevole il sento esser rimaso. Ma, quantunque cessata sia la pena, non per ciò è la memoria fuggita de' benefici già ricevuti, datimi da coloro a' quali, per benivolenza da loro a me portata, erano gravi le mie fatiche; né passerà mai, sì come io credo, se non per morte: E per ciò che la gratitudine, secondo che io credo, tra l'altre virtù è sommamente da commendare e il contrario da biasimare, per non parere ingrato, ho meco stesso proposto di volere, in quel poco che per me si può, in cambio di ciò che io ricevetti, ora che libero dir mi posso, e se non a coloro che me atarono, alli quali per avventura per lo lor senno o per la loro buona ventura non abbisogna, a quegli almeno a' quali fa luogo, alcuno alleggiamento prestare. E quantunque il mio sostentamento, o conforto che vogliam dire, possa essere e sia a' bisognosi assai poco, nondimeno parmi quello doversi più tosto porgere dove il bisogno apparisce maggiore, sì perché più utilità vi farà e sì ancora perché più vi fia caro avuto. E chi negherà, questo, quantunque egli si sia, non molto più alle vaghe donne che agli uomini convenirsi donare? Esse dentro a' dilicati petti, temendo e vergognando, tengono l'amorose fiamme nascose, le quali quanto più di forza abbian che le palesi coloro il sanno che l'hanno provato e provano; e oltre a ciò, ristrette da' voleri, da' piaceri, da' comandamenti de' padri, delle madri, de' fratelli e de' mariti, il più del tempo nel piccolo circuito delle loro camere racchiuse dimorano, e quasi oziose sedendosi, volendo e non volendo in una medesima ora, seco rivolgono diversi pensieri, li quali non è possibile che sempre sieno allegri. E se per quegli alcuna malinconia, mossa da focoso disio, sopravviene nelle lor menti, in quelle conviene che con grave noia si dimori, se da nuovi ragionamenti non è rimossa: senza che elle sono molto men forti che gli uomini a sostenere; il che degli innamorati uomini non avviene, sì come noi possiamo apertamente vedere. Essi, se alcuna malinconia o gravezza di pensieri gli affligge, hanno molti modi da alleggiare o da passar quello; per ciò che a loro, volendo essi, non manca l'andare attorno, udire e veder molte cose, uccellare, cacciare, pescare, cavalcare, giucare o mercatare; de' quali modi ciascuno ha forza di trarre, o in tutto o in parte, l'animo a sé e dal noioso pensiero rimuoverlo almeno per alcuno spazio di tempo, appresso il quale, o in un modo o in uno altro, o consolazion sopravviene o diventa la noia minore. Adunque, acciò che per me in parte s'ammendi il peccato della Fortuna, la quale dove meno era di forza, sì come noi nelle dilicate donne veggiamo, quivi più avara fu di sostegno, in soccorso e rifugio di quelle che amano, per ciò che all'altre è assai l'ago e 'l fuso e l'arcolaio, intendo di raccontare cento novelle, o favole o parabole o istorie che dire le vogliamo, raccontate in diece giorni, come manifestamente apparirà, da una onesta brigata di sette donne e di tre giovani, nel pistilenzioso tempo della passata mortalità fatta, e alcune canzonette dalle predette donne cantate al lor diletto. Nelle quali novelle, piacevoli e aspri casi d'amore e altri fortunosi avvenimenti si vedranno, così ne' moderni tempi avvenuti come negli antichi; delle quali le già dette donne, che quelle leggeranno, parimente diletto delle sollazzevoli cose in quelle mostrate e utile consiglio potranno pigliare, in quanto potranno cognoscere quello che sia da fuggire e che sia similmente da seguitare: le quali cose senza passamento di noia non credo che possano intervenire. Il che se avviene, che voglia Iddio che così sia, ad Amore ne rendano grazie, il quale liberandomi da' suoi legami m'ha conceduto il potere attendere a' loro piaceri. | << | < | > | >> |Pagina 5Quantunque volte, graziosissime donne, meco pensando riguardo quanto voi naturalmente tutte pietose siate, tante conosco che la presente opera al vostro iudicio avrà grave e noioso principio, sì come è la dolorosa ricordazione della pestifera mortalità trapassata, universalmente a ciascuno che quella vide o altramenti conobbe dannosa e lagrimevole molto, la quale essa porta nella sua fronte. Ma non voglio per ciò che questo di più avanti leggere vi spaventi, quasi sempre tra' sospiri e tra le lagrime leggendo dobbiate trapassare. Questo orrido cominciamento vi fia non altramenti che a' camminanti una montagna aspra ed erta, appresso alla quale un bellissimo piano e dilettevole sia riposto, il quale tanto più viene loro piacevole quanto maggiore è stata del salire e dello smontare la gravezza. E sì come la estremità della allegrezza il dolore occupa, così le miserie da sopravvegnente letizia sono terminate. A questa brieve noia (dico brieve, in quanto in poche lettere si contiene) seguirà prestamente la dolcezza e il piacere, il quale io v'ho davanti promesso, e che forse da così fatto inizio non sarebbe, se non si dicesse, aspettato. E nel vero, se io potuto avessi onestamente per altra parte menarvi a quello che io desidero che' per così aspro sentiero come fia questo, io l'avrei volentier fatto; ma per ciò che, qual fosse la cagione per che le cose che appresso si leggeranno avvenissero, non si poteva senza questa rammemorazion dimostrare, quasi da necessità costretto a scrivere mi conduco. Dico adunque che già erano gli anni della fruttifera Incarnazione del Figliuolo di Dio al numero pervenuti di milletrecentoquarantotto, quando nella egregia città di Fiorenza, oltre ad ogni altra italica nobilissima, pervenne la mortifera pestilenza, la quale o per operazione de' corpi superiori o per le nostre inique opere da giusta ira di Dio a nostra correzione mandata sopra i mortali, alquanti anni davanti nelle parti orientali incominciata, quelle d'innumerabile quantità di viventi avendo private, senza ristare, d'un luogo in uno altro continuandosi, verso l'Occidente miserabilmente s'era ampliata. E in quella non valendo alcuno senno né umano provvedimento, per lo quale fu da molte immondizie purgata la città da oficiali sopra ciò ordinati e vietato l'entrarvi dentro a ciascuno infermo e molti consigli dati a conservazion della sanità, né ancora umili supplicazioni non una volta ma molte e in processioni ordinate e in altre guise a Dio fatte dalle divote persone, quasi nel principio della primavera dell'anno predetto orribilmente cominciò i suoi dolorosi effetti, e in miracolosa maniera, a dimostrare. E non come in Oriente aveva fatto, dove a chiunque usciva sangue del naso era manifesto segno d'inevitabile morte; ma nascevano nel cominciamento d'essa a' maschi e alle femine parimente o nell'anguinaia o sotto le ditella certe enfiature, delle quali alcune crescevano come una comunal mela, altre come uno uovo, e alcune più e alcune meno, le quali i volgari nominavan gavoccioli. E dalle due parti predette del corpo infra brieve spazio di tempo cominciò il già detto gavocciolo mortifero indifferentemente in ogni parte di quello a nascere e a venire e da questo appresso s'incominciò la qualità della predetta infermità a permutare in macchie nere o livide, le quali nelle braccia e per le cosce, e in ciascuna altra parte del corpo apparivano a molti, a cui grandi e rade e a cui minute e spesse. E come il gavocciolo primieramente era stato e ancora era certissimo indizio di futura morte, così erano queste a ciascuno a cui venieno. A cura delle quali infermità né consiglio di medico, né virtù di medicina alcuna pareva che valesse o facesse profitto: anzi, o che la natura del malore nol patisse, o che la ignoranza de' medicanti (de' quali, oltre al numero degli scienziati, così di femine come d'uomini, senza avere alcuna dottrina di medicina avuta giammai, era il numero divenuto grandissimo) non conoscesse da che si movesse e, per conseguente, debito argomento non vi prendesse, non solamente pochi ne guarivano, anzi quasi tutti infra 'l terzo giorno dalla apparizione de' sopraddetti segni, chi più tosto e chi meno, e i più senza alcuna febbre o altro accidente, morivano. E fu questa pestilenza di maggior forza per ciò che essa dagl'infermi di quella per lo comunicare insieme s'avventava a' sani, non altramenti che faccia il fuoco alle cose secche o unte quando molto vi sono avvicinate. E più avanti ancora ebbe di male: ché non solamente il parlare e l'usare con gl'infermi dava a' sani infermità o cagione di comune morte, ma ancora il toccare i panni o qualunque altra cosa da quegli infermi stata tocca o adoperata pareva seco quella cotale infermità nel toccator trasportare. Maravigliosa cosa è a udire quello che io debbo dire: il che, se dagli occhi di molti e da' miei non fosse stato veduto, appena che io ardissi di crederlo, non che di scriverlo, quantunque da fededegna persona udito l'avessi. Dico che di tanta efficacia fu la qualità della pestilenzia narrata nello appiccarsi da uno ad altro, che non solamente l'uomo all'uomo, ma questo, che è molto più, assai volte visibilmente fece, cioè che la cosa dell'uomo infermo stato, o morto di tale infermità, tocca da un altro animale fuori della spezie dell'uomo, non solamente della infermità il contaminasse, ma quello infra brevissimo spazio uccidesse. Di che gli occhi miei, sì come poco davanti è detto, presero, tra l'altre volte, un dì così fatta esperienza, che, essendo gli stracci d'un povero uomo da tale infermità morto gittati nella via pubblica e abbattendosi ad essi due porci, e quegli, secondo il lor costume, prima molto col grifo e poi co' denti presigli e scossiglisi alle guance, in piccola ora appresso, dopo alcuno avvolgimento, come se veleno avesser preso, amenduni sopra gli mal tirati stracci morti caddero in terra. Dalle quali cose e da assai altre a queste simiglianti o maggiori nacquero diverse paure e immaginazioni in quegli che rimanevano vivi, e tutti quasi ad un fine tiravano assai crudele, ciò era di schifare e di fuggire gl'infermi e le lor cose; e così faccendo, si credeva ciascuno a se medesimo salute acquistare. Ed erano alcuni, li quali avvisavano che il vivere moderatamente e il guardarsi da ogni superfluità dovesse molto a così fatto accidente resistere: e fatta lor brigata, da ogni altro separati viveano, e in quelle case ricogliendosi e rinchiudendosi dove niuno infermo fosse e da viver meglio, dilicatissimi cibi e ottimi vini temperatissimamente usando e ogni lussuria fuggendo, senza lasciarsi parlare ad alcuno o volere di fuori, di morte o d'infermi, alcuna novella sentire, con suoni e con quelli piaceri che aver potevano si dimoravano. Altri, in contraria oppinion tratti, affermavano il bere assai e il godere e l'andar cantando attorno e sollazzando e il soddisfare d'ogni cosa allo appetito che si potesse e di ciò che avveniva ridersi e beffarsi essere medicina certissima a tanto male: e così come il dicevano, il mettevano in opera a lor potere, il giorno e la notte ora a quella taverna ora a quell'altra andando, bevendo senza modo e senza misura, e molto più ciò per l'altrui case faccendo, solamente che cose vi sentissero che loro venissero a grado o in piacere. E ciò potevan fare di leggiere, per ciò che ciascun, quasi non più viver dovesse, aveva, sì come sé, le sue cose messe in abbandono: di che le più delle case erano divenute comuni, e così l'usava lo straniere, pure che ad esse s'avvenisse, come l'avrebbe il proprio signore usate; e con tutto questo proponimento bestiale sempre gl'infermi fuggivano a lor potere. E in tanta afflizione e miseria della nostra città era la reverenda autorità delle leggi, così divine come umane, quasi caduta e dissoluta tutta per li ministri ed esecutori di quelle, li quali, sì come gli altri uomini, erano tutti o morti o infermi o sì di famigli rimasi stremi, che uficio alcuno non potean fare: per la qual cosa era a ciascuno licito quanto a grado gli era d'adoperare. Molti altri servavano, tra questi due di sopra detti, una mezzana via, non strignendosi nelle vivande quanto i primi né nel bere e nell'altre dissoluzioni allargandosi quanto i secondi, ma a sofficienza secondo gli appetiti le cose usavano, e senza rinchiudersi andavano attorno portando nelle mani chi fiori, chi erbe odorifere e chi diverse maniere di spezierie, quelle al naso ponendosi spesso, estimando essere ottima cosa il cerebro con cotali odori confortare, con ciò fosse cosa che l'aere tutto paresse dal puzzo de' morti corpi e delle infermità e delle medicine compreso e puzzolente. Alcuni erano di più crudel sentimento, come che per avventura più fosse sicuro, dicendo niun'altra medicina essere contro alle pestilenze migliore né così buona, come il fuggire loro davanti: e da questo argomento mossi, non curando d'alcuna cosa se non di sé, assai e uomini e donne abbandonarono la propia città, le propie case, i lor luoghi e i lor parenti e le lor cose, e cercarono l'altrui o almeno il lor contado, quasi l'ira di Dio a punire le iniquità degli uomini con quella pestilenza non dove fossero procedesse, ma solamente a coloro opprimere li quali dentro alle mura della lor città si trovassero, commossa intendesse, o quasi avvisando niuna persona in quella dover rimanere e la sua ultima ora esser venuta. | << | < | > | >> |Pagina 57Già si tacea Filomena, dalla sua novella espedita, quando Dioneo, che appresso di lei sedeva, senza aspettare dalla reina altro comandamento, conoscendo già per l'ordine cominciato che a lui toccava il dover dire, in cotal guisa cominciò a parlare: Amorose donne, se io ho bene la 'ntenzione di tutte compresa, noi siam qui per dovere a noi medesimi novellando piacere; e per ciò, solamente che contro a questo non si faccia, estimo a ciascuno dovere essere licito (e così ne disse la nostra reina, poco avanti, che fosse) quella novella dire che più crede che possa dilettare: per che, avendo udito che per li buoni consigli di Giannotto di Civignì Abraam aver l'anima salvata e Melchisedech per lo suo senno avere le sue ricchezze dagli agguati del Saladino difese, senza riprensione attender da voi, intendo di raccontar brievemente con che cautela un monaco il suo corpo da gravissima pena liberasse. Fu in Lunigiana, paese non molto da questo lontano, un monistero già di santità e di monaci più copioso che oggi non è, nel quale tra gli altri era un monaco giovane, il vigore del quale né la freschezza né i digiuni né le vigilie potevano macerare. Il quale per ventura, un giorno in sul mezzodì, quando gli altri monaci tutti dormivano, andandosi tutto solo dattorno alla sua chiesa, la quale in luogo assai solitario era, gli venne veduta una giovinetta assai bella, forse figliuola d'alcuno de' lavoratori della contrada, la quale andava per gli campi certe erbe cogliendo: né prima veduta l'ebbe, che egli fieramente assalito fu dalla concupiscenza carnale. Per che, fattolesi più presso, con lei entrò in parole e tanto andò d'una in altra, che egli si fu accordato con lei e seco nella sua cella ne la menò, che niuna persona se n'accorse. E mentre che egli, da troppa volontà trasportato, men cautamente con lei scherzava, avvenne che l'abate, da dormir levatosi e pianamente passando davanti alla cella di costui, sentì lo schiamazzio che costoro insieme faceano; e per conoscere meglio le voci, chetamente s'accostò all'uscio della cella ad ascoltare, e manifestamente conobbe che dentro a quella era femina, e tutto fu tentato di farsi aprire: poi pensò di voler tenere in ciò altra maniera, e tornatosi alla sua camera, aspettò che il monaco fuori uscisse. Il monaco, ancora che da grandissimo suo piacere e diletto fosse con questa giovane occupato, pur nondimeno tuttavia sospettava; e parendogli aver sentito alcuno stropiccio di piedi per lo dormentorio, ad un piccolo pertugio puose l'occhio e vide apertissimamente l'abate stare ad ascoltarlo, e molto bene comprese l'abate aver potuto conoscere quella giovane essere nella sua cella. Di che egli, sappiendo che di questo gran pena gli dovea seguire, oltre modo fu dolente: ma pur, senza del suo cruccio niente mostrare alla giovane, prestamente seco molte cose rivolse, cercando se a lui alcuna salutifera trovar ne potesse; e occorsegli una nuova malizia, la quale al fine imaginato da lui dirittamente pervenne. E faccendo sembiante che esser gli paresse stato assai con quella giovane, le disse: «Io voglio andare a trovar modo come tu esca di qua entro senza esser veduta; e per ciò statti pianamente infino alla mia tornata.» E uscito fuori e serrata la cella con la chiave, dirittamente se n'andò alla camera dello abate, e presentatagli la chiave della sua cella, secondo che ciascuno monaco faceva quando fuori andava, con un buon volto disse: «Messere, io non potei stamane farne venire tutte le legne le quali io avea fatte fare, e perciò con vostra licenzia io voglio andare al bosco e farlene venire.» L'abate, per potersi più pienamente informare del fallo commesso da costui, avvisando che questi accorto non se ne fosse che egli fosse stato da lui veduto, fu lieto di tale accidente, e volentier prese la chiave e similmente li diè licenzia. E come il vide andato via, cominciò a pensar qual far volesse più tosto: o in presenza di tutti i monaci aprir la cella di costui e far loro vedere il suo difetto, acciò che poi non avesser cagione di mormorare contra di lui quando il monaco punisse, o di voler prima da lei sentire come andata fosse la bisogna. E pensando seco stesso che questa potrebbe essere tal femina o figliuola di tale uomo, che egli non le vorrebbe aver fatta quella vergogna d'averla a tutti i monaci fatta vedere, s'avvisò di voler prima veder chi fosse e poi prender partito; e chetamente andatosene alla cella, quella aprì ed entrò dentro, e l'uscio richiuse. La giovane, vedendo venire l'abate, tutta smarrì, e temendo di vergogna cominciò a piagnere. Messer l'abate, postole l'occhio addosso e veggendola bella e fresca, ancora che vecchio fosse, sentì subitamente non meno cocenti gli stimoli della carne che sentiti avesse il suo giovane monaco; e fra se stesso cominciò a dire: «Deh, perché non prendo io del piacere, quando io ne posso avere, con ciò sia cosa che il dispiacere e la noia, sempre che io ne vorrò, sieno apparecchiati? Costei è una bella giovane, ed è qui che niuna persona del mondo il sa: se io la posso recare a fare i piacer miei, io non so perché io nol mi faccia. Chi 'l saprà? Egli nol saprà persona mai, e peccato celato è mezzo perdonato: questo caso non avverrà forse mai più: io estimo che egli sia gran senno a pigliarsi del bene, quando Domenedio ne manda altrui.» E cósì dicendo, e avendo del tutto mutato proposito da quello per che andato v'era, fattosi più presso alla giovane, pianamente la cominciò a confortare e a pregarla che non piagnesse; e d'una parola in altra procedendo, ad aprirle il suo disidero pervenne. La giovane, che non era di ferro né di diamante, assai agevolmente si piegò a' piaceri dello abate: il quale, abbracciatala e basciatala più volte, in sul letticello del monaco salitosene, avendo forse riguardo al grave peso della sua dignità e alla tenera età della giovane, temendo forse di non offenderla per troppa gravezza, non sopra il petto di lei salì, ma lei sopra il suo petto pose, e per lungo spazio con lei si trastullò. Il monaco, che fatto avea sembiante d'andare al bosco, essendo nel dormentorio occultato, come vide l'abate solo nella sua cella entrare, così tutto rassicurato, estimò il suo avviso dovere avere effetto; e veggendol serrar dentro, l'ebbe per certissimo. E uscito di là dov'era, chetamente n'andò ad un pertugio per lo quale ciò che l'abate fece o disse, e udì e vide. Parendo allo abate essere assai con la giovanetta dimorato, serratala nella cella, alla sua camera se ne tornò; e dopo alquanto, sentendo il monaco e credendo lui esser tornato dal bosco, avvisò di riprenderlo forte e di farlo incarcerare, acciò che esso solo possedesse la guadagnata preda; e fattoselo chiamare, gravissimamente e con mal viso il riprese e comandò che fosse in carcere messo. Il monaco prontissimamente rispose: «Messere, io non sono ancora tanto all'Ordine di San Benedetto stato, che io possa avere ogni particularità di quello apparata; e voi ancora non m'avavate mostrato che i monaci si debban far dalle femine priemere, come da' digiuni e dalle vigilie; ma ora che mostrato me l'avete, vi prometto, se questa mi perdonate, di mai più in ciò non peccare, anzi farò sempre come io a voi ho veduto fare.»
L'abate, che accorto uomo era, prestamente conobbe
costui non solamente aver più di lui saputo, ma veduto
ciò che esso aveva fatto; per che, dalla sua colpa stessa rimorso, si vergognò
di fare al monaco quello che egli, sì
come lui, aveva meritato. E perdonatogli e impostogli di ciò
che veduto aveva silenzio, onestamente misero la giovinetta
di fuori, e poi più volte si dee credere ve la facesser tornare.
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