Copertina
Autore Mario Bonanno
Titolo Rosso è il colore dell'amore
SottotitoloIntorno alle canzoni di Pierangelo Bertoli
EdizioneNuovi Equilibri, Viterbo, 2012, Grande Sconcerto , pag. 112, dvd, ill., cop.fle., dim. 15x21x1 cm , Isbn 978-88-6222-283-9
LettoreRiccardo Terzi, 2012
Classe musica , paesi: Italia: 1960 , paesi: Italia: 1980
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Pagina 5

Ho conosciuto Angelo (noi l'abbiamo sempre chiamato così) quando avevo quindici anni e lui ventisette. Durante i primi vent'anni della nostra amicizia ci siamo frequentati forse quotidianamente e non ricordo di aver sprecato insieme a lui nemmeno un minuto. Quello che più mi colpiva era la sua capacità di vivere a fondo qualunque cosa, che si trattasse di calcio, di cibo, o dell'ultimo concerto fatto insieme. Ecco, se proprio dovessi cercare di descriverlo in poche parole, direi che Angelo era un nemico acerrimo della superficialità e della banalità.

Marco Dieci




Non so se sono stato mai poeta / e non mi importa niente di saperlo
riempirò i bicchieri del mio vino / non so com'è però vi invito a berlo
e le masturbazioni celebrali / le lascio a chi è maturo al punto giusto
le mie canzoni voglio raccontarle / a chi sa masturbarsi per il gusto
Canterò le mie canzoni per la strada / ed affronterò la vita a muso duro
un guerriero senza patria e senza spada / con un piede nel passato
e lo sguardo dritto e aperto nel futuro / E non so se avrò gli amici a farmi il coro
o se avrò soltanto volti sconosciuti / canterò le mie canzoni a tutti loro
e alla fine della strada /potrò dire che i miei giorni li ho vissuti.

Pierangelo Bertoli, A muso duro




Qualcuno era comunista perché Piazza Fontana, Brescia,
la stazione di Bologna, l'Italicus, Ustica eccetera, eccetera, eccetera
Qualcuno era comunista perché chi era contro era comunista
Qualcuno era comunista perché non sopportava più
quella cosa sporca che ci ostiniamo a chiamare democrazia
Qualcuno credeva di essere comunista, e forse era qualcos'altro
Qualcuno era comunista perché sognava una libertà diversa da quella americana
Qualcuno era comunista perché credeva di poter essere vivo e felice
solo se lo erano anche gli altri
Qualcuno era comunista perché aveva bisogno di una spinta
verso qualcosa di nuovo
Perché sentiva la necessità di una morale diversa
Perché forse era solo una forza, un volo, un sogno, era solo uno slancio,
un desiderio di cambiare le cose, di cambiare la vita
Sì, qualcuno era comunista perché, con accanto questo slancio,
ognuno era come più di sé stesso
Era come due persone in una
Da una parte la personale fatica quotidiana e dall'altra il senso di appartenenza
a una razza che voleva spiccare il volo per cambiare veramente la vita.

Giorgio Gaber, Qualcuno era comunista


(...) Ci si sottomette alla produzione in tempo di pace dei mezzi di distruzione, al perfezionamento dello spreco, ad essere educati per una difesa che deforma i difensori e ciò che essi difendono. Se si tenta di porre in relazione le cause del pericolo con il modo in cui la società è organizzata e organizza i suoi membri, ci troviamo immediatamente dinanzi al fatto che la società industriale avanzata diventa più ricca, più grande e migliore a mano a mano che perpetua il pericolo. La struttura della difesa rende la vita più facile ad un numero crescente di persone ed estende il dominio dell'uomo sulla natura; in queste circostanze, i nostri mezzi di comunicazione di massa trovano poche difficoltà nel vendere interessi particolari come fossero quelli di tutti gli uomini ragionevoli. I bisogni politici della società diventano bisogni e aspirazioni individuali, la loro soddisfazione favorisce lo sviluppo degli affari e del bene comune, e ambedue appaiono come la personificazione stessa della ragione. E tuttavia questa società è, nell'insieme, irrazionale. La sua produttività tende a distruggere il libero sviluppo di facoltà e bisogni umani, la sua pace è mantenuta da una costante minaccia di guerra, la sua crescita si fonda sulla repressione delle possibilità più vere per rendere pacifica la lotta per l'esistenza — individuale, nazionale e internazionale. Questa repressione, così differente da quella che caratterizzava gli stadi precedenti, meno sviluppati, della nostra società, opera oggi non da una posizione di immaturità naturale e tecnica ma piuttosto da una posizione di forza. Le capacità (intellettuali e materiali) della società contemporanea sono smisuratamente più grandi di quanto siano mai state, e ciò significa che la portata del dominio della società sull'individuo è smisuratamente più grande di quanto sia mai stata. La nostra società si distingue in quanto sa domare le forze sociali centrifughe a mezzo della Tecnologia piuttosto che a mezzo del Terrore, sulla duplice base di una efficienza schiacciante e di un più elevato livello di vita.

Herbert Marcuse, L'uomo a una dimensione

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ANTEFATTO

Il cantante e il giornalista, il tempo e il luogo


Enzo Biagi: Pierangelo Bertoli con le sue ballate canta i sogni, le lotte e le passioni degli uomini. Nella sua musica c'è rabbia e c'è speranza. Θ un uomo che con l'aiuto della sua arte si è inventato la vita. Bertoli, com'è stata la sua infanzia? Cosa aveva di diverso da quella degli altri bambini?

Pierangelo Bertoli: Non molto di diverso. Ho avuto un'infanzia decisamente felice (...) Sono cresciuto in un cortile, eravamo sette-otto bambini, più o meno della stessa età. Non c'era nessuna discriminante tra di noi, a parte che non potevo giocare al football come gli altri (...) Non mi sono mai sentito handicappato nei loro confronti. Forse anche perché ero il più grosso (...) Voglio dire: mi arrampicavo sugli alberi... non ho avuto un'infanzia infelice.

E.B. Come ha scoperto la sua vocazione per la musica?

P.B. Molto avanti con gli anni. Che poi, più che per la musica, è stata per la voglia di dire delle cose. Cioè: ho imparato a suonare la chitarra per cantarci sopra delle parole. Mi piace cantare e mi piace raccontare. Ho scritto le canzoni per quello. E poi perché non mi piacciono le canzoni che in genere si sentono in giro, non dicono niente.

E.B. Chi l'ha aiutata a superare gli inevitabili momenti di sconforto?


[...]

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Anno di merda l'ottantatrè del secolo scorso. Un anno-simbolo dello spirito imbecille dei tempi, prodromo dell'incipiente evo craxiano. Quando Bertoli partecipa al faccia-a-faccia tv con Enzo Biagi — il programma è "Film Story" — nel Bel Paese non tira affatto una bella aria. Solo che in pochi se ne accorgono, distratti come sono a contare i fagioli di "Pronto Raffaella", rincitrullirsi con la comicità decerebrata di "Drive in", rimettersi a lucido e giocare a fare i broker. E a piede libero c'è anche quel nulla in versione canterina di Toto Cutugno, con il coraggio di sbrodolarsi in luoghi comuni sull'italiano vero (quello con "l'autoradio nella mano destra e un canarino sopra la finestra", ricordate?), una specie di inno nazionale di riserva.

E allora perché cominciare da qui? Perché non dai furiosi — e gloriosi — Settanta della Repubblica che meglio interpretano l'humus guerreggiante del Nostro? Perché a cavalcare l'onda (chitarra & militanza politica) sono buoni tutti. Più difficile è continuare a farlo quando gli ideali si ammosciano e le piazze si svuotano, oppure si riempiono di scimuniti in Timberland e Moncler. Quando invece che gli zingari felici per radio è tutto uno strombazzare di bollicine e duranduran e vamos a la playa; e le donne italiane, piuttosto che per l'intellettuale organico sbavano per quel fichissimo di padre Ralph di "Uccelli di rovo". Si chiama riflusso, signore e signori. Il pensiero come vuoto a perdere. E Bertoli, invece, lì — in una delle sue rade apparizioni televisive — a rispondere pane al pane. A sorridere poco, a sposare la causa, a soprassedere alle domande alquanto innocue di Biagi, a non battere ciglio sui temi dell'impegno sociale e dell'handicap. Azzarda persino un affondo alla morale cattolica, al pietismo di facciata, lavacoscienze. Quando si dice averci le palle. Di quelle palle che sfidano tempi e mode, mestizie benpensanti, carriera, stato e chiesa, tentativi di normalizzazione, e vanno a braccetto con la coerenza. Non è che avessi bisogno dell'intervista di Biagi: nel millenovecentottantatrè conoscevo già Pierangelo Bertoli. Nel senso che i suoi dischi di fede marxista andavano e riandavano da tempo sul piatto del mio Sony. Ma è a partire da quegli anni — quando la ritirata dall'impegno di massa è stata pressoché collettiva — che ho imparato a rispettarlo davvero. A mandare a memoria le sue canzoni. Che sanno cosa dire e sanno come dirlo. Perché nel decennio di plastica in cui la valletta diventa proto-velina, e si comincia a (s)parlare di yuppie, borsa, cubiste, visagiste, manicure, Antonello Venditti — per esempio — belava già sul cuore e sull'amore, e con lui una nutrita schiera di bennati, lucidalla, arlecchini rock. All'insegna del pecunia non olent, e nemmeno le idee. L'epoca del disimpegno trova, insomma, Pierangelo Bertoli là dove lo aveva lasciato quella della lotta dura e senza paura: al suo posto, a cantare più o meno le stesse cose. Di persone, ideali, amori comuni, vita vera. A continuare, soprattutto, a credere nel peso specifico delle sue canzoni.

Peso specifico dal quale sarebbe miope prescindere.

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Ritratto dell'artista da giovane

Pierangelo Bertoli nasce a Sassuolo (Modena) il 5 novembre del 1942. L'Italia è ferro e fuoco, in ginocchio, in guerra; il resto del mondo pure. La vita è molto dura, come si può immaginare: il bimbo, per giunta, è figlio di operai, non è che si sguazzi nell'oro in casa Bertoli: si tira a campare, piuttosto.

Il cantautore da piccolo è un bimbetto tenace. Biondo, robusto sin da allora.

E precoce: cammina già (ha imparato a nove mesi) quando si ammala della poliomelite che lo priva della funzionalità delle gambe, costringendolo su una sedia a rotelle per il resto della vita.

Sono gli sgambetti del destino, che non per niente ha fama di essere cinico e baro.

Malgrado la presenza della carrozzella, l'infanzia di Pierangelo è uguale a tante altre di quegli anni: priva di ogni superfluo ma ostinatamente spensierata.

Peccato solo per le partite a pallone, mancate giocoforza.

Poi il tempo — bene o male — passa sempre, e con lui passa anche la guerra.


All'alba dei Sessanta l'Italia, per lo più, torna a sognare.

Dai Bertoli manca ancora la radio, la passione per la musica arriva per vie traverse: dal fratello che suona in un complessino locale e pensa bene di eleggere casa propria a teatro delle prove; e dalle canzoni che Pierangelo va ascoltando in giro, qua e là.

Di mettersi a cantare in proprio ancora non ci pensa proprio: conosce la discografia di alcuni cantanti famosi — quella di Sinatra la conosce a memoria — ma non ha la minima confidenza con gli strumenti musicali, meno che mai ha cognizione delle diverse tecniche interpretative.

Il pensiero stupendo di saltare il fosso e cimentarsi chitarra & voce in prima persona, si fa strada in lui, quando si accorge di poter contare su un discreto orecchio musicale.

La tempra è quella degli emiliani di roccia, e in pochi mesi impara la chitarra, che di lì a poco diventa il suo strumento del cuore. Seguono, come da copione, esercizi da autodidatta e primi tentativi di scrittura.


Le primavere di Pierangelo sono ormai ventitré, e il suo primo pubblico è un pubblico di amici.

Di lì al confronto con un teatro più vasto, il passo sarà breve. La voce è salda, le parole quelle giuste. Comincia ad esibirsi con un certo successo nelle feste di paese e in quelle di partito, naturalmente il PCI.

Il legame con la sua terra d'origine si mantiene saldo: oltre a non allontanarlo da Sassuolo, gli fa comporre diverse canzoni in dialetto modenese.




Primi giri

Gli anni Settanta irrompono, in Italia e nel mondo. Stracarichi di musica, sogni, furore, fermenti, slanci, cadute, fragole e pugnali. A quel tempo Bertoli milita nell'Unione Comunisti Italiani (marxisti-leninisti) di Aldo Brandirali, e insieme ad altri musicisti militanti (Bartolo Bruno alla fisarmonica e alle tastiere, Lello Zacquini alla chitarra, Alberto Bocchino al basso e Claudia Montis alla voce) costituisce il Canzoniere del Vento Rosso, pubblicando per la casa editrice del partito — "Servire il popolo" — i primi 45 giri. Sono prodromi del cantautore a venire e si intitolano Marcia d'amore/Per dirti t'amo; Scoperta/Marcia d'amore, Matrimonio/L'autobus.

Siamo negli anni a cavallo tra il Settantrè e il Settantaquattro del Novecento. Anni di austerity, di democrazia cristiana, di colera a Napoli, di piombo.

Anni che lo vedono esordire con il primo album da solista, Rosso colore dell'amore (ristampato postumo in cd dalla American Records, nel 2006), con dentro dodici brani, comprese due canzoni uscite poco tempo prima in veste singola: L'autobus e Per dirti t'amo.

Θ un periodo in cui "comunista" è la parola magica, la chiave d'accesso ai sogni da afferrare con la mano. Sogni che travalicano persino le frontiere.

Così il primo 33 bertoliano viene stampato persino in Germania (quella dell'Ovest), a cura del Kommunistische Partei Deutschlands. Ne consegue una storica tournée che tocca, tra le altre, Monaco di Baviera, Francoforte, Colonia, Dόsseldorf e Zurigo.

Il tour proseguirà in Italia, in forma ibrida, quasi di teatro-canzone: le ballate si alternano ai lunghi monologhi di Bertoli.

Si va avanti, dunque, col vento in poppa. L'anno successivo, a firma del Canzoniere del Vento Rosso (in diversa formazione: Silvana Zigrino e Ciccio Giuffrida al posto di Bartolo Bruno), esce l'album Alla riscossa, in cui il Nostro interpreta soltanto. Fatte salve tre canzoni di cui è autore, tra le quali un embrione di Eppure soffia, con testo diverso, intitolata Mario Bruno.

Frattanto giunge il settantacinque: scioltasi l'Unione dei Comunisti Italiani e, di conseguenza, anche il Canzoniere del Vento Rosso, a Bertoli non resta che ingegnarsi in proprio. Arruola musicisti — Marco Dieci, Francesco Coccapani, Gigi Cervi — sulla sua stessa linea d'onda e realizza Rocablues, prodotto nientemeno che dal presidente della squadra di calcio della Sassolese, Carlo Alberto Giovanardi.

Bertoli adesso vuole fare sul serio, comincia quindi a darci dentro con le canzoni. Il destino si riscatta e di lì a poco viene a dargli una mano.




Piccoli cantautori crescono

Le cose vanno in questo modo: un amico musicista di Pierangelo, tale Alete Corbelli — chitarra solista negli anni Sessanta di Caterina Caselli — fa ascoltare Rocablues alla cantante. Il disco le piace. Al punto da convincere il marito (il discografico Pietro Sugar) a proporre un contratto al neo cantautore. Nel 1976 l'album Eppure soffia esce per la CGD, e inizia a veicolare il nome di Bertoli presso un pubblico più vasto.

In forza, soprattutto, della title-track: un inno ecologista ante-litteram.


L'anno in cui Caterina Caselli decide di dedicarsi a tempo pieno all'attività di talent-scout, fondando una sua etichetta discografica, è un anno simbolo della contestazione operaia e studentesca. Il 1977 è l'anno della legge sull'aborto, approvata alla Camera sul filo di lana. L'anno di Luciano Lama (CGIL) contestato dagli autonomi durante un comizio a Roma. Del fuoco dell'eversione che incendia l'Italia. 2128 attentati, 32 persone gambizzate, 11 assassinate. Del Mistero buffo di Dario Fo e Franca Rame in tv, e della fine di Carosello.

Θ questo il contesto sociale che fa da sfondo all'uscita di Il centro del fiume, pubblicato per la neonata Ascolto della Caselli, con dentro una Rosso colore in versione ridotta; ma anche 1967 e Vedere il quartiere, due must del primo repertorio bertoliano, e così sia.

Il tempo vola ulteriormente: i Settanta diventano più grigi, si induriscono. Si fanno a mano armata come nei poliziotteschi in voga nel periodo, in cui Milano, Genova, Napoli, Roma tremano e la polizia non può sparare (ma non è poi così vero).

Archiviata la parentesi dialettale di S'at ven in ment (1978), nel 1979 è la volta di A muso duro, primo grande successo di vendite (60.000 copie contro le 30.000 del precedente), e aumento esponenziale di richieste live: 142 concerti solo in quell'anno mirabilis.

Per Pierangelo tutto procede per il meglio. Θ in questo periodo, fra l'altro, che conosce Bruna Pattacini, destinata a diventare sua moglie, nonchè mamma di Emiliano, Petra e Alberto Bertoli.




Una voce tra due fuochi

Gli anni Ottanta — di contro a quelli del decennio precedente — sono anni di superficie. Fatui, inconsistenti, edonisti, finti, televisivi, sgrammaticati. Ma, per una loro buona parte, sono anche gli anni in cui l'impronta bertoliana si fa sentire con maggiore maturità.

Il successo di A muso duro viene consolidato, infatti, da Certi momenti (CGD), proprio all'alba del nuovo decennio. Il disco comprende una title-track che affronta controvento (e contro le indicazioni della Chiesa) il tema dell'aborto, e Pescatore (cantata in duo con una sconosciuta Fiorella Mannoia), che beneficia di un larghissimo air play.

Bertoli diventa un nome di punta del cantautorato italiano. Il successivo Album (CGD, 1982) ne conferma popolarità e tematiche. Dall'autoironica La fatica al crescendo di Caccia alla volpe. Per approdare alle vette qualitative date da Sud e Bianchezza.


Per restare in tema di singoli Nuova emigrazione (con il refrain che fa il verso alla popolare: "mamma mia dammi cento lire/ che in America voglio andar") è il passaggio trainante del successivo Frammenti (CGD, 1983), in cui convivono ballate di solida impronta blues e altre di impianto rock melodico.

Tra tournée quasi infinite e dischi nuovi il Nostro produce a ritmi serratissimi, battendo il ferro della popolarità finché è caldo.

Seguono Dalla finestra (CGD, 1984), compendio per musica e parole del periodo storico; Petra (CGD, 1985), su sponde appena più private; Studio & Live (CGD, 1986) testimonianza dei tanti "dal vivo" in cui Bertoli & band sono, da anni, impegnati.

Quindi due passaggi interlocutori: Canzoni d'autore e Tra me e me (entrambi CGD), con gli Ottanta che stanno svanendo in bruttezza e i contenuti che pesano decisamente meno.

Sedia elettrica (CGD), nell'ottantanove, segna la fine di un periodo.

Congiuntamente allo spot "Lega per l'emancipazione dell'handicappato" — cui Bertoli partecipa come attore — che si aggiudica il Telegatto.


Nel 1990, per il suo nuovo Oracoli, approda alla Ricordi, ma il passo polemico non è spigliato come ai tempi d'oro: soltanto la title-track riesce a rievocare l'antica vena furoreggiante. I neonati Novanta, dal canto loro, non contemplano testi da barricata. Conformarsi al disimpegno è una specie di imperativo categorico diffuso, nell'Italia che canta e che va.

Il novanta vede Pierangelo impegnato anche in un cameo per Elio e le Storie Tese. Il brano si intitola Giocatore mondiale ed è la sigla del programma "Mai dire Mondiali". Affronta il tema delle barriere architettoniche, e autoironizza con i versi che seguono: "La vita è bella, perché le cabine son strette ma largo è lo stadio, solo alla morte non c'è rimedio".

Di natura diversa è il contributo bertoliano ai Giochi F.I.S.H.A., che in quello stesso anno vedono la sua firma nell'inno ufficiale Canto di vittoria, incisa anche in inglese.


Poi irrompe il novantuno dell'inaspettato Sanremo: lontano anni luce dalla linea ideologica che ha ispirato, sin qui, l'attività discografica di Pierangelo.

L'obiettivo, però, è nobile: fare conoscere al grande pubblico Disamparados (Spunta la luna dal monte), presentata insieme ai sardi Tazenda. Il successo di vendite è clamoroso e inatteso. Spunta la luna dal monte diventa anche il titolo del "best" per il quale il cantautore riceve il disco di platino.

Si bissa all'Ariston l'anno successivo. Mirando, stavolta, alla denuncia senza troppi fronzoli: il nuovo pezzo si intitola Italia d'oro e mette in piazza i panni sporchi di un Paese in caduta libera. Segue cd omonimo, ancora per la Ricordi, in cui i segnali di ripresa battagliera si intravedono, eccome.


Fuori tempo massimo sulla storia (secondo la vulgata il comunismo sarebbe morto e sepolto dal 1989), nel novantadue Bertoli si candida alle elezioni politiche per il partito della Rifondazione Comunista.

Impegnato socialmente in iniziative benefiche e di solidarietà, lotta anche per l'abbattimento delle barriere architettoniche, partecipa a incontri e raduni, per sensibilizzare l'opinione pubblica sull'integrazione sociale dei disabili.

Che il dio degli uomini liberi e dei fedeli alla linea possa dargliene merito, adesso e per sempre.




Anni bui

Il fatto è che i tempi cambiano alla svelta, e non sono più quelli di una volta.

Sono mutati in senso afasico, decisamente in peggio. Anche i vertici della Ricordi, e le disposizioni interne al gruppo dirigente, sono cambiati. Gli anni miei (1993) e l'antologico Una voce tra due fuochi (1995) segnano la rottura definitiva con le major discografiche.

Bertoli rimane tre anni senza contratto, sono giorni difficili.


Nel 1997, in occasione dei cento anni della Juventus (la sua squadra del cuore, ognuno ha i suoi difetti) scrive Juvecentus, che diventa l'inno ufficiale della società bianconera per alcune stagioni.

Il disco della rivincita sul mondo discografico dovrebbe essere Angoli di vita, pubblicato nel 1998 per l'indipendente Crisler, in cui libero da condizionamenti, il cantautore si riappropria dello slancio e lo smalto di una volta, ma i limiti delle etichette discografiche di piccola grandezza sono evidenti, e ineriscono, anzi tutto, alla fatica distributiva.

Bertoli non si dà per vinto. Si muove, anzi, a tutto campo, sul fronte della musica di qualità. Produce B.L.E.Z., l'album di Luca Bonaffini ed Ermanno Zanfi. E insieme ad altri artisti di Sassuolo dà alle stampe I giaraun d'la luna (sta per I sassi della Luna), i cui proventi sono destinati all'ospedale della sua città.


Anni duemila e oltre, come nei vecchi telefilm di fantascienza. Θ un fine agosto del 2002 quando esce, ancora per la Crisler, l'ultimo disco di una carriera a muso duro: si tratta di 301 guerre fa, contenente dieci ballate del repertorio noto e meno noto del cantautore.

Non fa in tempo a presentarlo in concerto, questo suo nuovo album.

Pierangelo Bertoli muore il 7 ottobre, al Policlinico di Modena.

Muore presto. Muore che nessuno se lo aspettava. A cinquantanove anni.

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