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Ora muoio, ma ho ancora molte cose da dire. Ero
in pace con me stesso. Muto e in pace. Ma all'improvviso le cose sono emerse. La
colpa è di quel giovane
invecchiato. Io ero in pace. Ora non sono più in pace. Bisogna chiarire certi
punti. Quindi mi appoggerò
su un gomito e solleverò la testa, la mia nobile testa
tremante, e cercherò nell'angolo dei ricordi quelle
azioni che mi giustificano e perciò smentiscono le infamie che il giovane
invecchiato ha sparso in giro a
mio discredito in una sola notte fulminea. A mio presunto discredito. Bisogna
essere responsabili. Č tutta
la vita che lo dico. Abbiamo l'obbligo morale di essere responsabili delle
nostre azioni e anche delle nostre parole e perfino dei nostri silenzi, sì, dei
nostri silenzi, perché anche i silenzi salgono al cielo e Dio li
sente e solo Dio li comprende e giudica, per cui molta attenzione ai silenzi. Io
sono responsabile di tutto. I miei silenzi sono immacolati. Che sia chiaro. Ma
soprattutto che sia chiaro a Dio. Il resto è trascurabile. Dio no. Non so di
cosa sto parlando. [...]
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[...] Domandai in cosa consisteva il lavoro che
volevano offrirmi. Più che un lavoro è una borsa di
studio, disse il signor Oido. Noi ci occupiamo di import-export, ma trattiamo
anche altri settori, disse il signor Aruap. Adesso in particolare stiamo
lavorando per l'Istituto di Studi dell'Arcivescovado. Hanno
un problema e noi cerchiamo la persona adatta a risolvere il problema, disse il
signor Oido. Hanno bisogno di qualcuno che realizzi una ricerca e noi gli
troviamo la persona più indicata. E io sarei la persona
più indicata?, domandai. Nessuno ha tanti requisiti
come lei, padre, disse il signor Oido. Mi piacerebbe
che mi spiegaste di cosa si tratta, dissi. Il signor Aruap mi guardò stupito.
Prima che protestasse gli dissi che mi sarebbe piaciuto riascoltare la proposta,
ma stavolta dalla bocca del signor Oido. Lui non si fece
pregare. L'Istituto di Studi dell'Arcivescovado voleva
che qualcuno svolgesse un'indagine sullo stato di conservazione delle chiese. In
Cile, come era da aspettarsi, nessuno sapeva nulla dell'argomento. In Europa,
al contrario, le indagini erano molto avanzate e in
certi casi si parlava ormai di soluzioni definitive per
contrastare il deterioramento delle case del Signore.
Il mio lavoro sarebbe consistito nell'andare a visitare
le chiese modello nella tutela, analizzare i diversi metodi, scrivere un
rapporto e tornare. Quanto sarebbe
durato? Potevo passare un anno a visitare diversi paesi europei. Se dopo un anno
il mio lavoro non si era ancora concluso, il termine sarebbe stato posticipato a
un anno e mezzo. Ogni mese mi avrebbero
pagato tutto lo stipendio più un extra per le spese di
viaggio in Europa. Potevo dormire in albergo o nelle
case parrocchiali sparse in lungo e in largo per tutto il
Vecchio Continente. Naturalmente, quel lavoro sembrava pensato su misura per me.
Accettai. Nei giorni
seguenti vidi spesso il signor Oido e il signor Aruap,
che si occuparono dei documenti necessari al mio
soggiorno in Europa. Non posso dire, tuttavia, di aver
stretto legami con loro. Erano efficienti, di questo mi
resi immediatamente conto, ma mancavano di sottigliezza. Anche di letteratura
non sapevano nulla, eccetto due poesie del primo Neruda, che spesso recitavano a
memoria. Ma sapevano risolvere problemi di
ordine amministrativo che a me sembravano insolubili e riuscirono a spianarmi la
strada per la mia nuova destinazione. Man mano che si avvicinava il giorno della
partenza mi innervosivo sempre più. Mi
concessi il tempo necessario per congedarmi dagli
amici, che non potevano credere a tanta fortuna. Mi
misi d'accordo con il giornale per continuare a spedire dall'Europa recensioni e
articoli letterari. Una
mattina mi congedai dalla mia anziana madre e presi
il treno per Valparaíso, dove mi imbarcai sul
Donizetti,
che batteva bandiera
italiana e seguiva la rotta Genova-Valparaíso-Genova. Il viaggio fu lento e
tonificante e feci amicizie che durano ancora oggi, sia pure
nella forma più sbiadita e formale, cioè l'invio puntuale di biglietti di auguri
per Natale. Facemmo scalo ad Arica, dove fotografai dal ponte il nostro eroico
promontorio, al Callao, a Guayaquil (passando la
linea dell'equatore ebbi il piacere di officiare una
messa per tutti i passeggeri), a Buenaventura, dove
lessi, di sera, la nave all'ancora in mezzo alle stelle, il
Nocturno
di José Asunción Silva, un piccolo omaggio
alle lettere colombiane che fu applaudito da tutti
senza riserve, persino dagli ufficiali italiani che non
capivano bene lo spagnolo ma che seppero apprezzare la profonda musicalità del
verbo del vate suicida, a Panama, cintura dell'America, a Cristóbal e a
Colón, città divisa in due dove dei ragazzetti cercarono invano di derubarmi, a
Maracaibo, laboriosa e puzzolente di petrolio, e poi attraversammo l'Oceano
Atlantico, dove dietro petizione popolare officiai
un'altra messa per la totalità dei passeggeri, e dove ci
capitarono tre giorni di brutto tempo e mare mosso
e molta gente volle confessarsi, e poi facemmo scalo
a Lisbona, dove scesi e pregai nella prima chiesa del
porto, e poi il
Donizetti
attraccò a Malaga e a Barcellona, e una mattina
d'inverno arrivammo finalmente a
Genova, dove salutai i miei nuovi amici e dissi una
messa per alcuni di loro nella sala di lettura della nave, una sala con
pavimento di rovere e pareti di tek e
un grande lampadario di cristallo appeso al soffitto e
morbide poltrone dove avevo passato tante ore di felicità, immerso nella lettura
dei classici greci e dei classici latini e dei contemporanei cileni, avendo
finalmente ritrovato le mie gioie di lettore, ritrovato il mio
istinto, completamente ripreso, mentre il bastimento solcava il mare, i
crepuscoli marini, la notte atlantica insondabile, e io leggevo comodamente
seduto in quella sala dai legni pregiati e dall'odore di mare
e di liquori forti e dall'odore di libri e solitudine, perché le mie giornate
felici si prolungavano fino a ore
in cui nessuno osava più passeggiare sui ponti del
Donizetti,
tranne le ombre peccatrici che stavano ben
attente a non interrompermi, ben attente a non interferire nelle mie letture,
nella mia felicità, la mia
felicità, la gioia ritrovata, il vero senso della preghiera, le mie suppliche
che si levavano oltre le nuvole, là
dove esiste solo la musica, quello che chiamiamo il
coro degli angeli, uno spazio non umano ma indubbiamente l'unico spazio che
possiamo abitare, seppure in via ipotetica, noi esseri umani, uno spazio
inabitabile ma l'unico spazio che vale la pena di abitare, uno spazio dove
cesseremo di essere ma l'unico
spazio dove possiamo essere quello che davvero siamo, e poi misi piede sulla
terraferma, terra italiana, e dissi addio al
Donizetti
e mi misi sulle strade dell'Europa, deciso a fare un
buon lavoro, con uno spirito
leggero, pieno di fiducia, determinazione e fede. La
prima chiesa che visitai fu quella di Santa Maria del
Dolor Perpetuo, a Pistoia. Mi aspettavo di trovare un
vecchio parroco e grande fu la mia sorpresa quando fui accolto da un sacerdote
che non aveva ancora trent'anni. Padre Pietro, così si chiamava, mi spiegò che
il signor Aruap gli aveva scritto una missiva
avvisandolo del mio arrivo e che a Pistoia il primo agente corrosivo dei grandi
monumenti romanici e gotici non era l'inquinamento ambientale, ma l'inquinamento
animale, più esattamente le cacche dei
piccioni, la cui popolazione, a Pistoia così come in
molte altre città e paesi europei, era cresciuta in modo esponenziale. C'era
però una soluzione infallibile
per porvi rimedio, un'arma che era ancora allo stadio sperimentale e che mi
mostrò il giorno successivo. Ricordo che quella notte dormii in una camera
attigua alla sacrestia e che il mio sonno fu scandito
da repentini risvegli durante i quali non sapevo se ero sulla nave o in Cile, e
se ero in Cile, supponiamo,
non sapevo se ero a casa della mia famiglia o nella
casa del seminario o a casa di un amico, e anche se a
tratti mi rendevo conto che ero in una camera attigua a una sacrestia in Europa,
non sapevo bene in
quale paese europeo si trovava quella stanza e che ci
facevo lì. La mattina dopo mi svegliò una donna che
lavorava per la parrocchia. Si chiamava Antonia e mi
disse: padre, don Pietro la sta aspettando, si sbrighi a
venire o lo farà infuriare. Testuali parole. Così feci le
mie abluzioni e indossai la tonaca e uscii nel cortile
della canonica e là c'era il giovane padre Pietro, con
indosso una tonaca più splendente della mia, la mano sinistra infilata in un
grosso guanto di cuoio e metallo, e in cielo, nel quadrato di luce in alto fra i
muri color oro, scorsi l'ombra di un uccello, e quando mi
vide padre Pietro disse: andiamo sul campanile, e io
senza una parola seguii i suoi passi e ci inerpicammo
su per la torre del campanile, entrambi pronti ad affrontare un compito
silenzioso e paziente, e quando
arrivammo in cima al campanile padre Pietro fece
un fischio e sbatté le braccia e dal cielo l'ombra scese
al campanile e si posò sul guanto che l'italiano portava sulla mano sinistra e
allora, senza bisogno di spiegazioni, vidi che l'uccello scuro che sorvolava la
chiesa di Santa Maria del Dolor Perpetuo era un falco e
che padre Pietro era diventato un maestro di falconeria e che quello era il
metodo usato per eliminare i
piccioni dalla vecchia chiesa, e poi guardai, da quell'altezza, le scalinate che
conducevano al portico e la
piazza di mattoni accanto alla chiesa, color magenta,
e per quanto guardassi non vidi un solo piccione.
Nel pomeriggio padre Pietro, sacerdote falconiere,
mi portò da un'altra parte, sempre a Pistoia. Là non
c'erano edifici ecclesiastici né monumenti civili né
altro che bisognasse difendere dal passare del tempo. Ci andammo col camioncino
della parrocchia.
In una cassa c'era il falco. Quando arrivammo a destinazione padre Pietro tirò
fuori il falco e lo lanciò
verso il cielo. Vidi il falco volare e gettarsi su un piccione e vidi il
piccione tremare in pieno volo. Si aprì
la finestra di una casa popolare e una vecchia ci gridò qualcosa e ci minacciò
col pugno. Padre Pietro
scoppiò a ridere. Le nostre tonache ondeggiavano al
vento. Sulla via del ritorno mi disse che il falco si
chiamava Turco. Poi presi il treno e arrivai a Torino,
dove andai a trovare padre Angelo, nella chiesa di
San Paolo del Soccorso, anche lui esperto nell'arte
della falconeria. Il suo falco si chiamava Otello e aveva terrorizzato i
piccioni di tutta Torino, anche se
non era l'unico falco della città, come mi confessò
padre Angelo, il quale aveva fondati sospetti che in
qualche quartiere sconosciuto di Torino, probabilmente nella zona sud, vivesse
un altro falco, e che
Otello, a volte, l'avesse incrociato nei suoi viaggi aerei. I due rapaci
cacciavano i piccioni e in linea di
principio non avevano motivo di temersi a vicenda,
ma padre Angelo pensava che non fosse lontano il
giorno del confronto tra i due falchi. A Torino mi
fermai più giorni che a Pistoia. Poi presi il treno di
notte per Strasburgo. [...]
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Pagina 78
[...] A volte nei miei sogni il sole si oscurava. Altre volte compariva un
prete tedesco, molto obeso, e mi raccontava una barzelletta. Mi diceva: padre
Lacroix, le racconto una barzelletta. Ci sono il Papa e un teologo
tedesco che parlano tranquilli in una delle sale del
Vaticano. All'improvviso arrivano due archeologi
francesi, molto eccitati e nervosi, e dicono al Santo
Padre che sono appena tornati da Israele e che gli
portano due notizie, una molto bella e una molto
brutta. Il Papa li supplica di parlare, di non tenerlo
sulle spine. I francesi, in fretta e furia, dicono che la
bella notizia è che hanno trovato il Santo Sepolcro. Il
Santo Sepolcro?, dice il Papa. Sì, il Santo Sepolcro.
Senza il minimo dubbio. Il Papa piange per l'emozione. Qual è la brutta
notizia?, domanda asciugandosi le lacrime. Che dentro il Santo Sepolcro abbiamo
trovato il cadavere di Gesù. Il Papa sviene. I francesi corrono a fargli vento.
Il teologo tedesco, che è l'unico tranquillo, dice: ah, ma allora Gesù Cristo è
esistito davvero? Sordel, Sordello, quel Sordello, il
maestro Sordello. Un giorno decisi che era tempo di
ritornare in Cile. Presi l'aereo. La situazione in patria non era buona. Non
bisogna sognare ma essere
coerenti, mi dicevo. Non bisogna perdersi dietro a
una chimera ma essere patrioti, mi dicevo. In Cile le
cose non andavano bene. A me le cose andavano bene, ma alla patria non andavano
bene. Non sono un
nazionalista sfegatato, tuttavia provo un amore sincero per il mio paese. Cile,
Cile. Come sei potuto cambiare tanto?, gli dicevo a volte, affacciato alla
finestra aperta, guardando il bagliore di Santiago in lontananza. Che cosa ti
hanno fatto? I cileni sono impazziti? Di chi è la colpa? E altre volte, mentre
camminavo nei corridoi del seminario o nei corridoi del giornale, gli dicevo:
Fino a quando pensi di andare avanti
così, Cile? Ti vuoi forse trasformare in qualcos'altro?
In un mostro che nessuno potrà più riconoscere? Poi
ci furono le elezioni e vinse Allende. E io mi misi davanti allo specchio della
mia stanza e volli formulare
la domanda cruciale, che tenevo in serbo per quel
momento, e la domanda si rifiutò di uscire dalle mie
labbra esangui. Era una cosa assolutamente insopportabile. La sera del trionfo
di Allende uscii e m'incamminai verso casa di Farewell. Mi aprì la porta lui
stesso. Com'era invecchiato. A quel tempo Farewell
doveva avere ottant'anni o forse più, e quando ci vedevamo aveva ormai smesso di
toccarmi la vita e anche i fianchi. Entra, Sebastiàn, mi disse. Io lo seguii
in salotto. Farewell stava facendo delle telefonate. Il
primo che chiamò fu Neruda. Non riuscì a mettersi
in contatto con lui. Poi chiamò Nicanor Parra. Uguale. Io mi lasciai cadere in
una poltrona e mi coprii la
faccia con le mani. Ebbi ancora modo di sentire che
Farewell componeva i numeri di altri quattro o cinque poeti, senza il minimo
risultato. Ci mettemmo
a bere. Gli suggerii di chiamare, se lo tranquillizzava, certi poeti cattolici
che conoscevamo entrambi.
Quelli sono i peggiori, disse Farewell, saranno tutti
in strada, a festeggiare il trionfo di Allende. Dopo
qualche ora Farewell si addormentò su una sedia.
Volevo portarlo a letto, ma pesava troppo e lo lasciai
lì. Quando tornai a casa mi misi a leggere i greci. Sia
fatta la volontà di Dio, mi dissi. Io mi rileggo i greci.
Cominciai con Omero, come vuole la tradizione, e
proseguii con Talete di Mileto e Senofane di Colofone e Alcmeone di Crotone e
Zenone di Elea (come era bravo), e poi ammazzarono un generale dell'esercito
favorevole ad Allende e il Cile riallacciò rapporti diplomatici con Cuba e il
censimento rilevò un totale di 8.884.768 cileni e alla televisione cominciarono
a trasmettere la telenovela
Mariana, il diritto di nascere,
e io lessi Tirteo di Sparta e Archiloco di Paro
e Solone di Atene e Ipponatte di Efeso e Stesicoro di
Imera e Saffo di Mitilene e Teognide di Megara e Anacreonte di Teo e Pindaro di
Tebe (uno dei miei
preferiti), e il governo nazionalizzò il rame e poi il
salnitro e il ferro e Pablo Neruda ricevette il premio
Nobel e Díaz Casanueva il Premio Nazionale di Letteratura e Fidel Castro visitò
il nostro paese e molti
pensarono che si sarebbe fermato a vivere qua per
sempre e poi ammazzarono l'ex ministro della Democracia Cristiana Pérez Zujovic
e Lafourcade pubblicò
Palomita bianca
e io gli feci una buona recensione, quasi una glossa trionfale, anche se in
fondo sapevo che era un romanzetto da nulla, e fu organizzata la prima marcia
delle pentole vuote contro Allende e io lessi Eschilo e Sofocle e Euripide,
tutte le tragedie, e Alceo di Mitilene ed Esopo ed Esiodo ed Erodoto (che è un
titano più che un uomo), e in Cile
scarseggiavano le cose e arrivarono l'inflazione e il
mercato nero e lunghe code per trovare da mangiare e la Riforma Agraria
espropriò la tenuta di Farewell e molte altre tenute e venne creato il
Segretariato nazionale della donna e Allende si recò in Messico e all'Assemblea
delle Nazioni Unite a New York e
ci furono attentati e io lessi Tucidide, le lunghe guerre di Tucidide, i fiumi e
le pianure, i venti e gli altopiani che attraversano le pagine scurite dal
tempo, e gli uomini di Tucidide, gli uomini armati di Tucidide e gli uomini
disarmati, quelli che raccolgono l'uva e quelli che guardano da una montagna
l'orizzonte lontano, quello stesso orizzonte dove ero io e altri
milioni di esseri, in attesa di nascere, quell'orizzonte
che aveva guardato Tucidide e sul quale io tremavo,
e rilessi anche Demostene e Menandro e Aristotele e
Platone (cosa sempre proficua), e ci furono scioperi e il colonnello di un
reggimento corazzato tentò
un golpe e un cameraman morì filmando la propria
morte e poi ammazzarono il consigliere militare di
Allende e ci furono disordini, male parole, i cileni
bestemmiarono, scrissero sui muri e poi quasi mezzo milione di persone sfilò in
una grande marcia di appoggio ad Allende, e poi ci fu il colpo di Stato, il
sollevamento, il pronunciamento militare, e bombardarono il palazzo della Moneda
e quando smisero di bombardare il presidente si suicidò e tutto finì. Allora io
rimasi immobile, con un dito sulla pagina che
stavo leggendo, e pensai: che pace. Mi alzai e mi affacciai alla finestra: che
silenzio. Il cielo era azzurro,
un azzurro profondo e limpido, spruzzato qua e là di
nuvole. In lontananza vidi un elicottero. [...]
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