Autore Walter Bonatti
Titolo Un mondo perduto
SottotitoloViaggio a ritroso nel tempo
EdizioneBaldini&Castoldi, Milano, 2014 [2009], 10/56 , pag. 556, ill., cop.fle., dim. 13x21x3,5 cm , Isbn 978-88-6852-133-2
LettoreDavide Allodi, 2014
Classe viaggi , natura












 

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Indice


Vivere d'avventura (2009)                                 7
Al Polo del freddo (1964)                                24
Klondike, sulla via dei cercatori d'oro (1965)           38
2500 chilometri in canoa, solo (1965)                    50
Sull'isola dei grandi orsi kodiak (1965)                 98

Alla scuola dei cavalieri erranti: i masai (1966)       116
Nel mondo dei coccodrilli (1966)                        122
Solitario tra bufali e leoni (1966)                     165
I varani della preistoria (1968)                        200
Io e la tigre, per quaranta giorni (1968)               213

Attraverso il grande deserto salato (1969)              247
Un paradiso subacqueo (1967-1969)                       263
Sulle orme di Melville (1969)                           272
L'Isola di Pasqua (1969)                                288
Ai confini del mondo: Capo Horn (1971)                  300

Una solitudine di gelo (1971)                           313
Nyiragongo, discesa nell'inferno (1972)                 324
Tra i primitivi, appunti di viaggio (1972 e 1974)       335
    Nel mondo dei pigmei                                335
    Irian Jaya, anno zero                               347

Nelle foreste dell'Orinoco (1967 e 1973)                359
Sulle terre alte della Guayana — Auyàn Tepuy (1975)     386
L'Antartide dei miei ricordi (1976)                     415
I giganti della Sierra Nevada (1977)                    443
Alle sorgenti del Rio delle Amazzoni (1967 e 1978)      447
    L'Amazzonia in sintesi                              447
    La sorgente scoperta                                454
    Lungo il grande tributario                          463

APPENDICE                                               535
Fermare le emozioni (1998)                              537
Discorso tenuto alla Società Geografica Spagnola (2008) 547
Uno sguardo al passato (2009)                           551


 

 

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Pagina 7

VIVERE D'AVVENTURA (2009)


Quando si è molto giovani capita di non sapere bene chi si è e che cosa si vuole dalla vita. Indubbiamente però noi tutti disponiamo di un misterioso filo conduttore che prima o poi finirà per farci scegliere ciò che per indole è già latente in noi, e servirà a costruire la nostra personalità.

Ero ragazzo e dalla Pianura Padana dove per qualche anno ho vissuto in tempo di guerra, guardavo sull'orizzonte la linea azzurrina dei monti lontani: le Prealpi; e sognavo. Per me quelle cime rappresentavano l'«insormontabile», e tuttavia erano di modesta altezza. In egual misura amavo molto starmene per ore intere a fantasticare sulle rive del Po. Là c'erano distese di sabbia e la grande corrente. Nella mia mente ne facevo dei deserti e degli oceani. Quando si è piccoli queste cose sembrano talmente vaste! Abitavo dunque sulla riva emiliana del fiume, e ricordo che per gioco andavo a nuoto con i miei amici sull'altra sponda, quella lombarda, attraverso le difficoltà della rapida corrente. Per noi era l'avventura. Seduto su quelle rive sabbiose viaggiavo con il pensiero a cavallo di un pezzo di legno portato dal fiume. Arrivavo così ai mari, all'Est e all'Ovest, fino agli oceani. Sì, su quelle sabbie sono cresciuto, sognando. Il Po era il mio mare, le sue boscaglie le immense foreste, e le secche i miei sconfinati deserti.

Ancora bambino, in Valle Seriana, a nord di Bergamo, ospite dagli zii, ricordo che con un pretesto qualsiasi mi allontanavo da casa per giungere fin dove riuscivo a seguire il volo delle aquile, da quelle parti ve n'erano ancora a quel tempo. A dominare la valle c'era una cima rocciosa, il monte Alben, che sfiorava appena i duemila metri, ma nella mia ingenuità di bambino l'avevo elevata a tetto del mondo.

Avevo diciotto anni quando compii una vera e propria scalata su una parete di roccia. Quella prova mi aveva talmente galvanizzato che fin da subito decisi di dedicarmi anima e corpo alle scalate. Familiarizzai presto con «l'estremamente difficile» e molti furono i successi che seguirono. Dirò soltanto che la pratica dell'alpinismo per me è stata subito avventura. Presto sarebbe diventata un affascinante modo di essere e conoscersi. Sarebbe servita anche al mio benessere fisico e intellettuale.

Poi, negli anni Sessanta, a trentacinque anni, sentendo la necessità di allargare gli orizzonti, trasferii il mio alpinismo estremo, con tutte le sue componenti psicologiche, dalla verticalità delle altitudini all'ampiezza del mondo orizzontale, altrettanto intenso e assai più ampio. Così, dopo le alte montagne, un mondo vastissimo mi attendeva. Avevo dunque cominciato a muovermi tra una natura diversa, ma non per questo meno ricca di emozioni, meraviglie, genuinità: nelle terre più remote, ardue e strane del pianeta.

Da allora sono stato un po' ovunque nel mondo, e ogni cosa fatta è risultata per me la più bella e importante, la più ricca di sensazioni. Questo perché ogni esperienza vissuta era stata da me intensamente desiderata. Per l'occasione ero diventato giornalista. Ma come era avvenuto? Ebbene, già collaboravo con il settimanale «Epoca», realizzando particolari reportage su argomenti di casa nostra. Ma un bel giorno il suo direttore, Nando Sampietro, mi spedì in un angolo sperduto di quella che al tempo era l'immensa Unione Sovietica, assolutamente impenetrabile in quegli anni per noi occidentali. L'amico direttore mi aveva detto ironicamente: «Vai laggiù a vedere e torna poi a raccontarcelo». La meta era il polo del freddo, in Yakutia, nell'estrema Siberia nord-orientale: meno settantun gradi centigradi. Il luogo più freddo del mondo abitato. Era l'inverno 1963 e questa missione costituiva anche il mio esame di inviato. Risultò positivo. Presto, la direzione del giornale mi avrebbe dato carta bianca per realizzare dove e come volevo il mio «giornalismo estremo».

Ma come nasceva la mia avventura? Innanzitutto riesumavo le mie fantasie di bambino, le letture fatte da ragazzo e sulle quali avevo tanto sognato. Tutti a una certa età facciamo dei sogni su ciò che leggiamo, e a questi sogni adesso io avrei dato vita, facendone il motivo dei miei viaggi. Queste mie giovanili visioni ora venivano da me studiate e appuntate su una mappa in corrispondenza di una posizione geografica. Oggi l'organizzazione e i voli charter arrivano un po' dappertutto, ma allora non era così; dei luoghi selvaggi si sapeva pochissimo, pochi c'erano stati. Dove io giungevo era stata quasi sempre un'impresa, ed era proprio questo il genere di viaggio che sottoponevo come programma al direttore di «Epoca». Il quale, devo dirlo, mi ha sempre dato il suo consenso, e non certo per spassionata adesione ai miei progetti bensì condividendone e apprezzandone il contenuto. Voglio subito precisare che nei miei viaggi e nelle mie esperienze non ho mai cercato la lotta contro qualcosa o qualcuno, uomo o animale temibile che fosse, la mia era bensì la ricerca di un punto d'incontro con il mondo selvaggio per meglio conoscerlo, assimilarlo e trasmetterlo poi con parole e immagini ad altri. Questo è quanto ho inteso fare svolgendo il mio tipo di giornalismo, facendo capire al lettore che dietro il taccuino di appunti, dietro la macchina fotografica c'ero io, piccolo uomo curioso con le sue emozioni.

Come ho detto, da ragazzo ho sempre divorato libri d'avventura, trasponendone poi il contenuto ai luoghi a me familiari. È così che il Po raffigurava per me il Mississippi o il Rio delle Amazzoni. Stevenson, Defoe, Conan Doyle, Conrad, Jack London, Melville e tanti altri come loro sono stati i miei vangeli. E quando ho avuto la preparazione per farlo, e i mezzi, mi sono dedicato a verificare l'esattezza di quelle che sovente parevano creazioni scaturite dalla fantasia. Autori erano questi che sapevano vedere il mondo come anch'io avrei voluto vederlo. Ed è ciò che avvenne.

Così, per esempio, ho ritrovato sull'altipiano venezuelano, nel cuore della Guayana, l'autentico paesaggio che Conan Doyle nel suo Il mondo perduto aveva descritto quasi come fenomeno soprannaturale; e ancora tante altre stupefacenti sorprese. È straordinario come si possano ricevere, almeno da un punto di vista emozionale, le impressioni di quelle che sono state le grandi esperienze di viaggiatori e autori del passato. È stato bello per me riviverle nella realtà, fare un salto all'indietro nel tempo per ritrovare condizioni ed emozioni autentiche, da altri già vissute. Secondo me non andrebbero dimenticate queste letture, proprio perché hanno, oltre al resto, il potere di risvegliare e coltivare quel sano senso dell'avventura, quella vera e concreta, che nell'uomo è innato.

Perché questa mia scelta di vita? Ebbene, credo che sia il mezzo migliore per conoscermi, per meglio dialogare con me stesso, per misurarmi in rapporto alle decisioni prese, alle cose compiute. Ho dunque scelto di vivere conservandomi in sintonia con il mio stesso modo di essere e di vivere.

L'avventura per me è una spinta personale più che un fatto vero e proprio esplorativo inteso nel senso più comune. Negli assoluti silenzi, negli immensi spazi, ho trovato una mia ragione d'essere, un modo di vivere a misura d'uomo. Comunque, per sentirsi un po' di spazio intorno, un po' di quiete, a pensarci bene non è necessario andare nell'Antartide o nell'Amazzonia, perché il vero spazio costruttivo, secondo me, è quello della mente. È lì che bisogna crearselo! Il bello dell'avventura è sognarla, dare aria all'immaginazione, poi si potrà anche tentare di dare materia ai propri sogni. Per questo la fantasia deve accompagnarci sempre. Noi dunque facciamo dei sogni e la nostra immaginazione ci dà delle idee, si tratta di sapere se riusciremo a realizzarle oppure no.

La curiosità è un elemento molto importante: è la stessa curiosità ad avere creato l'uomo così com'è; ma l'avventura che seguirà, mirata a soddisfare questa curiosità, non dovrà mai avere lo scopo di fuggire bensì quello di raggiungere qualcosa, di appagare il bisogno che è nell'uomo di andare oltre e di vedere, conoscere, misurarsi, provarsi e sapere. Non sono forse queste le motivazioni che avevano spinto Ulisse oltre i confini del mondo conosciuto? Una pulsione è questa che sta alla base dei misteriosi perché della vita, e che spingono ancora molti di noi, nel Duemila.

L'impresa per l'impresa a me non interessa, e in più dirò che l'impresa se finalizzata a se stessa a volte può anche rivelarsi ben poco accettabile, se per compierla si ricorresse ai troppo discutibili mezzi offerti dalla moderna tecnologia ultrasofisticata. In tal caso non potrebbe avere che un solo merito, quello di convalidare il successo dei mezzi tecnici impiegati; e l'uomo, in quanto tale, che parte vi avrebbe mai e con quale partecipazione? Non è mai stato quindi nel mio intento intraprendere avventure in qualche modo pilotate e aiutate; bensì, al contrario, ho sempre voluto pormi in condizione di vivere esperienze a misura d'uomo, adottandone limiti e sentimenti. In definitiva ho inteso sempre, in ogni mia esperienza, ricercare alcuni aspetti del passato riscoprendovi possibilmente qualche pregio che i nostri progenitori sicuramente possedevano. Questi lontani avventurosi avevano avanti a sé un mondo assolutamente sconosciuto e ostile, e per affrontarlo erano forti soltanto del loro elementare sapere e di limitatissimi ed empirici mezzi; eppure possedevano una irriducibile determinazione.

La mia intenzione era dunque quella di provarci mettendomi il più possibile in gioco nelle loro condizioni, proprio per poter risvegliare quei moti d'animo, quelle doti d'altri tempi che certamente esistono ancora in me, come in tutti noi, anche se un po' assopiti. Così volevo vivere al completo l'emozione di sentirmi assolutamente sganciato da qualsiasi supporto tecnico e organizzativo che al bisogno mi avrebbe aiutato, rifornito, addirittura tolto da eventuali impicci. Naturalmente i luoghi e le situazioni da me prescelti dovevano offrire tutti quegli ingredienti che potevano dar vita e senso logico alla mia avventura in tal modo concepita. E l'isolamento imposto da quei luoghi non sarebbe stato mai teorico o costruito, bensì naturale e totale, così come il creato lo offriva.

Tutto ciò che è primordiale mi affascina e mi attrae, istintivamente. Sono entrato nei vulcani attivi soprattutto pensando come poteva essere fatta la Terra alle origini, per vedere come doveva essersi presentata all'indomani del suo raffreddamento, supposto che un uomo potesse essere là presente a osservarla. Quindi si può immaginare quanta emozione, sorpresa e meraviglia può aver destato in me un paesaggio del genere. Tu vivi un'esperienza dentro una natura straordinaria, sei nella disposizione fisica e spirituale per recepirla, assimilarla fino ad arrivare a farne parte; allora ciò che succede ti sfugge quasi di mano, perciò vivi e ti vivi liberamente. In quello stato di suprema libera esistenza puoi allora scoprire di trovarti molto al di là dei limiti consentiti a un comune mortale, sorretto unicamente da una forza indecifrabile, che per me stesso io definirei «stato di grazia». Sono regali, questi, che un vivere come il mio può darti.

Così come fu per il mio rapporto uomo-montagna, uomo-deserto, uomo-fiume, uomo-foresta, a spingermi in fondo al mare sono state le stesse molle che all'inizio mi avevano portato sulle montagne «impossibili». Nulla era cambiato. Quindi io sono sceso nei fondali marini appunto per viverne ogni minimo particolare, per coglierne le più sottili emozioni che quel mondo sommerso, specialmente se tropicale, sa offrire. Insomma, andavo laggiù e mi immaginavo di essere un pesce.

Sul Capo Horn apparentemente non c'era niente da conquistare né da esplorare, però mi piaceva trovarmi in solitudine ai confini del mondo, al limite delle terre emerse, e anche qui poter immaginare, respirando quell'aria, ciò che un luogo simile può aver significato per i navigatori di un tempo: drammi ed esaltazioni.

Alla solitudine, che è isolamento, io do un valore grandissimo, perché acutizza la sensibilità e amplifica le emozioni. La solitudine inoltre, quella voluta, ci mette di fronte a una dimensione divenuta ormai rara, quasi sconosciuta all'uomo moderno. Infatti oggi più che mai l'essere umano ha paura di affrontarsi nella solitudine, teme quasi di doversi riconoscere e di doversi riconquistare.

Percorrendo il Grande Nord americano ho provato l'emozione di cercare l'oro, nel Klondike, e qualche pagliuzza del prezioso metallo l'ho effettivamente trovata dilavando il pietrisco nel fiume. Ma ciò che io ho considerato il vero oro di quelle terre sono state invece le ultime testimonianze viventi di quell'epoca, ovvero quei pochi pionieri che ancora erano in vita al tempo del mio viaggio, nel 1965. Sono gli stessi che fecero la storia del Klondike e ai quali, fin dall'inizio, si ispirarono scrittori e poeti. È questo l'autentico oro che continua a brillare nel mio ricordo.

Ho visitato in più continenti le varie popolazioni cosiddette primitive e selvagge, rimaste integre nel loro stato tribale. Con gli aborigeni ho anche passato lunghi periodi nei loro villaggi, nei loro capanni. Affascinato da queste genti devo dire, ma non senza amarezza, che spesso mi sono sentito più a mio agio, e al sicuro, tra questi uomini da noi bollati con gli epiteti di selvaggio e cannibale che non tra esseri «civili» che normalmente capita di incontrare per le vie delle nostre città. Ma ciò che distingue soprattutto tali uomini semplici e miti da tutti gli altri più emancipati sono la forza, l'ingegno, la serenità, la capacità di sopravvivere in un mondo inospitale e insidioso dove uno di noi morirebbe inevitabilmente e rapidamente. Questo grazie a certe loro qualità sviluppate fin dalle origini e che per necessità non hanno mai lasciato assopire. È dalla sopravvivenza di questa gente, veri fossili viventi, che ancora ci è possibile misurare le qualità di chi, senza saperlo, ha vissuto e vive tuttora in armonia con tutte le cose del creato: un antico principio che già fu la molla delle civiltà. Non c'è che dire, ciò che è questa gente, ciò che sanno fare e possono fare questi figli della natura, fatti di libertà e posti a simbolo di questa, è cosa che certo non si insegna a casa nostra, né forse riusciremmo più noi ad apprenderla.

Pur riconoscendo che il nostro destino di uomini progrediti è irreversibile, e giustamente volto in avanti, penso tuttavia che mai dovremmo dimenticare e abbandonare la nostra origine, mai dovremmo tagliare quel ponte che da sempre ci unisce al lontano passato. È molto difficile valicare la nostra condizione di esseri inciviliti, improbabile è quindi per noi riuscire a spogliarci della nostra superiorità, reale o presunta che sia, che proviamo nei riguardi del primitivo. Ma supposto di arrivarci per quel tanto da consentire un rapido raffronto tra noi e loro, scopriremmo subito che mentre in noi si sono sopite se non addirittura atrofizzate un sacco di doti naturali, nel primitivo, invece, l'intelligenza per soddisfare appieno le proprie esigenze è rimasta assai più viva e vivace. La cultura è chiaramente un'altra cosa ed è fuori discussione, ma anche se risolve interrogativi ed esigenze, ne crea però subito tanti altri.

Questi uomini perlopiù liberi da ogni tipo di costrizione e condizionamento rispettano tuttavia, in tutte le sue forme, la natura di cui vivono. Usano e non sprecano, conservano la capacità di sorridere al loro simile e alla vita, e per il fabbisogno ricevono ancora tanto dai loro territori (dureranno?), appunto perché limitate sono le loro esigenze. Va detto inoltre che, se non da noi influenzati, risparmiano i loro animali e li rispettano per quel che sono. Noi invece egoisticamente ne provochiamo l'estinzione, oppure vorremmo presuntuosamente civilizzare anche questi. Ed eccone il risultato: qui li ingabbiamo e li umiliamo negli zoo e nelle nostre case, li massacriamo spietatamente, o per ben che vada ne facciamo oggetto di demenziali safari continuando a portare scompiglio e follia. Inoltre vorremmo che tutto rispondesse al nostro metro: un delfino, o una foca, sono simpatici, ma non lo è d'aspetto un rinoceronte; un leone è regale ma feroce, va quindi eliminato sul nostro cammino; un serpente è da schiacciare se non altro perché striscia. Ma amare non significa anche conoscere e rispettare? Stando così le cose, siamo proprio sicuri di volere che gli animali selvaggi, come tali, sopravvivano?

Ho vissuto dunque con gli aborigeni delle ultime terre selvagge, spesso perduto insieme a loro in una vasta foresta, abbandonato completamente al loro senso delle cose, che affrontano con grande saggezza a noi sconosciuta. Come sono riuscito a vivere e comunicare con loro? Semplicemente assimilando la dimensione del loro vivere, l'essenzialità e la naturalezza del loro comportamento; avvicinandomi alla loro sensibilità con argomenti per tutti comprensibili. A dire il vero non era cosa tanto semplice, ma ad aiutarmi è stata soprattutto la mia fiducia in loro. Vivevo così con questi «primitivi» adottandone la logica, le difficoltà, le allegrie e sovente anche il loro cibo. Prendevo a pretesto, per esempio, la ricerca di una sorgente di fiume a noi ancora sconosciuta, ma era soltanto una buona occasione, una scusa a volte, per intraprendere insieme una difficile marcia nella torrida foresta vergine, per settimane intere. Una condizione questa dove la lotta per la sopravvivenza impone a tutti uguali necessità e uguali rischi. Comunicare diventava allora cosa semplice, poiché erano le stesse necessità del momento a suggerire un linguaggio facile per tutti. Uno sguardo, un gesto, un sorriso in certe situazioni e nel giusto momento valgono assai più di un prolisso discorso fatto di parole.

Ho sempre amato cercare un contatto diretto con i grandi animali selvaggi appartenenti alle specie più rappresentative. A questi esseri meravigliosi mi ero accostato quasi per caso nel corso del mio primo viaggio solitario in Canada e in Alaska, e subito ne ero rimasto conquistato. Alla partenza avevo comprato sul luogo un fucile perché, come tutti pensano e anch'io pensavo a quel tempo, soltanto un'arma da fuoco avrebbe potuto garantirmi l'incolumità nel regno dei lupi e degli orsi. Ma durante questo viaggio non solo non me ne ero servito, ma di giorno in giorno più avanzavo e più il fucile calava tra le cose dimenticate sul fondo della canoa.

Anche negli anni successivi, continuando a inseguire la mia curiosità in ogni parte del mondo, mi ha sempre enormemente interessato trovare, non dico un dialogo poiché è impossibile conversare con un leone, una tigre, un coccodrillo, ma almeno un non fraintendimento. Per prima cosa, allora, via il fucile! Ma quando tu sei di fronte a una fiera, senza un'arma — una cosa è parlarne e un'altra esserci — tu sei alla sua mercé, e il cuore, le prime volte, ti salta fuori dal petto. Se tu hai un'arma te ne servi, o perlomeno la impugni, e il più delle volte commetti stupidaggini e gratuiti assassinii; se invece ne sei privo non resta allora che cercare in te stesso la soluzione, che alla fine troverai, e sarà senz'altro la migliore e più costruttiva. Così facendo dunque si darà più spazio alle proprie intuizioni, e di volta in volta si troverà l'interpretazione più verosimile del loro «discorso» in quel preciso momento, quindi si scoprirà il modo più adatto di comportarsi con essi.

Comunicare con gli animali è certamente un desiderio antico dell'uomo, ma sarebbe sbagliato volerlo fare servendosi del costante riferimento alla natura umana. Bisogna smettere di umanizzare l'animale, sia nel bene sia nel male, ma vederlo una buona volta com'è e non come vorremmo che fosse. D'altra parte un linguaggio lui ce l'ha, e anche ben chiaro e coerente, siamo noi quasi sempre a non capirlo, se non addirittura a non volerlo proprio considerare. L'alfabeto degli animali, naturale eppure complesso da decifrare, è fatto di movimenti, di sguardi, di suoni, di odori: sono gli stessi atteggiamenti del loro modo di vivere, e ciò che reciprocamente si trasmettono e ricevono sono messaggi semplici, essenziali, perentori, localizzati perlopiù nel presente cui fa capo ogni loro necessità governata dall'istinto. Il segreto per capirli comincia quindi dall'apprendere, e rispettare, il significato delle loro necessità e abitudini; dopodiché si potrà tentare anche di essere da loro compresi, e per riuscirci ci aiuteremo ogni volta assumendo atteggiamenti sempre concilianti. Questo io l'ho imparato sul campo da alcune tribù africane, gente che sicuramente sa coesistere in assoluta armonia con il mondo selvaggio. Così, nel loro habitat naturale, e trovandomi in solitudine, quando mi è capitato di imbattermi in uno o più «pericolosi» animali selvaggi, il che è accaduto numerose volte, mi sono fermato, magari anche accucciato, e lì sono rimasto immobile e silenzioso, lasciando a loro l'iniziativa di avvicinarsi a me, se proprio avessero voluto farlo. Comportandomi in tal modo rassicuravo questi animali facendo capire che le mie intenzioni non erano affatto cattive. Questi a loro volta, prima o poi, soddisfatta l'istintiva curiosità, avevano finito sempre per andarsene, spontaneamente. A quel punto anch'io potevo riprendere il cammino con tutta sicurezza.

All'epoca del mio viaggio solitario sul fiume Yukon, nel 1965, già nei primi giorni mi era capitato di passare una notte in bivacco rannicchiato sotto un albero; e l'indomani, quando al mio risveglio scoprii intorno a me grandi orme di orso grizzly, naturalmente sussultai, però mi bastò poco per avere una specie di rivelazione. Infatti lì per lì mi sono detto di aver avuto fortuna, ma poiché io non credo né alla fortuna né alla sfortuna, ho razionalizzato il fatto e ho creduto di capire, sondando il mio inconscio, che mentre di giorno in giorno mi assimilavo alla natura, questa si assimilava a me. In altre parole avevo compreso che gli animali sentivano che io non ero per loro una minaccia, e la nostra era una reciprocità che via via diventava sempre più realtà.

Gli animali non parlano, beati loro disse un filosofo, però capiscono, sentono le intenzioni, sanno qual è il nemico da temere e col quale, se necessario, ingaggiare una lotta; hanno sviluppato più dell'uomo una specie di percezione extrasensoriale. Avvicinandosi a un predatore, disarmati, nel suo ambiente e senza mai sfiorare la distanza critica – valicata la quale scatta una istintiva reazione di difesa – esso intuisce che non v'è minaccia, perciò, come ho detto, abbassa la guardia e diminuisce la difesa. Può quindi accadere che si allontani subito, o che tutt'al più resti un po' lì attorno per pura curiosità. Al contrario non è affatto vero, come spesso si crede, che una belva attacchi l'uomo indiscriminatamente. Può farlo senz'altro per difesa sentendosi minacciata, ma anche per disperata ribellione alle molte vessazioni subite. In tal caso però la sua non sarà più una reale aggressione gratuita, bensì la reazione a ciò che noi in quel particolare momento rappresentiamo per la sua sensibilità. Va detto per inciso che ogni animale, con istintiva saggezza, preferirebbe di gran lunga fuggire via se gli si desse modo di farlo, anche perché conserva un'ancestrale paura dell'essere umano. L'uomo si è talmente distaccato dalla propria origine che non sa pensare agli animali, ai predatori in particolare, se non attribuendo loro la propria logica e i propri impulsi di essere umano. Egli dimentica, o ignora, che l'animale si conserva ancora ingenuo e innocente anche se uccide un altro animale, perché questo è naturale e vitale per la sua sopravvivenza. Comunque lo fa quasi sempre con misura, e con rischio.

Raramente in esso si riscontra la follia — e chi mai ne è immune? — ma a causarla il più delle volte è proprio l'uomo con il suo comportamento irrispettoso e coercitivo, quando lo caccia, o lo ferisce, o lo rinchiude in caotici circhi e invivibili zoo, o per ben che vada in circoscritti parchi.

Una bestia impazzita, o perlomeno incattivita, è naturalmente temibile e pericolosa, ma lo è in percentuale minima rispetto all'aberrazione degli uomini folli, che crudeli e pericolosi agiscono ogni giorno liberamente nella vita sociale.

Mettersi di fronte a una tigre nella giungla, e senza imbracciare un fucile, potrebbe sembrare lì per lì un gioco irragionevole, una specie di roulette russa, ma se a questo si arriva per gradi, ossia assimilando totalmente e razionalmente le indispensabili premesse, la cosa diventa allora completamente diversa e positiva. Per quaranta giorni io ho vissuto in una giungla sulla pista di una grossa tigre, nell'isola di Sumatra, e fu un'esperienza preziosa: la tigre ha sentito le mie intenzioni, potrei giurarlo, e me lo ha dimostrato con atteggiamenti niente affatto bellicosi.

Avevo conosciuto molto di quella tigre. L'avevo seguita sui suoi lunghi e ripetitivi percorsi nella foresta, dove avevo imparato a leggerne le tracce; ossia il significato della distanza posta fra un'orma e l'altra, il senso che può avere la profondità di queste nel terreno molle, e ancora il senso delle quattro orme ben distinte che lascia quando cammina in ambio, nonché il significato delle sue impronte che affiorano quando avanza furtiva, posando ciascuna zampa posteriore nello stesso punto della corrispondente anteriore, e ancora altri segni rivelatori. Ne avevo appreso insomma gli umori e il temperamento. E lei più di una volta mi aveva ripagato avvicinandosi nella notte al mio bivacco, curiosando, ma senza lasciare indizio di minaccia sul suo tragitto.

Gli animali predatori uccidono per sfamarsi, per conservarsi in vita, mai però uccidono per uccidere, se sono normali; cosa che invece fa l'uomo di frequente, abusando di potere e anche per sadico sport. Pensare che gli animali ragionino con la nostra stessa carica di violenza è un grosso errore. Siamo noi invece antagonisti a loro, e non viceversa. Non ci viene mai in mente che si può coesistere ognuno rispettoso dello spazio altrui ma tutti immersi nella stessa natura? È certo che se noi riuscissimo a coniugare il nostro vasto sapere di oggi con l'antica animalità che già abbiamo posseduto, ossia quell'eredità ancestrale rimasta in noi assopita — l'istinto non è forse un atto riflesso in cui v'è una componente di coscienza? Non è dunque l'eco di un'antica ragione? — ebbene pensiamo quanto più ricchi saremmo di conoscenza e di comprensione verso la natura; sì da annullare, o quantomeno ridurre e correggere, gli assurdi e ricorrenti equivoci in cui spesso incorrono i nostri atteggiamenti. Così riuscendo, forse potremmo persino soddisfare l'antica seducente curiosità di sapere veramente come sono costruiti dentro i nostri lontani parenti, gli animali appunto.

Sono cambiati i mezzi, le mete, addirittura i mondi, ma non l'uomo d'avventura con il suo grande cuore. I Colombo, gli Stanley, gli Amundsen, gli Hillary di ieri sono oggi gli astronauti e gli scienziati. L'uomo sta dilatando il suo mondo, sposta il limite del possibile, si crea nuovi orizzonti. Ieri sembravano insuperabili le Colonne d'Ercole, oggi stiamo per raggiungere i pianeti del sistema solare. Ma viviamo anche una gran confusione di cose e di valori, rischiando spiritualmente di annullarci, di soccombere all'evoluzione tecnica da noi creata perché ci aiutasse a vivere meglio.

Però una nuova era esplorativa potrebbe ancora nascere, qualcuno forse l'ha già cominciata. Se per ogni nostra impresa — ovviamente del tipo tradizionale e quindi su terreni già percorsi — ci avvalessimo, nei limiti del ragionevole, dei soli mezzi umani che la natura ci ha fornito, è certo che vedremmo più chiaramente quel che cerchiamo e fin dove ci è consentito arrivare. Allora, tutto dipendendo da risorse e limiti soggettivi, infinite nuove imprese ci attenderebbero sui fiumi, nelle giungle, sui monti, nei deserti, in ogni dove; al punto che la nostra vecchia Terra ci apparirebbe, come per incanto, inesauribilmente inesplorata. Al contrario del passato dunque, in cui siamo stati soggetti a un livellamento tecnico e concettuale, questo nuovo criterio eserciterebbe su ciascuno di noi un effetto implosivo, qualcosa che io definirei esplorazione introspettiva.

Scoprire l'uomo scavando dentro se stessi — questo a mio avviso è il fine di tutto — è indubbiamente la più stimolante delle avventure. Ma lo sarà ancora di più se la ricerca avrà come sfondo la natura intatta, la stessa che ci ricollega alle origini ma che è rimasta fuori dalla portata di chi troppo spesso non sa, o non vuole, coglierne la preziosità. La natura è vita ed è la nostra salvezza, non soltanto fisica. In un mondo in cui il progresso si è ormai consegnato a una realtà ancora ignota, pochi utopisti come me sono rimasti ancora a vagheggiare visioni di una vita resa sempre più inattuabile da mille ragioni costituite. Immaginarla è quasi come castigare il sentimento che l'ha posta in antitesi al progresso raggiunto.

Seppure utopia, è però suggestivo pensare all'uomo liberato dall'asettico conformismo, disgiunto finalmente dall'anonimato del sociale, freddo e caotico. È lì che ritornerebbe a essere se stesso, solo, emotivo, precario ma integro nella sua disponibilità ai grandi slanci che stanno alla base della sua evoluzione, proprio perché può servirsi del più innato termine di paragone: la natura. Tra lui e il creato esiste un dialogo che è vecchio come il mondo, non si può interrompere impunemente. Troncarlo andrebbe a discapito della stessa peculiarità dell'uomo, quella particolarità che gli consente di affermare la propria individualità, la piena vitalità dell'essere, l'impeto gioioso del vivere, lo spazio della propria identità. Ma questo, come ho detto, è purtroppo ormai consolidata utopia.

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ALLA SCUOLA DEI CAVALIERI ERRANTI: I MASAI (1966)


Gli animali selvaggi mi affascinavano, lo scoprivo ogni giorno di più da quando avevo concluso la mia avventura alaskana. Mi sorprendevo spesso rapito dai ricordi, in cui rivedevo con il pensiero questi incontaminati figli dei vasti orizzonti, signori assoluti dell'immenso Nord, dove in un clima di incanto avevo fatto la loro conoscenza. Infatti il lupo, l'orso, l'alce e il castoro, con il loro mite e accattivante comportamento, avevano fatto sì che io potessi cogliere alcuni preziosi momenti colmi dei loro antichi segreti. Fu da allora che prese forma in me il come e il perché mi sarei ancora avvicinato in futuro ad altre specie selvagge sparse sulla Terra. L'avrei fatto se non per instaurare un vero e proprio dialogo con quegli animali, almeno per evitare di avere con loro un fraintendimento. Ecco lo spirito con cui mi accingo, nell'aprile 1966, a entrare nelle foreste e nelle savane dell'Africa orientale, rimaste fino allora il dominio delle grandi specie selvagge.

Come prima esperienza mi ero aggirato per un paio di settimane in carovana con i kikuyu nella selva ancora intatta del Meru: una tra le più fitte e tenebrose d'Africa. Ero poi passato nelle sterminate savane delle tribù masai, sugli altipiani di Murja dove, accolto dal capotribù Kone Ole Sendéo nel suo umile villaggio, avevo passato un prolungato periodo con la sua gente.

Da tutti, prima dai kikuyu poi dai masai, avevo imparato cose molto importanti e utili per quello che avrei voluto fare in seguito. Ma nessuno fu maestro migliore di quanto lo furono i morani, i giovani e fieri guerrieri masai. Sono loro, per antonomasia, i veri cavalieri erranti delle selvagge e sconfinate savane. Avvolti nelle rosse toghe, armati di lancia e carichi di sgargianti ornamenti, sono gli stupendi gladiatori delle boscaglie africane. Lì per lì, il loro, mi era sembrato soltanto il recitare un ruolo puramente decorativo, di tempi a venire; erano invece una realtà ancora attuale in un mondo che, appena oltre i loro territori, già aveva iniziato irreversibilmente a trasformarsi.

Antiche tradizioni imponevano ai masai di essere coraggiosi e onesti. Così, questo esiguo popolo indipendente e orgoglioso – e ora anche diffidente verso il nuovo che già cominciava a premere dall'esterno – aveva eletto a propria salvaguardia la sua migliore gioventù, i morani appunto. Per anni, parecchi anni per alcuni, questi lancieri vivevano erranti fra praterie e boscaglie. Una vita avventurosa che metteva alla prova il loro sapere, il loro ardimento, accrescendolo, rendendoli degni in tal modo dei loro antenati.

In quegli anni ancora non era apparso nei loro territori quel certo turismo «organizzato», quasi sempre cinicamente impreparato e quindi fatalmente deturpatore. I nativi di queste terre erano così ancora gente che per sua cognizione e necessità passava l'intera esistenza dentro una natura tra le più selvagge e insidiose, ma lo faceva in perfetta comunione con essa fino a esserne parte. Uomini dunque in costante e naturale equilibrio con la savana, con gli stessi suoi animali che l'inconsapevolezza e il pregiudizio del mondo progredito considerava pericolosi, feroci, perciò da abbattere sul cammino. Ebbene, kikuyu e masai, che sono come noi uomini mortali e fatti di carne e ossa – perciò altrettanto appetibili a quel sadico palato che si vorrebbe attribuire ai grandi predatori — disponevano come difesa solamente di una lancia e di un panga (una specie di machete). Questo particolarmente se riferito ai morani, ma v'era anche l'altra gente comune che in eguali condizioni ambientali si spostava camminando da una località all'altra coprendo lunghe distanze. Eppure lo faceva tranquillamente, magari impugnando soltanto un semplice bastone, a volte neppure quello, e senza tuttavia nutrire mai il minimo timore di cadere vittima di un agguato teso da un animale.

Confesso che queste constatazioni mi avevano dapprima sconcertato. Poi via via avevo sentito sempre di più la ragione passare dalla parte di questi indigeni. A differenza dei «bianchi» infatti, essi conservavano ancora, e la manifestavano all'occorrenza, una virtù preziosa e in noi ormai intorpidita, che io oserei definire «animalità». Tale capacità del nativo, così ben utilizzata, gli suggeriva sempre il comportamento più appropriato da assumere verso l'animale, o anche più animali incontrati sul cammino.

Fu dunque vivendo con i masai, errando con essi nei loro territori, che ebbi l'opportunità di sperimentare direttamente l'efficacia di questa antica e per noi ormai dimenticata saggezza.

Più di una volta infatti, muovendomi con i masai, capitò di incontrarci a tu per tu con un branco di elefanti, di bufali, di leoni o con qualche solitario rinoceronte. Mai però fuggimmo né tantomeno li molestammo; bensì in quei casi ci eravamo accucciati lì dove ci trovavamo, semplicemente, restando immobili e silenziosi, ma non senza aver posato al suolo la lancia o cos'altro impugnavamo. Offrivamo così all'animale la scelta di andarsene oppure di restare, appagando dunque la sua istintiva curiosità.

Va detto che così facendo non avevamo mai creato fraintendimenti fra noi e gli animali, i quali, prima o poi, se ne erano andati pacificamente. La faccenda si risolveva quindi da sola, senza creare né vinti né vincitori. Confesso che in quei momenti, più facili a dirsi che a viverli, più di una volta mi era salito il cuore in gola fino a togliermi il respiro, più di tutto con i leoni, però il sistema funzionava sempre e nel migliore dei modi. Dovetti prenderne atto e infine convincermi.

Per l'esaltazione e l'orgoglio ogni volta seguiti a questa conquista su se stessi, nasceva ricorrente nel mio intimo una riflessione, sempre la stessa. Mi dicevo infatti: uccidere una fiera con un'arma da fuoco è fin troppo facile, e nel farlo non c'è niente di ardimentoso né di astuto; avveduto e valido è invece l'impegno che la situazione comporta, quello di riuscire ad avvicinare un animale nel suo habitat fino a poterne cogliere senza pericolo l'immediato e normale comportamento.

Assistito dall'attenta e disinvolta esperienza dei masai, nonché ben tenendo io stesso naso al vento e occhi vigili, imparai dunque a interpretare sempre meglio quella rituale successione di atteggiamenti che precedono, per esempio, un finto assalto di un elefante presto smontato dalla semplice mancanza di reazione da parte nostra. Ebbi anche modo di imparare a prevedere le mosse di un leone venutosi a trovare di fronte all'uomo. Subito mi accorsi che era facile interpretarle, vuoi dai movimenti della coda e delle orecchie, vuoi per il modo in cui la fiera lanciava lo sguardo. Tenevo dunque dovutamente conto di ogni manifestazione esteriore dell'animale. Ma v'erano anche altri segnali più nascosti e difficili da decifrare, collocabili ben al di sopra degli ordinari limiti umani. Sono messaggi, questi, che si propagano soltanto su impercettibili onde extrasensoriali, non si possono dunque né vedere né udire. Sono, in ultima analisi, segnali netti e perentori che soltanto un'antica e ultrasensibile animalità — ancora presente in noi ma assopita — può inviare e ricevere se sufficientemente risvegliata.

Sempre dei leoni, mi divertivano inoltre le palesi contraddizioni nei soggetti più giovani e un po' istrioni. Anche se qualcuno a volte appariva ben sviluppato, a rivelarne subito l'immaturità erano le residue e leggere maculazioni del suo giovane pelo. Era buffo vedere come questo dominatore in erba ti si avvicinava baldanzosamente con aria minacciosa. Bastava però muovere un solo passo nella sua direzione per metterlo in fuga, spaventato dal proprio coraggio, senza per questo innervosirlo pericolosamente. Mi affascinava il veder affermarsi in questi giovani leoni l'istinto del possesso, della ricerca della preda, tanto da portarli spesso a misurarsi con un nonnulla, però anche con cose più grandi di loro. Ma ciò che adesso era un gioco sarebbe un giorno diventato vera necessità di sopravvivenza: da cucciolone curioso, dunque, a fiera capace e determinata.

Avevo pure scoperto che, nel rinoceronte, miopia e balorda irascibilità andavano sempre di pari passo. Mi rendevo conto infatti che sarebbe stato sufficiente un semplice, breve scarto fatto all'ultimo istante davanti all'animale per schivarne una eventuale carica. Ma sapevo anche quanto poco bastasse a innescare la sua fragile suscettibilità: una semplice frasca ondeggiante al vento avrebbe potuto indurlo a scattare in uno sbuffante e cieco assalto, nato appunto dal timore causato dalla stessa sua debole vista.

Ma il più imprevedibile di questi animali, quindi anche uno dei più pericolosi, restava certamente il bufalo. Così, pur senza averne ancora sperimentato il volubile carattere, mi attenevo scrupolosamente agli insegnamenti ricevuti. Mi ero dunque ben fissato nella mente che l'immobilità da assumere di fronte a questo macigno vivente doveva essere rigorosa. Durante il mio iniziale apprendimento capitò anche che un giorno, da un cespuglio verso cui mi dirigevo, salì un indefinibile ringhio. Una mano masai mi strappò via giusto in tempo per evitare che interrompessi pericolosamente la siesta di un leopardo. Si dice che l'orecchio impari sempre più in fretta dell'occhio. Quell'avvertimento sonoro fu per me un'altra importante lezione che restò ben impressa nei miei sensi come una scheda pronta a rispondere non appena inserita nel computer.

Molti altri episodi aumenteranno in me l'indispensabile conoscenza dell'Africa selvaggia, senza più l'ausilio dei preziosi maestri morani.

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L'ANTARTIDE DEI MIEI RICORDI (1976)


Atterrando al Polo Sud avrei dovuto pensare subito ad Amundsen e a Scott, che sfidando l'ignoto e mille sofferenze erano giunti per primi fin qui, sessantacinque anni fa. Ma in quel momento ero preso da un'emozione troppo forte, forse come quella che si potrebbe provare sbarcando su un remoto pianeta senza vita. Il mio volo sull'Antartide, e specialmente quello per arrivare fin qui dall'ultima base di McMurdo, aveva avuto dell'irreale. Sotto di me era sfilato un paesaggio completamente nuovo di forme e dimensioni, ma soprattutto era apparso di un candore abbagliante in cui il profilo delle montagne mi era stata la sola cosa non totalmente estranea. Catene e catene di cime si erano succedute senza tregua tra le fitte colate vallive di un ghiacciaio infinito, che sfumava da ogni lato sull'orizzonte vuoto. E finalmente, dopo ore di questa specie di volo spaziale, ecco disegnarsi sul candore sottostante un qualcosa che riportava a una vaga immagine terrestre: una manciata di minuscoli puntini, come granelli di sabbia colorata, raccolti presso un'increspatura nevosa. Sono gli impianti dell'appena raggiunta base polare Amundsen-Scott e lì accanto, come un piccolo graffio nel biancore sconfinato, la pista d'atterraggio. Ma il fantastico non è ancora finito. Appena sbarcato mi sento, per effetto del grande freddo, come immerso in un bagno di ammoniaca, proprio per il forte pizzicore che subito prende al naso. Gli occhi cominciano a lacrimare e i vestiti sembrano abbandonarmi lasciando che il gelo punga e morda la pelle fino all'intorpidimento. Le immagini appaiono sfocate attraverso le lacrime che velano gli occhi e che ghiacciando bruciano sulle palpebre come fossero cristalli roventi. Il respiro si trasforma in densi vapori che annebbiano le immagini, che sfuggono quasi, accentuando quel senso di indefinibilità che qui sembra permeare ogni cosa. Il villaggio, se così si può chiamare, si rivela del tutto diverso da ogni altro tradizionale insediamento umano. Le costruzioni fuoriescono appena dal ghiaccio, lasciando soltanto indovinare la struttura sommersa. Al centro si alza un'enorme cupola metallica dentro la quale – lo scopro presto – sono stati innalzati edifici anche a due piani. Lì dentro operano e vivono per lunghi mesi i tecnici e i ricercatori. Tutti i contorni, le proporzioni, le particolarità costruttive di questa avveneristica base da fantascienza hanno qualcosa di vagamente disumano, di mostruoso; ma al tempo stesso fa meraviglia come l'uomo abbia potuto insediarsi e operare, sia pure così protetto, al centro di questa immensità bianca e sterile. È un lato di mondo battuto da irresistibili tempeste e si estende tutt'attorno per milioni di chilometri quadrati. Mi chiedo quale sia la differenza, a questo punto, nel trovarmi al Polo Sud piuttosto che su Marte o su un fondale oceanico.

L'Antartide, questo desolato regno del ghiaccio e della morte, riveste la massima importanza per lo studio di vari fenomeni naturali, compreso quello di conoscere il passato della Terra; queste sono le ragioni per cui l'uomo vi ha impiantato le sue basi. Si sa che in un lontano passato questo continente godeva di un clima mite, persino tropicale, consentiva dunque un'intensa vita animale e vegetale. Poi accadde che dal Gondwana, il supercontinente australe di circa 200 milioni di anni fa, si staccarono quelli che sarebbero diventati gli odierni continenti dell'emisfero Sud; così l'Antartide cominciò la sua deriva verso il Polo, sorpassandolo fino ad averlo, attualmente, proprio nel suo centro. Intanto il clima della Terra si andava raffreddando, iniziava l'età glaciale, e sulle sue alte montagne apparivano le prime formazioni di gelo perenne. Così, mentre i continenti assumevano l'attuale posizione, ai Poli si formavano le cosiddette calotte glaciali: più sottili al Nord, sulla superficie dell'oceano Artico, massicce invece quelle che posano sul continente antartico, «schiacciato» sotto una candida cappa gelata di circa duemila metri di spessore medio, ma che può essere anche di quattromila in alcune zone. I nove decimi di tutto il ghiaccio presente sulla Terra sono accumulati qui nel continente bianco. Se questo ghiaccio un giorno dovesse sciogliersi – supposizione piuttosto verosimile considerate le alterazioni già in atto attraverso gli agenti inquinanti – il livello dei mari si eleverebbe di circa sessanta metri. Ma succederebbe anche un altro guaio: sgravata dal suo peso tremendo, l'Antartide in breve si risolleverebbe per almeno mezzo chilometro dalla sua quota attuale, che è mille metri più bassa rispetto alle altre terre emerse, e l'equilibrio della crosta terrestre ne sarebbe compromesso. Muterebbe anche il clima di tutto l'emisfero meridionale influenzato dal gelido continente, e di conseguenza si scioglierebbero anche i ghiacciai della Patagonia e della Nuova Zelanda. Si produrrebbe insomma una fatale catena di cataclismi terrestri ritmati dai più sconvolgenti terremoti.

Il continente Antartide, tuttora bloccato all'età glaciale, giace dunque sepolto da milioni d'anni sotto la spessa calotta di gelo che custodisce, nascondendoli, i segreti della sua origine. Nella tragica avanzata della glaciazione, tutto questo suolo fu spazzato da fiumane di ghiaccio che asportarono e distrussero ogni testimonianza della vita animale e vegetale presente fino allora; ma è nelle sue rocce, su cui ora preme la massa gelata, che rimangono indelebili i segni del passato. Fossili e minerali presenti negli strati rocciosi di questo continente potrebbero svelare molti misteri del nostro pianeta. Ma come raggiungerli? Quel poco che si conosce lo si è carpito dai prelievi effettuati sulle rocce affioranti; queste però sono soltanto il 2,5 per cento dell'intera Antartide. Le sole rocce esistenti in superficie sono soprattutto le cime degli alti picchi che riescono a perforare il manto ghiacciato e sono collocate per la maggior parte sulla sponda occidentale del Mare di Ross dove si allinea per duemila chilometri l'alta Catena Transantartica, che sostiene e nasconde il grande plateau continentale. Ma è proprio al di là di queste vette, e sotto la superficie livellata del plateau polare, che giace un suolo irraggiungibile, modellato in pianure, altipiani, valli che si inabissano, in alcune zone, fin sotto il livello del mare. Secondo i sondaggi, in questo panorama si snodano catene montuose estese più delle Alpi, culminanti in picchi che superano anche i tremila metri. Pare sia questa l'effettiva topografia dello sconosciuto imbasamento roccioso rivestito di ghiaccio, esteso almeno quanto l'Europa.

A caratterizzare la vera natura antartica è un clima mortalmente inadatto alla vita da milioni d'anni, sin dal tempo in cui sopravvenne il regime glaciale. È una terra che sembra condannata a restare in eterno sepolta sotto i ghiacci, a non conoscere mai il calore del sole, neppure nei mesi estivi quando risplende ossessivo e senza fine. E per un lungo periodo — sei mesi alla latitudine 90° — regna la continua notte polare in cui solo una striscia di incerta opalescenza tradisce il vano sforzo del disco solare di affacciarsi sull'orizzonte. Sono mesi insopportabili, tormentati da continue tempeste; il termometro scende fino a sessanta gradi sotto zero e anche oltre. Qui, da un'eternità la notte cede al sole e questo ancora alla notte dopo una durevole pausa di sei mesi. Ma non è così per il blizzard, l'uragano dell'estremo Sud, il micidiale respiro dell'Antartide che soffia alla velocità di cinquantasei metri al secondo (circa 200 chilometri all'ora) e che non ha mai cessato di spazzare dal continente lo strato nevoso; ciò è dovuto all'anticiclone permanente che gravita sul Polo Sud. Ne consegue che le precipitazioni nevose nell'interno sono scarsissime, corrispondenti a circa ventitré centimetri d'acqua all'anno, e si dissolvono quasi totalmente per evaporazione, per fusione e per dispersione a opera degli iceberg e dei venti, che irradiandosi dal Polo in tutte le direzioni finiscono per sospingere buona parte di questa neve fino al mare. Ciò nonostante, qualche residuo ha potuto lo stesso accumularsi fino a creare, in milioni d'anni, la spessa e sconfinata calotta glaciale. Questa massa, che dai 2912 metri di quota del Polo geografico s'abbassa nel suo ultimo lembo a creare le più candide coste del mondo, si presenta nel suo insieme come il superaltipiano del nostro globo. Infatti, anche sommando insieme gli altri più elevati tavolati terrestri — Tibet, Groenlandia e Bolivia — il risultato resterebbe sempre inferiore per estensione. Ma l'Antartide è anche un deserto, il peggiore di tutti, una solitudine assai più temibile di quella del Sahara. Nel suo interno non vi sono animali, né grandi né piccoli; tutto è desolato, sterile e micidiale, così da impedire senza scampo ogni forma di vita.

Questa terra dimenticata dunque dall'estate, ma immersa in un inverno perpetuo, è un mondo dove gli orizzonti di ghiaccio e la lunga notte polare creano un paesaggio veramente irreale quanto allucinante; e a renderla poi ancora più lontana e severa c'è l'immenso spazio che la isola dal resto del mondo, e in cui convergono i più vasti oceani del globo. Qui si manifesta il temuto anello di convergenza antartica, teatro di terribili tempeste che sollevano le ondate più alte del mondo. Ma quasi a compensare la sua tremenda brutalità, l'Antartide è circondata dall'oceano più ricco di fauna marina; animali perfettamente adattati a un ambiente ostile e a un genere di esistenza diverso da quello che ci è abituale. Così, a partire dalle sue coste luminose e fino alla regione delle dense nebbie che ristagnano nella zona delle tempeste periantartiche, si apre uno scenario colmo di vita movimentata e sonora, in netto contrasto con l'assoluto silenzio del deserto e della morte che sta alle spalle.

Dalle acque verdi o nere dell'oceano, si alza improvviso lo sbuffo nebbioso delle balene intente a filtrare con i loro fanoni il krill: i vasti banchi di gamberetti che a tratti arrossano il mare. Poco più in là sono migliaia di pesci a far ribollire la superficie mentre cercano disperatamente di sfuggire ai delfini. Ma lì vicino v'è anche chi tende l'agguato all'assalitore. Ecco infatti le lunghe nere pinne dorsali delle orche, che solcano l'acqua come sinistre vele di una regata assassina. Sulla candida crosta di gelo costiero, che è mossa ma non ancora spezzata dalle maree, giacciono invece, come pigri lumaconi, le grosse foche in siesta. L'incetta di pesci e calamari è stata per loro proficua, perciò passeranno diverse ore prima di dover arrancare e ondeggiare di nuovo sul ghiaccio per rituffarsi nel mare. Un candido tavolato alla deriva appare punteggiato di sagome scure: è un'adunata di grotteschi pinguini che a un tratto sono presi dal panico e corrono freneticamente, confusi e urlanti, sbattendo le loro alette, saltando in acqua e schizzandone subito fuori per tornare ancora più spaventati sul ghiacciaio da cui erano scappati. A portare lo scompiglio tra queste buffe creature è stato certamente un branco di foche-leopardo che le ha prese di mira per farne banchetto. Intanto nell'aria luminosa, e di una sonorità sorprendente, schiamazza una moltitudine di procellarie, di sterne e di cormorani che volteggiano contro lo schermo mobile dei ghiacci alla deriva, che planano intorno ai candidi castelli fluttuanti, dove alberga una profusione di pesci e molluschi. Per 17.000 chilometri di coste antartiche, e sulle altrettanto gelide scogliere di una quantità di isole attigue, si ripete e si rinnova questo spettacolo a volte crudele eppure stimolante della vita, la quale direttamente o indirettamente si sostiene di plancton, di cui questi mari sembrano essere una riserva inesauribile.

Avevo passato i primi giorni di adattamento alla base Scott, neozelandese, a circa 78° di latitudine, dove necessariamente si è regolati da una disciplina militare, e dalla quale ci si muove soltanto con i più progrediti mezzi meccanici, come l'elicottero e i veicoli cingolati, ma a volte anche con le tradizionali slitte trainate dai cani. Ero così arrivato a conoscere, per contatto diretto, le formazioni tipiche della costa antartica, delle quali la più considerevole è l' ice-shelf, o zoccolo di ghiaccio. È un vastissimo ghiacciaio che galleggia sul mare, o quantomeno se ne sta ancorato sui bassifondi. La sua superficie è pianeggiante ed emerge dal mare per alcune decine di metri. In minima parte l' ice-shelf è costituito dal flusso di ghiaccio che discende dalla calotta continentale, ma soprattutto è opera dell'accumulazione annuale di neve sulla crosta gelata del mare, che fin dall'inizio ha resistito allo scioglimento estivo. Tale formazione accompagna solitamente le coste antartiche per estesi tratti, mascherandone la reale topografia. La più estesa di questo settore è la Grande Barriera di Ross, sull'omonimo mare, che ricopre una superficie appena più piccola della Spagna. Dalle potenti barriere si staccano ogni tanto grossi iceberg che trascinati dalle correnti vanno alla deriva. Questi ghiacci natanti si spingono a volte, prima di sciogliersi, per oltre duemila chilometri nel mare libero. Nel 1953 una baleniera ha osservato nelle acque antartiche un iceberg di forma tabulare lungo 145 chilometri e alto 30 metri sul livello del mare, una vera isola galleggiante di cui emergeva soltanto la decima parte.

Vi è poi il ghiaccio marino, la cosiddetta banchisa o pack-ice, che si forma durante la notte polare. Il suo spessore medio non supera i due metri e mezzo, ma l'estensione è immensa; a volte sorpassa per oltre 1500 chilometri il Circolo Polare, coprendo una superficie di milioni di chilometri quadrati. Può capitare che un'intera estate non basti poi a frantumare la corazza che imprigiona tenacemente le coste.

Questi e altri ostacoli spesso insuperabili hanno ritardato la scoperta e le esplorazioni del continente bianco. Soltanto nel 1841, infatti, James Clark Ross riesce ad arrivare con i suoi due velieri, l' Erebus e il Terror, nell'ampio golfo antartico che oggi porta il suo nome. Egli si trova la via chiusa da quella che lui stesso chiamerà la Grande Barriera, ma non senza prima aver raggiunto il punto più meridionale dell'Antartide accessibile per nave. Con quell'impresa Ross si guadagnò il merito di aver indicato ai futuri esploratori la miglior via per la conquista del Polo. Conquista che avvenne soltanto settant'anni più tardi, e che ebbe per protagonisti uomini divenuti leggendari, come Amundsen, Scott, ma non di meno memorabili anche Shackleton e Mawson. Furono eroi e poeti di una razza ormai estinta, capace di esprimere gli esempi più luminosi del coraggio, della tenacia e dell'abnegazione. Educati dalla vita stessa al sacrificio e pagando sempre di persona ogni loro vittoria, quegli uomini lottarono per raggiungere, come scrisse Paolo Gobetti, «una meta in se stessa vana e insignificante, un punto matematico sperduto nell'uniformità di un deserto di ghiaccio».

Robert Falcon Scott era il celebre esploratore polare destinato a diventare uno dei massimi eroi inglesi del tempo di pace. Dal 1901 al 1904 fu lui che per primo toccò la Terra di Re Edoardo VII. Poi si spinse nell'interno della Terra Victoria verso il Polo Sud fino a 82° e 17' di latitudine. Gli era poi succeduto Ernest Shackleton, anch'egli inglese, che con una disperata avventura durata 126 giorni, tra il 1908 e il 1909, aveva raggiunto con tre suoi compagni la latitudine quasi estrema di 88° e 23': fallì il Polo Sud per soli 185 chilometri. «La morte era davanti a noi, e il cibo alle nostre spalle; fummo costretti a ritornare», commenterà Shackleton al suo rientro in patria. Ma pur mancando il successo, la sua esperienza confermava definitivamente l'esistenza, fino allora dubbia, della compattezza continentale antartica. Aveva inoltre potuto sperimentare le tremende condizioni che dominano quelle latitudini. Arrivò infine il norvegese Roald Amundsen, un uomo di eccezione, di una volontà che non conosce ostacoli.

Amundsen era partito con quattro compagni dalla Baia delle Balene, sempre nel Mare di Ross, e aveva tracciato la rotta per il Sud attraverso quel labirinto che lui stesso avrebbe definito «la sala da ballo del diavolo», un ghiacciaio disumano i cui crepacci sembravano sprofondare negli abissi stessi dell'inferno. Il Polo veniva così raggiunto il 14 dicembre 1911, dopo una maratona durata complessivamente novantotto giorni per percorrere una distanza, tra l'andata e il ritorno, di 2800 chilometri. I norvegesi erano partiti per l'impresa con quattro slitte trainate da cinquantadue cani e avevano viveri in abbondanza, anche perché furono gli stessi cani a garantirne la riserva. «I cani sono viveri a quattro zampe», l'aveva affermato anche Peary, un pretendente alla conquista del Polo Nord, che aveva aggiunto: «I sacrificati nutrono i superstiti... e l'uomo». E Amundsen, sapientemente, aveva tenuto conto di questa crudele ma preziosa risorsa degli esquimesi.

Contemporaneamente ai norvegesi, anche il comandante Scott era tornato sulla via del Polo dove ora stava lottando lungo un itinerario più a occidente, lo stesso dello sfortunato tentativo di Shackleton. Una somma di avversità faranno però di questa impresa una catastrofe, drammaticamente testimoniata nel diario che venne ritrovato accanto al corpo dello stesso Scott, nella primavera dell'anno successivo alla sua morte. Scott e i suoi quattro compagni, partiti dall'Isola di Ross, erano rimasti ben presto senza animali. Avevano purtroppo preferito i cavallini pony, assai meno adatti dei cani groenlandesi, per trascinare le slitte. Perduti i cavalli, erano stati costretti a sostituirsi agli animali nella massacrante fatica del traino. E come non bastasse, erano stati ostacolati da un tempo proibitivo e dalla stagione ormai troppo avanzata. Nonostante tutto però giunsero lo stesso al Polo, il 18 gennaio (trentacinque giorni dopo Amundsen). Ma qui li aspettava la più amara delle delusioni: la bandiera norvegese e la tenda lasciate da Amundsen come segno della sua conquista. Il ritorno degli sfortunati esploratori fu ancora più duro dell'andata. Il primo a spegnersi di sfinimento, di gelo e infine di follia, fu il sottufficiale Evans, il 17 febbraio, prima ancora di raggiungere l' ice-shelf. Poi toccò al maggiore Oates, che sentendosi ormai condannato dal congelamento, si sacrificò per non essere di peso ai compagni. Era il 16 marzo di primo mattino, Oates si allontanò dal campo con un pretesto e scomparve nell'imperversare della bufera. Non lo avrebbero trovato mai più.

I tre superstiti – Scott, il dottor Wilson e il tenente Bowers – con indicibili sofferenze giunsero finalmente presso il grande deposito di viveri One Ton, l'ultimo della serie preventivamente allestita sulla Barriera di Ross. Li separava dalla salvezza soltanto una distanza di venti chilometri, ma la sfortuna si accanì ancora su di loro con un furioso blizzard che li inchiodò, questa volta per giorni e giorni, nell'unica tenda. Sarebbe diventata la loro tomba. Nelle annotazioni che Scott segnava nei giorni finali c'è tutta la nobiltà e la forza d'animo che fino all'ultimo avevano sorretto quel pugno di uomini valorosi: «Abbiamo affrontato dei rischi, e sapevamo di affrontarli; tutto si è messo contro di noi: non dobbiamo quindi lamentarci, ma inchinarci al volere della Provvidenza, decisi ancora a fare il nostro meglio fino alla fine». E rivolto alla moglie scriveva ancora: «Quante cose avrei potuto raccontarti sulla spedizione! Quanto è stata preferibile la nostra impresa a una vita facile tra le eccessive comodità della casa! Quante storie potrai raccontare al nostro ragazzo! Ma a che prezzo abbiamo pagato tutto questo!» Poi, in data 29 marzo, l'ultimo messaggio. Prima di spegnersi anche lui, sereno e ormai completamente rassegnato al destino, stringendo a sé affettuosamente i suoi due compagni forse già morti, Scott aveva trovato ancora la forza di annotare sul suo diario: «Abbiamo perduto ogni speranza. Resisteremo fino alla fine, ma ci sentiamo sempre più deboli; la morte non può più essere lontana. È spaventoso, ma non riesco più a scrivere. Per l'amor di Dio, abbiate cura dei nostri cari».

Quella di Scott fu al tempo stesso la tragedia più alta nel suo valore morale e più spaventosa nella sua realtà, unica nella storia delle esplorazioni alle massime latitudini.

Stava per concludersi l'epoca eroica della conquista dell'Antartide compiuta da uomini forti di spirito e di ideali, veri eroi che si erano affidati unicamente ai soli loro mezzi umani. Epoche nuove si andavano profilando. Le «corse al Polo» sarebbero presto diventate, in sostanza, dei raid motorizzati, e progressivamente sempre più sostenuti e protetti da sofisticati mezzi all'avanguardia e superprogrediti, pilotati da infallibili strumenti satellitari, e via di questo passo sino a scadere in una sorta di esibizioni mirate a imprese solamente finalizzate a se stesse, atte soltanto a convalidare il successo delle protezioni e degli strumenti tecnici impiegati. Ma grazie all'inesauribile bisogno di conoscenza che è insito nell'uomo, il vertice della Terra sarebbe diventato anche, e soprattutto, un luogo di studio e di ricerca scientifica da compiere all'interno di basi da fantascienza, allestite un po' ovunque su quello che era rimasto l'ultimo continente sconosciuto. Ma l'incognito più nascosto dell'Antartide, le testimonianze fossili e minerali sepolte nelle sue rocce, sono rimaste solamente sulle rare e impervie creste affioranti e sotto l'ermetico ghiaccio che opprime il plateau continentale in cui sono custodite. Forse l'affascinante ignoto vi rimarrà ancora per lungo tempo.

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ALLE SORGENTI DEL RIO DELLE AMAZZONI (1967 E 1978)


L'Amazzonia in sintesi

Esperienze come quelle da me vissute nei luoghi che qui racconterò temo siano ormai diventate, in pochi decenni, cose d'altri tempi, testimonianze di paesaggi e condizioni che con impressionante rapidità stanno scomparendo. E la causa di tutto questo, il colpevole quindi, è l'uomo cosiddetto progredito.

Sotto e sopra l'equatore nel bel mezzo del continente sudamericano, delimitata da catene altissime e ghiacciate ma anche da vulcani, savane e aridi deserti — ogni cosa ad abbracciarla e contenerla quasi a protezione — v'è un'area di sei milioni e mezzo di chilometri quadrati occupati interamente da una densa e lussureggiante foresta primaria: è appunto l'irripetibile fenomeno naturale di nome Amazzonia. Il tutto costituisce i due quinti dell'intero territorio sudamericano, qualcosa come dieci volte la Francia. Guardando dall'alto questa grande selva pluviale la si direbbe una terra impenetrabile, un immenso ombrello verde che si eleva mediamente fino a quarantacinque metri da terra. Essa infatti esiste non tanto nel suolo quanto sopra il suolo; e sotto, in un'eterna uniformità di clima e di tempo, nella penombra cupa dove giunge soltanto un decimo della luce solare, dove ristagna un'umidità opprimente causata dalla scarsissima evaporazione, infuria l'inavvertita battaglia delle piante rampicanti e striscianti. Sono piante che lottano per la sopravvivenza, aggrappandosi con radici e tentacoli agli alberi ospiti, nell'incessante ricerca di luce e di spazio.

È un mondo tutto acqua e piante, ignaro delle stagioni e che vive secondo le proprie leggi. È completo in se stesso e non trova alcun riscontro con altre terre; va quindi visto senza preconcetti, come se si trattasse di un altro pianeta.

La caratteristica forse più inconsueta dell'Amazzonia è il fatto di essere rimasta pressoché immutata da più di cento milioni di anni. Mentre le foreste temperate europee e nordamericane nacquero dopo l'ultima glaciazione, circa undicimila anni fa, l'Amazzonia aveva goduto della protezione del suo clima tropicale; sicché oggi è una delle estreme regioni del mondo in cui possiamo farci un'idea immediata del passato più remoto, e toccare piante rimaste veramente allo stato primigenio. Viaggiando da queste parti si ha infatti la strana sensazione di percorrere la nostra Terra prima ancora che vi fosse comparso l'uomo.

L'antichissima giungla, che copre circa una metà del Brasile e parzialmente altri otto Stati sudamericani, è perlopiù contenuta in un immenso bacino fluviale che defluisce nell'oceano creando il più grande corso d'acqua del mondo: il Rio delle Amazzoni. Sgorga da un piccolo ruscello sull'altipiano andino in Perù, a circa 5000 metri e a soli 180 chilometri dal Pacifico, ma va a sfociare nell'Atlantico, esattamente sul lato opposto del continente dopo un percorso di 6280 chilometri. Per lunghezza è il secondo fiume del mondo, viene dopo il Nilo, ma per portata d'acqua non ha rivali: dalla sua foce, ampia 320 chilometri, scorre circa un quinto di tutte le acque pluviali dei continenti, e quest'acqua si apre il varco fra quella salata dell'oceano senza mescolarvisi, fino a più di 160 chilometri al largo. Il suo letto è così profondo che le grosse navi oceaniche possono risalirlo e penetrare all'interno del continente per ben 3680 chilometri. Il secondo fiume del mondo in ordine di portata d'acqua è il Congo, e tuttavia due dei maggiori affluenti del Rio delle Amazzoni — il rio Negro e il Madeira – riversano ciascuno quasi lo stesso volume d'acqua del grande fiume africano. I tributari dell'immenso Amazzoni sono 1100, diciassette dei quali misurano ciascuno oltre 1600 chilometri, parecchio più del Reno. In questa parte del mondo non si viaggia sulla terra, ma sull'acqua; sono dunque i fiumi a costituire le vie di comunicazione della giungla: qualcosa come 80.000 chilometri di «rami principali» navigabili, e innumerevoli sono gli altri corsi secondari. Spesso le rive di questi fiumi scompaiono sotto uno strato d'acqua profondo da tre a dodici metri, e l'inondazione si estende di quaranta, persino cento chilometri dall'uno e dall'altro lato del letto del fiume. In effetti, l'intero bacino amazzonico può essere tuttora considerato quasi come uno sconfinato lago nell'interno del continente.

Il carattere forse più sorprendente dei fiumi amazzonici è la loro diversità di colore. Sono prevalentemente di due tipi: i bianchi e i neri ma ve ne sono anche di verde-azzurri. I bianchi, in realtà di una tinta giallo sporco, sono ricchi di sedimentazione e sostanze nutritive solubili. L'Amazzoni ne immette annualmente nell'Atlantico un miliardo di tonnellate. I neri invece sono in effetti rossastri, o meglio del colore della Coca-Cola. L'effettiva colorazione di queste acque rosso-nere è dovuta principalmente a due ragioni: la prima è che sono relativamente prive di sedimentazione in quanto dilavano un terreno antichissimo – lo Scudo Guayanese – quindi ormai esaurito di sostanze solubili; la seconda, conseguente alla prima, è che a queste acque, nel loro drenaggio verso i fiumi, non rimane altro da dilavare che la macerazione vegetale della foresta, di cui asportano l'acidità e il colore. Queste acque nere, e anche quelle verde-azzurre, sono tuttavia fra le più pure e trasparenti, e spesso si possono tranquillamente bere. Nell'Amazzonia, dunque, nero non è affatto sinonimo di sporco, così come bianco non significa pulito. La codificazione cromatica delle acque rivela inoltre un modulo geografico che consente di capire meglio la geologia amazzonica. Innanzitutto bisogna tener presente che l'Amazzonia apparteneva in passato a un continente assai più grande dell'odierna America meridionale. Centinaia di milioni d'anni fa le sue formazioni rocciose e le sue catene montuose erano unite a quelle dell'immenso continente primigenio, la terra di Gondwana, che aveva come centro vitale l'Antartide, e comprendeva oltre al Sudamerica, l'Africa, l'India e l'Australia. La costa orientale convessa del Sudamerica si congiungeva allora con la costa occidentale, concava, dell'Africa; e quella che adesso è la foce dell'Amazzoni era una regione interna confinante con l'attuale Costa d'Avorio. Esisteva già un Amazzoni, ma fluiva a ovest, nel Pacifico. La geografia primordiale dell'Amazzonia fu sconvolta circa 200 milioni di anni or sono, quando la terra di Gondwana venne gradatamente distrutta da poderose forze endoterrestri e le sue parti si allontanarono, diventando gli attuali continenti. Nel corso di decine di milioni d'anni, le forti correnti all'interno magmatico del pianeta gonfiarono, screpolando sia lo strato basaltico della terra di Gondwana sia lo strato granitico dello stesso continente primordiale. A mano a mano che le correnti sotterranee premevano verso l'alto, crearono un crinale nel sostrato basaltico costringendo le parti che si trovavano sui due versanti a spostarsi. Il Sudamerica si allontanò lentamente verso ovest come un'enorme isola, lasciandosi dietro un gigantesco crepaccio che si allargava via via e che divenne l'Atlantico meridionale. La deriva continuò, fin quando il continente urtò e cominciò a passare sopra gli strati più duri del nucleo terrestre, un fenomeno tuttora in atto. A questo punto la crosta terrestre si raggrinzì in una serie di pieghe e contorcimenti giganteschi formando le Ande, le quali bloccarono la foce del vecchio Amazzoni. Dapprima si produsse un lago d'acqua dolce a ridosso dell'appena sorta catena di montagne, un vasto lago il cui drenaggio avverrà soltanto grazie a un nuovo movimento continentale. Negli ultimi cinquanta milioni di anni il Sudamerica subì infatti uno sbandamento, un cedimento a oriente, e le sue acque, quindi anche quelle amazzoniche, trovarono lo sbocco nell'Atlantico attraverso la breccia fra l'altipiano della Guayana e l'altipiano del Brasile. È così che si svuotò il grande lago interno e si formò l'odierno bacino fluviale.

Le specie ittiche del Rio delle Amazzoni non si contano: piranhas, gimnoti che producono scariche elettriche da 220 volt, pesci gatto giganti del peso di alcune centinaia di chili, e innumerevoli altre, molte delle quali di origine marina ma adattate a vivere in queste acque dolci interne. Si sa per certo che nel sistema fluviale amazzonico si trovano più di 1500 specie ittiche.

In quanto agli insetti, questa terra sembra esserne un regno incontestato, ve ne sono di ogni tipo e dimensione. Di sole zanzare, per esempio, se ne contano 218 specie già identificate, e sembra che tutte vivano per un unico scopo: riuscire a cacciare il proprio pungiglione nella pelle di chi si avventura da queste parti.

Anche per l'avifauna le cifre sono impressionanti: 4300 specie di uccelli, vale a dire che sono qui presenti la metà di tutte quelle note esistenti al mondo, e moltissime altre non sono ancora state scoperte. Di soli colibrì se ne contano 319 specie.

In queste foreste pluviali e torride, dove i processi vitali si svolgono rapidamente e senza interruzione, non può che prodursi una vegetazione mostruosa sia per tipo sia per dimensione. Vi sono liane, per esempio, che si elevano dal suolo e si avvinghiano ai tronchi come grosse gomene, insediandosi ovunque e raggiungendo limiti incredibili, anche 180 metri di lunghezza. Su mezzo ettaro di superficie si possono trovare fino a sessanta specie arboree diverse. Le specie di orchidee amazzoniche sono addirittura 15.000.

Viene da chiedersi come sia possibile che una foresta tanto lussureggiante possa esistere nonostante il suo sterile suolo, che per effetto della percolazione è quasi del tutto privo di minerali, batteri e organismi in genere. La risposta ci viene essenzialmente dalla massa di miceti che rivestono gli alberi, soprattutto da quelli che vivono in stretta simbiosi con le radici secondarie. Naturalmente entrano in gioco anche altri fattori complessi, ma semplificando un po' le cose si può dire che le sostanze necessarie a questa vita vegetale circolano non attraverso il terreno, bensì da pianta a pianta. Questi funghi dunque, ossia i miceti che rivestono gli alberi, trasferiscono direttamente alle radici vive i sali nutritizi delle foglie e del legno in putrefazione che vi si posano sopra, sicché soltanto una minima parte dei minerali solubili raggiunge il suolo. Ma anche qui le termiti, le muffe, e ancora miceti e parassiti utilizzano al completo tutto ciò che cade dall'alto trasformandolo, assimilandolo e finendo poi, con il loro rigoroso comportamento, per rimandarlo là da dove era venuto, nell'altissimo padiglione verde che è la superficie vera e propria della foresta.

Arrivando da queste parti si scopre in definitiva di compiere un viaggio nel tempo prima ancora che nello spazio; è un viaggio a ritroso di oltre cento milioni di anni.

Il fiume più grande del mondo, il Rio delle Amazzoni appunto, fu scoperto nel 1500 e quarantun anni più tardi venne percorso per la prima volta, da un europeo, in tutta la sua lunghezza. Lo fece uno spagnolo, Francisco de Orellana, che partito da un piccolo affluente ai piedi delle Ande ecuadoriane, dov'era giunto con i suoi uomini via terra dal Pacifico, discese il tortuoso rio Napo, entrò nell'Amazzoni e continuò per oltre 3000 chilometri fino all'Atlantico. Orellana fu il primo a parlare delle terribili donne guerriere – versione sudamericana delle amazzoni greche – dalle quali il fiume ha preso il nome.

Due secoli più tardi, nel 1743, è la volta di Charles-Marie de La Condamine a navigare fino all'Atlantico il Rio delle Amazzoni, dopo esservi entrato dal più a monte rio Marañon. In quell'occasione La Condamine disegna una carta in cui avanza l'ipotesi che l'Amazzoni e l'Orinoco potrebbero trovarsi fra loro collegati da un canale naturale. Un'ipotesi, la sua, che verrà confermata cinquantasette anni più tardi dai naturalisti Humboldt e Bonpland. È il 1800 e quel canale appena accertato, il Casiquiare, già raccontato in un capitolo di questo libro, rappresenta una autentica mostruosità geografica poiché collega fra di loro due grandi e distinti bacini fluviali.

Si ritiene che l'uomo si sia insediato nell'Amazzonia da almeno 15.000 anni. Probabilmente non superò mai i tre milioni di unità, oggi comunque questa terra immensa conta una popolazione che forse non arriva a 200.000 indigeni. Il declino degli aborigeni è dovuto non certo alla difficile foresta bensì a un tipo di calamità che è risultato di gran lunga peggiore: l'uomo bianco. Più ancora che le armi di noi bianchi invasori, furono le nostre malattie a decimare questo popolo incontaminato: il vaiolo, la sifilide, il morbillo, persino il banale raffreddore. Ma insieme alle malattie fisiche giunsero, anche più insidiosi, il pensiero e la presunzione di noi, popoli civili, che abbiamo finito per distruggere le loro culture autoctone. Così, chi sopravvisse fisicamente, non di rado morì poi spiritualmente.

Purtroppo, ogniqualvolta ci siamo messi in contatto con una popolazione cosiddetta selvaggia, abbiamo concorso a distruggere quanto di meglio essa possedeva, prima di tutto il suo equilibrio sociale. La cosa migliore, per gli indios, sarebbe stata che i bianchi non avessero mai invaso l'Amazzonia; ma gli avvenimenti storici sono irreversibili. Un giorno forse rimpiangeremo di non essere andati fra loro per apprendere oltre che per insegnare, e per ricevere dalla loro cultura oltre che per imporre la nostra.

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La sorgente scoperta

Per quanto strano possa sembrare, ancora non si è fatto il punto sull'effettiva sorgente del fiume più grande del mondo: il Rio delle Amazzoni, appunto. È indubbio che si formi dall'unione dei due maggiori corsi d'acqua che scendono dalle Ande peruviane, l'Ucayali e il Marañon. Se il primo nasce più lontano, il secondo è superiore per portata d'acqua; e «l'importanza di un animale», come ha detto in proposito lo studioso italo-peruviano Antonio Raimondi, «non dipende dalla lunghezza della sua coda». Tuttavia la misura dell'Ucayali supera di oltre 500 chilometri quella del suo antagonista. A originare quest'ultimo fiume sono il rio Urubamba e il più meridionale rio Apurímac le cui sorgenti – anch'esse tutt'altro che definite – sono in assoluto le più distanti.

Tali interrogativi mi hanno sempre appassionato e continuano a farlo. Ma ad affascinarmi sono anche questi angoli di mondo sperduti e silenziosi in cui si generano, mediante le escursioni termiche dell'aria rarefatta, i primi timidi ruscelli destinati a riunirsi e a formare quell'alveo, lungo oltre seimila chilometri e che raccoglie e trascina all'oceano, dall'altra parte del continente, almeno il diciotto per cento di tutte le acque che scorrono nei fiumi del globo. Il mio nuovo viaggio nelle regioni dove hanno origine l'Urubamba, l'Apurímac e il Marañon, prenderà il via a fine maggio del 1978 e durerà circa tre mesi.

Dell'Urubamba ho preferito raggiungere le sorgenti meridionali, ritenute le più lontane e le meglio identificabili. Per l'occasione ho scalato il nevaio La Raya, un picco della cordigliera Vilcanota alto 5400 metri, dalla cui cima di sfolgorante candore il mio sguardo è poi scivolato giù per le sfuggenti chine nevose e le vaste crepacciate azzurrine, fin dove il ghiacciaio va a morire sciogliendosi tra un groviglio di detriti morenici. Questo è dunque il luogo da cui cominciano a divallare i primi sinuosi fili d'acqua dell'Urubamba, che accesi dal barbaglio del sole appaiono come lunghi nastri roventi. Ho voluto osservare l'Urubamba da questo alto pulpito perché è qui il limite estremo delle nevi che fondendo formano l'immenso fiume, ma anche perché dalla cima di un monte tutto appare più vasto, solenne.

Sono poi passato alle terre dell'Apurímac, una natura completamente diversa. In questo nuovo paesaggio infatti non svettano più le bianche catene ghiacciate dai cui fianchi, secondo l'immagine consueta, sgorgano copiose acque cristalline; domina invece lo spazio, il cielo avvolge ed è vivo e mobile per le gravide nubi che vi navigano senza tregua. Questa è la tipica puna dell'altipiano andino e si presenta come una sconfinata distesa di biondi incurvamenti al cui orizzonte le grandi montagne non sembrano che minime ondulazioni sfumate nel violetto. Ma i veri protagonisti onnipresenti sono qui il silenzio e la solitudine, resi ancor più severi dal gelo costante e dall'aria rarefatta delle massime altezze. Si direbbe un mondo che respinge la vita; sono questi invece i pascoli ideali degli alpaca, dei llama, il rifugio delle ultime vicuñe, l'universo dei pochi indigeni che da millenni seguono i loro immutati costumi, ignari del resto del mondo che li ignora a sua volta. La presenza pertinace di questi indios, nonostante le incredibili difficoltà, l'ostilità climatica, la privazione di ogni genere di soccorso, l'indifferenza e l'oblio degli altri, è sorprendente; e a conoscerli sale spontanea l'ammirazione per questa vera specie di superuomini, autentici vincitori nella lotta per la sopravvivenza.

La base da cui compirò le mie escursioni esplorative si chiama Cailloma ed è il centro di una zona mineraria, la più antica del Perù, già conosciuta dagli incas ancora prima che arrivassero i conquistadores. In quelle rocce a oltre 5500 metri di quota si sono sempre cercati l'oro e l'argento, ma ora, con sistemi più progrediti, si estraggono anche altri minerali pregiati. A sud-ovest di Cailloma, sull'altipiano propriamente detto e a soli 180 chilometri dal Pacifico in linea retta, si sviluppa un complicato sistema idrico, ancor più problematico per l'assenza di veri e propri ghiacciai che invece potrebbero evidenziarne l'origine. Per tradizione, nei testi di geografia si è sempre voluto identificare la «nascente» di queste acque – del rio Apurimac e quindi del Rio delle Amazzoni – con la laguna Vilafro. Ma dalle indagini fatte negli ultimi anni essa risulta, secondo il sarcasmo del geologo americano Richard Knapp, «la nascente di un bel niente». Si è dunque assodato che il grande fiume non deriva dalla laguna Vilafro; così permangono i molti dubbi sulle sue effettive origini.

Trenta chilometri più a sud, in linea retta, si eleva la cordigliera Chila, una catena di montagne dalle cime innevate il cui punto culminante supera i 5500 metri. Le sue acque di scioglimento, copiose e costanti, raggiungono l'Apurimac, che proviene invece dall'altro lato della valle principale, dove lo si vuole riconoscere nell'unione dei vari torrenti che discendono dal Nord. E così le sorgenti dell'Amazzoni continuano a essere controverse.

Nel 1973 una spedizione statunitense ha creduto di identificarne le origini in una delle valli a nord di Cailloma, dove ha cementato una targa di bronzo su cui è scritto che lì nasce il Rio delle Amazzoni. È apprezzabile l'intenzione di una simile iniziativa, ho però buoni motivi di dubitare della validità del messaggio consacrato, e vediamone il perché.

Il mio primo sopralluogo alle presunte sorgenti dello straordinario Amazzoni è rivolto alla laguna Vilafro, dove, a detta di chi mi aveva dato alcune vaghe informazioni sui luoghi, pare trovarsi, a monte del lago, l'appena citata targa degli americani. È pomeriggio inoltrato quando raggiungo le rive meridionali di questa laguna. Il cielo burrascoso si riflette cupamente nelle acque increspate dal vento, non un segno di vita all'intorno, non il minimo arbusto ad attenuare la desolazione di questo vuoto spazio. Fiocchi leggeri volteggiano nell'aria, a tratti sibilante e tagliente fino a far lacrimare gli occhi. È un paesaggio veramente spietato e incurante dell'uomo.

L'aggiramento del lago dura circa tre quarti d'ora. Per altrettanto tempo continuo poi la marcia verso un aspro vallone dove suppongo abbia origine il torrente e vi si trovi la famosa targa. Ma a risollevare lo spirito ecco inaspettatamente presentarsi una scena che definirei pastorale: un gregge di llama pascola punteggiando teneramente la scura rasata palude che precede il vallone. L'atmosfera desolante di poco prima si scioglie decisamente quando scopro l'esistenza di un paio di rudi capanni di pietra. Incredulo mi avvicino al tugurio più ampio, dove ho appena scorto il profilo di una bimba sgattaiolare via. Il vivere di qualcuno in un simile luogo non può che infondere stupore e riguardo per chi vi abita. La curiosità mi spinge tuttavia ad accostarmi a questi esseri fenomenali, a carpirne possibilmente un segreto sul loro modo di vivere. A pochi metri dalla porta aperta dell'abituro, che è privo di una qualsiasi finestra, annuncio la mia presenza con discreti e ripetuti «Olà!» che restano però senza risposta per qualche minuto; e finalmente prende forma, dal caliginoso ingresso, la sagoma scura e goffa di una donna che avanza timidamente verso di me accennando un sorriso. È piuttosto anziana, veste l'ampia pollera, la tipica gonna i cui strati colorati hanno perso di vivezza per il costante contatto con la terra nuda e con il fumo del focolare. Porta in capo la caratteristica bombetta da cui scende uno scuro treccione di capelli neri, i piedi nudi affondano penosamente nella gelida fanghiglia che il maltempo sta formando intorno alla baita. La saluto con discrezione e le chiedo se può indicarmi il luogo dove è situata la famosa targa. «È una piastra di metallo bruno, grande così», le dico mentre con le mani disegno nell'aria un rettangolo per aiutarla a capire. Parlo in spagnolo scandendo bene le parole, con tono pacato e suasivo; ma come sospettavo lei non capisce, e a ogni mia pausa si limita a balbettare qualche breve suono incomprensibile, certamente in quechua, l'antico idioma incaico.

Insperatamente esce dal capanno un'altra donna più giovane, e la bambina, che già avevo intravista all'inizio, le corre subito accanto e le si afferra alla gonna con ambo le mani rimanendovi attaccata, immobile per tutto il tempo, a guardarmi. Devono essere madre e figlia che vivono con la vecchia nonna; nessuna traccia di uomini. In realtà la nuova venuta dimostra di conoscere qualche parola di spagnolo, però non prende alcuna iniziativa e si limita a fare da interprete alla vecchia nel nostro stentato dialogo, ancora insufficiente per capirci. Sono effettivamente troppe le barriere che ci separano. Lo stupore e il mistero che suscita in me questa gente credo sia soltanto paragonabile agli interrogativi che certamente anch'io farò sorgere in loro a mia volta. Perché, si chiederanno le due donne, quest'uomo venuto da lontano è arrivato fin qui nella bufera, alle soglie della notte, cercando un oggetto sconosciuto, che non si identifica con qualcosa che faccia parte del nostro mondo, come un llama, una roccia, o un sentiero? È ancora la vecchia infine a stupirmi con un dolce e bonario: «Venga domani!» in lingua spagnola, che ripete quasi come una preghiera; poi rimane lì a guardarmi, muta e sorridente, lasciando a me la scelta di restare o di andarmene. È stupendo e incredibile: ho davanti a me una delle immagini più emozionanti che si possano incontrare da queste parti. Volti e cose tanto singolari, e in un paesaggio così perfetto, basterebbero a sintetizzare tutto il mistero e il dramma degli indios delle Ande. A ben considerare è anche per cercare testimonianze come queste che sono venuto apposta da tanto lontano, eppure avverto che se in questo momento puntassi la macchina fotografica su queste donne sarebbe la cosa più stonata e scorretta che potrei fare. Preferisco non rompere l'incanto. Le saluto, e nel rincrudito turbinio di neve comincio il mio ritorno camminando incontro alla notte. Ho comunque capito che non esiste traccia della targa da queste parti.

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