Copertina
Autore Gisela Bock
Titolo Le donne nella storia europea
SottotitoloDal Medioevo ai nostri giorni
EdizioneLaterza, Roma-Bari, 2003 [2001], i Robinson , pag. 490, cop.fle., dim. 132x207x29 mm , Isbn 978-88-420-7115-0
OriginaleFrauen in der europäischen Geschichte. Vom Mittelalter bis zur Gegenwart
EdizioneBeck, München, 2000
TraduttoreBenedetta Heinemann Campana
LettoreRenato di Stefano, 2003
Classe storia sociale , femminismo , storia contemporanea
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Indice

Prefazione alla prima edizione di Jacques Le Goff          V
Premessa                                                   3

1.  La «querelle des femmes»:una disputa europea sui sessi 7

    La dignità dell'uomo e la dignità della donna, p. 8
    Misogamia e misoginia, filogamia e filoginia, p. 29
    Il potere dei padri, degli uomini, delle donne, p. 50

2.  La Rivoluzione Francese: la disputa si riapre         59

    Speranze, p. 60
    Diritti dell'uomo e diritti della donna, p. 73
    Amazzoni e controrivoluzionarie, p. 96
    Napoleone e la rivoluzione in Europa, p. 108
    Intrighi notturni, p. 134

3.  Rotture ed eruzioni: una terza disputa sui sessi     141

    Sviluppi, dibattiti, argomenti, p. 144
    L'«angelo del focolare»? Ideali e realtà, p. 159
    Lavoro vecchio e nuovo, p. 170
    Prefemminismo e protofemminismo, p. 183
    Un movimento sociale, p. 197

4.  Dal sociale al politico                              215

    Movimenti nazionali e transnazionali, p. 217
    Uguali perché diverse: il discorso politico del
        suffragismo, p. 233
    Precursori e ritardatari: percorsi europei verso il
        suffragio delle donne, p. 246
    Diritti civili e diritti delle madri, p. 266
    Politica sociale pro e contro le donne, p. 285

5.  Fra estremi                                          295

    Le cittadine e la Donna Nuova, p. 296
    Maternità e paternità nello Stato sociale, p. 307
    Verso la dittatura: politico e privato, p. 320
    Nazionalsocialismo e politica razziale, p. 347
    Guerra e genocidio in Europa, p. 367

6.  Diritti civili, politici e sociali: una nuova
        disputa dei sessi                                391

    Libertà e uguaglianza, p. 394
    La rivoluzione più lunga, p. 410
    Storia, spirito e sesso, p. 428

Note                                                     443
Bibliografia                                             461
Indice dei nomi                                          479

 

 

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Pagina 7

1.
La «querelle des femmes»:
una disputa europea sui sessi



                    Quid est mulier?
                    Tertulliano (ca. 200 d.C.)

                    Cosa sono le donne?
                    Christine de Pizan (1402)
La storia europea è ricca di testimonianze di quanto diversamente possano venir recepiti e interpretati i due sessi, le loro peculiarità e i loro rapporti. Nella querelle des sexes si discusse per secoli, spesso in forma di lamento e di accusa (querelle), su cosa e come siano, debbano e possano essere le donne e gli uomini. Le prese di posizione su questo argomento si moltiplicarono nel primo Rinascimento, soprattutto in Italia, in Francia, in Spagna e ben presto anche negli altri paesi europei. Alla loro diffusione contribuì la crescente importanza della parola scritta e della forma scritta acquisita dalle lingue volgari europee, nonché la stampa, la riproduzione di immagini e gli innumerevoli fogli volanti. Alla querelle parteciparono sia scrittori che scrittrici: gli autori scrissero sia opere ostili alle donne (invettive contro le donne, disprezzo delle donne, misoginia) sia opere a favore delle donne (difesa delle donne, lode delle donne, filoginia); i testi conservati scritti da donne sono per lo più a loro favore. Tuttavia, che cosa venisse giudicato a favore o contro le donne dipendeva di volta in volta dal contesto. Fra le voci della querelle che sono giunte fino a noi, quelle femminili sono in minoranza, ma costituiscono una notevole percentuale di tutti gli scritti di donne di quell'epoca. La disputa ebbe origine nel Medioevo, si sviluppò nel Rinascimento, sotto l'influsso dell'Umanesimo e della riforma religiosa, e proseguì fino all'Illuminismo.


La dignità dell'uomo e la dignità della donna
                      Che le donne non siano
                      della specie degli uomini
                      (1647)

Nel tardo Medioevo e anche - in Italia - nel primo Rinascimento, fu rilanciata la questione della natura umana. Nel suo scritto pionieristico De dignitate hominis (1486) Giovanni Pico della Mirandola parlava degli uomini: Dio aveva rivolto solo ad Adamo le parole in base alle quali l'uomo è libero di seguire la propria natura e di scegliere la propria vita. La tesi della dignità umana era rivolta contro la più vecchia dottrina della miseria humanae conditionis, formulata da papa Innocenzo III. La miseria riguardava soprattutto le donne. I Padri della Chiesa avevano attribuito ad Eva la colpa del peccato originale e identificato con le donne la sessualità e il peccato. Per Tertulliano la donna era la «porta di ingresso del diavolo» (ianua diaboli) e per Agostino la sessualità, anche coniugale, era un peccato. Secondo Girolamo, era possibile evitare il peccato solo vivendo in assoluta castità, poiché l'amore dell'uomo per la donna, personificazione del male e della tentazione, non poteva essere compatibile con l'amore di Dio e quindi costituiva una minaccia per la salvezza dell'anima dell'uomo. Gli uomini che desideravano la salvezza dovevano guardarsi dalle donne, le donne da se stesse. Tertulliano e Crisostomo si chiesero «cos'è la donna?» e risposero a questa domanda con un lungo elenco di difetti: «nemica dell'amicizia, male necessario, tentazione naturale, minaccia della casa, danno dilettevole, natura del male». Una rigida polarizzazione fra i sessi era assolutamente consueta; nella sintesi fra Aristotele e la Bibbia operata dalla scolastica questa polarità (attivo-passivo, forma-materia, spirito-carne, bene-male, valore-indegnità ecc.) venne leggermente attenuata, ma in sostanza la donna, che Aristotele considerava un «errore della natura», rimase anche per Tommaso d'Aquino un «uomo malriuscito» o incompleto (mas occasionatus). A dire il vero sia Tommaso che Aristotele sottolinearono l'importanza del ruolo domestico della donna (il primo insistette anche sul fatto che entrambi i sessi fossero stati creati a immagine e somiglianza di Dio e pertanto fossero entrambi suscettibili di salvezza), ma solamente a condizione che fosse l'uomo a detenere il potere. Dalla considerazione che la donna fosse indispensabile non derivava necessariamente la sua parità di rango. Il mas occasionatus era destinato a rimanere a lungo nella sua condizione, per quanto discussa essa fosse.

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Le donne dell'Ottocento quindi non sono state solo vittime delle trasformazioni sociali. Qualunque fosse il tributo richiesto alle donne dall'industrializzazione - i salari bassi o il lavoro domestico non retribuito - il problema comunque non era la mancanza di lavoro, bensì la povertà e la dipendenza. L'ideale femminile diffuso in tutte le classi non corrispondeva alla realtà sociale e le donne potevano agire in svariati campi. Le differenze materiali e culturali risultavano dalla situazione personale, dai diversi settori economici, dal mutare della relazione fra povertà e benessere e - tanto per le donne che per gli uomini - dall'appartenenza all'una o all'altra delle classi sociali in via di formazione. Tuttavia la vita delle donne - come nella società dell'Ancien Régime - era notevolmente diversa da quella degli uomini della loro stessa classe, alla quale esse non appartenevano (e non appartengono tuttora) a nome proprio, ma attraverso i «loro» uomini, padri o mariti che fossero. Nell'ultima fase dell'industrializzazione, quando divenne sempre più oggetto di discussione la visione economica e culturale del marito come «sostentatore» e della moglie come «operaia dell'amore» (nel senso letterale del termine era comunque lei a «sostentare» la famiglia), in tedesco fu creata l'ironica allitterazione Kinder, Küche, Kirche (bambini, cucina e chiesa). Invece la variante che era stata proposta seriamente da Schmoller, Küche, Keller und Kammer (cucina, cantina, dispensa) divenne anacronistica perché, soprattutto in città, ben poche famiglie potevano disporre di una vera e propria cantina per le provviste. Il movimento femminista criticò e ironizzò questo luogo comune, procurandogli diffusione internazionale. Esso divenne il simbolo di una vita domestica che veniva ritenuta tipica per la Germania soprattutto dalle femministe non tedesche, come riferì Kathe Schirmacher di ritorno dal Congresso internazionale delle donne, tenutosi a Londra nel 1899. Nel 1904 Clara Zetkin citò un giornale secondo il quale la tradizionalista imperatrice tedesca (ben diversa da sua suocera, l'«imperatrice Federico») consigliava alle donne di attenersi alle «quattro K» e cioè Kirche, Kinder, Küche und Kleider (chiesa, bambini, cucina e vestiti); si parlava anche di Kinder, Küche, Kaiser (bambini, cucina, imperatore). La femminista ed ebrea tedesca Henriette Fürth, che aveva studiato economia politica e - fenomeno assai insolito ai suoi tempi - era madre di otto figli, nel 1914 descrisse la trasformazione della donna in «schiava domestica» come un prodotto del secolo XIX, reclamò un cambiamento e una rivalutazione del lavoro femminile e fece del sarcasmo sulla «triade di bambini, cucina e conversazione» (Kinder, Küche, Konversation). Nello stesso anno, la storica americana Mary Beard citò di nuovo questo luogo comune, asserendo, però, di ritenere sorpassate da tempo, negli Stati Uniti, «le tre K, le vecchie sfere della donna». La povertà delle donne, la loro dipendenza tanto materiale che intellettuale e le tre, o sette, K divennero i bersagli del movimento femminista internazionale.

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Anche in Italia il passaggio durò un decennio, ma, diversamente che nell'Unione Sovietica, non condusse all'eliminazione di organizzazioni femminili separate, bensì alla loro creazione da parte del fascismo. Fino al 1925, quando Mussolini sembrava ancora appoggiare il suffragio femminile, e anche per qualche altro anno, molte femministe italiane, comprese molte ebree, credevano che nel nuovo Stato sarebbero riuscite a realizzare almeno alcuni dei loro intenti, in particolare il miglioramento della situazione femminile per mezzo dell'impegno sociale. I fasci femminili - composti per lo più di donne giovani e combattive, come le prime comuniste e le seguaci di Hitler - negli anni Venti erano una piccola minoranza; a volte protestarono anche apertamente contro l'antifemminismo fascista. La marchesa Maria Spinelli Monticelli nel 1926 protestò contro l'abolizione delle elezioni comunali sciogliendo il suo fascio femminile di Milano e per questo fu esclusa dal partito. La socialista e suffragista Teresa Labriola, che a quell'epoca era la più famosa intellettuale italiana, si convertì lentamente al fascismo, all'interno del quale cercava spazio per un «femminismo italico» («le donne devono acquisire anche qualità virili che consistono nella consapevolezza del senso di appartenenza a una stirpe e a una nazione»), e nel 1927 asserì: «La tesi della partecipazione alla vita sociale non è necessariamente parte del bagaglio democratico; può essere concepita anche da quelli che combattono il parlamentarismo; [...] insomma non contraddice alla dottrina e alla praxis del fascismo». Nel 1925 fu fondata l'Opera Nazionale per la Maternità e l'Infanzia (Onmi), finanziata da offerte e da sussidi statali; in essa le donne, che tuttavia erano pressoché escluse dai ruoli direttivi, si sforzavano di assistere e di educare all'igiene le madri sole e povere, anche nelle arretrate zone di campagna. Alla vigilia della fondazione dell'Onmi, Olga Modigliani, una femminista di antica famiglia ebraica, che già da tempo era impegnata nell'assistenza alle madri nubili, aveva avuto funzioni di consigliera presso la commissione competente nel primo gabinetto Mussolini; nel 1934 il Consiglio internazionale delle donne, durante il suo congresso a Parigi, ebbe parole di ammirazione per l'assistenza alle madri e ai bambini prestata dal fascismo. Vicepresidente della sezione romana dell'Onmi era la filantropa piemontese Daisy di Robilant che nel 1931 venne eletta presidentessa del Consiglio nazionale delle donne italiane, fondato nel 1903. Alcune fasciste protestarono contro il fatto che le donne fossero scarsissimamente rappresentate nel Consiglio superiore delle corporazioni (1929); ma almeno fu nominata membro del Consiglio superiore la presidentessa della Corporazione delle levatrici. Il ministro per le Corporazioni, Giuseppe Bottai, nel 1931 nominò come prima delle tre consigliere donne Adele Pertici Pontecorvo, esperta di diritto del lavoro e fautrice dei diritti delle donne, che in Italia era stata la prima donna notaio - una nomina impensabile nella Germania nazista, dove alle giuriste non veniva concessa la minima opportunità. Durante il fascismo la Pertici Pontecorvo portò davanti al Consiglio di Stato parecchi casi di discriminazione delle donne.

Solo alla vigilia della guerra di Abissinia e in seguito, dopo l'inizio della guerra nel 1935 e come reazione alle sanzioni economiche della Società delle nazioni e alla conseguente politica autarchica (il vecchio futurista Marinetti dichiarò «antivirili» gli spaghetti, in quanto il grano era merce d'importazione e le donne avevano cose più importanti da fare che stare ai fornelli), il fascismo mobilitò un quarto delle donne adulte. In un primo tempo, l'allineamento delle donne fu ottenuto per mezzo dei fasci femminili; il loro organo di stampa era il «Giornale della donna», già rivista del movimento femminista, a cui collaborava Teresa Labriola. Ai fasci, che alla fine degli anni Trenta contavano settecentocinquantamila iscritte, si aggiunsero l'organizzazione delle massaie rurali (più di un milione e mezzo) e quella delle operaie in fabbrica e a domicilio (SOLD, mezzo milione), che pretendeva dai suoi membri contributi inferiori a quelli del partito ed era quindi più attraente. Solo a metà degli anni Trenta furono soppressi i residui del vecchio movimento femminile (alcune delle sue protagoniste, ad esempio Ersilia Majno Bronzini, nel frattempo erano morte). La Federazione nazionale laureate e diplomate, di orientamento internazionale, di cui facevano parte anche molte ebree, fu sostituita nel 1935 da un'organizzazione fascista e fu costretta dalle autorità a «sciogliersi spontaneamente». Dopo la promulgazione delle leggi razziali del 17 novembre 1938, furono proibiti, nello stesso anno, a causa dell'alta quota di ebree fra i loro membri, anche il Consiglio nazionale delle donne italiane e la venerabile Unione femminile. Forse non fu un puro caso che ciò sia avvenuto proprio quando in Germania, dopo il pogrom del novembre, i nazisti sciolsero la lega delle donne ebree. In entrambi i paesi ciò segnò - almeno da un punto di vista retrospettivo - l'inizio della fine; tuttavia l'assassinio delle ebree e degli ebrei italiani sostanzialmente non fu opera del fascismo, ma del nazismo.

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Libertà e uguaglianza



                       Un nuovo modo di essere,
                       di amare, di vivere.
Diversamente da quello classico, il nuovo movimento delle donne comparve improvvisamente e provocatoriamente alla fine degli anni Sessanta, entro il 1975 divenne un movimento di massa e fu caratterizzato sin dall'inizio dalla comunicazione a livello internazionale. Nel 1968, in occasione dell'elezione di Miss America, alcune donne americane incoronarono una pecora, gettarono il reggiseno, i bigodini e i cosmetici in una «pattumiera della libertà» e seppellirono la femminilità tradizionale nel cimitero nazionale di Arlington. Una brigata Jeanette Rankin, così denominata dalla prima donna eletta in parlamento nel 1919, organizzò una marcia della pace su Washington. Gruppi provocatori si denominavano bitch (sgualdrina) o WITCH (strega: Women's International Terrorist Conspiracy from Hell); il nome delle Redstockings di New York (coniato su bluestockings, le «calzette blu», famigerate da secoli) fu adottato anche in Danimarca. Le femministe danesi dettero l'assalto agli autobus, pagando solo 1'80% del prezzo del biglietto, in conformità con la quota del salario delle donne rispetto a quello degli uomini. In Gran Bretagna protestarono contro l'elezione di Miss Universo, dettero appoggio alle operaie in sciopero e lanciarono nella sinistra il dibattito sulla liberazione delle donne. A Parigi alcune deposero sulla tomba del milite ignoto presso l'Arc de Triomphe una corona con la scritta «Alla moglie ignota del milite ignoto», altre invasero la redazione della nota rivista femminile «Elle». In Olanda le Dolle Mina (così chiamate in ricordo di Wilhelmina Drucker, che era stata una pioniera del vecchio movimento delle donne) attirarono su di sé l'attenzione per mezzo di azioni spettacolari. Nella Repubblica Federale Tedesca volarono pomodori contro i compagni del Sozialistische Deutsche Studentenbund (Lega tedesca degli studenti socialisti) che si rifiutavano di prendere sul serio la liberazione delle donne. A Berlino, il «Consiglio di azione per la questione della liberazione della donna» e a Francoforte il «Consiglio delle donne» avviarono la loro separazione dalla sinistra, vecchia e nuova. In seguito, ma anche prima, nacquero gruppi indipendenti di donne; uno di essi si chiamava brot & rosen (pane e rose) come lo slogan coniato nel 1912, invece di bread and butter, dalle operaie in sciopero di Lawrence, Massachusetts. A Berlino sorsero i primi Kinderläden (letteralmente: botteghe per i bambini) che poi si diffusero in tutta la Germania; si trattava di asili organizzati autonomamente, prendendo in affitto dei locali, da gruppi di madri che si alternavano nella sorveglianza dei figli in età prescolare; nacquero anche come alternativa all'educazione autoritaria impartita negli asili di infanzia e nelle famiglie. Entro poco tempo sorsero dovunque Centri femminili dai quali si diramarono gruppi, vennero lanciati progetti alternativi e nacque una nuova «controcultura». Le cosiddette «Case delle donne» (in Gran Bretagna nel 1980 ne esistevano già duecento) accoglievano donne maltrattate e, tramite appositi centri o linee telefoniche, si provvedeva all'assistenza di donne vittime di violenze sessuali. A Roma, Torino e Milano le donne organizzarono dimostrazioni notturne per protestare contro il fatto di non poter uscire di notte da sole senza correre pericoli da parte degli uomini; il loro motto «riprendiamoci la notte» divenne uno slogan internazionale. Veniva propagata la necessità di essere impazienti: il primo film femminista, girato a Berlino, aveva il titolo Die Macht der Männer ist die Geduld der Frauen (Il potere degli uomini è la pazienza delle donne). Ovunque i piccoli gruppi e le loro reti di comunicazione erano l'anima del movimento.

Di stampo americano erano soprattutto tre innovazioni diffuse in tutta Europa. In primo luogo, le donne fondarono gruppi di autocoscienza in cui analizzavano la loro situazione personale e le sue cause generalizzabili. In secondo luogo, nacquero gruppi self-help e consultori autogestiti, spesso ispirati al manuale Our Bodies, Ourselves (1970) pubblicato dal Boston Women's Health Book Collective, il quale spiegava i molteplici nessi fra il corpo e la soggettività. Il libro venne tradotto in molte lingue (in italiano nel 1974 con il titolo Noi e il nostro corpo) e fino al 1995 ne furono venduti tre milioni di copie. In terzo luogo, fecero sentire le loro voci le donne lesbiche (il termine «lesbica» cominciò ad essere usato solo dagli anni Venti, anche se le relazioni fra donne erano sempre esistite); molte di esse abbandonarono i gruppi omosessuali misti e aderirono al movimento femminista, sempre che non vi avessero svolto un ruolo sin dall'inizio. L'accusa rivolta alla discriminazione delle donne lesbiche era unita all'idea che l'amore e la solidarietà fra donne potessero offrire un'alternativa al dominio maschile. Si levarono asperrime critiche al concetto di Freud della donna come uomo incompleto; The Myth of the Vaginal Orgasm, scritto dalla newyorchese Anne Koedt (1970), fu recepito a livello internazionale (alcuni elementi di quest'opera si potevano già trovare in pubblicazioni degli anni Venti). In Italia e in Gran Bretagna, a partire dal 1972, fu iniziata una campagna per la retribuzione statale del lavoro domestico, che si diffuse anche in Germania, negli Usa e in Canada. Essa si basava sull'argomento che il lavoro extradomestico non aveva liberato le donne e dimostrava che in realtà anche le donne «non lavoratrici» lavorano e che, anzi, tutte le attività retribuite dipendono dal lavoro non retribuito svolto dalle donne nella famiglia. Affermava che disporre di denaro favorisce l'indipendenza delle donne anche all'interno del matrimonio e chiedeva che gli assegni famigliari, l'assicurazione per la vecchiaia e le norme in caso di divorzio tenessero conto del lavoro svolto dalle donne in casa e per l'educazione dei figli. Solo quando il lavoro domestico non fosse più stato gratuito, esso si sarebbe anche trasformato e ridotto, per mezzo di efficienti elettrodomestici, della collettivizzazione e della suddivisione con gli uomini. Come il movimento femminista nel suo complesso, questa campagna rifiutava, con lo slogan «salario contro il lavoro domestico», il ruolo della casalinga e le tradizionali fatiche domestiche, nonché la loro variante modernizzata: il «problema senza nome», come l'aveva definito e messo sotto accusa Betty Friedan nella sua notissima opera La mistica della femminilità (1963, pubblicata in italiano nel 1964).

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Si impongono due delle molte domande suscitate da queste scoperte. La prima è: che cos'è il «femminismo»? Esisteva già prima che si diffondesse questo termine, alla fine dell'Ottocento? Se con il termine si intende (come di consueto oggi nei paesi di lingua inglese) un grido di rivolta, sommesso o acuto, pubblico o privato, contro la condition féminine, allora il femminismo esiste già da secoli, se non da sempre. Se invece con il termine «femminismo» si intende un movimento sociale di donne animate da una concezione femministica del mondo, allora si tratta di un fenomeno specifico del XIX e del XX secolo. In questo caso, trattando delle voci precedenti, sarà preferibile usare i termini che esse stesse usavano, per esempio «libertà», che anche in passato era un termine tanto noto quanto amato. Seconda domanda: perché sono stati necessari tre decenni di ricerca storica per rendere evidenti queste tradizioni che contraddicono la prima supposizione del nuovo movimento femminista, e cioè che la sua rivolta e il suo linguaggio siano sorti come l'araba fenice dalle ceneri di un'oppressione e di un mutismo secolari? Una delle risposte è: fino al Settecento ci furono, è vero, molte voci «femministe», ma non ci fu una vera e propria tradizione che potesse permettere alle voci successive di riallacciarsi a quelle precedenti. Il motivo va visto nella generale esclusione delle donne dall'istruzione, dalle sue istituzioni e dai suoi strumenti, dal mondo della cultura e dalle biblioteche, e anche nel fatto che le voci delle donne non trovarono risonanza duratura da parte degli studiosi maschi che avevano una posizione di egemonia nella tradizione culturale europea. Per questo motivo, fino ai nostri giorni, le donne che anelavano al sapere e alla trasformazione hanno dovuto ogni volta «reinventare la ruota».

La più recente reinvenzione della ruota ha condotto a tre problemi, che a loro volta hanno aperto nuove questioni, nuovi metodi di soluzione e una nuova fase del dibattito sui sessi, svoltasi in questo caso principalmente fra le studiose. Il primo problema riguardava gli uomini, il secondo le donne, il terzo i sessi. Sin dall'inizio la nuova storiografia sulle donne fu anche una storiografia sugli uomini, dato che non è possibile isolare la storia di uno dei due sessi da quella dell'altro. Inoltre la storia delle donne finì con il condurre a una storia dei sessi: infatti non solo le donne, ma anche gli uomini sono creature appartenenti a un sesso e sarebbe fuorviante considerare il sesso maschile come personificazione dell'umanità in generale e quello femminile invece come personificazione del particolare (a lungo il suffragio incondizionato degli uomini si chiamò suffragio «universale» e tuttora si parla di «suffragio universale degli uomini», il che costituisce una contradictio in adjecto, dato che «universale» oggi significa «senza distinzione di sesso»). Insomma, che cosa sono gli uomini e come si sono trasformati nel corso della storia? Ci si mise alla ricerca del «primo» sesso.

In secondo luogo era altrettanto chiaro sin dall'inizio che non tutte le donne hanno la stessa storia - essa è diversa a seconda degli individui e a seconda della loro appartenenza, insieme agli uomini, a molti altri gruppi - e che quindi non si può trattare della donna, ma solo delle donne. Il sesso femminile, come quello maschile, non esiste al singolare, ma solo al plurale; alla domanda che cosa significa «donna» e che cosa «sono» le donne occorre dare risposte diversissime a seconda del tempo e dello spazio; la storia del «secondo» sesso non è meno complessa di quella del «primo». Però, inoltre, soprattutto sotto l'influsso del postmodernismo e del decostruttivismo, venne messo generalmente in dubbio che il termine «donne», anche al plurale, avesse ancora un senso e fosse ancora definibile in modo relativamente univoco. Si tratta infatti, in conformità con uno degli impulsi del movimento femminista, di rifiutare e di cancellare il concetto dell'«esser donna» come una forma di identità collettiva. Trasformato in termini storici, ciò significa che Sojourner Truth, se vivesse ai giorni nostri, dovrebbe cambiare la sua famosa domanda And ar'n't I a woman? in «E non sono forse un'identità fluttuante?». Il XXI secolo dimostrerà se questo nuovo raggio della vecchia ruota è abbastanza forte per farla continuare a rotolare. Comunque le donne «sono» donne (e pertanto esseri umani), anche se al contempo questo «essere» è aperto e indefinito e può variare a seconda del tempo, dello spazio e dall'appartenenza ad altre «imaginated communities»; l'esser donna non è né un dato «obiettivo» né solo una costruzione immaginaria o fittizia. Se questo sembra un paradosso, va sopportato e tollerato: è questa la forma odierna del paradosso tematizzato da Olympe de Gouges e da tante altre. E quando si tratta di fonti storiche, di libertà e di uguaglianza o del loro contrario, e di affirmative action è senz'altro possibile riconoscere e identificare le donne con sufficiente chiarezza.

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