Autore Roberto Bolaņo
Titolo Notturno cileno
EdizioneAdelphi, Milano, 2016, Fabula 298 , pag. 126, cop.fle., dim. 14x22x1 cm , Isbn 978-88-459-3056-0
OriginaleNocturno de Chile [2000]
TraduttoreIlide Carmignani
LettoreRenato di Stefano, 2016
Classe narrativa cilena












 

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Pagina 11

Ora muoio, ma ho ancora molte cose da dire. Ero in pace con me stesso. Muto e in pace. Ma all'improvviso le cose sono emerse. La colpa è di quel giovane invecchiato. Io ero in pace. Ora non sono più in pace. Bisogna chiarire certi punti. Quindi mi appoggerò su un gomito e solleverò la testa, la mia nobile testa tremante, e cercherò nell'angolo dei ricordi quelle azioni che mi giustificano e perciò smentiscono le infamie che il giovane invecchiato ha sparso in giro a mio discredito in una sola notte fulminea. A mio presunto discredito. Bisogna essere responsabili. Č tutta la vita che lo dico. Abbiamo l'obbligo morale di essere responsabili delle nostre azioni e anche delle nostre parole e perfino dei nostri silenzi, sì, dei nostri silenzi, perché anche i silenzi salgono al cielo e Dio li sente e solo Dio li comprende e giudica, per cui molta attenzione ai silenzi. Io sono responsabile di tutto. I miei silenzi sono immacolati. Che sia chiaro. Ma soprattutto che sia chiaro a Dio. Il resto è trascurabile. Dio no. Non so di cosa sto parlando. [...]

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Pagina 66

[...] Domandai in cosa consisteva il lavoro che volevano offrirmi. Più che un lavoro è una borsa di studio, disse il signor Oido. Noi ci occupiamo di import-export, ma trattiamo anche altri settori, disse il signor Aruap. Adesso in particolare stiamo lavorando per l'Istituto di Studi dell'Arcivescovado. Hanno un problema e noi cerchiamo la persona adatta a risolvere il problema, disse il signor Oido. Hanno bisogno di qualcuno che realizzi una ricerca e noi gli troviamo la persona più indicata. E io sarei la persona più indicata?, domandai. Nessuno ha tanti requisiti come lei, padre, disse il signor Oido. Mi piacerebbe che mi spiegaste di cosa si tratta, dissi. Il signor Aruap mi guardò stupito. Prima che protestasse gli dissi che mi sarebbe piaciuto riascoltare la proposta, ma stavolta dalla bocca del signor Oido. Lui non si fece pregare. L'Istituto di Studi dell'Arcivescovado voleva che qualcuno svolgesse un'indagine sullo stato di conservazione delle chiese. In Cile, come era da aspettarsi, nessuno sapeva nulla dell'argomento. In Europa, al contrario, le indagini erano molto avanzate e in certi casi si parlava ormai di soluzioni definitive per contrastare il deterioramento delle case del Signore. Il mio lavoro sarebbe consistito nell'andare a visitare le chiese modello nella tutela, analizzare i diversi metodi, scrivere un rapporto e tornare. Quanto sarebbe durato? Potevo passare un anno a visitare diversi paesi europei. Se dopo un anno il mio lavoro non si era ancora concluso, il termine sarebbe stato posticipato a un anno e mezzo. Ogni mese mi avrebbero pagato tutto lo stipendio più un extra per le spese di viaggio in Europa. Potevo dormire in albergo o nelle case parrocchiali sparse in lungo e in largo per tutto il Vecchio Continente. Naturalmente, quel lavoro sembrava pensato su misura per me. Accettai. Nei giorni seguenti vidi spesso il signor Oido e il signor Aruap, che si occuparono dei documenti necessari al mio soggiorno in Europa. Non posso dire, tuttavia, di aver stretto legami con loro. Erano efficienti, di questo mi resi immediatamente conto, ma mancavano di sottigliezza. Anche di letteratura non sapevano nulla, eccetto due poesie del primo Neruda, che spesso recitavano a memoria. Ma sapevano risolvere problemi di ordine amministrativo che a me sembravano insolubili e riuscirono a spianarmi la strada per la mia nuova destinazione. Man mano che si avvicinava il giorno della partenza mi innervosivo sempre più. Mi concessi il tempo necessario per congedarmi dagli amici, che non potevano credere a tanta fortuna. Mi misi d'accordo con il giornale per continuare a spedire dall'Europa recensioni e articoli letterari. Una mattina mi congedai dalla mia anziana madre e presi il treno per Valparaíso, dove mi imbarcai sul Donizetti, che batteva bandiera italiana e seguiva la rotta Genova-Valparaíso-Genova. Il viaggio fu lento e tonificante e feci amicizie che durano ancora oggi, sia pure nella forma più sbiadita e formale, cioè l'invio puntuale di biglietti di auguri per Natale. Facemmo scalo ad Arica, dove fotografai dal ponte il nostro eroico promontorio, al Callao, a Guayaquil (passando la linea dell'equatore ebbi il piacere di officiare una messa per tutti i passeggeri), a Buenaventura, dove lessi, di sera, la nave all'ancora in mezzo alle stelle, il Nocturno di José Asunción Silva, un piccolo omaggio alle lettere colombiane che fu applaudito da tutti senza riserve, persino dagli ufficiali italiani che non capivano bene lo spagnolo ma che seppero apprezzare la profonda musicalità del verbo del vate suicida, a Panama, cintura dell'America, a Cristóbal e a Colón, città divisa in due dove dei ragazzetti cercarono invano di derubarmi, a Maracaibo, laboriosa e puzzolente di petrolio, e poi attraversammo l'Oceano Atlantico, dove dietro petizione popolare officiai un'altra messa per la totalità dei passeggeri, e dove ci capitarono tre giorni di brutto tempo e mare mosso e molta gente volle confessarsi, e poi facemmo scalo a Lisbona, dove scesi e pregai nella prima chiesa del porto, e poi il Donizetti attraccò a Malaga e a Barcellona, e una mattina d'inverno arrivammo finalmente a Genova, dove salutai i miei nuovi amici e dissi una messa per alcuni di loro nella sala di lettura della nave, una sala con pavimento di rovere e pareti di tek e un grande lampadario di cristallo appeso al soffitto e morbide poltrone dove avevo passato tante ore di felicità, immerso nella lettura dei classici greci e dei classici latini e dei contemporanei cileni, avendo finalmente ritrovato le mie gioie di lettore, ritrovato il mio istinto, completamente ripreso, mentre il bastimento solcava il mare, i crepuscoli marini, la notte atlantica insondabile, e io leggevo comodamente seduto in quella sala dai legni pregiati e dall'odore di mare e di liquori forti e dall'odore di libri e solitudine, perché le mie giornate felici si prolungavano fino a ore in cui nessuno osava più passeggiare sui ponti del Donizetti, tranne le ombre peccatrici che stavano ben attente a non interrompermi, ben attente a non interferire nelle mie letture, nella mia felicità, la mia felicità, la gioia ritrovata, il vero senso della preghiera, le mie suppliche che si levavano oltre le nuvole, là dove esiste solo la musica, quello che chiamiamo il coro degli angeli, uno spazio non umano ma indubbiamente l'unico spazio che possiamo abitare, seppure in via ipotetica, noi esseri umani, uno spazio inabitabile ma l'unico spazio che vale la pena di abitare, uno spazio dove cesseremo di essere ma l'unico spazio dove possiamo essere quello che davvero siamo, e poi misi piede sulla terraferma, terra italiana, e dissi addio al Donizetti e mi misi sulle strade dell'Europa, deciso a fare un buon lavoro, con uno spirito leggero, pieno di fiducia, determinazione e fede. La prima chiesa che visitai fu quella di Santa Maria del Dolor Perpetuo, a Pistoia. Mi aspettavo di trovare un vecchio parroco e grande fu la mia sorpresa quando fui accolto da un sacerdote che non aveva ancora trent'anni. Padre Pietro, così si chiamava, mi spiegò che il signor Aruap gli aveva scritto una missiva avvisandolo del mio arrivo e che a Pistoia il primo agente corrosivo dei grandi monumenti romanici e gotici non era l'inquinamento ambientale, ma l'inquinamento animale, più esattamente le cacche dei piccioni, la cui popolazione, a Pistoia così come in molte altre città e paesi europei, era cresciuta in modo esponenziale. C'era però una soluzione infallibile per porvi rimedio, un'arma che era ancora allo stadio sperimentale e che mi mostrò il giorno successivo. Ricordo che quella notte dormii in una camera attigua alla sacrestia e che il mio sonno fu scandito da repentini risvegli durante i quali non sapevo se ero sulla nave o in Cile, e se ero in Cile, supponiamo, non sapevo se ero a casa della mia famiglia o nella casa del seminario o a casa di un amico, e anche se a tratti mi rendevo conto che ero in una camera attigua a una sacrestia in Europa, non sapevo bene in quale paese europeo si trovava quella stanza e che ci facevo lì. La mattina dopo mi svegliò una donna che lavorava per la parrocchia. Si chiamava Antonia e mi disse: padre, don Pietro la sta aspettando, si sbrighi a venire o lo farà infuriare. Testuali parole. Così feci le mie abluzioni e indossai la tonaca e uscii nel cortile della canonica e là c'era il giovane padre Pietro, con indosso una tonaca più splendente della mia, la mano sinistra infilata in un grosso guanto di cuoio e metallo, e in cielo, nel quadrato di luce in alto fra i muri color oro, scorsi l'ombra di un uccello, e quando mi vide padre Pietro disse: andiamo sul campanile, e io senza una parola seguii i suoi passi e ci inerpicammo su per la torre del campanile, entrambi pronti ad affrontare un compito silenzioso e paziente, e quando arrivammo in cima al campanile padre Pietro fece un fischio e sbatté le braccia e dal cielo l'ombra scese al campanile e si posò sul guanto che l'italiano portava sulla mano sinistra e allora, senza bisogno di spiegazioni, vidi che l'uccello scuro che sorvolava la chiesa di Santa Maria del Dolor Perpetuo era un falco e che padre Pietro era diventato un maestro di falconeria e che quello era il metodo usato per eliminare i piccioni dalla vecchia chiesa, e poi guardai, da quell'altezza, le scalinate che conducevano al portico e la piazza di mattoni accanto alla chiesa, color magenta, e per quanto guardassi non vidi un solo piccione. Nel pomeriggio padre Pietro, sacerdote falconiere, mi portò da un'altra parte, sempre a Pistoia. Là non c'erano edifici ecclesiastici né monumenti civili né altro che bisognasse difendere dal passare del tempo. Ci andammo col camioncino della parrocchia. In una cassa c'era il falco. Quando arrivammo a destinazione padre Pietro tirò fuori il falco e lo lanciò verso il cielo. Vidi il falco volare e gettarsi su un piccione e vidi il piccione tremare in pieno volo. Si aprì la finestra di una casa popolare e una vecchia ci gridò qualcosa e ci minacciò col pugno. Padre Pietro scoppiò a ridere. Le nostre tonache ondeggiavano al vento. Sulla via del ritorno mi disse che il falco si chiamava Turco. Poi presi il treno e arrivai a Torino, dove andai a trovare padre Angelo, nella chiesa di San Paolo del Soccorso, anche lui esperto nell'arte della falconeria. Il suo falco si chiamava Otello e aveva terrorizzato i piccioni di tutta Torino, anche se non era l'unico falco della città, come mi confessò padre Angelo, il quale aveva fondati sospetti che in qualche quartiere sconosciuto di Torino, probabilmente nella zona sud, vivesse un altro falco, e che Otello, a volte, l'avesse incrociato nei suoi viaggi aerei. I due rapaci cacciavano i piccioni e in linea di principio non avevano motivo di temersi a vicenda, ma padre Angelo pensava che non fosse lontano il giorno del confronto tra i due falchi. A Torino mi fermai più giorni che a Pistoia. Poi presi il treno di notte per Strasburgo. [...]

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Pagina 78

[...] A volte nei miei sogni il sole si oscurava. Altre volte compariva un prete tedesco, molto obeso, e mi raccontava una barzelletta. Mi diceva: padre Lacroix, le racconto una barzelletta. Ci sono il Papa e un teologo tedesco che parlano tranquilli in una delle sale del Vaticano. All'improvviso arrivano due archeologi francesi, molto eccitati e nervosi, e dicono al Santo Padre che sono appena tornati da Israele e che gli portano due notizie, una molto bella e una molto brutta. Il Papa li supplica di parlare, di non tenerlo sulle spine. I francesi, in fretta e furia, dicono che la bella notizia è che hanno trovato il Santo Sepolcro. Il Santo Sepolcro?, dice il Papa. Sì, il Santo Sepolcro. Senza il minimo dubbio. Il Papa piange per l'emozione. Qual è la brutta notizia?, domanda asciugandosi le lacrime. Che dentro il Santo Sepolcro abbiamo trovato il cadavere di Gesù. Il Papa sviene. I francesi corrono a fargli vento. Il teologo tedesco, che è l'unico tranquillo, dice: ah, ma allora Gesù Cristo è esistito davvero? Sordel, Sordello, quel Sordello, il maestro Sordello. Un giorno decisi che era tempo di ritornare in Cile. Presi l'aereo. La situazione in patria non era buona. Non bisogna sognare ma essere coerenti, mi dicevo. Non bisogna perdersi dietro a una chimera ma essere patrioti, mi dicevo. In Cile le cose non andavano bene. A me le cose andavano bene, ma alla patria non andavano bene. Non sono un nazionalista sfegatato, tuttavia provo un amore sincero per il mio paese. Cile, Cile. Come sei potuto cambiare tanto?, gli dicevo a volte, affacciato alla finestra aperta, guardando il bagliore di Santiago in lontananza. Che cosa ti hanno fatto? I cileni sono impazziti? Di chi è la colpa? E altre volte, mentre camminavo nei corridoi del seminario o nei corridoi del giornale, gli dicevo: Fino a quando pensi di andare avanti così, Cile? Ti vuoi forse trasformare in qualcos'altro? In un mostro che nessuno potrà più riconoscere? Poi ci furono le elezioni e vinse Allende. E io mi misi davanti allo specchio della mia stanza e volli formulare la domanda cruciale, che tenevo in serbo per quel momento, e la domanda si rifiutò di uscire dalle mie labbra esangui. Era una cosa assolutamente insopportabile. La sera del trionfo di Allende uscii e m'incamminai verso casa di Farewell. Mi aprì la porta lui stesso. Com'era invecchiato. A quel tempo Farewell doveva avere ottant'anni o forse più, e quando ci vedevamo aveva ormai smesso di toccarmi la vita e anche i fianchi. Entra, Sebastiàn, mi disse. Io lo seguii in salotto. Farewell stava facendo delle telefonate. Il primo che chiamò fu Neruda. Non riuscì a mettersi in contatto con lui. Poi chiamò Nicanor Parra. Uguale. Io mi lasciai cadere in una poltrona e mi coprii la faccia con le mani. Ebbi ancora modo di sentire che Farewell componeva i numeri di altri quattro o cinque poeti, senza il minimo risultato. Ci mettemmo a bere. Gli suggerii di chiamare, se lo tranquillizzava, certi poeti cattolici che conoscevamo entrambi. Quelli sono i peggiori, disse Farewell, saranno tutti in strada, a festeggiare il trionfo di Allende. Dopo qualche ora Farewell si addormentò su una sedia. Volevo portarlo a letto, ma pesava troppo e lo lasciai lì. Quando tornai a casa mi misi a leggere i greci. Sia fatta la volontà di Dio, mi dissi. Io mi rileggo i greci. Cominciai con Omero, come vuole la tradizione, e proseguii con Talete di Mileto e Senofane di Colofone e Alcmeone di Crotone e Zenone di Elea (come era bravo), e poi ammazzarono un generale dell'esercito favorevole ad Allende e il Cile riallacciò rapporti diplomatici con Cuba e il censimento rilevò un totale di 8.884.768 cileni e alla televisione cominciarono a trasmettere la telenovela Mariana, il diritto di nascere, e io lessi Tirteo di Sparta e Archiloco di Paro e Solone di Atene e Ipponatte di Efeso e Stesicoro di Imera e Saffo di Mitilene e Teognide di Megara e Anacreonte di Teo e Pindaro di Tebe (uno dei miei preferiti), e il governo nazionalizzò il rame e poi il salnitro e il ferro e Pablo Neruda ricevette il premio Nobel e Díaz Casanueva il Premio Nazionale di Letteratura e Fidel Castro visitò il nostro paese e molti pensarono che si sarebbe fermato a vivere qua per sempre e poi ammazzarono l'ex ministro della Democracia Cristiana Pérez Zujovic e Lafourcade pubblicò Palomita bianca e io gli feci una buona recensione, quasi una glossa trionfale, anche se in fondo sapevo che era un romanzetto da nulla, e fu organizzata la prima marcia delle pentole vuote contro Allende e io lessi Eschilo e Sofocle e Euripide, tutte le tragedie, e Alceo di Mitilene ed Esopo ed Esiodo ed Erodoto (che è un titano più che un uomo), e in Cile scarseggiavano le cose e arrivarono l'inflazione e il mercato nero e lunghe code per trovare da mangiare e la Riforma Agraria espropriò la tenuta di Farewell e molte altre tenute e venne creato il Segretariato nazionale della donna e Allende si recò in Messico e all'Assemblea delle Nazioni Unite a New York e ci furono attentati e io lessi Tucidide, le lunghe guerre di Tucidide, i fiumi e le pianure, i venti e gli altopiani che attraversano le pagine scurite dal tempo, e gli uomini di Tucidide, gli uomini armati di Tucidide e gli uomini disarmati, quelli che raccolgono l'uva e quelli che guardano da una montagna l'orizzonte lontano, quello stesso orizzonte dove ero io e altri milioni di esseri, in attesa di nascere, quell'orizzonte che aveva guardato Tucidide e sul quale io tremavo, e rilessi anche Demostene e Menandro e Aristotele e Platone (cosa sempre proficua), e ci furono scioperi e il colonnello di un reggimento corazzato tentò un golpe e un cameraman morì filmando la propria morte e poi ammazzarono il consigliere militare di Allende e ci furono disordini, male parole, i cileni bestemmiarono, scrissero sui muri e poi quasi mezzo milione di persone sfilò in una grande marcia di appoggio ad Allende, e poi ci fu il colpo di Stato, il sollevamento, il pronunciamento militare, e bombardarono il palazzo della Moneda e quando smisero di bombardare il presidente si suicidò e tutto finì. Allora io rimasi immobile, con un dito sulla pagina che stavo leggendo, e pensai: che pace. Mi alzai e mi affacciai alla finestra: che silenzio. Il cielo era azzurro, un azzurro profondo e limpido, spruzzato qua e là di nuvole. In lontananza vidi un elicottero. [...]

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