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| << | < | > | >> |Indice7. Giro di vita Di come fingersi preparati all'evento 7 6. Le cinque W Di quando, dove, perché, cosa e CHI 28 5. Noi bene. E la tua cucina? Dell'arte di arrangiarsi 59 4. C'è nessuno là fuori? Di come l'universo accoglie la vita nuova 88 3. La seconda infanzia Dell'invecchiare dando la vita 111 2. Dopo tutto quello che aveva fatto per dimagrire Dello sport di essere padri e madri 149 1 Voi non leggete il bugiardino Da chi abbiamo imparato 186 0. Good news is good news Le ultime sigarette del condannato a morte 199 |
| << | < | > | >> |Pagina 77.Giro di vita
Di come fingersi preparati all'evento
meno 8 mesi, 3 giorni lei La notte che ha separato gli anni 2009 e 2010, con le solite esplosioni in leggera differita una dall'altra, ho dormito e sognato senza sosta un bambino vestito alla marinara che mi scappava su una spianata deserta, punteggiata di ombrelloni. Continuavo ad avvistarlo di schiena, lo raggiungevo, lo giravo prendendolo per le spalle, ma era un vecchio vestito da marinaretto, o un canguro o un cane, sempre col colletto bianco e blu. Che sogno letterario, mi ha poi detto qualcuno. Ovvero: che immaginario del cazzo. La notte che ha separato l'anno della candidatura di Hillary Clinton da quello della nascita di Arturo e del primo presidente nero, mi sono svegliata verso le tre, non con una voglia sfrenata di trovarmi a Vladivostok per festeggiare, ma perché avevo qualcosa dentro, come suggeriva, nel cerchio della testa, la mia coscienza assenteista, e questo mi sarei trovata a interpretare molto più tardi come una profezia del corpo, magari erroneamente, magari snaturando del tutto il messaggio di quell'inedita me di una notte, che mi teneva sveglia a piangere sul water.
Poi però, ero tornata a dormire sopra il confine
invisibile dei due anni, e per qualche tempo il fatto
non mi era mai più tornato in mente, come fa con
molte cose che succedono di notte.
meno 6 mesi, 3 settimane, 2 giorni lei In una notte qualunque, di quell'anno arrivato di notte, mi è scappato di mente, di corsa e del tutto, chi ero stata fino all'inizio di quella notte, a chi dovevo qualcosa, e quali erano i compiti che mi ero assegnata per il 2030. Non ero la libera professionista che 15 giorni prima aveva accettato un ottimo impiego statale a progetto. Non ero quella vestita da jolly delle carte alla festa di carnevale del 1990, né la bambina che, nella cartolina da Rapallo del 1985, aveva scritto mi manca la casa, non ero la figlia, la compagna, l'alunna preferita di nessuno, non ero la più cattiva di nessun posto, né quella con la gonna, la vista o la vita più corta. All'inizio di quella notte invece ero quasi la mamma di Arturo. Prima di mettere lo stick per 5 minuti sotto il flusso di urina, avevo aspettato che la pioggia si asciugasse dai vestiti, guardandoli sgocciolare nuda e fredda in mezzo al bagno; avevo aspettato perché il ginecologo aveva detto che mio marito avrebbe dovuto prelevare lo sperma insieme a tanti altri speranzosi, e la scena mi divertiva, avevo aspettato anche perché avevo un lavoro da 15 giorni, e volevo essere, ancora per trenta secondi, la figlia e la donna di qualcuno. A quel punto, era entrato Alessandro, che al momento dei fatti era solo il mio ragazzo e il figlio di qualcuno che conoscevo poco: era entrato il figlio di qualcuno col bicchiere di Batman. Cinque secondi dopo, e altri cinque perché comparisse il sì, Alessandro era andato a riempire il bicchiere di Batman di latte scaduto e pane vecchio raccolto dall'immondizia. Il suo modo sferzante, guai sennò, per dire che ci stava. Che si sacrificava con gusto.
Poteva mai più concidere con me, la bambina a cui
mancava la casa?
meno 6 mesi, 3 settimane, 1 giorno lui Il primo anno di superiori – nessun racconto da focolare, appena una dozzina d'anni fa - era in classe con me un giovane comunista. Non il sano liceale ribelle, ma uno di quelli con la tessera già a 14 anni. Un tipo tanto comune che non serve descriverlo, va bene quello che ognuno conserva nella memoria o nell'immaginazione. Un giorno Trockij, kefiah al collo, venne invitato alla cattedra dal professore di greco. Doveva essere un'interrogazione di greco, ma divenne presto un'interrogazione e basta. E poi un interrogatorio. Trockij è ben preparato per la sua età. Ma inutilmente. È chiaro, infatti, che ogni sua risposta può solo protrarre l'agonia: il voto e soprattutto il giudizio sono già scritti. Compreso che l'interrogazione ha perso il suo carattere ufficiale, la classe interviene, ridacchia, azzarda pareri sotto forma di battuta. Subiamo, empaticamente, l'interrogazione sull'ideologia di Trockij. Il professore è stupido, crede di far cadere, di umiliare Trockij e invece riesce a fargli conquistare quella solidarietà – anche politica – che dai compagni di classe non aveva mai avuto. Poi tra le risposte viene fuori l'espressione dittatura del proletariato. "Che vuol dire proletariato?" "Gli operai." "Te la lascio passare, ma da cosa viene? Chi sono i proletari?" Eccolo lì, l'esito già scritto. Scena muta. Anche dall'assemblea: l'etimologia di proletari è estranea a tutti. Oggi alla dittatura del proletariato non ci crede più neanche Trockij, e se gli capita, lo fa nelle pause dal suo lavoro di ufficio stampa. Ma insieme alla dittatura del proletariato è scomparso anche il proletario. A me, al professore di greco, all'operaio della Lanerossi e a Trockij, serve una buona connessione adsl, le partite del Napoli su Sky, 14 giorni di vacanza d'estate senza che intanto ci svaligino casa. Le stesse aspirazioni, le stesse possibilità di soddisfarle. Nell'antica Roma, i proletari erano quelli che non avevano alcun bene tranne la prole, e venivano dispensati dall'andare in guerra tanto erano poveri. Poi i proletari sono diventati gli operai (delle fabbriche, come della terra d'altri); non avevano niente tranne i figli, ma dovevano anche andare in guerra. (Anzi. La maggior parte dei proletari morti durante la Seconda guerra mondiale arrivavano proprio dall'U.R.S.S.) Pensandoci bene: non abbiamo una casa di proprietà, i nostri contratti scadono un mese prima che il bambino (Arturo?) nasca, e non mi pare che il welfare italiano ci venga incontro a braccia aperte. Allora, da soli, proviamo a riappropriarci, senza sforzi, di questa parola. Proletari. La prima volta che la mamma mi ha detto facciamo un bambino, pensavo occorresse una posizione più stabile. Le ho ripetuto lo stesso discorso almeno altre venti volte. Quando è stato chiaro che la posizione più stabile non sarebbe arrivata, il mio discorso era diventato un alibi. E chi bada al cielo non semina. | << | < | > | >> |Pagina 11meno 6 mesi, 3 settimane luiPerché? Innanzitutto perché spero che tu mi faccia domande come questa. E già ora ogni cosa che accade penso a come spiegarmela per vedere come spiegartela. Perché — nonostante tutto — è l'unico gesto libero che si può compiere. E poi perché le donne cinesi sono costrette ad abortire dopo il primo figlio. Perché tuo fratello o tua sorella avrà bisogno di un fratello maggiore. E il corpo della mamma era pronto. Perché le donne arabe sono costrette a esistere solo per riprodurre la specie. E perché dove si mangia in due si mangia anche in tre. Per essere legittimati a comprare biscotti Plasmon. Perché io e Ada non ci mettiamo mai d'accordo su cosa guardare in tv. E il tuo voto farà pendere la bilancia. Perché ci sono donne che vengono in Italia e possono crescere un bambino loro, solo se intanto fanno fare la pipì al nonno del secondo piano. O passano la notte col signore del pianterreno. E anche perché mi manca sempre il decimo nelle partite di calcetto. Per avere una compagnia per una ventina d'anni. E poi – se ci siamo comportati bene – ogni tanto ci chiami o ci vieni a trovare.
Perché immaginare le risposte plausibili è il modo
migliore per ingannare l'attesa.
meno 6 mesi, 2 settimane, 6 giorni lui Qui bisogna fare due conti. Banale, prosaico, inelegante, ma necessario. Non intendo dire prendere solo mezzi pubblici senza pagare il biglietto, o ricominciare a fare gli scippi, o mettere nello zainetto la carne al supermercato e pagare la carta igienica. Cominciare tagliando il superfluo. Per dire: è ormai da un anno che in casa usiamo detersivi biodegradabili al 100%. Detersivo per i piatti, per i vestiti (che laviamo a mano: la lavatrice è un lusso che ancora non ci appartiene), ma anche sapone per le mani e per la doccia (per le parti intime, siamo affezionati ai buoni vecchi inquinanti. Ma questa è un'altra storia). È un gesto di cui ci vergogniamo un po'. Perché l'ecologia ha un prezzo e anche sentirsi buoni, sentirsi civili – non so neanche bene come definirlo – ha un prezzo. Pure alto. Paghiamo 8.75 curo il boccione di detersivo per le mani che potremmo avere a un quarto. Trovo del tutto imbarazzante che questa pace costi. Sanno così bene che ci sentiamo delle merde che ci vendono prodotti, corsi, aiuti umanitari e iniziative solo per sollevarci. Compriamo lenitivi per dolori ai talloni e lenitivi per sensi di colpa; e restiamo fottuti due volte. Intanto, mi limito a travasare il sapone ecologico in un dispenser rosa smarcato. Che almeno la destra non sappia ciò che fa la sinistra, come dice quel vecchio adagio. (Oltretutto il sapone ideologico ha un cattivo sapore. Se annusi le mani appena lavate, l'odore è piacevole, ma se – per dire – le avvicini alla bocca o capita di assaporarle, beh, la sensazione è addirittura sgradevole.) Lavando i piatti, pensavo al risparmio. Ed è stato immediato concludere: si ritorna al vecchio sapone Esselunga, o Standa o Auchan. Neanche una marca di quelle che fanno pubblicità, di quelle che si sa che sgrassano davvero da matti, basta proprio il sapone entry level di un supermercato (per usare un gergo da aziendalismo allegro). Però. Per chi ho comprato il sapone che puzzava e mi costringeva a vergognarmi fino a oggi? Perché ho spento il led del televisore? Ho detto a mia mamma di non comprare più lacca? Perché cerco di fare la differenziata per bene? La risposta è semplice: per chi verrà dopo di noi. Per i posteri, volendola dire più aulica, e retorica. Ecco, perché non ho confidato nella levità di Orazio, in fondo che hanno fatto i posteri per me?
La cosa si complica. Fino a quando questi posteri
erano gente a me sconosciuta, invisibile e intangibile ero in grado di farlo.
Poi, ora, che la specie si protrae anche attraverso me. Ora che un
postero,
lo instrado io giù per il mondo, ecco, proprio ora mi
metto a pensare
ma andate tutti a cacare.
Pensiamo a noi stessi, tanto gli scienziati qualcosa si inventeranno, e poi da
qualche parte ho letto che in fondo questo surriscaldamento climatico non esiste
e nel Medioevo si valicava il Monterosa anche d'inverno
perché non c'era neve. No, direi che dovrebbe essere
proprio il contrario, ora ho un piccolo motivo in
più. Le nonne sono morte da tempo, ma sono sicuro che se avessi chiesto loro:
"Nonna, hai mai pensato di non avere bambini?", loro non avrebbero capito la
domanda. E neanche una prozia zitella. Perché
non faceva proprio parte dell'orizzonte di pensiero.
Si nasce, si muore, ci si fa delle gran risate in mezzo,
ci si spacca la schiena, e si fanno i figli. Mi avrebbero detto così. Non deve
essere un caso che noi occidentali, più consapevoli dei rischi ambientali per il
futuro, siamo anche i più restii ad avere figli. Come
si fa a parlare di futuro, in un paese che non vuole la
responsabilità dei figli? No, meglio mettere il tappo,
riempire il lavello d'acqua, insaponare tutto, e poi
risciacquare.
meno 6 mesi, 2 settimane, 5 giorni lei Per quarantott'ore, il tempo di strapagare un'ecografia urgente, ho trattenuto il fiato, come quegli indù che s'imbavagliano per non ingerire i moscerini. Volevo datare la storia, sapere se aveva attinenze con la realtà, volevo non schiacciare niente. Abbiamo provato al consultorio più vicino, ma vedendomi col casco e le sneakers, i medici mi hanno chiesto se volevo abortire, e i tossici del SERT una moneta. Io, rendendomi conto che mancava l'ecografo, ho rimesso subito il casco e da lì dentro ho risposto che non avevo né moneta, né voglia di abortire. Più tardi, nella sala d'aspetto del centro diagnostico privato, ho girato la rotella di cartone della gravidanza, coi disegni dei feti giulivi, sempre più ciccioni, e le norme di condotta della gravida diligente. Le avevo infrante sistematicamente tutte, nell'ultimo mese, agli aperitivi informali che mi erano serviti per aggiudicarmi il posto di lavoro. Arturo, se c'era, non si era scomposto. Dai muri, mi osservavano i mini-fotomodelli di Anne Geddes, adagiati in balle fiorite. Ci sono bambini che mangiano la calce dai muri, mi era venuto in mente, e altri per cui era normale vedersi appesi in alto, abitare nella vetrina di Fiorucci. Due minuti dopo, un dottore rasato, e di un'età che a venticinque anni inizia a sembrare giovane, mi diceva che quei test non sono attendibili, e quindici secondi dopo ancora, senza nessuna creazione della suspense necessaria alla svolta narrativa, che si vede anche il sesso del bambino. Troppe informazioni date senza poesia, o una buona, spietata sintesi del mio romanzo intimo, in quel secondo zero? Era l'ultimo momento utile per interrogare il mio corpo sulle eventuali anomalie del suo ospite, e mi sono ritrovata un ago-lenza nella vena. Davvero, tutto il mio sangue raccontava quella storia che io non sapevo, non dominavo, e non avrei più saputo ricostruire? Non tutti i bambini sui muri sorridevano, e alcuni minacciavano di girarsi e spiluccare dei pezzettini d'intonaco se non avessi riferito tutto per bene. Per esempio, che i centri pubblici, e ne ho girati molti, in tre regioni, non garantiscono le indagini sulle malformazioni fetali. Per esempio, che tappezzano indebitamente i muri di pubblicità di prodotti parafarmaceutici. E che al momento della prima ecografia, per la cronaca, avevo la pancia piattissima. Duecentottantadue euro e ottanta centesimi, ha detto il cassiere del centro privato. Ho dovuto disfarmi anche dei ramini, ma li avevo giusti giusti, come se il mio lunghissimo tema di quel giorno fosse un dettato iniziato tempo e tempo prima. Di cui, l'ultima frase, un messaggio di Alessandro. 08.02.10 17:56. Gli compriamo il poster di Federer? | << | < | > | >> |Pagina 17meno 6 mesi, 2 settimane, 2 giorni lui"Sai quanto ci dà il patronato?" "Cos'è il patronato?" "Te lo spiego dopo. Intanto, rispondi. Secondo te quanto ci dà?" "Ecchenesò. Dai, non mi fare gli indovinelli, dimmi. Tanto o poco?" "Dodici euro." "Al giorno?" "Al mese." Non per farla drammatica, ma 12 euro è quello che vale nostro figlio per il welfare italiano. C'è stato il family day, c'è la battaglia sull'aborto, c'è chi si lamenta delle classi miste, ma tutto finisce per essere una sciacquatura di piatti ideologica. La base della società è la famiglia tradizionale, fuori gli extracomunitari, no alla pillola del giorno dopo, riformiamo lo stato sociale, il nostro modello devono essere le socialdemocrazie scandinave: slogan di partiti opposti, che – fossero sinceri – parlerebbero della stessa cosa. Invece, un obolo di 12 euro. E ci sono anche i paradossi. Per dirne una. Se decidiamo di non sposarci, abbiamo più opportunità di entrare nella graduatoria degli asili nido comunali. Sono la top-ten della sfiga, e una mamma single conquista più punti di una mamma sposata. Quando studiavo all'università, la mia facoltà era proprio di fronte a quella di giurisprudenza. Capitava che studenti di legge, stanchi del loro palazzo superefficiente ma asettico, si rifugiassero all'interno del chiostro che conteneva gli studenti delle scienze umane. Ricordo il caldo pomeriggio in cui mi spiegarono l'esistenza del "buon padre di famiglia". Pare che il nostro ordinamento giudiziario e legislativo si basi su questa figura: il buon padre di famiglia. Quando occorre un richiamo al senso comune, quando in una legge serve appellarsi a quei comportamenti che sono considerati retti e pii da generazioni, allora c'è un invito a comportarsi come farebbe il buon padre di famiglia. E proprio con questo spirito che stamattina mi ero messo in vespa. Come il buon vecchio padre di famiglia. A girare per consultori, uffici pubblici, sedi sindacali per chiedere quali aiuti sono previsti. Qualcuno ha obiettato, sì, ma ci sono gli sgravi fiscali. È vero, gli sgravi fiscali sono un ottimo modo per farti credere che ti stanno abbonando un debito che — in realtà — non dovresti avere. Anzi. Se pago solo le tasse, e non ricevo mai benefici, finisco per credere che il nemico assoluto, quello che frena il mio star meglio e il benessere di tutto il paese, siano proprio le tasse. Tanto poi, la salute, la scuola, e i mezzi pubblici me li devo pagare comunque. Torno a casa. E come un buon padre di famiglia metto le pantofole, mi rincuoro e accendo la tv. Non serve fare zapping a lungo, qualcuno che promette il bonus bebè lo trovi sempre. Non è una promessa da marinaio. Sono convinto che arriverà veramente. Mille euro, ci pagheremo un mese d'affitto. Sputaci sopra. Ma chiamarla una politica per la famiglia è veramente un azzardo. Allora, a confronto, quelle del Duce cos'erano? Welfare scandinavo? Almeno, oltre i premi in denaro, regalavano anche terra da coltivare. In fondo, che la famiglia sia sempre stata — fino a oggi, è chiaro — la base della società è innegabile. Ed è proprio per questo che quando avrò bisogno dell'acconto per affittare una casa più grande, o di un prestito per la visita dal ginecologo, è alle famiglie che mi rivolgerò, la mia e quella di Ada. Lo stato non è in grado di tutelare una famiglia, neanche in misura minima. Fra nove mesi ci scadono due contratti, contiamo che siano rinnovati, e siamo convinti che in caso contrario troveremo altro. Se ci si pensa bene, è anche il bello delle cose. Nessuno dei due vuole fare questo lavoro per tutta la vita. Ma che in quest'ultima affermazione ci sia della positività, è solamente frutto del caso. La positività dovrebbe stare nella garanzia. Una sicurezza che ci danno solo mamma e papà. Ma che tristezza se i nonni dovessero mettersi a fare i genitori di nuovo! Le ultime generazioni hanno vissuto nella convinzione che avrebbero vissuto meglio dei genitori. Il mio bisnonno si è schiantato la schiena in modo tale che mio nonno potesse fare 25 chilometri a piedi al giorno per raggiungere scuola, dove avrebbe imparato abbastanza per permettere a mia mamma di comprare anche la casa al mare. La mia generazione è quella che dovrà — probabilmente — rinunciare al petrolio, alla plastica, all'idea di progresso. Dovrà vendere fabbriche, marchi, monumenti, dignità ai popoli che reclamano il proprio pezzo di felicità e progresso. A metà tra la pienezza e il senso di colpa per aver esagerato troppo nel divorare. Spero di sbagliarmi, ma la mia nuova famiglia – nel suo piccolo – sarà costretta a mangiare quello che i miei genitori avevano messo da parte. | << | < | > | >> |Pagina 20meno 6 mesi, l settimana, 4 giorni leiOgni giorno stimavo la cottura della carne della mensa aziendale, ogni giorno leggevo le dichiarazioni di Giuliano Ferrara e le cronache di donne che si strappavano dal corpo bambini di venti settimane nei bagni degli ospedali. Subivo come un abuso il fatto di dover palesare sul lavoro, per questioni di trasparenza, una condizione che ancora bene non sentivo neanch'io. Comunque non avrebbero creduto che al momento dei colloqui non ne fossi a conoscenza, e che dopo sei mesi di complicati salamelecchi mi avrebbero cancellata perfino dagli amici di Facebook. Aspettavamo delle modifiche contrattuali dalla sede centrale di Roma prima della firma definitiva, e io respingevo in gola quella dichiarazione. Intima, doverosa. Essendo l'unica collaboratrice a progetto donna, e dati il mio cinismo e la mia decattolicizzazione, mi avevano soprannominato presto il maschio di casa. A quel punto, mi sembrava di dover fare outing. I miei colleghi conoscevano, come un compleanno, la data dell'invenzione della pillola contraccettiva. La mia età, lo status, il livello di istruzione non rendevano credibile una scoperta tardiva di gravidanza. E per quanto siano i dettagli veri, a rendere il romanzo fantastico, non mi trovavo a dover muovere l'animo di seicento lettori scelti, ma quello di una donna, la mia capa, che conoscevo da quindici giorni, e con la quale non avevo né avrei diviso più di un crodino. I buchi dell'anti-toxo mi punteggiavano il braccio, incrostati dal sangue (con la sua storia), il bottone sul petto minacciava di strappare la sua asola, mi davo tempo. Aspettavo che l'antipatico dell'ufficio andasse in bagno, ritornava, e aspettavo che andasse a fumare. Sollevavo e trasportavo i computer da un ufficio all'altro, bevevo lo spumante dei compleanni, aspiravo il tabacco degli altri all'imbocco della scala antincendio, e facevo le dieci di sera. Se il lavoro nobilitava uomo e donna, a noi dava benzina, miglio, corde di violino e di racchetta, filtri per il rubinetto, permessi di parcheggio, emozioni, polpette Ikea e il resto dell'indispensabile. Una collega più grande, e davanti alla quale mi ero strappata svagatamente il cerotto del primo prelievo, mi aveva detto che lei, per esempio, ovulava da un ovaio solo e lo sentiva distintamente. Poi mi aveva accompagnata a casa e, in auto, aveva aggiunto che i ginecologi o non capivano una sega, o volevano campare sulla palla dell'infertilità psicologica dilagante, sull'innalzamento peterpanesco dell'età di impiego e indipendenza economica. Salendo le scale, schivando un gatto, ho pensato alle indossatrici quarantenni della moda prémaman. Ai frighi grandi e bianchi, alle automobili rosse, ai barboncini permanentati che i nostri genitori regalavano ai loro. Al benessere trascorso, all'incomprensione delusa che si generava quando i nostri padri dovevano pagarci l'assicurazione dei motorini, e noi non arrivavamo a fine mese neanche mangiando pasta e pita. Sul ballatoio, trafficando con le chiavi, ho avvistato la bambina brasiliana che si materializzava sempre sotto l'edera, con le clavette da giocoliera. Mariana.
Ma tu cosa ci fai qui?,
le ho chiesto intendendo cosa
ci faceva a Milano, una brasiliana contorsionista di sei
anni. Cosa ci faceva in questo emisfero. Cosa ci faceva proprio al mondo, dato
che aveva una casa così piccola da dover lottare per l'ossigeno. Lei non mi ha
risposto, ha tenuto per l'ultimo capello nero il suo
bambolo pelato, ha alzato una clavetta verso la palla
di sole che spariva dietro i tetti di lamiera. Lei non mi
ha risposto, ma mi è sembrato proprio che dicesse,
quello che faccio è la stampella del sole.
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