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| << | < | > | >> |Pagina 1320 agostoDalla finestra entra il mormorio delle onde misto alle risate degli ultimi nottambuli, un rumore che potrebbe essere quello dei camerieri intenti a sparecchiare i tavoli sulla terrazza, di tanto in tanto un'automobile che passa lentamente sul lungomare e i ronzii attutiti e indefinibili che provengono dalle altre camere dell'albergo. Ingeborg dorme; il suo volto pare quello di un angelo a cui nulla turba il sonno; sul suo comodino c'è un bicchiere di latte che non ha assaggiato e che ormai sarà caldo, e accanto al guanciale, coperto a metà dal lenzuolo, un libro dell'investigatore Florian Linden del quale ha letto appena un paio di pagine per poi assopirsi. A me succede tutto il contrario: il caldo e la stanchezza mi tolgono il sonno. In genere dormo bene, fra le sette e le otto ore, anche se molto di rado vado a letto stanco. La mattina mi sveglio fresco come una rosa e con un'energia che non accenna a diminuire nemmeno dopo otto o dieci ore di attività. Che io ricordi, è sempre stato così; fa parte della mia natura. Non me lo ha inculcato nessuno, semplicemente sono fatto così e con questo non voglio insinuare di essere migliore o peggiore di altri; della stessa Ingeborg, per esempio, che il sabato e la domenica si alza dopo mezzogiorno e durante la settimana ha bisogno di una seconda tazza di caffè, e di una sigaretta, per svegliarsi davvero e trascinarsi al lavoro. Stasera, però, la stanchezza e il caldo mi tolgono il sonno. E anche la decisione di scrivere, di appuntare gli avvenimenti del giorno, mi impedisce di infilarmi nel letto e spegnere la luce. Il viaggio non ha avuto alcun imprevisto degno di nota. Ci siamo fermati a Strasburgo, una bella città, anche se io l'avevo già vista. Abbiamo mangiato in una specie di supermercato lungo l'autostrada. Al confine, contrariamente a quanto ci avevano detto, non abbiamo dovuto metterci in coda né attendere più di dieci minuti per passare dall'altra parte. È stato tutto rapido ed efficiente. Da quel momento in poi ho guidato io perché Ingeborg non si fida molto degli automobilisti di qui, credo per via di una brutta esperienza su una strada spagnola avuta anni fa, quando era ancora bambina e veniva in vacanza con i suoi genitori. E poi, naturalmente, era stanca. Alla reception dell'albergo ci ha accolto una ragazza molto giovane, che se la cava piuttosto bene con il tedesco e che non ha avuto alcun problema a trovare le nostre prenotazioni. Era tutto a posto e stavamo già salendo quando ho scorto Frau Else nella sala da pranzo; l'ho riconosciuta immediatamente. Sistemava una tavola indicando qualcosa a un cameriere che, al suo fianco, reggeva un vassoio pieno di saliere. Indossava un vestito verde e sul petto aveva appuntata la spilletta dell'albergo. Gli anni quasi non l'hanno toccata. Vedere Frau Else mi ha riportato alla memoria i giorni della mia adolescenza con le loro ore cupe e quelle luminose; i miei genitori e mio fratello che facevano colazione sulla terrazza dell'hotel, la musica che alle sette di sera cominciava a diffondersi al piano terra dagli altoparlanti del ristorante, le risate senza senso dei camerieri e le uscite che organizzavamo noi ragazzi per fare il bagno di notte o andare in discoteca. Qual era allora la mia canzone preferita? Ogni estate ce n'era una nuova, simile in parte a quella dell'anno precedente, canticchiata e fischiettata fino alla nausea, con cui di solito chiudevano tutte le discoteche del paese. Mio fratello, che è sempre stato esigente in fatto di musica, prima delle vacanze selezionava con cura le cassette che avrebbe portato con sé; io, al contrario, preferivo che fosse il caso a infilarmi nelle orecchie una melodia nuova, l'inevitabile tormentone dell'estate. Mi bastava sentirlo due o tre volte, senza volere, perché le sue note mi seguissero lungo i giorni assolati e le nuove amicizie che costellavano le nostre vacanze. Amicizie effimere, viste nella mia ottica attuale, concepite solo per scacciare anche il minimo sospetto di noia. Di tutti quei volti ne conservo ben pochi nella mia memoria. In primo luogo, Frau Else, la cui simpatia mi conquistò all'istante, rendendomi il bersaglio di battute e scherzi da parte dei miei genitori, che arrivarono a prendermi in giro davanti a lei e al marito, uno spagnolo di cui non ricordo il nome, alludendo a una presunta gelosia e alla precocia dei giovani, insinuazioni che riuscirono a farmi arrossire fino alla punta dei capelli e che risvegliarono in Frau Else un tenero sentimento cameratesco. Da quel momento in poi mi parve di vedere nel suo atteggiamento verso di me maggior calore rispetto a quello riservato al resto della mia famiglia. Su un piano diverso mi è rimasto in mente anche José (si chiamava così?), un ragazzo della mia età che lavorava nell'albergo e che portò me e mio fratello in posti dove senza di lui non avremmo mai messo piede. Quando ci salutammo, forse intuendo che l'estate successiva non l'avremmo passata all'Hotel del Mar, mio fratello gli regalò un paio di cassette rock e io i miei vecchi jeans. Sono passati dieci anni e ricordo ancora le lacrime che spuntarono all'improvviso negli occhi di José, che con i pantaloni piegati in una mano e le cassette nell'altra, senza sapere cosa fare o dire, mormorava in un inglese che mio fratello derideva continuamente: a presto, cari amici, a presto, cari amici, eccetera, mentre noi gli dicevamo in spagnolo – lingua che parlavamo con una certa scioltezza, non per niente i nostri genitori ci facevano trascorrere le vacanze in Spagna – di non preoccuparsi, di smetterla di piangere, che l'estate dopo ci saremmo ritrovati di nuovo insieme come i tre moschettieri. Ricevemmo due cartoline da José. Io risposi alla prima, a nome mio e di mio fratello. Poi lo dimenticammo e non avemmo più sue notizie. Ci fu anche un ragazzo di Heilbronn, Erich, il miglior nuotatore della stagione, e una certa Charlotte che preferiva prendere il sole con me anche se mio fratello era completamente pazzo di lei. Un caso a parte è la povera zia Giselle, la sorella minore di mia madre, che ci accompagnò in vacanza la penultima estate che passammo all'Hotel del Mar. Zia Giselle amava le corride sopra ogni cosa e non ne era mai sazia. Un ricordo indelebile: mio fratello che guida l'automobile di mio padre in assoluta libertà; io, al suo fianco, che fumo senza che nessuno mi dica nulla, e zia Giselle sul sedile posteriore che contempla estasiata le scogliere coperte di schiuma sotto la strada e il verde scuro del mare, con un sorriso soddisfatto sulle labbra pallidissime e in grembo tre manifesti, tre tesori, che attestano come lei, mio fratello e io abbiamo conosciuto grandi personaggi del mondo della corrida nella Plaza de toros di Barcellona. Sicuramente i miei genitori disapprovavano molte delle occupazioni a cui zia Giselle si dedicava con tanto entusiasmo, così come non gradivano la libertà che ci concedeva, eccessiva secondo loro per due ragazzini, anche se io allora avevo quasi quattordici anni. D'altra parte ho sempre sospettato che fossimo noi a badare a zia Giselle, compito che mia madre ci imponeva senza che nessuno se ne rendesse conto, in maniera sottile e con grande apprensione. Comunque fosse, zia Giselle passò con noi solo un'estate, quella prima dell'ultima che trascorremmo all'Hotel del Mar. Ricordo poco altro. Non ho dimenticato le risate ai tavoli sulla terrazza, gli enormi boccali di birra svuotati sotto il mio sguardo stupefatto, i camerieri sudati e scuri che conversavano a bassa voce rintanati in un angolo del bancone. Immagini sparse. Il sorriso felice e i ripetuti cenni di assenso di mio padre, un'officina dove si noleggiavano le biciclette, la spiaggia alle nove e mezzo di sera, ancora con una tenue luce solare. La camera che avevamo allora era diversa da quella che abbiamo adesso; non so se meglio o peggio, diversa, un piano sotto, e più grande, in grado di accogliere quattro letti, e con un balcone ampio, fronte mare, dove i miei genitori si sistemavano dopo pranzo, il pomeriggio, a giocare infinite partite a carte. Non sono sicuro che avessimo un bagno privato. Probabilmente certe estati sì e altre no. Invece la nostra camera attuale ha il suo bagno, e anche un bell'armadio spazioso, e un enorme letto matrimoniale, e tappeti, e un tavolino di ferro e marmo sul balcone, e doppie tende, quelle interne di una stoffa verde molto fine al tatto e quelle esterne con stecche di legno dipinte di bianco, modernissime, e luci dirette e indirette, e degli altoparlanti ben nascosti che premendo semplicemente un bottone trasmettono musica in filodiffusione... Non c'è dubbio, l'Hotel del Mar ha fatto progressi. Nemmeno la concorrenza è rimasta indietro, a giudicare dalla rapida occhiata che ho dato mentre guidavo sul lungomare. Ci sono alberghi che non ricordavo e nei vecchi terreni incolti sono cresciuti i condomini. Ma queste sono tutte speculazioni. Domani cercherò di parlare con Frau Else e uscirò a fare un giro in paese. Ho fatto progressi anch'io? Certo, prima non conoscevo Ingeborg e ora sto con lei; le mie amicizie sono più interessanti e profonde, per esempio Conrad, che è come un fratello per me e che leggerà queste pagine; so cosa voglio e ho una prospettiva più ampia; sono economicamente indipendente; al contrario di quanto succedeva di solito negli anni della mia adolescenza, non mi annoio mai. Dell'assenza di noia Conrad dice che è la prova del nove della salute. Allora la mia salute deve essere eccellente. Senza peccare di esagerazione credo di essere nel momento migliore della mia vita. Responsabile di questa situazione è in larga misura Ingeborg. Incontrarla è stata la cosa più bella che mi sia mai successa. La sua dolcezza, la sua grazia, la tenerezza con cui mi guarda fanno sì che il resto, le mie fatiche quotidiane e gli sgambetti che mi tendono gli invidiosi, acquistino un'altra proporzione, la giusta proporzione che mi permette di affrontare la realtà e vincerla. A cosa porterà il nostro rapporto? Lo dico perché oggi i rapporti fra coppie giovani sono molto fragili. Non voglio pensarci troppo. Preferisco la gentilezza: amarla e prendermi cura di lei. Certo, se finissimo per sposarci, tanto meglio. Tutta una vita accanto a Ingeborg, sul piano sentimentale potrei forse domandare qualcosa di più? Lo dirà il tempo. Per il momento il suo amore è... Ma non facciamo poesia. Questi giorni di vacanza saranno anche giorni di lavoro. Devo chiedere a Frau Else un tavolo più grande, o due tavoli piccoli, per stendervi le mappe. Solo a pensare alle possibilità che offre la mia nuova apertura e ai vari sviluppi alternativi che ne possono nascere mi viene voglia di montare immediatamente il gioco e verificare. Ma non lo farò. Mi resta soltanto la forza di scrivere qualche riga; il viaggio è stato lungo e ieri ho chiuso occhio a stento, in parte perché era la prima volta che Ingeborg e io andavamo in vacanza insieme e in parte perché stavo per rimetter piede all'Hotel del Mar dopo dieci anni di assenza. Domani faremo colazione sulla terrazza. A che ora? Suppongo che Ingeborg si alzerà tardi. Una volta c'era un orario per la colazione? Non ricordo, penso di no; in ogni caso possiamo far colazione in paese, in un vecchio bar che era sempre pieno di pescatori e di turisti. Con i miei genitori di solito mangiavamo all'Hotel del Mar e in quel locale. Chissà se l'hanno chiuso. In dieci anni succedono tante cose. Spero che sia ancora aperto. | << | < | > | >> |Pagina 44Grazie a Conrad sono venuto a conoscenza del circolo letterario Operai di Casa Nyland. È stato lui a mettermi in mano il libro Soldaten der Erde di Karl Bröger, e a spingermi, finita la lettura, a cercare nelle biblioteche di Stoccarda, in una corsa sempre più vertiginosa e ardua, Bunker 17 dello stesso Bröger, Hammerschläge di Heinrich Lersch, Das vergitterte Land di Max Barthel, Rhythmus des neuen Europa di Gerrit Engelke, Mensch im Eisen di Lersch, eccetera.Conrad conosce la letteratura della nostra patria. Una sera, nella sua stanza, mi ha citato d'un fiato duecento scrittori tedeschi. Gli ho chiesto se li aveva letti tutti. Ha risposto di sì. Amava in particolare Goethe e, fra i moderni, Ernst Jünger. Di quest'ultimo aveva due libri che rileggeva di continuo: Der Kampf als inneres Erlebnis e Feuer und Blut. Eppure non disdegnava autori dimenticati, da lì il suo entusiasmo, che ben presto ho condiviso, per il Circolo Nyland. Da allora, quante sere ho tirato tardi non più solo per decifrare spinosi regolamenti di giochi nuovi, ma rapito dalle gioie e dalle disgrazie, dagli abissi e dalle vette della letteratura tedesca! Naturalmente, mi riferisco alla letteratura che si scrive con il sangue e non ai libri di Florian Linden, i quali, da quanto mi racconta Ingeborg, sono sempre più assurdi. A questo proposito è bene annotare qui un'ingiustizia: Ingeborg ha provato rabbia o vergogna nelle rare occasioni in cui le ho parlato, in pubblico e più o meno dettagliatamente, degli sviluppi di un gioco; lei, però, un'infinità di volte e nei momenti più diversi, come a colazione, in discoteca, in automobile, a letto, durante la cena e persino al telefono, mi ha raccontato gli enigmi che Florian Linden deve risolvere. E io non mi sono arrabbiato né ho avvertito vergogna all'idea che qualcuno sentisse quel che diceva; al contrario, ho cercato di capire la questione in maniera globale e oggettiva (sforzo vano) e poi ho suggerito possibili soluzioni logiche per i rompicapi del suo detective. Un mese fa, non di più, ho sognato Florian Linden. È stato il colmo. Lo ricordo in modo vivido: ero a letto, perché ero molto infreddolito, e Ingeborg mi diceva: «La stanza è chiusa ermeticamente»; allora, dal corridoio, arrivava la voce dell'investigatore Florian Linden che ci avvisava della presenza in camera di un ragno velenoso, un ragno che poteva morderci e poi fuggire, anche se la camera era «chiusa ermeticamente». Ingeborg si metteva a piangere e io l'abbracciavo. Dopo un po' mi diceva: «È impossibile, come avrà fatto Florian stavolta?». Io mi alzavo e andavo avanti e indietro, perquisendo i cassetti in cerca del ragno, ma non trovavo nulla anche se, è chiaro, erano tanti i posti in cui poteva nascondersi. Ingeborg gridava: Florian, Florian, Florian, cosa dobbiamo fare?, senza che nessuno le rispondesse. Credo che sapessimo entrambi di essere soli. Tutto qui. Più che un sogno è stato un incubo. Se aveva un significato, lo ignoro. Io di solito non ho incubi. Durante la mia adolescenza, sì; gli incubi erano numerosi e con scenografie assai varie. Ma niente che potesse inquietare i miei genitori o lo psicologo della scuola. In realtà sono sempre stato una persona equilibrata. Sarebbe interessante ricordare i sogni che ho fatto qui, all'Hotel del Mar, più di dieci anni fa. Sognavo sicuramente ragazze e punizioni, come tutti gli adolescenti. Mio fratello, una volta, mi raccontò un sogno. Non so se eravamo noi due soli o se c'erano anche i miei genitori. Io non ho mai fatto niente del genere. Quando Ingeborg era piccola si svegliava spesso piangendo e aveva bisogno di essere consolata da qualcuno. Cioè si svegliava impaurita e con una fortissima sensazione di solitudine. A me non è mai successo, o mi è successo così poche volte che l'ho dimenticato. Da un paio di anni sogno giochi. Vado a letto, chiudo gli occhi e si accende una mappa piena di pedine incomprensibili, e così, a poco a poco, mi cullo fino ad addormentarmi. Ma il sogno vero dev'essere diverso perché non lo ricordo. | << | < | > | >> |Pagina 171Estate del '40. La partita si è animata; contro ogni mia previsione il Bruciato è in grado di trasferire sul Mediterraneo truppe a sufficienza da ammortizzare i colpi; ancora più importante: ha intuito che la minaccia non incombeva sulla zona di Alessandria ma su Malta e di conseguenza ha rafforzato l'isola con fanteria, aviazione e marina di guerra. Sul fronte occidentale la situazione è ancora stabile (dopo la conquista della Francia è necessario un turno perché le armate occidentali si riorganizzino e ricevano rimpiazzi e rinforzi); lì le mie truppe puntano sull'Inghilterra – la cui invasione esigerebbe uno sforzo logistico considerevole, ma questo il Bruciato non lo sa – e sulla Spagna, preda secondaria, ma in grado di aprire la strada per Gibilterra, senza il cui possesso il controllo inglese sul Mediterraneo è quasi nullo. (La mossa da maestro, raccomandata da Terry Butcher su «The General», sta nell'inviare la flotta italiana nell'Atlantico). In ogni caso il Bruciato non si aspetta un attacco via terra contro Gibilterra; al contrario, i miei movimenti a Est e nei Balcani (dopo la mossa classica: schiacciare la Iugoslavia e la Grecia) gli fanno temere una prossima invasione dell'Unione Sovietica – ho l'impressione che il mio amico simpatizzi con i rossi – e trascurare altri fronti. La mia posizione, non c'è dubbio, è invidiabile. L'Operazione Barbarossa, forse con una variante strategica turca, promette di essere emozionante. Il Bruciato non si abbatte d'animo; non è un giocatore brillante e nemmeno impulsivo: le sue mosse sono serene e metodiche. Le ore trascorrono in silenzio; abbiamo parlato solo lo stretto necessario, domande sulle regole che hanno ottenuto risposte chiare e oneste, in un'armonia invidiabile. Scrivo queste righe mentre il Bruciato gioca. È curioso: la partita riesce a rilassarlo, si nota dai muscoli delle braccia e del petto, come se finalmente potesse guardarsi e non vedere nulla. O vedere unicamente la mappa martirizzata dell'Europa e le grandi manovre e contromanovre.La partita si è svolta come nella nebbia. Quando siamo usciti dalla stanza, nel corridoio, abbiamo incontrato una cameriera che appena ci ha visto ha soffocato un grido ed è corsa via. Ho guardato il Bruciato, senza riuscire a dire nulla; la cocente sensazione di vergogna che ho provato per lui è svanita solo in ascensore. Allora ho pensato che forse lo spavento della cameriera non nasceva dal volto del Bruciato. Il sospetto di essere fuori strada si è fatto più forte. Ci siamo salutati sulla terrazza dell'albergo. Una stretta di mano, un sorriso e alla fine il Bruciato è sparito dondolando sul lungomare. La terrazza era vuota. Nel ristorante, più affollato, ho visto Frau Else. Seduta a un tavolo vicino al bancone, era in compagnia di due uomini in giacca e cravatta. Non so perché ho pensato che uno di loro fosse suo marito, anche se l'immagine che conservavo di lui non gli somigliava affatto. Era senza dubbio un incontro di affari e non ho voluto essere importuno. Non desideravo nemmeno passare per timido e così mi sono avvicinato al bancone e ho chiesto una birra. Il cameriere ci ha messo più di cinque minuti a servirmela. La sua lentezza non era dovuta al troppo lavoro, perché anzi ne aveva poco; semplicemente ha preferito ciondolare lì intorno fino a condurmi al limite della pazienza; solo allora ha portato la birra e ho avuto modo di vedere la cattiva volontà, il desiderio di sfida che racchiudeva il suo gesto, come se stesse aspettando la minima protesta da parte mia per attaccare briga. Ma era impensabile con Frau Else lì accanto, così ho gettato qualche moneta sul bancone e ho aspettato. Non c'è stata nessuna reazione. Il poveretto si è incollato agli scaffali pieni di bottiglie con lo sguardo fisso per terra. Sembrava avercela con tutti a cominciare da se stesso. Mi sono bevuto la birra in pace. Frau Else, purtroppo, era ancora immersa nella conversazione con i suoi accompagnatori e ha preferito fingere di non vedermi. Ho immaginato che avesse i suoi motivi e ho deciso di andarmene. In camera l'odore di sigarette e di chiuso mi ha sorpreso. L'abat-jour era acceso e per un attimo ho pensato che Ingeborg fosse tornata. Ma l'odore escludeva, in modo quasi tangibile, la presenza di una donna. (Strano: non mi ero mai soffermato a considerare gli odori). Credo che tutto questo mi abbia depresso e ho deciso di uscire a fare un giro in macchina. Ho guidato lentamente per le strade vuote del paese. Un venticello tiepido spazzava i marciapiedi trascinando barattoli di plastica e volantini pubblicitari. Solo di tanto in tanto spuntavano dall'ombra figure di turisti ubriachi che peregrinavano alla cieca verso i loro alberghi. Non so cosa mi abbia spinto a fermarmi sul lungomare. Quel che è certo è che l'ho fatto e che istintivamente mi sono addentrato sulla spiaggia, nel buio, verso la dimora del Bruciato. Che cosa speravo di trovare? Le voci mi hanno fermato quando già intuivo il fortino di pattìni che si ergeva sulla sabbia. Il Bruciato aveva visite. Con estrema cautela, quasi strisciando, mi sono avvicinato; chiunque fosse aveva preferito conversare all'esterno. Ben presto ho scorto due macchie scure: il Bruciato e il suo ospite mi voltavano le spalle, seduti sulla sabbia, guardando il mare. A guidare la conversazione era l'altro: rapide serie di grugniti di cui ho potuto afferrare solo parole isolate come «necessità» e «coraggio». Non ho osato avvicinarmi oltre. A quel punto, dopo un lungo silenzio, è cessato il vento e sulla spiaggia è calata una specie di tiepida lapide. Qualcuno, non so chi dei due, ha parlato in modo ambiguo e disinvolto di una «scommessa», una «faccenda dimenticata». Poi ha riso... Poi si è alzato e si è avviato verso la battigia... Poi si è voltato e ha detto qualcosa d'incomprensibile. Per un istante – un istante di follia che mi ha fatto rizzare i capelli – ho pensato che fosse Charly; il suo profilo, il modo in cui lasciava cadere la testa come se avesse il collo rotto, i suoi mutismi repentini; il nostro amico Charly che usciva dalle acque sporche del Mediterraneo per... consigliare in modo sibillino il Bruciato. Dalle braccia una sorta di rigidità mi si è estesa al resto del corpo mentre la ragione lottava per riprendere il controllo. In quel momento il mio massimo desiderio era filarmela via di lì. Allora ho sentito, come se la follia trovasse sostegno nel seguito del dialogo, il genere di consigli che dava il visitatore del Bruciato. «Come si fa a frenare l'assalto?». «Non ti preoccupare dell'assalto; preoccupati delle sacche». «Come si fa a evitare le sacche?». «Mantieni una doppia linea; elimina gli sfondamenti dei mezzi corazzati; tieni sempre una riserva operativa». Consigli per vincermi al Terzo Reich! Anzi, per essere più esatti, il Bruciato stava ricevendo istruzioni per contrastare quanto appariva ormai imminente: l'invasione della Russia! Ho chiuso gli occhi e ho cercato di pregare. Non ci sono riuscito. Ho pensato che la follia non mi avrebbe più abbandonato la mente. Ero in un bagno di sudore e la sabbia mi aderiva al viso con facilità. Mi prudeva tutto e temevo, per così dire, di veder spuntare all'improvviso, sopra di me, il volto splendente di Charly. Quel maledetto traditore. Questo pensiero, come una scarica, mi ha fatto aprire gli occhi; accanto alla baracca di pattìni non c'era nessuno. Ho immaginato che fossero tutti e due dentro. Sbagliavo: le ombre, in piedi, erano ancora sulla battigia con le onde che lambivano loro le caviglie. Mi voltavano le spalle. Per un istante in cielo si sono aperte le nuvole e la luna ha brillato debolmente. Ora il Bruciato e il suo visitatore stavano parlando, come se l'argomento fosse molto ameno, di uno stupro. Non senza fatica mi sono messo in ginocchio e ho ritrovato un po' della mia serenità. Non era Charly, mi sono detto un paio di volte. Elementare: il Bruciato e il suo visitatore dialogavano in spagnolo e Charly non era capace nemmeno di ordinare una birra in quella lingua. Con una sensazione di sollievo, ma ancora intorpidito e tremante, mi sono alzato in piedi e mi sono allontanato dalla spiaggia. | << | < | > | >> |Pagina 254I miei generali preferiti
Non cerco in loro la perfezione. Che cosa significa
la perfezione, su un tabellone, se non la morte, il vuoto? Nei nomi, nelle
carriere folgoranti, in quello che
formerà la memoria, cerco l'immagine delle loro mani nella nebbia, bianche e
sicure, cerco i loro occhi
che osservano battaglie (ma sono rare le foto che li
mostrano in questo atteggiamento), imperfetti e singolari, delicati, distanti,
foschi, audaci, prudenti, in
tutti è possibile trovare coraggio e amore. In Manstein, in Guderian, in Rommel.
I miei generali preferiti. E in Rundstedt, in von Bock, in von Leeb. Né a loro
né ad altri demando perfezione; conservo nella memoria i volti, aperti o
impenetrabili, i dispacci, a volte
solo un nome e un minuscolo documento. Dimentico
perfino se Tizio ha cominciato la guerra comandando
una divisione o un corpo d'armata, se era più efficiente alla testa delle truppe
corazzate o della fanteria,
confondo gli scenari e le operazioni. Non per questo
brillano di meno. La totalità li sfuma, a seconda della
prospettiva, ma li contiene sempre. Nessuna impresa,
nessuna debolezza, nessuna resistenza breve o prolungata va perduta. Se il
Bruciato conoscesse e apprezzasse un po' la letteratura tedesca di questo secolo
(ed è probabile che la conosca e l'apprezzi!), gli direi che
Manstein è paragonabile a Günther Grass e che Rommel è paragonabile a... Celan.
Nello stesso modo Paulus è paragonabile a Trakl e il suo predecessore,
Reichenau, a Heinrich Mann. Guderian trova il suo eguale in Jünger e Kluge in
Böll. Lui non capirebbe. O almeno non lo capirebbe ancora. Per me, al contrario,
è facile trovare loro occupazioni, soprannomi, hobby, tipi di casa, stagioni
dell'anno, eccetera... O passare ore
a fare confronti e statistiche con i rispettivi stati di servizio. A ordinarli e
riordinarli: per giochi, per decorazioni, per vittorie, per sconfitte, per anni
di vita, per libri pubblicati. Non sono né sembrano santi, ma a volte li ho
visti in cielo, come in un film, i loro volti in sovraimpressione sulle nuvole,
che ci sorridevano, guardando l'orizzonte, accennando saluti, alcuni annuendo,
come se chiarissero dubbi mai formulati. Condividono nuvole e cielo con i
generali di Federico il Grande come se entrambe le epoche e tutti i giochi si
fondessero in un solo soffio di vapore. (A volte immagino
che Conrad sia malato, ricoverato in ospedale, senza
visite, anche se forse ci sono io in piedi vicino alla porta, e nella sua agonia
scopre, riflesse sulla parete, le
mappe e le pedine che non toccherà mai più. Il tempo
di Federico e di tutti i generali sfuggiti alle leggi dell'altro mondo! Il vuoto
contro cui sbatte il pugno del
mio povero Conrad!). Figure simpatiche, malgrado
tutto. Come Model il Titano, Schörner l'Orco, Rendulic il Bastardo, Sixt von
Arnim l'Obbediente, Witzleben lo Scoiattolo, Blaskowitz il Giusto, Knobelsdorff
il Jolly, Balck il Pugno, Manteuffel l'Intrepido, Student
la Zanna, Hausser il Nero, Dietrich l'Autodidatta,
Heinrici la Roccia, Busch il Nervoso, Hoth il Magro,
Kleist l'Astronomo, Paulus il Triste, Breith il Silenzioso, Vietinghoff
l'Ostinato, Bayerlein lo Studioso, Hoepner il Cieco, Salmuth l'Accademico, Geyr
l'Incostante,
List il Luminoso, Reinhardt il Piccolo Muto, Meindl il
Cinghiale, Dietl il Pattinatore, Wöhler il Testardo, von
der Chevallerie il Distratto, Bittrich l'Incubo, Falkenhorst il Saltatore, Wenck
il Falegname, Nehring l'Entusiasta, Weichs il Furbo, Eberbach il Depresso,
Dollmann il Cardiopatico, Halder il Maggiordomo, Sodenstern il Veloce,
Kesselring la Montagna, Küchler l'Assorto, Hube l'Inesauribile, Zangen l'Oscuro,
Weiss il Trasparente, Friessner lo Zoppo, Stumme lo Iettatore,
Mackensen l'Invisibile, Lindemann l'Ingegnere, Westphal il Calligrafo, Marcks il
Risentito, Stülpnagel l'Elegante, von Thoma l'Insolente... Dentro il cielo...
Nella stessa nuvola di Ferdinando, Federico Augusto, Schwerin, Lehwaldt, Zieten,
Dohna-Schlodien, Kleist, Wedel,
generali di Federico... Nella stessa nuvola dell'armata
di Blücher vincitore a Waterloo: Bülow, Zieten, Pirch,
Thielmann, Hiller, Losthin, Schwerin, Schulenburg,
Watzdorff, Jagow, Tippelskirch, eccetera... Figure emblematiche capaci di
saccheggiare tutti i sogni al grido di Eureka! Eureka! Sveglia!, perché tu apra
gli occhi, se sei riuscito ad ascoltare il loro richiamo senza timore, e trovi
ai piedi del letto le Situazioni Preferite che
ci sono state e le Situazioni Preferite che potevano esserci state. Fra le prime
sottolineerei la cavalcata di
Rommel con la 7a divisione corazzata nel 1940, Student che piomba su Creta,
l'avanzata di Kleist con la 1a armata corazzata nel Caucaso, l'offensiva della
5a armata corazzata di Manteuffel nelle Ardenne, la campagna dell'11a armata di
Manstein in Crimea, il cannone Dora in sé, la bandiera sull'Elbrus in sé e per
sé, la resistenza di Hube in Russia e in Sicilia, la 10a armata di Reichenau che
spezza le gambe ai polacchi. Tra
le Situazioni Preferite che non ci sono state, ho una
predilezione particolare per la presa di Mosca da parte delle truppe di Kluge,
per l'espugnazione di Stalingrado da parte delle truppe di Reichenau e non di
Paulus, per lo sbarco della 9a e della 16a armata in
Gran Bretagna con lancio di paracadutisti incluso, per
la conquista del fronte Astrachan'-Archangel'sk, per il
successo a Kursk e Mortain, per la ritirata in perfetto
ordine sull'altro lato della Senna, per la riconquista di
Budapest, per la riconquista di Anversa, per la resistenza a oltranza in
Curlandia e a Königsberg, per la tenuta delle linee sull'Oder, per il Ridotto
Alpino, per la morte della Zarina e il cambio di alleanze... Scempiaggini,
fesserie, inutili fasti, come dice Conrad, per
non vedere l'ultimo addio dei generali: soddisfatti della vittoria, buoni
perdenti nella sconfitta. Perfino nella sconfitta assoluta. Strizzano l'occhio,
provano i saluti militari, contemplano l'orizzonte o annuiscono.
Che cosa c'entrano loro con questo albergo che cade
a pezzi? Nulla, ma sono d'aiuto; confortano. Prolungano l'addio fino
all'eternità e mi ricordano vecchie partite, pomeriggi, serate, di cui resta non
il trionfo o il fallimento ma soltanto una mossa, una finta, uno
scontro, e le pacche degli amici sulle spalle.
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