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| << | < | > | >> |Pagina 7Perché (intro)
C'è la menzogna consapevole, diretta a nascondere, a deformare qualcosa; e
c'è la menzogna genuina di chi ti fornisce la propria versione dei fatti senza
considerare che si tratta di uno sguardo parziale, condizionato da educazione,
mentalità, pregiudizi. Alla fine, sulla vita di qualcuno non c'è mai consenso.
Nessuna unanimità (...) che parlassero di un filosofo o di un imperatore, gli
scrittori antichi si limitavano a una scelta di aneddoti. Con più o meno
scetticismo sembravano consapevoli di non potere raccontare tutto - e neppure lo
volevano. Θ con l'Ottocento, e l'affermazione delle scienze cosiddette esatte,
che prende piede l'idea totalizzante di una biografia completa, obiettiva,
appunto: scientifica. La vita raccontata come un fenomeno naturale, in tutti i
suoi aspetti. Un'illusione, ovviamente.
(
Alberto Manguel
, scrittore)
Prima o poi succede, sotto qualunque latitudine mediatica. Arriva la classica tipa da "oroscopo in diretta" e chiede, nel nostro caso: perché proprio Stefano Rosso? Laria stolido/innocente, a metà tra la Biancaneve dei cartoni Disney e la Carlucci che intervista in tv. E allora tanto vale toglierselo subito 'sto pensiero. Cercare di spiegarli, a monte, i diversi come mai di questo libro. Comincio, quindi, facendo finta di trovarmi di fronte all'ibrido tele-radio-giornalistico di cui sopra: Perché piuttosto che l'ennesimo saggio su Guccini (o De Andrè) meglio uno ma buono su Stefano Rosso. Perché di Stefano Rosso nessuno ha mai parlato (scritto) davvero. Perché era scomodo, sensibile, poeta, difficile, divertente, non irreggimentato, colto, inaffidabile, lunatico, piantagrane, fragile, una roccia, gran bevitore, solo, ottimo suonatore di chitarra. Perché sono venuto su coi dischi dei cantautori italiani. Compresi i suoi. Quelli di Stefano Rosso. Mica soltanto Lolli e Vecchioni. Va detto a beneficio dei forzati delle classifiche: i mostri sacri sempre sugli altari, diverse spanne sotto i "minori". Quelli che post-mortem sono degni di un servizio al Tg1 (quanto meno fino all'avvento di Minzolini, adesso non è detto) e quelli che a stento un trafiletto nella pagina degli spettacoli. Continuo. Perché Stefano Rosso appartiene alla schiera dei sottovalutati della canzone italiana. Dei troppo in fretta dimenticati. Rimossi. Come un parente scomodo, uno che non si è capito e che è meglio scordare in tutta fretta. Prima di lui è toccato a Ivan Graziani e Pierangelo Bertoli. E il destino che capita ai senza tetto né legge. Agli anomali, agli scomodi. Perché secondo il luogo comune critico Stefano Rosso è stato assunto alla storia (underground) del cantautorato italiano come voce irriverente, dalla vena schietta e tendenzialmente comica, ma era molto, molto di più. Nel senso che la sua comicità era consustanziale all'aspetto tragico della vita. Alla pensosità. Perché "divertente" può anche starci, ma alla maniera di un Massimo Troisi.
Con una malinconia di fondo che è tipica di chi usa lo sberleffo come arma
di difesa contro lo sgomento esistenziale, la fragilità ontologica, un certo
pessimismo cosmico.
Questo libro parla dunque di Stefano Rosso. Ma non fa le pulci alla sua vita. Non scoprirete mai, per esempio, se è vera o no la storia che a seguito di una sconfitta amorosa, il Nostro si sia arruolato nella Legione Straniera. E nemmeno in quante "storie disoneste" si sia imbarcato dopo quella presunta del famigerato spinello. Questo libro, in altre parole, non intende scoprire nessun altarino della vita di Stefano Rosso: stra-ordinaria e/o irrisolta (come quelle di tutti) sia stata. Detesto le biografie fondate sui dettagli minimi di un'esistenza. Le trovo irriguardose, pedanti, voyeristiche, tutto sommato sterili. A chi può importare davvero tranne che ai lobotomizzati da "vita in diretta" e consimili chi e perché fosse presente alla registrazione del disco x; o in virtù di quale complesso edipico l'artista ha utilizzato la chitarra y piuttosto che quella z? Θ impossibile riprodurre una vita nella sua interezza, nella sua essenza autentica. Meglio, quindi, sorvolare. Procedere a strappi, episodi, evocazioni, stimoli, suggestioni. Lasciando il resto alla fantasia del lettore, che ogni tanto male non fa. E poi, ovvio, puntare dritto al nocciolo della questione. Concentrarsi su ciò che più conta della vita di un uomo di musica: forma e sostanza di ciò che ha lasciato. Questo è quanto tenta di fare questo libro su Stefano Rosso. Inquadrato da punti di osservazione diversi (aneddotica quel tanto che serve. Per il resto note, amarcord, analisi musicali, ricordi degli amici) ma senza tesi di fondo. E nemmeno l'ansia/smania di dimostrare alcunché.
Si è anche scelto il focus della narrazione di gruppo, proprio per evitare
che il racconto possa risultare pregiudiziale, di parte.
Che mi dici di Stefano Rosso, nasce semmai dal desiderio di colmare una "lacuna storica". Di compensare alla rimozione collettiva cui è stato fatto oggetto uno dei cantautori più originali della scena italiana anni Settanta (e a seguire). Da vivo, non pensate solo da morto. Punto e basta. Nessuna pretesa di esaustività, nessuna smania agiografica. Nessun tentativo di dire l'ultima parola. Ché le vite si vivono e non si raccontano. Mi piacerebbe pensare a questo che avete tra le mani come a un libro capace di spiegarsi da sé. Un libro che si sottrae al narcisismo autoriale, e a un certo punto si defila. Lasciando spazio alle parole che Rosso stesso ha detto/scritto/rilasciato. E a quelle di qualcuno che, in un modo o nell'altro, ne ha incrociato la strada. Da collega, amico, complice, compagno, figlio. Ché importa, anche in questo caso, fino a un certo punto. Tutte divagazioni intorno alla figura di Stefano Rosso. Da assumere possibilmente con beneficio di inventario. Ciascuno si faccia dell'artista l'idea che vuole. E lo faccia poi, anche, soprattutto andandosi a ri-ascoltare le sue canzoni. Per chi custodisse ancora una memoria in "bianco & nero" (le decalcomanie sulle piastrelle della cucina, l'album della Panini con Gigi Riva in copertina, gli sceneggiati tv tipo Il Segno del comando, Canzonissima, la "terribile" Prinz verdina dello zio, il borsello, i polizieschi tipo Roma violenta), le canzoni di Stefano Rosso sono madeleine da cui è difficile prescindere. Rosso fa parte, insomma, della mitologia anni Settanta. Per ciò che il suo look tardo hippy, i suoi baffoni alla tartara, i suoi cappelli e i suoi capelli arruffati, e ovvio le cose più famose che canta(va) e suona(va), sono in grado di evocare. C'è anche il fatto della bohème, di Via della Scala come luogo dello spirito (soprattutto per chi è romano, o giù di lì), della chitarra όber alles, delle donne & del vino, non necessariamente in quest'ordine. Certo bisognerebbe che qualcuno si degnasse ancora di farle ascoltare le canzoni di Stefano Rosso. In qualche radio, scuola, casa, quartiere, tv. Che le rendesse appena più fruibili. Alla portata di un pubblico più vasto. Questo libro vuole essere, in tal senso, un primo passo. Un riflettore (soffuso, però, mica un occhio di bue di quelli sparati, e volgari) puntato sulla vita e le opere (soprattutto) di un cantautore degno di tal nome. Impegnato (come si diceva una volta), caustico e intelligente più di quanto possa apparire a prima vista. Appassionato di metafisica, tiratardi, grande stornellatore e virtuoso del fingerpicking. Frainteso prima, quindi rimosso, per eccesso di autenticità. Mario Bonanno | << | < | > | >> |Pagina 11Stefano Rosso, mio padre (autro)Mio padre non era un padre qualunque. Tutt'altro. Era uno di quei padri che ti insegnano la vita, ma dal vero. Non perché ti stanno a ripetere la morale imparata da piccoli dalle vecchie zie, oppure al catechismo. Lui ti spiegava come stavano le cose perché la vita la viveva senza paura di farsi male. Infatti: a 30 anni se ne era fatto già parecchio, di male. A 40 era pieno di lividi, a 50 cominciava a risentirne, a 59 era un saggio, e a 60 purtroppo non c'è arrivato. Questo perché, come scrisse lui stesso, in un vecchio quaderno dalla copertina rigida, "il cancro è come il mal di denti, arriva quando meno te lo aspetti". C'aveva proprio ragione, mio padre. | << | < | > | >> |Pagina 21BIORADIOFOTOGRAFIAVia della Scala stava là ed io dal letto 26 sognavo la mia libertà cercando tra i ricordi miei Se adesso vado per il mondo mi guardi tanto strano tu ma sono sempre un vagabondo che ha in tasca cento lire in più (Letto 26 - via della Scala) Primi giri Stefano Rosso all'anagrafe faceva Rossi. Stefano Rossi sono il suo nome e cognome veri. E il 7 dicembre del 1948 il giorno che è nato, sotto il cielo di Roma. A parte il fatto che all'epoca i cantautori non sono ancora stati "inventati", l'ultima cosa che papà Bruno e mamma Jole immaginano per il figlio è un destino da artista. In una Capitale alle prese ancora con le ferite della guerra, i grilli per la testa non sono contemplati. Meno che mai nelle famiglie di estrazione popolare, per cui la vita è soprattutto lavoro duro e sacrifici. Famiglie oneste ma votate al pragmatismo, più per necessità che per vocazione. Il contesto che vede muovere i primi passi a Stefano da piccolo è Trastevere, fucina di varia ed eventuale umanità, palestra di vita e cuore della Roma più verace. Il rione-mondo che farà da scenario a tante sue canzoni (da Via della Scala a Il circo a Piccolo mondo antico). Il quartiere che gli insegna anche, molto presto, cosa vuol dire sudarsi la pagnotta e la vita. Interrotti gli studi in terza media (anche per una precoce idiosincrasia all'inquadramento di ogni tipo e natura, bisogna essere sinceri) Stefano contribuisce a tirare avanti la baracca, lavorando come garzone di fornaio. Non ha tempo di pensare all'arte, e difatti non ci pensa affatto. La chitarra, all'epoca, non sa nemmeno cosa sia. Nel senso che non ha mai avuto modo di vederne una da vicino. Quando gli succede galeotti furono il retro-bottega di un negozio di frutta e verdura e la complicità di un amico è, però, amore a prima vista. Il compiersi di un destino non annunciato, ma scritto da qualche parte nel cielo degli artisti. Impara a suonarla quasi subito, la chitarra. Si esercita, comincia a farsi le ossa nei night e nelle osterie di Roma e dintorni. Il suo stile è alquanto semplice: cantata che se ne frega della erre moscia (a posteriori, diverrà anzi il suo segno distintivo: la seconda erre moscia della canzone d'autore, dopo quella di Francesco Guccini), tono colloquiale, testi ironici, dissacranti, con tendenza all'autobiografismo.
Le musiche conciliano la canzone popolare romanesca con il country-folk
americano, attraverso arpeggi fingerpicking elaborati e mai banali (col tempo
e nel tempo l'ex fornaretto dimostrerà di saperci fare davvero con la chitarra).
Accordi & disaccordi All'inizio il cantautore da giovane divide onori e oneri con una spalla. Quella offertagli dal fratello Ugo, con cui forma il duo Romolo e Remo (quando si dice romano verace), che si aggira per bettole e localini nella speranza di tirare su qualche lira e magari hai visto mai? di imbattersi nel discografico che ti cambia la vita. Difatti. Il primo uomo (tra tante donne) del destino di Stefano risponde al nome di Roberto Castiglion, che presenta i due fratelli alla Vedette, per la quale incidono il primo 45 con lo pseudonimo "Arca di Noè" (sic!). Corre l'anno 1969, l'autunno è soffocante di scioperi e di lotte, onda lunga di un Sessantotto che non vuole finire. Le facciate A e B del disco sono occupate rispettivamente da Io e il vagabondo e da La bambina di piazza Cairoli. Riscontro di pubblico quasi nullo. Oggi si parlerebbe di flop, ma sta nell'ordine naturale delle cose. Sono più che altro prove d'autore, primi tentativi. Tanto per prenderci gusto, vedere un po' come funziona da vicino l'industria del disco. Il successo può attendere. E, difatti, attenderà. Stefano e Ugo non si danno per vinti e l'anno seguente escono con ben tre canzoni (Vecchio carillon, Il mondo è un circo e Così non va) in una antologia, curata ancora dalla Vedette. Stefano, in particolare, fa le cose sul serio, affidando anche a Miranda Martino Se il mondo cambiasse (su musica di Roberto Gigli), pubblicata su 45giri nel 1970. Seguono grandi sogni (alla faccia di un certo cinismo trasteverino, il periodo favorisce utopie e slanci giovanili), concertini sparsi qua e là e, nell'Italia post-austerity del 1974 (ricordate? L'anno prima tutti a piedi per la "crisi del petrolio"), altre due canzoni: C'è un vecchio bar nella mia città e Valentina. A interpretarle in tv, un imberbe Claudio Baglioni (che non le inciderà mai su disco. Lo stesso Rosso pubblicherà Valentina solo qualche anno più tardi, in Bioradiofotografie). Ciò che più conta nella nostra storia è che la musica e soprattutto la chitarra, per Stefano sono lì lì per diventare cosa seria.
Il 1975 lo vede infatti prendere parte, come chitarrista fisso, alle cinque
puntate di
Alle sette della sera:
varietà televisivo condotto da Gianni Morandi e Elisabetta Viviani su Raidue. Θ
da questa esperienza che pare sia nata
Milano,
incisa su disco cinque anni dopo.
Il successo L'anno fatidico è il Settantasei. L'anno dello scandalo Lockheed, del terremoto in Friuli, della nube di diossina "fuggita" da una centrale di Seveso. Per la carriera artistica di Stefano Rosso è l'anno della svolta. La RCA gli pubblica prima il 45giri Letto 26 (che regala ampi squarci della sua vita a Trastevere, a partire da una degenza in ospedale per una tonsillectomia); quindi Una storia disonesta, dissacrante ritratto di gruppo in un interno post-sessantottino, passata allo storia della canzone italiana con il titolo "convenzionale" Lo spinello. Lo stile del neo-cantautore è a questo punto ben delineato. Uno sguardo canzonatorio sull'attualità e sul passato prossimo della Nazione, commista a squarci (altrettanto disincantati) di autobiografia minima. Quest'ultimo 45giri, anche sulla scorta del massiccio airplay fornito dalle radio libere, spopola aldilà di ogni previsione, spalancando al Nostro le porte dell'Olimpo discografico. | << | < | > | >> |Pagina 46Qualcuno che ho conosciuto personalmente non ce l'ha fatta. Parlo di Rino Gaetano, Piero Ciampi, Ivan Graziani, Fabrizio De Andrè, Lucio Battisti, Mia Martini. Non lo faccio perché non riesco più a suonare. Al contrario! Appena ieri ho rifiutato due partecipazioni alle Feste dell'Unità di Roma, e tre giorni fa mi sono esibito a Trastevere, davanti a un pubblico come sempre molto affettuoso, che da sempre mi segue e che probabilmente prenderà male questa mia decisione. Fatto è che i pizzicagnoli dovrebbero occuparsi di prosciutti e certi produttori dovrebbero dargli una mano, invece di interessarsi di Musica. Molti non sanno che Eros Ramazzotti ha guadagnato, ancor giovane, più di Joe Pass e Uto Ughi messi insieme. Non me ne voglia Eros, ma avevo bisogno di un valido paragone. E non me ne voglia neanche il caro Andrès Segovia, grande amico del Generalissimo Franco, che giocando non poco sull'ignoranza dell'epoca, si attribuì il merito di essere stato il primo a trascrivere per chitarra classica musiche di J. S. Bach, I. Albeniz e così via. Oggi, tale merito, riconosciuto da tutti, è tornato a chi di dovere: al Maestro Francisco Ramon Tarrega. Ma torniamo alla chitarra al chiodo. La storia inizia molti anni fa, quando nel retrobottega di una frutteria, un ragazzino sardo, un pomeriggio mi fece ascoltare la sua chitarra. Avvertii come un calore che dallo stomaco saliva fino al cuore. Il giorno dopo strimpellavo una Eko da 7000 lire. Fu così che Stefanino, che si alzava alle sei di mattina per portare il panino appena sfornato ai suoi coetanei "figli di papà" sputandoci (ce poi giurà!) prima sopra, (eh; sì!), si ritrovò al Cinema Teatro Adriano ad ascoltare The Beatles (beccateve questa!). La cosa meno evidente era il fatto che mancavano Dario Salvatori & Company, anche se ne raccontano le gesta, come ha fatto il buon Dario durante uno special televisivo dove per quindici minuti ci ha narrato che Alain Barriere scrisse Vivrò (Ma vie) per Iva Zanicchi, nella maniera più smielata possibile, eppoi mandò in onda la cara Iva che cantava Prayer (Vivrò), dei Platters. Chissà se la Zanicchi, Dario Salvatori, Alain Barriere e i Platters si sono mai conosciuti. Comunque, per tranquillità, non accetterei mai da loro un assegno. I Beatles andavano alla grande. Eppure i Rolling Stones. Eppoi, Micke Jaggher era capace di tutto. Narra la leggenda, che dopo aver leccato una fan tutta la notte, in preda a un raptus gli sturò il lavandino con le labbra. Quando le Pietre Rotolanti vennero in Italia io ero lì. E, dalle gradinate del Palasport vidi per la prima e l'ultima volta il mitico Brian Jones... un altro che non ha attaccato la chitarra al chiodo! Noi suonavamo da matti. Dappertutto. Le "Cantine" (non quelle piene di sorci), dove si suonava (al contrario piene di sorche), crescevano come funghi, e si faceva musica dal vivo sul serio. Lì imparai a suonare, a scopare e a vedere quelle che mi piacevano, scopate da altri. Giravano psicofarmaci tipo Fadormir, Revonal e Valium, e si faceva la pausa a turno, poiché all'epoca non ci si fermava mai. Così a turno suonavamo la chitarra, la batteria, il basso e la tastiera. Fu durante una di queste pause che ballai con una biondina niente male. La buttai lì alla Bogart Stiamo insieme stanotte? e lei Perché no? Cazzo pensai ho la presa facile! Passammo insieme la notte. Il giorno dopo seppi che era fuggita dal riformatorio e che praticamente non sapeva dove cazzo andare a dormire. Poi un giorno decidemmo per il salto di qualità. | << | < | > | >> |Pagina 59| << | < | > | >> |Pagina 62| << | < | > | >> |Pagina 63| << | < | |