Copertina
Autore Roberto Bolaño
Titolo Amuleto
EdizioneAdelphi, Milano, 2010, Fabula 222 , pag. 142, cop.fle., dim. 14x22x1 cm , Isbn 978-88-459-2501-6
OriginaleAmuleto [1999]
TraduttoreIlide Carmignani
LettoreAngela Razzini, 2011
Classe narrativa cilena , paesi: Messico
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Questa sarà una storia del terrore. Sarà una storia poliziesca, un noir, un racconto dell'orrore. Ma non sembrerà. Non sembrerà perché sono io quella che la racconta. Sono io a parlare e quindi non sembrerà. Ma in fondo è la storia di un crimine atroce.

Io sono l'amica di tutti i messicani. Potrei dire: sono la madre della poesia messicana, ma è meglio che non lo dica. Io conosco tutti i poeti e tutti i poeti mi conoscono. Perciò potrei dirlo. Potrei dire: sono la madre e qui soffia da secoli uno zefiro del cazzo, ma è meglio che non lo dica. Potrei dire, per esempio: ho conosciuto Arturito Belano quando aveva diciassette anni ed era un ragazzino timido che scriveva opere di teatro e poesie e non sapeva bere, ma sarebbe in qualche modo una divagazione e mi hanno insegnato (con la frusta me l'hanno insegnato, con una bacchetta di ferro) che bisogna evitare le ridondanze e restare in tema.

Quello che invece posso dire è il mio nome.

Mi chiamo Auxilio Lacouture e sono uruguaiana, di Montevideo, ma quando mi prende male, quando mi dà alla testa la nostalgia, dico che sono charrùa, che poi è lo stesso anche se non è lo stesso, e confonde i messicani e quindi anche i latinoamericani.

L'importante, però, è che un bel giorno sono arrivata in Messico senza sapere molto bene perché, né a far cosa, né come, né quando.

Sono arrivata a città del Messico nel '67, o forse nel '65 o nel '62. Ormai non mi ricordo più né le date né le peregrinazioni, l'unica cosa che so è che sono arrivata in Messico e non me ne sono più andata. Vediamo un po', facciamo mente locale. Tiriamo il tempo come la pelle di una donna priva di sensi nella sala operatoria di un chirurgo plastico. Vediamo. Sono arrivata in Messico quando era ancora vivo Leòn Felipe, che gigante, che forza della natura, e Leòn Felipe è morto nel 1968. Sono arrivata in Messico quando era ancora vivo Pedro Garfias, che grand'uomo, così malinconico, e don Pedro è morto nel '67, perciò devo essere arrivata prima del '67. Mettiamo allora che io sia arrivata in Messico nel '65.

Sì, in definitiva penso di essere arrivata nel '65 (ma può darsi che mi sbagli, ci si sbaglia quasi sempre) e ho frequentato quegli spagnoli universali, tutti i giorni, ora dopo ora, con la passione di una poetessa e la devozione incondizionata di un'infermiera inglese e di una sorella minore che si fa in quattro per i fratelli maggiori, errabondi come me, solo che la natura del loro esodo era ben diversa, me nessuno mi aveva cacciato da Montevideo, semplicemente un giorno avevo deciso di andarmene ed ero partita per Buenos Aires e da Buenos Aires, dopo qualche mese, forse un anno, avevo deciso di riprendere il viaggio perché già allora sapevo che la mia destinazione era il Messico, e sapevo che Leòn Felipe viveva in Messico, e che ci vivesse anche Pedro Garfias non ero sicura, ma penso che in fondo me lo sentissi. Forse fu la follia che mi spinse a viaggiare. Può darsi che fosse la follia. Io dicevo che era stata la cultura. È chiaro che la cultura a volte è follia, o comprende la follia. Forse fu il disamore che mi spinse a viaggiare. Forse un amore eccessivo e travolgente. Forse fu la follia.

L'unica cosa certa è che sono arrivata in Messico nel 1965 e mi sono piazzata in casa di Leòn Felipe e in casa di Pedro Garfias e ho detto eccomi qua al vostro servizio. E loro devono avermi trovato simpatica, perché antipatica non sono, magari noiosa a volte, ma antipatica mai. E la prima cosa che ho fatto è stata prendere una scopa e mettermi a spazzare il pavimento delle loro case e poi pulire le finestre e ogni volta che potevo chiedevo dei soldi e facevo la spesa. E loro mi dicevano con quell'intonazione spagnola così peculiare, con quella musichetta brusca che non li ha mai abbandonati, come se cerchiassero le zeta e le ci e come se lasciassero le esse più orfane e libidinose che mai, mi dicevano Auxilio, piantala di mettere sottosopra l'appartamento, Auxilio, lascia in pace quelle carte, guarda che la polvere è sempre andata d'accordo con la letteratura. E io mi fermavo a guardarli e pensavo come hanno ragione, sempre polvere, e sempre letteratura, e siccome allora andavo in cerca di sfumature m'immaginavo situazioni prodigiose e tristi, immaginavo i libri immobili sugli scaffali e immaginavo la polvere del mondo che entrava nelle biblioteche, lentamente, pervicace, inarrestabile, e allora capivo che i libri erano facile preda della polvere (lo capivo ma non volevo accettarlo), vedevo mulinelli di polvere, nuvole di polvere che si formavano in una pampa in fondo alla mia memoria, e le nuvole avanzavano fino a raggiungere città del Messico, le nuvole della mia pampa personale che era la pampa di tutti anche se molti si rifiutavano di vederla, e il polverone ricopriva ogni cosa, i libri che avevo letto e i libri che pensavo di leggere, e a quel punto non c'era più nulla da fare, per quanto usassi la scopa e lo straccio, la polvere non se ne sarebbe mai andata, perché quella polvere era consustanziale ai libri, che lì, a modo loro, vivevano o simulavano qualcosa di simile alla vita.

Ecco cosa vedevo. Ecco cosa vedevo in preda a un brivido che solo io sentivo. Poi aprivo gli occhi e appariva il cielo del Messico. Sono in Messico, pensavo, quando ancora la coda del brivido non se n'era andata. Sono qui, pensavo. Allora mi dimenticavo ipso facto della polvere. Vedevo il cielo dietro a una finestra. Vedevo le pareti su cui scivolava la luce della capitale. Vedevo i poeti spagnoli e i loro libri splendenti. E dicevo: don Pedro, León (pensa che strano, al più vecchio e venerabile davo del tu, mentre al più giovane, che mi intimidiva, non riuscivo a smettere di dare del lei!), lasciate che sia io a occuparmi di queste faccende, pensate alle vostre cose, continuate a scrivere tranquilli e fate conto che io sia la donna invisibile. E loro ridevano. O meglio, León Felipe rideva, anche se a dire il vero non si capiva mai bene se stava ridendo o schiarendosi la voce o bestemmiando, quell'uomo era come un vulcano, invece don Pedro Garfias ti fissava e poi stornava lo sguardo (uno sguardo così triste) e lo posava, non so, diciamo su un vaso o su uno scaffale pieno di libri (uno sguardo così malinconico) e allora io pensavo: cosa hanno quel vaso o le coste dei libri dove si arrestano i suoi occhi per risvegliare tanta tristezza? E a volte mi mettevo a riflettere, quando lui non era più nella stanza o quando non mi guardava, mi mettevo a riflettere e addirittura mi mettevo a guardare il vaso in questione o i suddetti libri e arrivavo alla conclusione (conclusione che d'altro canto non tardavo a scartare) che lì, in quegli oggetti apparentemente così inoffensivi, si nascondeva l'inferno oppure una delle sue porte segrete.

E a volte don Pedro mi sorprendeva a guardare il suo vaso o le coste dei libri e mi domandava che guardi, Auxilio, e io allora dicevo eh?, cosa?, oppure facevo la finta tonta o la trasognata, ma altre volte gli chiedevo cose come marginali, che però a pensarci bene erano rilevanti: gli dicevo don Pedro, quel vaso da quando ce l'ha?, gliel'ha regalato qualcuno?, ha un valore speciale per lei? E lui mi fissava senza sapere cosa rispondere. Oppure diceva: è solo un vaso. Oppure: non ha alcun significato particolare. E allora per quale ragione lo guarda come se nascondesse una delle porte dell'inferno?, avrei dovuto replicare io. Ma non replicavo. Dicevo solo: già, già, un'espressione che non so chi mi aveva attaccato in quei mesi, i primi che passavo in Messico. Ma per quanti già uscissero dalle mie labbra, la mia testa continuava a lavorare. E una volta che ero da sola nello studio di Pedrito Garfias, a ricordarlo mi viene da ridere, mi misi a guardare il vaso che lui fissava con tanta tristezza, e pensai: forse lo guarda così perché è senza fiori, non ha quasi mai fiori, e mi avvicinai al vaso e lo osservai da angolature diverse, e allora (ero sempre più vicina, anche se il mio modo di avvicinarmi, il mio modo di muovermi verso l'oggetto osservato era come a spirale) pensai: adesso infilo la mano nella bocca nera del vaso. Ecco cosa pensai. E vidi la mia mano staccarsi dal corpo, sollevarsi, planare sulla bocca nera del vaso e avvicinarsi al bordo smaltato, ma proprio allora una vocina dentro di me disse: ehi, Auxilio, cosa fai, sei pazza, e fu questo a salvarmi, penso, perché subito il mio braccio si fermò e la mano rimase appesa, in una posizione come da ballerina morta, a pochi centimetri dalla bocca dell'inferno e da quel momento in poi non so cosa mi successe, ma so bene cosa non mi successe e sarebbe potuto succedermi.

Una corre dei pericoli. È la pura verità. Una corre dei rischi ed è un giocattolo in mano al destino perfino nei posti più impensabili.

Quella volta del vaso mi misi a piangere. O meglio, senza che me ne rendessi conto mi vennero le lacrime agli occhi e dovetti sedermi in una poltrona, nell'unica poltrona che don Pedro aveva in quella stanza, perché se no sarei svenuta, lo so. E in ogni caso giuro che a un certo punto mi si annebbiò la vista e mi si piegarono le gambe. E quando ormai ero seduta, fui presa da un fortissimo tremito, sembrava che stesse per venirmi un colpo. E la cosa peggiore fu che la mia unica preoccupazione in quel momento era che non entrasse Pedrito Garfias e mi vedesse in quello stato pietoso. E al tempo stesso non smettevo di pensare al vaso, che evitavo di guardare anche se sapevo (non sono del tutto scema) che era lì, nella stanza, su uno scaffale dove c'era anche un rospo d'argento, un rospo la cui pelle sembrava aver assorbito tutta la follia della luna messicana. E poi, sempre tremando, mi alzai e mi avvicinai di nuovo al vaso, penso con il sano proposito di prenderlo e scagliarlo sul pavimento, sulle piastrelle verdi del pavimento, e stavolta non mi avvicinai alla fonte del mio terrore procedendo a spirale ma in linea retta, una linea retta esitante, questo sì, ma sempre una linea retta. E quando fui a mezzo metro dal vaso mi fermai un'altra volta e mi dissi: se non c'è l'inferno, lì dentro, ci sono di sicuro gli incubi, c'è tutto quello che la gente ha perduto, tutto quello che fa male e che è meglio dimenticare.

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L'amore è così, amici miei, ve lo dico io che sono stata la madre di tutti i poeti. L'amore è così, il gergo è così, le strade sono così, i sonetti sono così, il cielo delle cinque del mattino è così, l'amicizia, invece, non è così. Nell'amicizia non si è mai soli.

E io sono stata amica di León Felipe e di don Pedro Garfias, ma sono stata amica anche dei più giovani, di quei ragazzini che vivevano nella solitudine dell'amore e nella solitudine del gergo.

Uno di loro era Arturito Belano.

Io l'ho conosciuto e sono stata amica sua e lui è stato il mio giovane poeta favorito o il mio giovane poeta preferito, anche se non era messicano e la denominazione «giovane poeta», o «giovane poesia» o «nuova generazione», veniva sostanzialmente usata per riferirsi ai giovani messicani che cercavano di prendere il posto di Pacheco o dell'illustre greco del Guanajuato o di quel tipo cicciottello che lavorava al ministero dell'Interno in attesa che il governo messicano gli desse un'ambasciata o un consolato, o dei Poeti Contadini, che non ricordo più se erano tre, quattro o cinque cavalieri dell'apocalisse nerudiana, mentre Arturo Belano, benché fosse il più giovane di tutti o almeno il più giovane per qualche tempo, non era messicano e quindi non rientrava nelle categorie di «giovane poeta» o «giovane poesia», una massa informe ma viva il cui scopo era di scuotere il tappeto o la terra fertile su cui pascolavano come statue Pacheco e il greco del Guanajuato o Aguascalientes o Irapuato, e quel tipo cicciottello che il passare del tempo aveva trasformato in un ossequioso e viscido ciccione (come capita spesso ai poeti), e i Poeti Contadini installati ogni giorno più comodamente (ma che dico, attaccati, incollati, avvitati fin dagli inizi) nella burocrazia (amministrativa e letteraria). E quello che volevano i giovani poeti o la nuova generazione era far tremare il terreno e al momento giusto abbattere le statue, tranne quella di Pacheco, l'unico che sembrava scrivere davvero, l'unico che non sembrava un funzionario. Ma in fondo erano anche contro Pacheco. In fondo dovevano per forza essere contro tutti. Perciò quando io dicevo ma José Emilio è un uomo stupendo, è gentilissimo, è affascinante, e per di più è un vero gentiluomo, i giovani poeti del Messico (e Arturito fra loro, benché Arturito non fosse uno di loro) mi guardavano come se pensassero ma che dice questa pazza, che dice questo spaventapasseri uscito direttamente dall'inferno del bagno delle donne al quarto piano della facoltà di Lettere e Filosofia, e davanti a sguardi del genere una di solito non sa come ribattere, tranne me, è chiaro, che ero la madre di tutti loro e non arretravo mai.

Una volta raccontai ai giovani poeti una storia che avevo sentito raccontare a José Emilio: se Rubén Darío non fosse morto così giovane, prima di compiere cinquant'anni, sicuramente Huidobro sarebbe arrivato a conoscerlo, più o meno nello stesso modo in cui Ezra Pound aveva conosciuto W.B. Yeats. Immaginate: Huidobro segretario di Rubén Darío. Ma i giovani poeti erano giovani e non sapevano calibrare l'importanza che aveva avuto per la poesia di lingua inglese (in realtà per la poesia di tutto il mondo) l'incontro fra il vecchio Yeats e il giovane Pound, e quindi non si rendevano nemmeno conto dell'importanza che avrebbe avuto un ipotetico incontro fra Darío e Huidobro, la loro possibile amicizia, la gamma di possibilità perdute per la poesia di lingua spagnola. Perché, dico io, Darío avrebbe insegnato molto a Huidobro, ma anche Huidobro avrebbe insegnato varie cose a Darío. Il rapporto fra maestro e allievo è fatto così: impara l'allievo ma impara anche il maestro. E già che siamo qui a fare supposizioni: sono convinta, e ne era convinto anche Pacheco (e questo è uno dei motivi della grandezza di José Emilio, il suo innocente entusiasmo), che sarebbe stato Darío a imparare di più e avrebbe messo fine al modernismo e dato inizio a qualcosa di nuovo che non sarebbe stata l'avanguardia ma qualcosa di simile all'avanguardia, diciamo un'isola fra il modernismo e l'avanguardia, un'isola che adesso chiamiamo l'isola inesistente, parole che non ci sono mai state e che sarebbero potute esistere soltanto (ed è una supposizione molto ardita) dopo l'immaginario incontro fra Darío e Huidobro, e lo stesso Huidobro dopo il suo proficuo incontro con Darío sarebbe stato capace di fondare un'avanguardia ancora più vigorosa, un'avanguardia che ora chiamiamo l'avanguardia inesistente e che se fosse esistita ci avrebbe reso diversi, ci avrebbe cambiato la vita. Ecco cosa dicevo ai giovani poeti del Messico (e ad Arturito Belano) quando parlavano male di José Emilio, ma loro non mi ascoltavano o ascoltavano solo la parte aneddotica della storia, i viaggi di Darío e i viaggi di Huidobro, i soggiorni in ospedale, una salute diversa, non condannata a spegnersi prematuramente come si spengono tante altre cose in America latina.

E allora io restavo zitta e loro continuavano a parlare (male) dei poeti del Messico che avrebbero massacrato e io mi mettevo a pensare ai poeti morti come Darío e Huidobro e agli incontri che non erano mai avvenuti. La verità è che la nostra storia è piena di incontri che non sono mai avvenuti, non abbiamo avuto il nostro Pound né il nostro Yeats, abbiamo avuto Huidobro e Darío. Abbiamo avuto quel che abbiamo avuto.

E addirittura, tirando la corda con cui tutti tranne me si impiccheranno, certe sere i miei amici sembravano incarnare per un attimo quelli che non erano mai esistiti: i poeti dell'America latina morti a cinque o a dieci anni, i poeti morti a pochi mesi dalla nascita. Era difficile, e per di più era o sembrava inutile, ma certe sere dalle luci violacee vedevo sui loro volti i visetti dei bebè che non erano mai cresciuti. Vedevo gli angioletti che in America latina vengono seppelliti in scatole da scarpe o in piccole bare di legno verniciate di bianco. E a volte mi dicevo: questi ragazzi sono la speranza. Ma altre volte mi dicevo: come fanno a essere la speranza, come fanno a essere la spumeggiante speranza questi giovani ubriaconi che sanno solo parlar male di José Emilio, queste giovani spugne esperte nell'arte dell'ospitalità ma non in quella della poesia.

E allora i giovani poeti del Messico si mettevano a recitare versi con le loro voci profonde ma irrimediabilmente giovanili e i versi che recitavano se li portava via il vento per le strade di città del Messico e io mi mettevo a piangere e loro dicevano Auxilio è ubriaca, illusi, ce ne vuole di alcol perché io mi ubriachi, dicevano sta piangendo perché Tizio l'ha lasciata, e io li lasciavo dire quello che volevano. Oppure ci litigavo. O li insultavo. O mi alzavo dalla sedia e me ne andavo senza pagare, perché io non pagavo mai o quasi mai. Io ero quella che vedeva il passato e quelle che vedono il passato non pagano mai. Vedevo anche il futuro e quelle invece pagano un prezzo elevato, a volte il prezzo è la vita o l'equilibrio mentale, e secondo me in quelle sere dimenticate, senza che nessuno se ne rendesse conto, io stavo pagando da bere a tutti, a quelli che sarebbero diventati poeti e a quelli che non lo sarebbero mai diventati.

Io me ne andavo e sembrava che non pagassi. Non pagavo perché vedevo il vortice del passato che passava come una raffica di vento caldo per le strade di Città del Messico rompendo i vetri degli edifici. Ma vedevo anche il futuro dalla mia caverna abolita nel bagno delle donne al quarto piano e per quello stavo pagando con la vita. Cioè me ne andavo e pagavo, anche se nessuno se ne accorgeva! Pagavo il mio conto e pagavo il conto dei giovani poeti messicani e pagavo il conto degli alcolisti anonimi in qualunque bar ci trovassimo. E me ne andavo barcollando per le strade di Città del Messico, seguendo la mia ombra schiva, sola e in lacrime, sentendo quello che probabilmente poteva sentire l'ultima uruguaiana sulla terra, anche se io non ero l'ultima, che presunzione, e i crateri illuminati da centinaia di lune che attraversavo non erano quelli della terra ma del Messico, che sembra la stessa cosa ma non lo è.

E una volta sentii che qualcuno mi seguiva. Non so dove eravamo. Forse in un bar nei dintorni di La Villa o forse in qualche bettola del quartiere Guerrero. Non mi ricordo. So solo che continuai a camminare, facendomi strada fra le macerie, senza prestare troppa attenzione ai passi che seguivano i miei passi, finché di botto il sole notturno si spense, smisi di piangere, tornai alla realtà con un brivido e capii che chi mi seguiva desiderava la mia morte. O la mia vita. O le mie lacrime che aspergevano quella realtà odiosa come la nostra lingua così spesso avversa. E allora mi fermai e aspettai e i passi che seguivano i miei passi si fermarono e aspettarono e io guardai le strade in cerca di qualche conoscente o sconosciuto verso il quale correre gridando per attaccarmi al suo braccio e chiedergli di accompagnarmi a una stazione della metropolitana o al primo taxi, ma non vidi nessuno. O forse no. Qualcosa vidi. Chiusi gli occhi e poi aprii gli occhi e vidi le pareti coperte di piastrelle bianche del bagno delle donne al quarto piano. E poi richiusi gli occhi e sentii il vento che spazzava il campus della facoltà di Lettere e Filosofia con una meticolosità degna di miglior causa. E pensai: così è la Storia, un breve racconto del terrore. E quando aprii gli occhi un'ombra si staccò dal muro, sullo stesso marciapiede, a una decina di metri, e cominciò ad avanzare verso di me, e io infilai la mano nella mia borsa, che dico borsa, nel mio zainetto di Oaxaca, e cercai il coltello, quello che mi portavo sempre dietro in previsione di qualche catastrofe urbana, ma le punte delle dita, i polpastrelli in fiamme, palparono solo carte e libri e riviste e persino biancheria intima pulita (lavata a mano senza sapone, solo con acqua e buona volontà, in uno dei lavandini di quel quarto piano ubiquo come un incubo), però non il coltello, ahi, amici miei, ecco un altro terrore ricorrente e mortalmente latinoamericano: cercare la tua arma e non trovarla, cercarla dove l'hai lasciata e non trovarla più.

È così che ci vanno le cose, a noi.

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Fu allora che cominciò l'avventura.

Io c'ero. Posso testimoniare. Io ero seduta a un altro tavolo e parlavo con un giornalista alle prime armi delle pagine culturali di un giornale di Città del Messico, e avevo appena comprato un disegno a Lilian Serpas, e Lilian Serpas dopo averci venduto il disegno ci aveva sorriso con il suo sorriso più enigmatico (ma la parola enigmatico non può esprimere l'oscurità abissale che era il suo sorriso) ed era scomparsa nella notte di Città del Messico e io dicevo al giornalista chi era Lilian Serpas, gli dicevo che il disegno non era suo ma del figlio, gli raccontavo il poco che sapevo di quella donna che appariva e scompariva nei bar e nei caffè di avenida Bucareli. E in quel momento, mentre io parlavo e Arturo al tavolo vicino contemplava i presunti vortici della sua tequila, Ernesto San Epifanio si allontanò dal bancone e andò a sedersi con lui e per un istante io vidi solo le loro teste, i loro capelli lunghi fino alle spalle, coi riccioli quelli di Arturo e lisci e molto più scuri quelli di Ernesto, e per un po' i due rimasero lì a parlare mentre l'Encrucijada Veracruzana si svuotava pian piano degli ultimi nottambuli, quelli che all'improvviso avevano fretta di andarsene e sulla porta gridavano Viva México e quelli che erano così sbronzi da non riuscire nemmeno ad alzarsi dalla sedia.

E allora io mi alzai e mi avvicinai, restando in piedi accanto a loro immobile come la statua di cristallo che avrei voluto essere da bambina, e sentii che Ernesto San Epifanio raccontava una storia terribile sul re dei finocchi del quartiere Guerrero, un tipo che chiamavano il Re e che controllava la prostituzione maschile di quel tipico e, perché no?, amato quartiere della capitale. E il Re, secondo Ernesto San Epifanio, aveva comprato il suo corpo e ora lui gli apparteneva corpo e anima (che è quello che succede quando uno distrattamente si lascia comprare) e se non acconsentiva alle sue richieste la giustizia e il rancore del Re si sarebbero abbattuti su di lui e sulla sua famiglia. E Arturito ascoltava quello che diceva Ernesto e a tratti alzava la testa dal suo maelström di tequila e cercava gli occhi dell'amico quasi si stesse chiedendo come avesse potuto Ernesto essere così coglione da ficcarsi a testa bassa in una storia del genere. Ed Ernesto San Epifanio, quasi leggesse nei pensieri del suo amico, disse che in un determinato momento della vita tutti i gay del Messico combinavano qualche irreparabile stronzata, e poi disse che non aveva nessuno che lo aiutasse e che se le cose andavano avanti così sarebbe per forza diventato lo schiavo del re dei finocchi del quartiere Guerrero. E allora Arturito, il ragazzino che avevo conosciuto quando aveva diciassette anni, disse: vuoi che ti aiuti a uscire da questo casino?, ed Ernesto San Epifanio disse: questo casino non ha vie di uscita, ma un po' di aiuto mi farebbe comodo. E Arturo: cosa vuoi che faccia, che ammazzi il re dei finocchi? Ed Ernesto San Epifanio: non voglio che ammazzi nessuno, voglio solo che tu mi accompagni e tu gli dica di lasciarmi in pace una volta per tutte. E Arturo: e perché cazzo non glielo dici tu? Ed Ernesto: se vado a dirglielo da solo gli scagnozzi del re dei finocchi mi conceranno per le feste e poi getteranno il mio cadavere ai cani. E Arturo: che teste di cazzo. Ed Ernesto San Epifanio: tu però hai cazzi e controcazzi. E Arturo: non dire cazzate. Ed Ernesto: io la mia cazzata l'ho già fatta, le mie poesie resteranno nel libro dei santi della poesia messicana, se non mi vuoi accompagnare non mi accompagnare. In fondo, hai ragione. Di quale ragione stiamo parlando?, disse Arturo e si stiracchiò come se fino allora avesse dormito. Poi si misero a parlare del potere che esercitava il re dei finocchi del quartiere Guerrero e Arturo domandò su cosa si reggeva quel potere. Sulla paura, disse Ernesto San Epifanio, il Re imponeva il suo potere con la paura. E io cosa devo fare?, disse Arturito. Tu non hai paura, disse Ernesto, tu vieni dal Cile, tutto quello che il Re mi può fare tu l'hai già visto moltiplicato per cento o centomila. Quando Ernesto disse così, io non vidi la faccia di Arturo ma intuii che l'espressione che aveva avuto fino allora, un po' distratta, si alterava in maniera sottile per via di una rughetta quasi impercettibile, nella quale però si concentrava tutta la paura del mondo. E allora Arturito scoppiò a ridere, e poi anche Ernesto scoppiò a ridere, le loro risate cristalline sembravano uccelli polimorfi nello spazio come pieno di cenere che era a quell'ora l'Encrucijada Veracruzana, e poi Arturo si alzò e disse andiamo nel quartiere Guerrero ed Ernesto si alzò e uscì con lui e dopo trenta secondi uscii anch'io a razzo dal bar agonizzante e li seguii a prudente distanza perché sapevo che se mi vedevano non mi avrebbero lasciato andare con loro, perché io ero una donna e una donna non si caccia in queste rogne, perché io avevo già una certa età e una persona di una certa età non ha lo slancio di un ragazzo di vent'anni e perché a quell'ora incerta dell'alba Arturito Belano accettava la sua sorte di bambino delle fogne e usciva a cercare i suoi fantasmi.

Ma io non volevo lasciarlo solo. Né lui né Ernesto San Epifanio. Così gli andai dietro, a prudente distanza, e mentre camminavo cominciai a cercare nella borsa o nel vecchio zainetto di Oaxaca il mio coltello fortunato e stavolta lo trovai senza nessuna difficoltà e lo misi in una tasca della gonna plissettata, una gonna plissettata grigia, con due tasche ai lati, che mi mettevo raramente e che era un regalo di Elena. E in quel momento non pensai alle conseguenze che un gesto del genere poteva avere per me e per gli altri che senza dubbio sarebbero rimasti coinvolti. Pensai a Ernesto, che quella sera indossava una giacca lilla e una camicia verde scuro con il colletto e i polsini rigidi, e pensai alle conseguenze del desiderio. E pensai anche ad Arturo, che di punto in bianco era stato involontariamente promosso al rango di veterano delle guerre fiorite e che, chissà per quali oscuri motivi, accettava le responsabilità che quell'equivoco portava con sé.

E li seguii: li vidi camminare con passo leggero su Bucareli fino a Reforma e poi li vidi attraversare Reforma senza aspettare il verde, tutti e due con i capelli lunghi e scarmigliati perché a quell'ora su Reforma soffia il vento notturno che è rimasto alla sera, e il Paseo si trasforma in un tubo trasparente, in un polmone cuneiforme da cui passano i respiri immaginari della città, e poi cominciammo a camminare per avenida Guerrero, loro un po' più piano di prima, io un po' più depressa, la Guerrero, a quell'ora, sembra più che altro un cimitero, ma non un cimitero del 1974, né un cimitero del 1968, né un cimitero del 1975, ma un cimitero del 2666, un cimitero dimenticato sotto una palpebra morta o mai nata, le acquosità spassionate di un occhio che per dimenticare qualcosa ha finito per dimenticare tutto.

E ormai a quel punto avevamo attraversato avenida Puente de Alvarado e avevamo intravisto le ultime formiche umane che si affannavano protette dall'oscurità in plaza San Fernando, e allora cominciai a sentirmi decisamente nervosa perché stavamo davvero entrando nel regno del re dei finocchi che l'elegante Ernesto (figlio, peraltro, dell'abnegata classe lavoratrice di città del Messico) temeva tanto.

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Come sono stanca, gli dissi. Dopo avermi fissato per alcuni secondi, durante i quali non mi invitò ad entrare, mi domandò chi ero. Sono un'amica di Lilian, dissi, mi chiamo Auxilio Lacouture e lavoro all'università.

A dire il vero, a quei tempi non avevo alcun lavoro all'università. Cioè, oggettivamente ero di nuovo disoccupata. Ma lì, davanti a Coffeen, mi parve più rassicurante dire che lavoravo in facoltà piuttosto che confessargli che non lavoravo da nessuna parte. Rassicurante per chi? Ma per tutti e due, per me, che così mi costruivo una spalla immaginaria a cui appoggiarmi, e per lui, che così non vedeva spuntare nel cuore della notte un doppio un po' più giovane della sua adorata e tremenda mammina. È sconsolante ammetterlo. Lo so. Ma è quello che dissi e poi guardandolo dritto negli occhi aspettai che si facesse da parte.

Allora a Coffeen non restò altra scelta che chiedermi se volevo entrare, come un fidanzato reticente alla fidanzata inattesa. Certo che volevo entrare. E così entrai e vidi quali luci erano sopravvissute in casa di Lilian. Un ingresso piccolo e pieno di pacchetti con le riproduzioni dei disegni del figlio. E poi un corridoio corto e buio che portava in un salotto dove la povertà in cui vivevano l'ex poetessa e l'ex pittore era ormai impossibile da nascondere. Ma a me la povertà non fa schifo. In America latina nessuno (tranne forse i cileni) si vergogna di essere povero. Solo che questa povertà aveva una qualità abissale, come se penetrare in casa di Lilian equivalesse a immergersi nelle profondità di una fossa atlantica. Lì, in un'immobilità che non era tale, l'intruso veniva osservato dai resti carbonizzati e coperti di muschio o plancton di ciò che era stato una vita, una famiglia, una madre e un figlio reali e non inventati o adottati in preda all'eccesso come erano i miei figli, un inventario o un antinventario sottilissimo che si staccava dalle pareti e parlava in un sussurro come uscisse dal buco nero degli amanti di Lilian, della scuola elementare di Carlitos Coffeen Serpas, delle colazioni e delle cene, degli incubi e della luce che di giorno entrava dalle finestre quando Lilian apriva le tende, tende che adesso sembravano infette, tende che io, sempre operosa, avrei immediatamente staccato e lavato a mano nell'acquaio della cucina, ma che non staccai perché non volevo fare niente di brusco, niente che potesse turbare lo sguardo del pittore, uno sguardo che, man mano che passavano i secondi e io restavo lì ferma, si andò calmando, come se Coffeen accettasse provvisoriamente la mia presenza nel suo ultimo baluardo.

Di più non posso dire. Volevo restare e mi feci immobile e muta. Ma i miei occhi memorizzarono tutto: il divano sfondato fino a toccare terra, il tavolinetto basso cosparso di carte e tovaglioli e bicchieri sporchi, i quadri di Coffeen coperti di polvere appesi alle pareti, il corridoio che conduceva come un capriccio temerario e al tempo stesso inesorabile alla camera della madre e alla camera del figlio e alla stanza da bagno, verso la quale mi diressi dopo aver chiesto il permesso e aver aspettato il verdetto che Coffeen dovette prima discutere con se stesso o con Coffeen 2 o forse persino con Coffeen 3, una stanza da bagno che non si differenziava in nulla e per nulla dal salotto, e che io, mentre camminavo nel corridoio buio (tutti i corridoi erano bui in casa di Lilian), immaginavo a torto senza specchio, sbagliando, perché invece in bagno lo specchio c'era, peraltro uno specchio normale sia come grandezza sia come punto dove era appeso, sopra il piccolo lavandino, e nel cui mercurio osservai ostinatamente ancora una volta, dopo aver fatto pipì, la mia faccia magra e i miei capelli biondi alla principe Valiant e il mio sorriso sdentato, perché mentre ero nel bagno della casa di Lilian Serpas, amici miei, un bagno dove sicuramente nessun estraneo metteva piede da un pezzo, mi venne da pensare alla felicità, così di punto in bianco, alla felicità che si poteva nascondere sotto le croste di sudiciume di quella casa, e quando una è felice o sente che la felicità è vicina, allora si guarda allo specchio senza nessuna cautela, anzi, quando una è felice o si sente predestinata all'esperienza della felicità, tende ad abbassare le difese e ad accettare gli specchi, secondo me per curiosità o perché stai bene dentro la tua pelle, come dicevano gli infrancesati di Montevideo, che Dio li conservi almeno un po' in salute, e così mi guardai nello specchio del bagno di Lilian e di Coffeen e vidi Auxilio Lacouture e quello che vidi, amici miei, risvegliò nel mio animo sentimenti opposti, perché da un lato mi sarei messa a ridere, dato che mi vidi bene, con la pelle un po' colorita dall'ora e dall'alcol ma con gli occhi abbastanza svegli (quando tiro tardi gli occhi mi diventano due fessure di salvadanaio dalle quali non entrano le monete tristemente cariche di speranza del risparmio chimerico ma le monete di fuoco di un incendio futuro dove niente ha più senso), brillanti e svegli, due occhi che sembravano fatti apposta per godersi una mostra notturna dell'opera di Coffeen Serpas, e dall'altro lato vidi le mie labbra, poverette, che tremavano impercettibilmente, come se mi dicessero non fare la pazza, Auxilio, che razza di idee ti passano per la testa, tornatene subito nel tuo abbaino, dimenticati Lilian e il suo rampollo infernale, dimentica calle República de El Salvador e dimentica questa casa che si basa sulla non vita, sull'antimateria, sui buchi neri messicani e latinoamericani, su tutto quello che una volta voleva portare alla vita ma che adesso porta solo alla morte.

E allora smisi di guardarmi allo specchio e dai dotti lacrimali mi sfuggirono due o forse tre lacrimoni. Ah, quante notti avrò passato a riflettere sulle lacrime e quanto poco ci ho cavato.

Poi tornai in salotto e Coffeen era ancora lì, in piedi, a guardare nel vuoto, e quando mi sentì uscire dal corridoio (come uscissi da una navicella spaziale) girò la testa e mi guardò, e io capii immediatamente che non stava guardando me, la sua inaspettata visitatrice, ma la vita del mondo esterno, la vita a cui aveva voltato le spalle e che se lo stava mangiando vivo, benché lui fingesse un sovrano disinteresse. E allora bruciai le mie ultime navi, più per ostinazione che per desiderio, e mi sedetti sul divano scassato senza che nessuno mi invitasse a farlo, e ripetei le parole di Lilian, che quella notte non sarebbe tornata, che lui non doveva preoccuparsi, che sarebbe rientrata di buon'ora la mattina dopo, e aggiunsi qualcos'altro che non c'entrava niente, farina del mio sacco, osservazioni banali sulla casa della poetessa e del pittore, un posto incantevole, vicino al centro ma in una strada tranquilla e silenziosa, e intanto non mi parve una cattiva idea renderlo partecipe dell'interesse che la sua opera risvegliava in certe persone, così dissi che i suoi disegni, quelli che conoscevo grazie alla madre, mi sembravano interessanti, che è un aggettivo che non sembra aggettivare e che serve tanto per descrivere un film che ci ha annoiato senza che vogliamo ammetterlo, quanto per indicare lo stato di gravidanza di una donna. Ma interessante è o può anche essere sinonimo di mistero. E io parlavo di mistero. In fondo era di questo che parlavo. Credo che Coffeen lo capisse, perché dopo avermi di nuovo guardato con i suoi occhi da esule prese una sedia (per un istante pensai che me l'avrebbe spaccata in testa) e si sedette al contrario, a cavalcioni, stringendo come un prigioniero minimalista le sbarre dello schienale.

Ricordo che a partire da quel momento, come se avessi sentito in lontananza il colpo di fucile che apre la stagione di caccia, parlai di tutto quello che mi passò per la testa. Finché non rimasi senza parole. A tratti Coffeen sembrava lì lì per addormentarsi e a tratti le sue nocche si tendevano come se stessero per esplodere o come se lo schienale della sedia che lo separava da me stesse per saltare in aria, polverizzato, disintegrato. Ma a un certo punto, come ho detto, esaurii le parole.

Credo che non mancasse molto alle prime luci dell'alba.

Allora Coffeen parlò. Mi chiese se conoscevo la storia di Erigone. Erigone? No, non la conosco, ma il nome mi suona, mentii, col timore di fare una figuraccia. Per un secondo pensai, sconsolata, che mi avrebbe parlato di un vecchio amore. Abbiamo tutti un vecchio amore di cui parlare quando non c'è altro da dire e sta albeggiando. Però venne fuori che Erigone non era un vecchio amore di Coffeen ma una figura della mitologia greca, la figlia di Egisto e Clitemnestra. Questa storia sì che la so. Sì che la sapevo. Agamennone va a Troia e Clitemnestra diventa l'amante di Egisto. Quando Agamennone ritorna da Troia Egisto e Clitemnestra lo uccidono e poi si sposano. I figli di Agamennone e Clitemnestra, Elettra e Oreste, decidono di vendicare il padre e di riprendersi il regno. Questo li porta a uccidere Egisto e la loro stessa madre. L'orrore. Io arrivavo fin lì. Coffeen Serpas arrivava più lontano. Parlò della figlia di Clitemnestra e di Egisto, Erigone, sorellastra di Oreste, e disse che era la donna più bella di tutta la Grecia, non a caso sua madre era sorella della bella Elena. Parlò della vendetta di Oreste. Un'ecatombe spirituale, disse. Sai cosa significa ecatombe? Io identificavo la parola con una guerra nucleare e preferii non dire nulla. Ma Coffeen insisté. Un disastro, dissi io, una catastrofe. No, disse Coffeen, un'ecatombe era il sacrificio simultaneo di cento buoi. Viene dal greco hekatón, che significa cento, e da boûs, che significa bove. Anche se nell'antichità si registrano ecatombi di cinquecento buoi. Te lo immagini?, disse. Sì, io mi posso immaginare qualunque cosa, risposi. Cento buoi sacrificati, cinquecento buoi sacrificati, i miasmi del sangue si dovevano sentire a distanza. Ai partecipanti veniva la nausea in mezzo a tanta morte. Sì, me l'immagino, dissi. Be', la vendetta di Oreste è qualcosa di simile, disse Coffeen, il terrore del matricida, disse, la vergogna e il panico, l'irreparabilità del matricidio, disse. E in mezzo a quel terrore c'è Erigone, la figlia adolescente di Clitemnestra ed Egisto, bellissima, immacolata, che osserva l'intellettuale Elettra e l'eroe eponimo Oreste.

L'intellettuale Elettra, l'eroe eponimo Oreste? Per un momento pensai che Coffeen mi stesse prendendo in giro.

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