Autore Edoardo Boncinelli
Titolo io e Lei
SottotitoloOltre la vita
EdizioneGuanda, Milano, 2017, Piccola biblioteca , pag. 188, cop.fle., dim. 12x20x1,5 cm , Isbn 978-88-235-1696-0
LettoreMargherita Cena, 2017
Classe scienza , religione , filosofia












 

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Indice


Premessa                                          7


Le consolazioni della religione                  13

Le risorse della scienza                         67

L'autentico mistero dell'universo               127


 

 

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Pagina 7

Premessa



Ci sono cose che non hanno per noi un prima e cose che non hanno un poi. Alle prime appartiene la nascita, alle seconde la morte. Non mi potrò mai occupare della mia nascita, ma certo della morte posso. Non so se mai ci incontreremo, io e la mia morte, ma ci rincorriamo da una vita. Più o meno da quando avevo cinque anni. Ero a Bologna nell'immediato dopoguerra, ospite di un centro profughi allestito alla meglio nei locali di una caserma. Parlavo con la mamma di persone che non c'erano più; d'improvviso mi venne in mente che anche i nonni di Firenze erano destinati prima o poi ad andarsene, e piansi.

Fu il mio primo contatto cosciente con la morte naturale, come dire con la naturalezza della morte. Successivamente mi capitò spesso di pensare quasi per gioco che se io bambino fossi morto, questa volta non naturalmente, qualcuno avrebbe potuto piangere e disperarsi. Mi figuravo cioè il mio post mortem dal punto di vista dei vivi che presumibilmente mi amavano, e spesso mi commovevo da solo. Da allora la morte, la mia, è divenuta un concetto acquisito, presente ma non angosciante nella mia mente.

Conosco persone che invece pensano continuamente alla morte e ne scorgono i segni dappertutto. Io no. So che c'è, e che dovrà finire per cogliere qualcosa di me, ma non ci penso quasi mai. Nella mia mente la morte non c'è, mentre c'è tanta, troppa vita. Questo non mi impedisce di meditarci sopra, anzi me lo facilita.

Ma perché meditare sulla morte se il suo pensiero non mi assilla? Per due motivi essenzialmente, connessi l'uno con la sua percezione sociale, l'altro con quella individuale mia. Dal punto di vista sociale si parla della morte a vario titolo e con una certa regolarità, ma se ne parla sempre. Può essere la morte di individui, di gruppi o di comunità, per incidenti, per malattia o per attentati e combattimenti o può essere la morte prospettata o temuta. La religione, per esempio, che promette di liberarci dalla morte, in realtà ci costringe a pensarci di continuo, proponendo scenari dipinti con tinte di intensità variabile, ma mai trascurabile. Anche i matrimoni si celebrano nel luogo ríservato alla morte e i funerali ne amplificano l'eco.

La morte di chiunque rimanda, direttamente o indirettamente, al pensiero della propria, in un tempo indeterminato e magari indistinto, ma attuale come i discorsi di ogni giorno. Secondo alcuni è il pensiero della morte che ha ispirato e guidato molti dei nostri progressi collettivi, di sicuro l'aspirazione alla fama e all'immortalità delle nostre opere. Ed è certamente il pensiero della morte che ci porta a credere a quella massa di favole alle quali tutti siamo portati a credere. L'argomento della morte è vivo e presente anche quando è taciuto, anzi in quel caso lo può essere ancora di più. La morte conferisce un orizzonte alla nostra vita.

A tutto questo si aggiunge per me, anche se non credo per me solo, il tema del suicidio. La morte per suicidio è una morte particolare, anzi, una mescolanza di morte e di vita, per eccesso o per insufficienza di vita. Ho pensato al suicidio praticamente da quando mi conosco: troppo orrenda era la mia vita infantile e giovanile per non pensarci, anche se dopo, molto dopo, le cose sono sensibilmente migliorate.

La morte presenta almeno due caratteristiche contrastanti. Su un piano di realtà, è un fenomeno del tutto naturale: ogni essere vivente degli ultimi quattro miliardi di anni è morto, e nessuno è mai sfuggito a questo destino. Sul piano conoscitivo ed esistenziale, invece, è il mistero di tutti i misteri: la contemplata limitatezza dell'esserci. Mi piace quindi meditare sulla morte per passare in rassegna i vari aspetti e le possibili interpretazioni di un fenomeno tanto ipotetico quanto probabile e universalmente diffuso. D'altra parte, so bene che non si può pensare costruttivamente alla morte. Si può pensare solo alla vita, e lo si può fare mentre si è ancora, ovviamente, in vita.

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Pagina 13

Le consolazioni della religione



Tutti hanno un corpo. Io ho un corpo e una mente, mia e solo mia, con la quale convivo, e che per me è indistinguibile dalla mia coscienza. Con questa mi occupo di tanti problemi, tra i quali spicca quello della morte, della mia morte soprattutto. Noi uomini sappiamo di dover morire quasi con la stessa evidenza con la quale sappiamo di essere vivi. Gli animali non sanno in genere che dovranno morire, ma probabilmente non sanno nemmeno di essere vivi: per loro l'essere vivi non ammette alternative. È uno stato di cose. Almeno così pensiamo noi. Molti di loro sono di sicuro in grado di riconoscere quando un animale giace immoto e privo di reazioni agli stimoli del mondo circostante, ma non è possibile sapere cosa ne pensino in cuor loro, né quanto ne siano coinvolti, se non azzardando rischiose analogie di natura antropocentrica.

Per noi la vita è un durissimo impegno illuminato dalla speranza; la morte, una via d'uscita, remota ma obbligata. Oggi poi sempre più remota, perché gli enormi progressi della biologia e della medicina l'hanno sensibilmente allontanata nel tempo. Ma non eliminata. Non credo che alcun animale abbia questa prospettiva, anzi, abbia alcuna prospettiva, ma per noi è così. Noi abbiamo buona memoria delle cose passate e ci affacciamo piuttosto spesso sul futuro, anche lontano. Ciò dà continuità al nostro agire e respiro alla nostra mente. È ovvio che l'anticipazione del futuro dipende dalle nostre informazioni e dal complesso delle nostre memorie e inclinazioni, ma non riusciremmo a vivere senza anticipare il futuro, almeno nella fantasia.

Tali anticipazioni possono essere lusinghiere e foriere di soddisfazione oppure penose e paurose. È proprio la loro esistenza, insieme, è appena il caso di dirlo, alla memoria di ciò che abbiamo visto, letto o sentito in proposito, che ci presenta in maniera più o meno continua l'idea della nostra futura morte, ancorché indistinta e remota. Tra la consultazione dei ricordi e l'anticipazione del futuro si estende la nostra vita di tutti i giorni. Che quindi è un presente oscillante e quasi sognato, in bilico fra il passato e il presumibile futuro; finché questo è possibile.

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Pagina 20

La domanda centrale è ovviamente: Chi sono io? Ma non ci può essere che una risposta: per me, e per me solo, io sono il soggetto-oggetto della mia attuale presa di coscienza e, con un'estensione un po' ardita, anche quello delle mie prossime prese di coscienza. Parlo di presa di coscienza, e non di coscienza, per non attribuire un indebito stato ontologico e permanente alla successione di quelle che sono operazioni istantanee pertinenti a uno stato di percezione tutto particolare e squisitamente privato.

La coscienza in generale è quel particolare fenomeno che porta a galla l'elaborazione di un certo numero di processi nervosi paralleli, per definizione inconsci, che attraversano in ogni istante il mio sistema nervoso centrale e il mio cervello. Esiste cioè ogni volta un mazzetto di processi paralleli che viene ad assumere una configurazione particolare che io chiamo seriale o sequenziale e che percepisco come presa di coscienza. Questa presa di coscienza è tale solo per me ed è mio patrimonio individuale inalienabile. La sua realtà e i suoi contenuti li vivo in presa diretta, con un'evidenza e una vivezza che non hanno uguali. Nessuno può penetrare la mia presa di coscienza e neppure indovinarne il profilo: non siamo attrezzati per farlo. Anche nell'empito della passione amorosa, io sono inconfondibilmente io. E non altro.

La mia personale presa di coscienza è quindi impenetrabile per gli altri e autoevidente per me. Non esiste nient'altro di analogo. È un elemento della realtà che si distingue da tutti gli altri, perché non può essere esperito da altri che da me. Costituisce un minuscolo insieme di misura nulla che può essere «ritagliato» via dal campo degli elementi di realtà di questo mondo, allo scopo di renderlo più omogeneo e comprensibile. Ebbene, la mia presa di coscienza personale non può morire, cioè non può incontrare la mia morte. Io non potrò mai incontrare la mia morte, anche se, certo, potrò incontrare e testimoniare, ahimè, la morte degli altri.

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Pagina 31

[...] Si direbbe che il passo più arduo ed essenziale della conoscenza sia l'individuazione delle cose da conoscere, con la loro inevitabile delimitazione. Per conoscere occorre, insomma, già conoscere qualcosa, come per primo fece presente Platone. Ma chi ci aiuta in questo? La natura e la storia, ovvero due storie, quella biologica e quella culturale. Sapere è sempre avere una storia alle spalle. I computer, con tutta la loro potenza, «sanno» poco perché non hanno una storia (vissuta) alle spalle. Sono solo un insieme molto esteso di «se allora» sintattici ed eternamente presenti.

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Pagina 32

[...] Non c'è dubbio che la cultura agisca prevalentemente sulle parole e sui concetti. Perché il linguaggio è così importante, per Ludwig Wittgenstein e per tutti noi? Perché la semantizzazione dell'esperienza scova le diverse componenti della realtà che a noi paiono significanti, le separa e le nomina, e permette così di conoscerle; e quindi di parlarne. L'insieme delle nostre eredità biologiche e culturali individua, per ogni epoca e ogni cultura, le cose che «esistono» in natura, che si possono conoscere e di cui si può parlare. L'osservazione non è banale, perché ci viene spontaneo credere che le cose e le evenienze del mondo siano «quelle che tutti sanno» e che volendo si possano elencare. Ma perché includere in questo elenco i colori dei fiori e delle foglie secche, e non, per esempio, il loro spettro ultravioletto o quello a radio-onde? Non c'è alcun motivo, se non il fatto che per la vita di tutti i giorni le prime sono caratteristiche di una certa utilità e le seconde no. Se ci mettiamo nei panni di uno scienziato, o ancor più di Dio, non c'è motivo, però, di fare una scelta del genere.

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Pagina 38

Nel 1824 Giacomo Leopardi così annotava nel suo Zibaldone: «Quando noi diciamo che l'anima è spirito, non diciamo altro se non che ella non è materia, e pronunziamo in sostanza una negazione, non un'affermazione. Il che è quanto dire che spirito è una parola senza idea, come tante altre. Ma perocché noi abbiamo trovato questa parola grammaticalmente positiva, crediamo, come accade, avere anche un'idea positiva della natura dell'anima che con quella voce si esprime. Nel metterci però a definire questo spirito, potremo bene accumulare mille negazioni o visibili o nascoste, tratte dalle idee e proprietà della materia, che si negano nello spirito, ma non potremo aggiungervi niuna vera affermazione, niuna qualità positiva, se non tratta dagli effetti sensibili, e quindi in certa guisa materiali (il pensiero, il senso ec.) che noi gratis ascriviamo esclusivamente a esso spirito. E quel che dico dell'anima dico degli altri enti immateriali, compreso il Supremo».

Il problema, qui come lì, è rappresentato dalla domanda se esistano o no entità con queste caratteristiche. La realtà di tutti i giorni, fatta di materia, non importa se animata o inanimata, esiste certamente e noi ne portiamo una vivente testimonianza, mentre ciò che deriva dal rovesciamento delle sue proprietà non è detto che possa esistere, né qui né in qualche altro luogo.

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Pagina 67

Le risorse della scienza



Ma che cos'è la scienza. Possiamo definirla come: «Un'impresa collettiva e progressiva volta a cogliere gli aspetti riproducibili di un numero sempre maggiore di fenomeni naturali e a comunicarli attraverso lo spazio e il tempo in forma sinottica e internamente non contraddittoria, in modo da porre chiunque in condizione di fare previsioni fondate e di progettare e mettere in atto 'macchine' funzionanti, siano esse di natura materiale o mentale». La definizione proposta contiene alcuni termini chiave che dovrebbero essere, sia pur brevemente, illustrati.

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Pagina 127

L'autentico mistero dell'universo



Io sono uno scienziato, ho amato la scienza per tutta la vita, ma devo ammettere che non riesco a collocare la coscienza in questo mondo spiegabile, per quanto abbia cercato di darmene conto per decenni. La coscienza è l'unico, autentico, grande mistero dell'universo.

Ma perché tanti discorsi sulla fede? chiederà qualcuno. Che c'entra la fede con la morte? La risposta è che la fede è quasi interamente un prodotto della paura della morte. L'esistenza di una divinità si contrappone alla morte e prenderne in considerazione i poteri e l'operato è forse l'unico modo di costruire un ponte che scavalchi d'un balzo la morte e ci proietti oltre la vita. Anche se non riguarda direttamente il momento della morte, una convinzione del genere prolunga l'oggi verso un domani senza fine.

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Pagina 132

Definirla, la vita, non è semplice, ma ormai non ci sono più grandi incertezze. Gli esseri viventi sono corpi materiali estesi, anche se di dimensioni difformi, e comunque limitati nel tempo e nello spazio, capaci di metabolizzare una collezione di sostanze chimiche particolari, di crescere e di svilupparsi, di riprodursi e di evolvere, fino a quando l'ambiente circostante glielo permette. Per fare tutto questo, ogni essere vivente deve essere obbligatoriamente oggetto di un flusso continuo di materia, di energia e di informazione, i tre parametri fondamentali del mondo materiale, l'unico per me esistente.

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Pagina 158

Noi non sappiamo se il mondo è conoscibile in sé, né se può essere in qualche maniera contemplato a prescindere dalla presenza dell'uomo. Noi lo viviamo e lo contempliamo a modo nostro, mischiando un approccio oggettivo al mondo, nei limiti del possibile, con elementi soggettivi, percettivi e concettuali, alcuni dei quali memorizzabili e comunicabili con un linguaggio articolato del quale deteniamo l'esclusiva. Almeno dal nostro punto di vista, la comparsa della nostra specie ha una rilevanza tutta particolare e cambia completamente il quadro degli eventi. Dal nostro punto di vista, con la comparsa dell'uomo l'evoluzione biologica ha raggiunto il suo massimo. È un'interpretazione certamente antropocentrica e quindi ben poco oggettiva, ma è un'interpretazione dalla quale è difficile prescindere, perché noi siamo la nostra cultura, sostenuta dalla nostra naturale propensione a osservare attentamente tutto quello che ci circonda, e trasformarlo o trascenderlo. D'altra parte io stesso faccio parte del quadro che voglio rappresentare e faccio fatica a rendermene conto.

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Pagina 160

La vita è quindi un po' un piccolo scandalo nell'universo; anche se per noi è un fatto naturale. Rappresenta un'apparente violazione delle leggi della fisica e più precisamente del secondo principio della termodinamica, come abbiamo visto. Tutti abbiamo studiato al liceo che in un sistema chiuso (e possiamo in un certo senso considerare il nostro universo come un sistema chiuso) l'ordine diminuisce sempre e il disordine aumenta sempre. D'altra parte, non ci può essere ordine senza informazione, e di conseguenza anche l'informazione si va progressivamente perdendo, una cosa della quale ci possiamo rendere conto anche nella vita di tutti i giorni. L'informazione, che è un altro modo di chiamare l'ordine, lasciata a se stessa non può che perdersi: spontaneamente diminuisce inesorabilmente, e non può aumentare mai.

Per la vita non è così, le cose funzionano diversamente: se per esempio in un brodo, anche in un semplice brodo di carne, metto un batterio, dopo un po' ne trovo due, poi quattro, poi otto, fino a raggiungere i miliardi e miliardi di cellule batteriche. In quel caso si passa da un singolo essere vivente, che è un grumo di materia organizzata, cioè ordinata, a miliardi e miliardi di copie dello stesso. La vita crea continuamente ordine, cioè informazione. E lo mantiene. Per poco o per tanto che sia, ogni essere vivente si mantiene vivo, cioè ordinato, e al momento opportuno può generare altro ordine, riproducendosi, producendo cioè altri esemplari di organismi simili a se stesso e altrettanto ordinati. C'è quindi qualcosa di particolare nella vita? Possiede qualche proprietà diversa da quelle della materia inanimata? No, non ne possiede, ma utilizza al meglio, e a suo vantaggio, ciò che le leggi della fisica e della chimica permettono che accada, senza che così si venga a violare nessun principio fondamentale.

Il trucco c'è ovviamente, ed è semplice: la vita è una manifestazione locale di aumento di informazione, o di mancata perdita di ordine, a spese dell'ambiente circostante, che nello stesso tempo si degrada enormemente. Infatti, se invece di considerare gli esseri viventi isolatamente, li si considera insieme all'ambiente circostante, il secondo principio risulta perfettamente rispettato: nel complesso «essere vivente più ambiente circostante» l'ordine diminuisce sempre, perché la diminuzione di ordine riscontrata nell'ambiente compensa e supera l'aumento locale di ordine che si può rilevare nella vita di quell'essere vivente. Insomma, il complesso «organismo più ambiente» degenera e perde ordine: gli esseri viventi lo acquistano e lo mantengono per un po', ma l'ambiente in cui vivono ne perde tantissimo, così che il bilancio complessivo è sempre a favore della perdita universale di ordine e di informazione.

Non c'è quindi niente di anomalo nella vita, niente che contraddica i principi fondamentali che regolano il mondo fisico. Gli scienziati che, negli anni della Seconda guerra mondiale, si rivolsero ansiosamente alla biologia nella speranza di scoprire le leggi particolari della vita – e furono in tanti e tutti molto validi – rimasero delusi, perché la vita non ha nulla di peculiare, se cerchiamo principi universali; se invece cerchiamo principi pratici, pragmatici, la vita ha molto di particolare: è una continua rincorsa alla creazione e al mantenimento dell'ordine. Essere vivo richiede un notevole sforzo e una continua lotta contro l'universale tendenza all'aumento del disordine e alla perdita di informazione. Insomma, l'esistenza è sempre e comunque una resistenza, e una specie di miracolo, ma non dobbiamo aver paura che gli esseri viventi non riescano a sopravvivere: hanno di sicuro imparato a farlo, come dimostrano chiaramente gli ultimi quattro miliardi di anni in cui la vita su questo pianeta non si è spenta mai.

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