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| << | < | > | >> |IndiceConsigli di un discepolo di Jim Morrison a un fanatico di Joyce I Ana, la sua strategia 11 II Turisti veloci 16 III I colleghi 21 IV Miti da tasca posteriore 24 V Salve, ragazzi, rieccomi qui, sono Ángel Ros 28 VI Il ragazzino di Sant Boi 33 VII Le riprese 36 VIII La signora Ricardi 47 IX Un incontro con la poesia catalana 53 X Ana, la sua sessualità 68 XI Le prospettive 73 XII «Cant de Dèdalus anunciant fi» 77 XIII Cause perse 83 XIV La luna 89 XV Le Ramblas sono nostre 95 XVI Joyce a Barcellona 108 XVII Horses latitudes 116 XVIII Con Borelli 127 XIX Ana, il suo amore 135 XX Le esplosioni dell'amore 142 XXI Il guanto idraulico 154 XXII Brutte copie di una lettera incompiuta 158 XXIII Una cartolina 163 XXIV À suivre 165 APPENDICE Manoscritto trovato in una pallottola: diario di Ángel Ros 171 Diario da bar 183 La scrittura a quattro mani di A. G. Porta 197 |
| << | < | > | >> |Pagina 11Tutto era cominciato un paio di anni prima. Ci eravamo conosciuti in un locale, una domenica sera. In quel periodo io suonavo il basso in un complesso di musica tropicale e guadagnavo qualche soldo facendo spettacoli in giro. Credo che lei lavorasse già con la vecchia, anche se non posso assicurarlo. Uno del gruppo, un altro sudamericano, ci presentò e di lì a una settimana eravamo installati nel piccolo appartamento che allora avevo a Horta. Per qualche tempo fu una brava donna di casa - cosa di cui le sarò grato per tutta la vita - ma ben presto ce ne dimenticammo. Mi abituò, malgrado la mia gastrite, a mangiare cibi piccanti che in seguito io stesso preparavo. Divenne necessaria, e quando mi licenziarono dall'unico lavoro serio e duraturo che abbia avuto in vita mia - la PRACCSA, buona per tutto, nostra principale fonte di sostentamento - mi resi conto che ero innamorato e che, al di là di ogni pronostico, pure lei sembrava provare la stessa cosa o una simile per me. A partire da allora preferirei credere che le scene siano confuse, musicali e non letterarie, anche se lo sa Dio come. Rimasi senza lavoro, Ana rimase senza lavoro o forse in quei giorni cominciò a lavorare con la vecchia, traslocammo un paio di volte, ci fu un aborto seguito da una breve separazione, ci rifugiammo in una pensione familiare dove ci raggiunse sua madre appena arrivata dall'America, la mia vocazione di romanziere fiorì ancora una volta come la malerba. In quel periodo io piangevo tutte le notti, senza drammatizzare e senza motivo. Passavo quasi tutta la giornata nella pensione giocando a canasta con sua madre o andavo a passeggiare nei dintorni dello zoo. A volte cercavo lavoro, non troppo sul serio, anche se c'era richiesta solo di commessi e io non ne ero all'altezza. Quasi senza volerlo, spinto dalle costanti assenze di Ana, forse dal non avere niente da fare, ripresi una storia, racconto lungo o romanzo breve, sempre incompiuta: Cant de Dèdalus anunciant fi. Devo avvertire, visto che sarà una costante in questa storia, che ci fu un tempo in cui volevo essere uno scrittore, in cui mi rinchiudevo nell'unica stanza tranquilla della casa dei miei genitori o andavo nei bar all'aperto delle Ramblas a pasticciare fogli dicendomi che ero più giovane di tizio quando tizio aveva cominciato e che non dovevo disperare, che solo resistendo ce l'avrei fatta, come se fossero stati quindici round o qualcosa di simile. Devo pure avvertire che adesso ho ventinove anni e che a ventisei ero già un veterano della resistenza e della pazienza, con diversi romanzi scritti a metà, diversi libri di poesie pubblicati a metà e un paio di cortometraggi in super 8 diretti e prodotti da me.
Dicevo, a chiunque volesse ascoltarmi, che non mi
aspettavo niente, il che era un modo di nascondere
che mi aspettavo quasi tutto, che a sua volta era un vivere nell'errore e nel
delitto. Forse per questo offrii così poca resistenza quando Ana disse che per
prima cosa avremmo ammazzato la vecchia.
Verso le tre del pomeriggio arrivammo in un ristorante. Parcheggiammo la macchina - una Gs rubata che per il momento funzionava alla perfezione - in modo che non fosse visibile dalla strada e una volta dentro ci sistemammo vicino al televisore. Per quale motivo eravamo li? Lo ignoro. Vedemmo le immagini dei rapinatori della banca che uscivano con le armi puntate contro gli ostaggi. Poi un tizio grasso e uno magro in maniche di camicia posarono stretti l'uno all'altro per la posterità mentre una voce fuori campo spiegava i dispositivi di sicurezza della polizia. Nell'ultima ripresa si vedeva la facciata della banca, stranamente scontornata e grigia, come se piovesse, ma non nella strada bensì all'interno della camera che filmava. È triste, dissi a Ana. Sembrò non capirmi. Poi le notizie consuete, petrolio, Mercato Comune, Nicaragua, sport. In un momento di cui non mi resi conto mi mise in mano un paio di biodramine. Andai in bagno senza guardarla. Credo che non parlassimo molto. La maggior parte del tempo io fingevo di capirla - anche se fingere non è la parola, diciamo che annuivo col capo - e così la comunicazione era perfetta. Quando tornai mi domandò se stavo bene. Le dissi di sì, stavo benissimo. Ricordo che prima, quando leggeva ogni giorno quello che scrivevo, mi domandava la stessa cosa. Suppongo che scherzasse, ma io avevo abbastanza innocenza per risponderle, quasi sempre semiaddormentato perché leggeva a tarda ora della notte, in quella pensione sinistra. Fu in quel periodo che cominciò a frequentare gente strana, tipi dall'aspetto povero ma con le tasche piene di banconote, studenti di Belle Arti che preferivano disegnare fumetti, radicali senza un soldo ma che viaggiavano in tutta Europa; quando tornava, vantandosi con allusioni misteriose, mi correggeva quegli errori in cui incorrevo per mancanza di informazione. Il personaggio del mio romanzo era un rapinatore di banche alleato con un gruppo terrorista genere RAF. Ho già detto che non parlavamo molto, ma notavo che la cosa non le dispiaceva. Ci furono persino notti in cui arrivò a entusiasmarsi con le avventure del protagonista, il quale sia detto di sfuggita finì per trasformarsi in una copia di lei stessa. Mangiammo come non facevamo da molto tempo, avevamo soldi, i notiziari del pomeriggio non parlavano ancora di noi e centravano le loro informazioni sui due rapinatori del Banco Hispano Americano, sulla violenza nelle strade, sull'insicurezza urbana e tutte quelle cose che da tempo ci scivolavano addosso. | << | < | > | >> |Pagina 24Ho trovato le fotografie di Violeta Parra e di Pavlovsky mentre cercavo il pacchetto di sigarette. Me ne sono accesa una e ho chiuso la borsa. Avevo visto le foto in altre circostanze e solo una volta le avevo domandato perché le conservava, ma lei non aveva mai fatto commenti. Significavano sicuramente qualcosa che non desiderava esternare. Guidava a una velocità prudente e guardò un paio di volte dalla mia parte, come rimproverandomi qualcosa, ma senza chiedermi di rimettere le foto nella borsa. Sembravamo una coppia tranquilla, che rientrava dal fine settimana a Castelldefels, solo che era martedì e non venivamo da Castelldefels. In una delle fotografie Violeta Parra guardava di fronte, con gli occhi semiabbagliati. Era in un interno, seduta su una seggiola, con i capelli lunghi e spettinati, la faccia bianchissima che spiccava sulla tonalità generale della foto, scura, piena di ombre e contorni. Dietro di lei, sulla sinistra, si indovinava una chitarra appoggiata contro la parete, e lì vicino, un uomo a capo chino che osservava qualcosa tra le mani. La seconda fotografia era un ritaglio di giornale piuttosto stropicciato. Ángel Pavlovsky, su uno sgabello al centro della scena, fumava una sigaretta con un bocchino lunghissimo. Le sue labbra distese in un ampio e silenzioso sorriso, il vestito con lustrini scollato quanto stretto e i riflettori sullo sfondo formavano un tutto diaccio, come se la scena si svolgesse in un'Antartide immaginaria. Entrambe le foto erano gelide e ostili. Gli edifici di Barcellona cominciarono ad ammucchiarsi a sinistra della macchina. Pensai che ognuno era padrone di scegliere i santi che voleva. Anch'io avevo avuto il mio, sebbene la sua freddezza non fosse fotografica ma verbale. Devo aggiungere che uso freddezza come sinonimo di bruttezza, sebbene quest'aggettivo non necessariamente sia antonimo di bellezza. Diciamo che mi offre un pizzico di disarmonia. Il mio eroe si chiamava Dedalus ed era un rapinatore di banche. L'importante, naturalmente, non erano le rapine né la sua vita clandestina, ma che fosse un esperto di Joyce. Sembrerà strano che un uomo violento, un rapinatore di banche, sia nel contempo uno studioso degno di appartenere almeno alla cerchia degli eruditi di Joyce in Spagna, ma così è la vita, e inoltre di cosa può vivere in questo paese uno studioso del maestro, se oltre ad avere orgoglio è un autodidatta? Forse gli rimarrebbe la possibilità di lavorare in un ufficio, ma Dedalus aveva già superato i trent'anni ed era stufo di tutto. Il joyceanismo del personaggio, che per un certo tempo esitai se non sarebbe stato più opportuno chiamare Telemaco, mascherava la parte noiosa del romanzo, il gioco che il mio dilettantismo avrebbe inevitabilmente reso pedante. In superficie rimaneva un uomo che aveva voluto diventare uno scrittore o un saggista specializzato nel maestro ma cui le cose non si erano presentate secondo i suoi desideri, e tutto era andato di male in peggio. Forse già lì, scrivendo in quella pensione con la madre di Ana che chiacchierava in sordina con la padrona, cominciai a intuire quella che sarebbe stata la mia posizione attuale. Gli ultimi sogni giovanili si erano trasformati in incubi, e gli incubi, per colmo di sfortuna, si rivelarono vuoti. Il futuro? Meraviglioso! Lavorare e lavorare per costruire non so quale paese, stupidaggine come quelle in cui credono solo tedeschi e belgi, o belgi e danesi. Ancora quarant'anni e poi ritirarsi con una modica pensione dello Stato; questo nel caso che avessimo prima trovato lavoro, possibilità sempre più remota. Osservai il naso di Pavlovsky, un'acuta macchia bianca sospesa sul sorriso. Quando pensavo ai sogni giovanili, a cosa pensavo? Bazooka, zuffe tra bande rivali, vetrine bombardate, madrileni che posavano il collo sotto la ghigliottina, antenne televisive che cadevano elettrificando i boia, infine una macchia bianca. Pace. Il triste sorriso di Dedalus. Domandai a Ana se aveva qualche mito. Rispose di buonumore: sì, aveva qualche mito come tutti. Le dissi che mi sembrava un segno di debolezza. Sono una persona semplice, disse. Semplice e più che semplice, dissi io. Succhiai a fondo la fine della sigaretta, abbassai il vetro del finestrino e buttai il mozzicone, chiusi di nuovo, riposi le foto nella borsa, me la buttai alle spalle e guardai davanti a me con attenzione. | << | < | > | >> |Pagina 36Ci rinchiudemmo di nuovo per un paio di giorni guardando dalla finestra il traffico di plaza Lesseps. Ana si era adagiata in una quiete perfetta; io uscivo a fare la spesa, mi studiavo il viso nello specchio del bagno. Disegnavo cuori sulle finestre. Credo che lessi allora un articolo di Günther Grass sulla «Nueva Estafeta», intitolato «La corsa contro le utopie» o qualcosa di simile. Più di una volta mi addormentai per terra, appoggiato contro la nuda parete. In genere, i miei sogni erano tranquilli. Devo precisare, però, che rinchiuso lì dentro mi annoiavo considerevolmente. Ho già detto in precedenza cosa facevamo, ma tenterò di scendere nei dettagli. Mi mettevo a leggere qualsiasi cosa, mentre Ana dormiva dopo avere inghiottito la sua colazione, finché non mi stufavo della lettura e mi alzavo in piedi senza sapere cosa fare. Andavo avanti e indietro per la stanza semivuota, contavo le presenze nel frigorifero e nella dispensa, posavo la mano sulla maniglia della porta dietro cui c'era Ana, ma mi astenevo dall'aprire, tornavo nell'angolo dove avevo lasciato i libri e li accarezzavo sul dorso, come cani, mentre pensavo o mugolavo merda, merda. È probabile che la mia testa ripassasse per ore momenti quasi completamente dimenticati della mia vita. Cominciavo con mio padre, che vedevo pescare sul frangiflutti, lontano dagli altri, arrampicato su uno scoglio con un'espressione concentrata e tranquilla. Il suo cesto rimaneva quasi sempre vuoto, e andandosene via le sue labbra formavano un sorriso soddisfatto che osservato con maggiore attenzione si rivelava di disperazione infantile e di stanchezza. La domenica mia madre preparava la crema catalana per dolce e arrivavano sempre dei parenti. Si parlava del Barça - le opinioni si dividevano fra quelli secondo cui il Madrid si comprava lo scudetto e quelli che dicevano, come mio padre: «Al Barça capita come a quelle famiglie che non arrivano mai alla fine del mese. Ce ne sono altre che con meno se la cavano meglio» - o della guerra. C'era stato un tempo, naturalmente!, in cui avevo voluto scrivere un romanzo e lì parlare di mio padre. Raccontare la faccenda dei passaporti di aviatori caduti in Francia, il passaggio di frontiera di uomini ricercati dalla polizia, una Barcellona di tipi duri e ragazze bionde. Poi, quando mi ero arreso all'evidenza che queste cose erano frequenti nella narrativa spagnola, avevo smesso, più sollevato che dispiaciuto. Era di mio padre che volevo parlare e non di profughi e passaporti falsi. Se cominciavo a ricordare questo genere di cose andavo immancabilmente a finire su noi due. Pensavo sempre che di lì a poco saremmo stati noi a ritrovarci nei guai. Le parole pena di morte si trasformavano nella parola ghigliottina. La quale tintinnava abbastanza perché argomentassi che in Spagna non esisteva la ghigliottina bensì la garrota. Poi venivano le parole abolizione, prato, spiaggia, pino, peto, parabellum, e di nuovo si accendeva la piccola insegna luminosa con la ghigliottina a caratteri di stampa. Celeste. Giallo. Colori di pace. È vero che pensavo pure a Dedalus, al Dedalus degradato e senza vie d'uscita. Lo vedevo passare il tempo in una bettola, bere molto, girare per bar, mangiare in ristoranti di media categoria, entrare in un cinema, annullarsi, lasciarsi cadere sul letto felice di non avere niente da fare o spogliare una puttana - quasi sempre la stessa sebbene certe volte, rarissime, cambiasse donna e la sua felicità si ritrovasse accresciuta da una lieve sensazione di libertà e di marciume. Dapprima la portava in un buon ristorante da dove uscivano semiubriachi per prendersi l'assenzio al Marsella. Di lì andavano a spasso senza meta fissa sino a rifugiarsi in un albergo o a casa di lei. Tentai, ignoro se con successo, di far sì che la donna non avesse niente di speciale tranne la sua giovinezza e il suo prezzo. Mi piaceva vedere che si spogliavano reciprocamente, mescolati i gesti professionali di lei con i gesti da padrone che lui esibiva. Il finale, la disperazione, era il letto ma prima li lanciavo per calle Hospital, gli facevo comprare cerini da un vecchio sdentato, vagamente marocchino, li facevo camminare fino alle Ramblas, lui con un impermeabile, le mani in tasca, una sigaretta appesa al labbro. Poi lo ritraevo contro una vetrina, con i capelli biancastri, un po' lunghi, con la forfora, un'aria interessante. E al ristorante: facendo lo scrittore davanti a un pubblico perplesso, cazzo, perché questa era l'unica cosa che gli rimaneva. Per il finale, come ho detto, mi tenevo la parte erotica, che era come un'operazione di appendicite fallita. Puttane sudamericane? Dedalus sarebbe mai andato a letto con una puttana sudamericana? C'era pure una sequenza sempre soggetta a cambiamenti e a ritocchi. Essenzialmente, lo si vedeva arrivare davanti a una banca lungo una via poco trafficata; in una mano reggeva la borsa in cui avrebbe poi riposto i soldi, e l'altra, in tasca, palpava il ferro del revolver; quasi parallela a lui, un po' indietro, una 124 bianca si muoveva a giro di ruota, come in un sogno; raggiunta la scalinata di malta e ghiaia della banca (perché proprio una scalinata?), l'automobile si fermava col motore acceso e Dedalus saliva con un sorriso appena accennato sulla faccia, come sottraendosi alla vigilanza di chi occupava la vettura. Ogni volta che leggevo questa scena sentivo un nervosismo speciale, un solletichio e un pulsare del sangue simile a quello che provavo adesso guardando Ana dormire dopo la colazione o quando appoggiavo la fronte alla sua porta senza osar entrare. | << | < | > | >> |Pagina 77SINOPSI
Dedalus da uomo maturo. Autodidatta. Stanchezza
e abbandono della letteratura. Sopravvivenza di un
unico autore: Joyce. Pretesa di trasformare alcuni momenti della sua vita in
copia di quella del maestro. Separazione dalla moglie e dal figlio. Rapporto
settimanale con una prostituta. Il duro come erudito. Rapporto
con gruppo terrorista (suo inquadramento all'interno
del gruppo). Lavoro nell'ufficio che abbandonerà quando
in seguito si vedrà pedinato dalla polizia. Problema
esistenziale. Azioni pratiche di rapina. La nuova vita.
Discussioni politiche col gruppo armato (divergenze)
che lo utilizza segretamente per depistare la polizia.
Bisogno di risparmio per procurarsi un rifugio vicino
e confortevole, l'incubo. La solitudine. Il problema
edipico nelle lettere che invia alla madre. L'alcol e le
droghe. I suoi movimenti per la città. Indagini della
polizia. Sorveglianza della prostituta. Fuga in Francia.
Viaggio d'amore. Abbandono a Parigi. Soggiorno. Passeggiate. Discussione col
capo della banda. Divieto di
tornare nella penisola da parte dei suoi compagni. Fuga
sbalorditiva dopo un attentato. Nessuno desidera
correre il rischio della sua cattura. Ritorno a Barcellona.
Si sa ricercato. Isolamento in casa di vecchie amicizie.
Errore. Sparatoria e morte.
DATI PER UNA BIOGRAFIA DI DEDALUS
Nascita a Barcellona / A tre anni la famiglia trasferisce
il suo domicilio in Brasile / Ricordi della partenza /
Immagini come flash senza sonoro / Primavera, padre,
madre, fratello, valigie / Scalo alle Canarie / La madre
ammalata / Ricerca notturna di farmaci nel porto e
suoi dintorni / Paura che la nave salpi senza di loro /
Le luci della città / Stato di San Paolo / Diversi domicili
in nuovi abitati / Cofondatori di questi con altre
famiglie / Idea tropicale / Villa Santo Eduardo / Villa
Rica / Villa Formosa / Vita con i negri / Casa tipo:
due stanze, un letto per quattro / Interramento di
escrementi nel bosco / Caldo / Inondazioni / Negri a
cavallo e con pistola / Padre venditore di lucchetti /
Operaio in imprese edili / Rattoppi / Grossista di prodotti di vasto consumo
/ Dodici ore di lavoro / Inondazioni: un negro ubriaco che annega nel fiume / La
madre gli insegna a leggere / Giochi nel fango / La foresta: serpenti e altri
animali / La famiglia decide di
tornare a Barcellona / Crede di scoprire un sentimento
amoroso quando durante il viaggio di ritorno, prima
di imbarcarsi, scopre una ragazzina bionda e bianca /
Si stabilisce nel quartiere di Horta / Ingresso in una
scuola pubblica del quartiere / Stufa a petrolio: intossicazione / Film
all'aperto di Charlot, del Grassone e
del Magrolino ecc. / Confezione di tappeti di fiori per
le processioni / Figura fisica sottile e alta / Assenza di
amici / Ingresso in una scuola di avviamento professionale / Vive al Carmelo e a
Mirasol / Ritorno a Horta / A tredici anni ha un attacco di appendicite
considerato grave ed è a rischio di morte / A quattordici anni
scappa di casa / Motivo: suo padre vuole che diventi
progettista, lui vuole diventare uno scrittore / Arriva
al monastero di Montserrat, suo padre va a cercarlo /
Epoca di libertà / Finisce gli studi da progettista / Si
mette a studiare alternamente scultura e pittura / Abbandona tali studi / I suoi
genitori si convertono alla religione protestante, setta dei Battisti / Barrio
Chino, hippies, droghe, musica / Primo rapporto sessuale a
diciassette anni con una prostituta / Qualche mese
dopo con una ragazza dell'ufficio.
LETTURE
Arriva alla letteratura attraverso la musica e i movimenti di protesta sorti
negli Stati Uniti mediante
cantanti e poeti. Leggendo Morrison, Dylan, Ginsberg,
Kerouac o Jones impara altri nomi a cui interessarsi.
Così arriva a Pound, Cummings, Gertrude Stein e altri,
intessendo un'immensa rete di nomi. Presiede il consesso:
James Joyce. Il suo interesse per la letteratura catalana
è cosa a parte; gli piacciono i versi di Ferrater, non disdegna Pedrolo, anche
se preferisce i barcellonesi che
scrivono in castigliano. Gli va meglio con i francesi;
scopre Georges Perec e J. M. G. Le Clézio. In una lettera a un amico cita pure
come autore con grande influenza su di lui Néstor Sánchez: il perduto, lo
scomparso non si sa se per cause politiche o per sua stessa volontà;
infine, il musicista che dà morte pietosa allo scrittore.
NOTE - Critica letteraria J. Joyce. Varie opere. - Amanti del rognone di maiale in quel giorno (giovedì 16 giugno 1904, «Bloomsday»). - Degrado parallelo Ulisse e Dedalus. - Orecchio musicale. - Prima parte. Fino alla fuga in Francia. - Seconda parte. Parigi. - Terza parte. Il ritorno: Dedalus torna a casa. - Cura del vestiario. - Periodi dell'anno per cui passa la narrazione. - La questione dei barbiturici e delle biodramine. - Incontro con vecchi compagni letterari. - Prima edizione spagnola di Ulisse. Anno...? - Viaggio in Francia. Amore in treno: Giacomo Joyce, bourjoyce. - L'Odissea. Vengono da quest'opera capitoli come Telemaco, Penelope, Cariddi e Scilla? Non incorrere in errori per tale motivo. - Parigi. Luoghi in cui abitò Joyce. Ristoranti, Les Trianons, Shakespeare and Company - Left Bank Facing Notre-Dame - (anche se questa non è la stessa. Quella originale era al numero 8 di rue Dupuytren, dapprima, e poi, estate del 1921, al numero 12 di rue de l'Odéon). - Beatles: nostalgia. - Partecipe alla rapina a una banca. Preparazione. Assalto. Fuga. Spartizione del bottino. - Allacciare capitoli confusi in un ultimo dove tutto sia chiaro. - Secondo capitolo di Parigi: Libération, 19 ottobre 1977. Baader. - Alcune armi: Pistola Manlicher 7.63, 880 grammi energia: 25.8 chilogrammetri Pistola Parabellum 9 mm., 880 grammi energia: 26 chilogrammetri Revolver Nagant (modello russo), 785 grammi energia: 26 chilogrammetri Revolver Smith & Wesson del '38 (9.3 mm.), 900 grammi. - Su come «Hem» fece entrare Ulisse negli Stati Uniti. - Frontespizio stampato in bleu grec. - Progetto di Eisenstein di un film da Ulisse. - Una fotografia di Bloom. «Il sig. Bloom ha molto di Bouvard e Pécuchet». - Robert McAlmon... Contact Editions. - Monsieur Darantière di Dijon. - Due dischi con la voce di Joyce. - Joyce al piano. - I dossier a casa di Paul Léon. - San Tommaso da qui no.
- «Je crains que beaucoup d'écrivains n'aient pas approuvé mon désir de ne
publier que du Joyce, mais ils ne comprenaient sans doute pas que je me trouvais
déjà submergée avec mon unique auteur».
Sylvia Beach a Shakespeare and Company.
ALCUNI ELEMENTI PER UNA CRITICA DI JOYCE San Tommaso. L'educazione gesuita. Linguaggio. L'esattezza nella letteratura. Ingegnere di parole. Indifferenziazione fra letteratura e realtà. Mitificazione del volgare e del quotidiano. Il clero irlandese. Irlanda: principale esportatrice di preti. Nazionalismo. Letteratura cruda. Essere diversi. L'esclusivo modo di pensare: «È stato splendido, ma sei fuori di testa». La provocazione. Simultaneità del buono, dell'eroico, del dolce, del pulito e dell'onesto, col triste, col violento, con lo stupido e col vigliacco. Autoesilio. Autocompassione, «masochismo». L'egoismo. Nora Barnacle: la donna come supporto ed ente unificatore dell'opera dinanzi alla possibile dispersione dell'autore tra l'infinità di elementi. Gli occhi: una speciale visione dell'intorno. Capacità. Trasformazione della scrittura. La questione della posterità. Infelicità e instabilità. Il bere. Pound: la salvezza dell'erudito errante. Il passato familiare. L'uomo reale e il genio. I classici in... | << | < | > | >> |Pagina 154Qualche isolato più avanti dissi al taxista di scendere. È triste, gli dissi, ma lei deve scendere, non mi costringa a ricorrere alla violenza. L'uomo mi guardò un momento e poi obbedì senza battere ciglio. Chiunque avrebbe detto che facevo progressi. Partii con dolcezza, guardando le immagini che si appiccicavano allo specchietto retrovisore. In lontananza cominciarono a risuonare le sirene della polizia.
D'improvviso mi resi conto che ero solo e che ero in
fuga. Entrambe le certezze erano la stessa, in realtà.
O forse no, non importava. Era una bella giornata,
triste, come se l'estate resistesse e rifiutasse di andarsene.
A me succede lo stesso, pensai, ora non ho voglia di
andarmene. Ero comprensibilmente di cattivo gusto.
Ho resistito di più, ma chi erano quei tipi? Sbirri di
sicuro no. Non l'avrei mai saputo, la stampa passò
sotto silenzio i particolari della sparatoria e ben presto
avrebbero dimenticato tutto quanto concerneva quel
mattino, meno che me, ovvio. Povero scemo. Ebbi
voglia di mettermi gli occhiali da sole, un berrettino
rosso, fumarmi uno spinello. Che tristezza!, la Diagonal
così chiara e io incoronato e solo che mi avvicinavo, a
dove? A Parigi, se ho ancora un po' di coraggio. Dovrei
abbandonare la macchina quanto prima tanto meglio,
e prendere la metropolitana. Poi lasciare tutto fra le
mani della provvidenza. È una bella città, Barcellona.
Dapprima uscire dalla Diagonal, poi parcheggiare discretamente, che fermata
della metropolitana c'era lì
vicino? Mi sentivo nervoso, presto avrei avuto un
crollo, come se la pastiglia che avevo preso prima del
colpo avesse smesso di funzionare. Semaforo rosso,
mi accesi una sigaretta, le sirene si sentivano appena,
Ulisse è di nuovo fuggito, forse accorrono per altri
furti, altri delitti passionali, ma avevo bisogno di tenere
le orecchie occupate se non volevo inventare voci, sceneggiati interiori. Accesi
la radio. Era una giornata
grigia e chiara. Le cose procedevano su binari. Che
fortuna saper guidare! Lo faccio bene, con una sola
mano, l'altra riposa in un angolo di novanta gradi sul
finestrino, bella stravaganza, le nuvole si riflettono
nello specchietto retrovisore, anche le altre macchine
hanno la radio accesa, ma io non ascolto le notizie.
Fra qualche ora parleranno di noi. Foto di Ana in decubito dorsale, decubito
supino, legata a una sedia nell'inferno. Povera ragazza. Aveva solo ventidue
anni e probabilmente è morta senza neppure avere il tempo
di recitare il primo paragrafo di Ulisse. Immaginai i
suoi funerali, con ogni probabilità nella fossa comune,
anche se forse il suo consolato le avrebbe affittato un
loculo poco caro per un paio di anni. Poi, irrimediabilmente, la fossa comune,
lontano da chi ha odiato, invidiato, lontano da chi l'ha fatta lavorare e
soffrire.
Era una giornata grigia, eppure quando l'avessero portata al cimitero, ammesso
che un giorno ve la portassero,
sarebbe stata davvero rannuvolata e gli sbirri e i becchini
e l'addetto, culturale?, militare?, della sua ambasciata
avrebbero forse intonato un'avemaria, mai e poi mai
un padrenostro, per la dubbia salvezza della sua anima.
Povera Ana Ríos, la vidi dentro la bara, in un altro eccesso lirico, con quel
buco che le attraversava la testa,
adesso tondo e netto, con bordi politi. Pallida come
me, il suo vecchio compagno che non le fu mai infedele
e che in un postremo omaggio alla sua memoria rispettava i rossi, persino gli
ambra, mentre Jim Morrison
occupava la radio con una delle sue migliori canzoni.
Così è la vita, mugolai in catalano ma non so per quale
fenomeno uditivo lo sentii in castigliano. Bisogna lavorare. Bisogna adattarsi.
Jim Morrison, per esempio, al Père-Lachaise. Canticchiai
Riders on the Storm.
Pensai che se riuscivo a sbrogliarmela da questo casino mi
sarei comprato un giubbotto di pelle e una Kawasaki,
nelle valigie avevo denaro anche per comprarmi un casco, ma non volevo un casco.
E se riuscivo a lasciarmi alle spalle i Pirenei e passavo per Parigi, avrei
portato rose a Morrison. Sarebbe stato molto fine. Inoltre: è
la cosa migliore per un genio morto.
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