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| << | < | > | >> |IndiceIntroduzione Le istanze della coscienza 7 1 L'invenzione della mente Io in terza persona 15 2 Le palpitanti metafore del sentimento La prima persona e le vicissitudini della seconda 77 3 I gradi della coscienza La prima persona non singolare 171 4 Io e non io La prima persona singolare 241 Letture 251 |
| << | < | > | >> |Pagina 12Tutto o quasi ho quindi in comune con tutti gli altri, fuorché la percezione della mia coscienza, diretta e immediata per me e solo per me. Questo fatto è a mio avviso l'unico che sfugge a una prospettiva rigorosamente realista e che non è possibile far ricadere in essa. Le coscienze degli altri non hanno una posizione diversa da quella dei loro comportamenti, della loro fisiologia e delle parti dei loro corpi, e quindi ricadono nel novero delle cose del mondo, mentre la mia sì. Quello espresso qui è quindi un dualismo estremamente asimmetrico: io da una parte e tutto il resto dall'altra. Ovviamente se c'è un resto, perché io non posso mai contemplare niente se non attraverso me e la mia coscienza.Occorre osservare che essere rigorosi su tali questioni è estremamente difficile, non fosse altro che per gli ostacoli posti dall'uso del linguaggio. Finché dico «io», tutti capiscono che sto parlando in prima persona e sto raccontando qualcosa di me, di come mi percepisco e mi vivo; sto indugiando, insomma, in una narrazione, anche se questa può essere molto articolata e approfondita. L'uso del linguaggio, non escluse neppure le esigenze stilistiche, mi costringe però a parlare del «mio io» quando voglio azzardare un'analisi più approfondita della mia individualità. È evidente però che appena dico «il mio io», parlo di qualcosa di cui si può parlare in terza persona, che può avere una sua esistenza e che ha certe proprietà. Diverse da io. Il fatto è che nel quadro delle moderne neuroscienze non si trova alcuna struttura funzionale biologica che possa corrispondere a un ipotetico io, nemmeno in senso traslato, e ciò crea problemi serissimi per tutta la trattazione del soggetto. Al punto che si impone un'alternativa secca: o si nega l'io – con tutto quello che ciò significa – o si rifiutano gli argomenti portati dalle neuroscienze per mettere in discussione l'esistenza di un io e si fa dell'io stesso un'istanza superiore di sapore vagamente metafisico. Secondo me si può uscire abbastanza agevolmente da questa dicotomia, asserendo che io sono una cosa e il mio io un'altra, almeno al livello di un'analisi rigorosa. In fondo una cosa è dire: «Io sento freddo» e un'altra è dire: «Il mio io sente freddo». Per evitare questi bizzarri giochi di parole, d'ora in poi non parlerò più del mio io, in terza persona, ma piuttosto del mio Sé. Dovrebbe essere così piuttosto chiaro che parlare di questo è molto diverso da dire «io». Il mio Sé si può osservare e studiare, essenzialmente attraverso lo studio del Sé di tutti gli altri, mentre «io» sono solo ed esclusivamente io. E io solo posso sapere. È molto più facile, in sostanza, studiare il Sé, anche il mio, se io mi escludo e mi metto su un altro piano.
D'altra parte, che io esisto non v'è dubbio; negarlo sarebbe una
contraddizione in termini, come già messo in luce da Cartesio qualche secolo fa.
Io sono al di fuori dell'ambito di competenza dei giudizi di esistenza e di
analizzabilità, che invece si adattano benissimo a tutto ciò che si può
esprimere in terza persona, compreso il mio Sé. Si può parlare a lungo e con una
certa competenza del Sé e anche del mio Sé come se fosse il Sé di un'altra
persona. Io non posso essere oggetto invece di un'analisi scientifica rigorosa.
Tutto ciò in virtù e a supporto di quella estrema asimmetria di cui parlavo
sopra.
Vediamo adesso che cosa posso dire su di me e sul mio mondo movendo da tale prospettiva, che tenta di coniugare il realismo con una posizione che potremmo definire, forse, una forma spinta di solipsismo. È bene avvertire che tutta la gran parte del libro parla dei processi mentali e dell'interiorità movendo dalla prospettiva del mondo, a prescindere dall'io, e quindi la sua impostazione non si discosterà da quella di molte altre trattazioni consimili. Io e la mia condizione unica rifaranno la loro comparsa soltanto nell'ultimo e conclusivo capitolo. | << | < | > | >> |Pagina 36Contenuti e informazioneMa che cosa circola lungo gli assoni dei nostri neuroni? Che cos'è che gira e rigira nel nostro sistema nervoso e nella nostra testa sotto forma di segnale nervoso? La risposta non è facile, ma tutto sommato univoca: informazione. Utilizzando poca energia e con l'intervento materiale di un certo numero di molecole, quello che gira per i nostri neuroni e tra i nostri neuroni è essenzialmente informazione. Che va dalla periferia al centro, dal centro di nuovo alla periferia e nelle diverse regioni del cervello. Informazione che fluisce da una parte all'altra e che serve al controllo delle varie funzioni del corpo. Il concetto di informazione come parametro fisico fondamentale è relativamente nuovo. Nonostante sia stato introdotto ufficialmente più di cinquanta anni fa, questo concetto infatti non ha avuto un'agevole penetrazione nella cultura comune, se non dopo la diffusione capillare dei personal computer e dei microapparecchi di registrazione. Quasi tutto quello che riguarda i computer si misura in bit, in byte o suoi multipli, su su fino al terabyte (per ora). Tutte queste non sono che unità di misura della quantità di informazione. Sappiamo infatti con chiarezza che ogni computer tiene immagazzinata una certa quantità di informazione nelle sue diverse memorie e che la fa girare e la elabora nei suoi circuiti grazie ai programmi che vi girano. Il computer è quindi essenzialmente un elaboratore di informazione. Non è certo facile immaginare qualcosa di molto diverso per il nostro sistema nervoso e il nostro cervello. Al di là di tutta la letteratura che si è fatta e si può fare a proposito dell'attività del cervello, non si può negare che la cifra fondamentale di quanto percorre i circuiti del nostro sistema nervoso o, meglio, del sistema nervoso di ogni animale, è l'informazione. La vita stessa è primariamente una questione di informazione. Per avere un essere vivente occorre una certa quantità di materia: i nostri corpi lo dimostrano e a tutt'oggi non si hanno notizie di forme di vita immateriali. Occorre anche dell'energia. Mangiamo tutti i giorni per procurarcela e respiriamo per impiegarla nei processi biologici quotidiani. Ma, da sole, né la materia né l'energia sono in grado di caratterizzare univocamente gli esseri viventi. Questi sono essenzialmente informazione e gestione della stessa, a partire dal DNA – con la sua conservazione, la sua replicazione e la lettura del suo messaggio informazionale – fino al più minuto processo intracellulare, che deve seguire con estrema precisione un piano prestabilito. Se la vita stessa è tutta una questione di conservare e gestire una certa quantità di informazione, attraverso l'esecuzione di una cascata di programmi, largamente prestabiliti ma enormemente adattabili, a maggior ragione quello che corre nei circuiti nervosi non può che essere informazione, dei più diversi tipi. Ciò è molto più facile da osservare all'origine e al punto terminale di ogni circuito. Al termine del percorso, per esempio, arriverà quasi sempre un comando del tipo: fai questo, fai quello, non fare questo, non fare quello. Tale comando può essere impartito direttamente a uno o più muscoli, a una struttura ghiandolare o a un diverso circuito nervoso. Come effetto, quindi, di quello che gira lungo un circuito, ci sarà un ordine, un'istruzione o anche semplicemente un suggerimento, l'induzione di una preparazione o di una predisposizione. Al posto della parola informazione, che ha comunque, come abbiamo visto, una sua precisa definizione scientifica, potremmo anche introdurre la parola comunicazione, molto più popolare nel mondo di oggi, anche se di definizione assai più incerta. La comunicazione ha sempre un contenuto di informazione, ma cambia il contorno: la comunicazione è informazione indirizzata a uno specifico ricevitore per ottenere, almeno in linea di principio, uno specifico risultato. Se vogliamo portare fino in fondo questo argomento, dobbiamo dire che non è chiaro se il messaggio nervoso che circola lungo un circuito è portatore solo di una certa quantità di informazione o se si tratta di un vero e proprio atto di comunicazione. Ho l'impressione che la risposta che si può dare a questa domanda dipenda molto dalle convinzioni di chi risponde. Strettamente parlando, il passaggio di una certa quantità di informazione attraverso un neurone non ha alcun carattere di comunicazione. Questa può nascere forse se si considera l'insieme dei vari circuiti nervosi o il corpo nel suo complesso. Probabilmente il punto è tutto lì: a livello dei singoli componenti non si può parlare di comunicazione, mentre a livello più globale ciò è certamente possibile. Una tale considerazione permette una riflessione di più ampio respiro. Noi viviamo a livello globale, al livello dei corpi e delle loro facoltà, e l'aspetto della comunicazione non ci sfugge. Anzi, i nostri tempi hanno fatto della comunicazione, a tutti i livelli, un caposaldo del mondo moderno. Da parte sua, la fisiologia, e più in generale lo studio dei meccanismi fondamentali della vita, ha chiarito la natura e la finalità di un gran numero di processi vitali. È perfettamente lecito quindi parlare di obiettivi da raggiungere, anche se inconsapevolmente, e di comunicazione. È anche ovvio che noi uomini si tenda a interpretare tutto nei termini di ciò che ci è più familiare e noto e che si propenda quindi per un'interpretazione funzionalistica e finalistica. Questo non significa però che tale interpretazione sia sempre giustificata. A volte lo è, a volte no. Nella maggior parte dei processi cellulari e subcellulari dobbiamo ammettere che un'interpretazione finalistica è raramente giustificata. L'aspetto di finalità e quindi di comunicazione appare solo a livello superiore. Capita spesso di osservare qualcosa di simile, vale a dire che alcune entità non abbiano una certa proprietà a livello inferiore e che la acquisiscano a livello superiore. L'acqua, per esempio, è fatta di molecole di H20. Le sue singole molecole non sono né bagnate né trasparenti, mentre l'acqua lo è. Queste due proprietà sono dunque assenti al livello molecolare e presenti al livello di quantità minime ma apprezzabili di acqua liquida. Proprietà del genere sono dette emergenti, perché per così dire emergono quando si passa dai livelli inferiori di organizzazione a quelli superiori. Il nostro mondo è pieno di proprietà emergenti, per moltissime delle quali siamo portati a meravigliarci quando sentiamo dire che compaiono solo ai livelli superiori, ovvero che sono assenti a quelli inferiori e più fondamentali. Tra queste proprietà emergenti spiccano il perseguimento di uno scopo, l'intelligenza e la messa in atto di strategie e di tattiche, per non parlare che delle più pertinenti al discorso che stiamo facendo. La maggior parte dei processi nervosi elementari ha luogo senza uno scopo preciso e quindi l'informazione convogliata non ha ancora il carattere della comunicazione. Questa constatazione inconfutabile lascia l'amaro in bocca a molti e suggerisce una domanda più che legittima. Se nervi e molecole non hanno una finalità chiara e uno scopo, com'è che le cose funzionano egregiamente, come se tutto fosse diligentemente pianificato e predisposto? Che cosa si nasconde, in altre parole, nell'intricata alchimia delle cellule e dei circuiti nervosi e che porta a raggiungere risultati egregi nonostante l'assenza di una qualsiasi consapevolezza, se non vogliamo parlare addirittura di progettualità? Non si nasconde niente se non il fatto che il macchinario genico che sta dietro alle operazioni del sistema nervoso è da milioni di anni sotto il controllo della selezione naturale e di tutti gli altri meccanismi evolutivi. Se è vero che non c'è alcuna progettualità nelle componenti elementari dei processi nervosi, è anche vero che l'evoluzione tiene da tempo il tutto sotto diretto controllo. Se qualcosa non funziona, l'organismo in questione non sopravvive e soprattutto non si riproduce, preservando e perpetuando le reti genetiche sottostanti. Se queste sono andate avanti, invece, vuol dire che hanno fatto bene, anzi ottimamente, il loro compito. Mi rendo perfettamente conto del fatto che un'impostazione concettuale del genere non è facile da accettare. Sarebbe così facile pensare che tutti i processi abbiano un'intrinseca finalità e un senso globale. Ma non è così. Direttamente, non sanno niente e non hanno alcun obiettivo. Indirettamente, sono controllati in modo che agiscano come se l'avessero. Si tratta di uno dei punti di vista più interessanti, ma allo stesso tempo più difficili da accettare, della moderna biologia. Che si tratti di comunicazione o di informazione in fondo poco importa, ai fini del discorso che stiamo facendo. Possiamo cavarcela affermando che si tratta di informazione che può potenzialmente divenire comunicazione. In una maniera o nell'altra è alla fine di un percorso neurale che questa può essere più facilmente colta. | << | < | > | >> |Pagina 41I sensiVediamo adesso che cosa succede all'origine dei circuiti nervosi, quando cioè l'informazione nervosa stessa si origina e inizia il suo cammino nel corpo. Stiamo parlando di quelle particolari terminazioni nervose che prendono il nome di terminazioni sensoriali o organi di senso. Parliamo cioè dei sensi e del loro funzionamento. Qualunque cosa si possa pensare dell'informazione che viaggia, talvolta a velocità vertiginosa, nei circuiti nervosi, non c'è dubbio che deve essere attinta dal mondo esterno, ivi incluse le varie parti del nostro corpo, e questo può realizzarsi esclusivamente attraverso i sensi. Per sensi si intendono i cinque classici sensi esterni – vista, udito, tatto, olfatto e gusto – e i sensi interni. Per i sensi esterni si parla di esterocezione, mentre per i sensi interni si parla di enterocezione – quello che ci dicono, di bello e di brutto, i nostri visceri, dall'intestino alla vescica – e di propriocezione – l'informazione che ci arriva dallo stato momentaneo di tensione dei nostri muscoli. Numerosissimi sono stati gli studi che hanno avuto come oggetto il funzionamento dei sensi, con la vista a farla di gran lunga da padrona. Possiamo anzi dire che lo studio della vista e del linguaggio sono i campi che ci hanno dato la mole più imponente di risultati nell'ambito delle neuroscienze, al punto che spesso si tende a prendere questi come buoni per il funzionamento dell'intero sistema nervoso, compiendo un'operazione di estrapolazione sicuramente arrischiata. | << | < | > | >> |Pagina 55Oltre i sensiNaturalmente non bastano i sensi per centrare tutti questi obiettivi. Occorre anche fare tesoro delle esperienze precedenti. È necessario perciò memorizzare ciò che si apprende, confrontarlo con ciò che si è appreso in precedenza e trarre da tutto questo eventuali conseguenze teoriche e/o determinare una condotta da tenere. Queste sono le operazioni fondamentali che si svolgono nella nostra testa, anche se a noi pare che accadano cose molto diverse. Abbiamo appena visto che dobbiamo percepire per agire, anche se il tragitto mentale fra queste due operazioni può essere molto lungo e richiedere una considerevole quantità di tempo. Ciascuna delle operazioni che abbiamo ricordato – percezione, memoria, ragionamento e pianificazione dell'azione, cui possiamo aggiungere l'immaginazione e la previsione – viene di solito attribuita all'azione della mente, la quale si ritiene operare al di là e al di sopra del cervello, anche se dove questa sarebbe localizzata e come agirebbe non lo dice nessuno. La nostra facoltà più importante, quella della quale andiamo tanto fieri, non avrebbe in questa ottica né una localizzazione materiale né una descrizione di come abbia luogo. Una situazione paradossale, ma perfettamente tollerata, se non difesa e vantata, dai più. All'uomo piace – da secoli – ritenere di avere un corpo abitato da un'entità preternaturale, se non sovrannaturale, non meglio definita, che compie le operazioni mentali. Non sempre, si badi bene, questa entità viene identificata con l'anima, l'entità sovrannaturale per eccellenza. Anche gente che non crede all'esistenza dell'anima e che si guarda bene dal postularla, è poi convinta che la mente, della quale possiamo verificare continuamente e quotidianamente l'operato, sia qualcosa di più terreno, ma sempre immateriale e non localizzato. Se aggiungiamo che anche ai sentimenti e più in generale alla vita affettiva non si vuole o non si può dare una localizzazione e l'identificazione con strutture biologiche specifiche e che a tutto questo la psicanalisi ha aggiunto anche altre entità astratte come l'Inconscio e l'Io, si vede come nell'immaginario corrente il nostro corpo sia abitato da una miriade di entità immateriali che fanno di ciascuno di noi un campo di battaglia, in linea con l'immagine greca classica delle vicende umane come risultanza di immani scontri tra divinità in conflitto. Divinità, è inutile dirlo, capricciose e dispettose. La mente è un po' il duplicato secolare dell'anima e il duplicato oggettivo dell'io e della mia coscienza, nonché un'entità astratta sovraordinata al nostro cervello e alle sue funzioni. La sua esistenza viene raramente messa in dubbio ma altrettanto raramente analizzata nel dettaglio. È una sorte di Demiurgo platonico delle attività cerebrali e viene soprattutto invocata ogni volta che si tratta di descrivere la nostra specificità, in contrapposizione agli animali o ai computer, anche se è difficile negare l'esistenza di una mente, qualunque cosa questo voglia dire, nella maggior parte degli animali a noi noti e distinguere l'attività della nostra mente dall'insieme delle operazioni compiute quotidianamente da un calcolatore richiede notevoli virtuosismi argomentativi. La mente è un po' un duplicato secolare dell'anima, si è detto. Negli ultimi due o tre secoli ci si è progressivamente allontanati da una visione puramente religiosa della realtà, in un processo che è stato definito di progressiva secolarizzazione. Sono pochi oggi, anche se certamente ce ne sono, quelli che sostengono che in noi è presente un'anima di natura trascendente e divina. Questa era invece una convinzione assai diffusa in passato e risalente almeno al pensiero greco, come abbiamo visto sopra. Alla nascita o poco dopo il concepimento, in ogni essere umano veniva infusa da Dio un'istanza superiore che ci guidava in tutte le nostre funzioni e azioni, da quelle necessarie alla sopravvivenza a quelle cognitive e intellettive: l'anima appunto. L'espletamento dell'attività intellettiva da parte dell'anima immortale ha sollevato non pochi problemi filosofici, con i quali si sono misurati gli ingegni più fini, ma ciò non ha intaccato l'opinione della maggior parte della gente che credeva, con maggiore o minore convinzione, nell'esistenza dell'anima e nella sua superiore attività. Si è disputato a suo tempo sul momento esatto nel quale l'anima si congiungeva al corpo e su quali creature avessero un'anima e quali no, ma c'era una convinzione generale piuttosto diffusa che questa espletasse la maggior parte delle funzioni superiori del nostro cervello e della nostra mente. Molti hanno oggi abbandonato l'idea di un'anima immortale di natura divina che visiti temporaneamente il nostro corpo. La stragrande maggioranza delle persone, anche di cultura, ha finito però per spostare sulla mente molti degli attributi dell'idea di anima. Sono pochi infatti quelli che ritengono il cervello più che sufficiente a espletare le funzioni cognitive e più in generale intellettive tipiche della nostra specie. Si sente dire spesso che c'è qualcosa in più, qualcosa che gli animali e i calcolatori non hanno. Molti di coloro che condividono questa convinzione conoscono benissimo le aree e i circuiti del nostro cervello e sono spesso al corrente della scoperta di alcuni dei loro meccanismi di funzionamento. Sanno anche che senza cervello non si può pensare e che il cervello deve essere il più possibile intatto per poter espletare le sue funzioni, ma ciò non gli basta. Non se la sentono di sostenere che le funzioni superiori sono solo opera del cervello. Ci deve per forza essere qualcosa di più, un'entità superiore che si appoggia sull'attività del cervello, ma non si esaurisce lì. Lo si concepisce come un principio con funzioni equivalenti a quelle dell'anima, di natura non necessariamente divina, ma certamente sovrannaturale o, almeno, sovramateriale. Nel nostro Paese in particolare la stragrande maggioranza delle persone ha questa ferma convinzione, indipendentemente dal fatto che si professino laiche e che abbiano magari anche qualche nozione scientifica. Ho visto e sentito spesso personalmente tanti individui ribellarsi violentemente a una affermazione contraria, a una cioè che identifichi la mente con il cervello e la sua attività. Non è possibile, si sente dire, ci deve essere qualcosa di più. Guai però a chiedere di dettagliare e di specificare: è evidente che è così, punto e basta. Quello che non è poi sempre chiaro è se quel qualcosa di più ce l'abbiamo solo noi o ce l'hanno anche molti animali. Perché se si nega che certe attività cerebrali possano ridursi a cellule, molecole, flussi di informazione e circuiti neurali – e molti «sentono» intimamente che non è così – occorre anche specificare quale attività nervosa richieda l'intervento di un principio superiore e quale no. Occorre considerare anche un altro aspetto della questione. Se in noi e negli animali superiori è il cervello che fa la parte del leone nell'esecuzione del complesso delle attività nervose, pur non esaurendone il repertorio, quando si scende via via sempre più in basso nella scala evolutiva si vede chiaramente che molte funzioni non sono compiute, o possono non essere compiute, dal cervello vero e proprio. Molti gangli nervosi possono agire autonomamente e assicurare all'individuo una buona reattività, anche se fisicamente separati dall'equivalente del cervello. Famoso, perché molto studiato, è il caso del ganglio stomatogastrico dell'aragosta che è in grado di compiere funzioni nervose complicatissime in piena autonomia, e perfino se mantenuto artificialmente in una provetta. Se si invoca qualcosa di sovrannaturale nel funzionamento del cervello, riesce poi difficile non farlo per spiegare certe funzioni nervose delocalizzate o addirittura diffuse. Una volta che si insinua il dubbio dell'immaterialità del principio ispiratore, non è facile liberarsene, con il risultato che anche in un cane deve operare qualcosa di simile, e così in un ranocchio, in un minuscolo gamberetto di mare, in un'ameba e magari in un batterio: la «mente» diviene così diffusa in tutti i viventi. Invece di servire a spiegare alcuni nostri eventi mentali specifici, essa finisce per permeare ogni attività che comporti una reazione alle sollecitazioni ambientali nel quadro di una relazione con il mondo circostante. Come succedeva per l'analogo concetto di anima, negarne la materialità ci conduce quasi inevitabilmente al panpsichismo. Che risulta però in genere altrettanto insoddisfacente: nel tentativo di capire come funziona veramente il mio cervello, finisco per concedere facoltà intellettive alle cellule più elementari o anche al brandello più infimo di materia. Come abbiamo visto all'inizio, a formare e sostenere questa convinzione contribuiscono diversi fattori, il primo dei quali è certamente il fatto che ciascuno di noi è consapevole di quello che gli accade nella testa, o almeno così crede, e questo non è percepito come qualcosa di materiale. Tutt'altro. È questa idea forse la dominante: so come e cosa penso, penso di sapere come e cosa pensano gli altri e questa è la mente. In questa ottica, la mente rappresenta il duplicato oggettivo della mia coscienza, un duplicato spersonalizzato e migliorato. Io conosco infatti i miei limiti, le mie conoscenze parziali e le mie particolari debolezze, ma la mente è qualcosa di superiore a queste particolarità, è una funzione appunto superiore e quasi sempre all'altezza del suo compito. Anche sulla base di queste ultime considerazioni, si vede tutta la precarietà della posizione che confonde il pensiero cosciente, ovviamente mio, con la mente, come già si è detto e come ripeteremo ancora. È da più di un secolo che ci siamo resi conto di quanto ingannatore possa essere il risultato di questo sforzo introspettivo e la conseguente convinzione di poter conoscere direttamente come funziona la nostra mente. Noi siamo molto poco consapevoli di che cosa effettivamente accada nella nostra testa. Ne cogliamo solo una minima parte e solo di questa sapremmo, volendo, rendere conto. Ma si direbbe che il segreto è proprio questo: prendere il carattere manifestamente immateriale di questa nostra attività interna e spersonalizzarlo e quasi oggettivarlo per mettere insieme il concetto corrente di mente come attività intellettuale, come potenzialità costantemente in azione. Qualsiasi obiezione alla visione della mente come un quid aggiuntivo e sovraordinato all'attività del cervello, si scontra con la contro-obiezione «Ma io so bene che cosa avviene nella mia testa, e questo non può essere ridotto a un mero funzionamento dei miei circuiti cerebrali.» Non si riesce cioè a liberarsi dell'impressione soggettiva della impalpabilità della nostra percezione dell'operato della nostra mente, anche se l'operazione che si compie nel quotidiano è proprio la separazione forzata della funzione della mente da quella della sua percezione da parte nostra. L'essenza della mente in sostanza viene separata dalla nostra percezione soggettiva del suo modo di essere, ma a essa resta attaccata la valutazione di immaterialità e di intrinseca irriducibilità che ne diamo. L'intrinseca irriducibilità della nostra coscienza personale viene così ordinariamente proiettata sulla mente stessa e a essa attribuita. Per uscire da questo abbaglio occorre riflettere a lungo con mente sgombra e fare tesoro delle scoperte della neurobiologia, animale e umana, dell'etologia, della psicologia sperimentale e dell'intelligenza artificiale, insomma delle neuroscienze contemporanee. Le quali non individuano nella nostra testa niente di più dell'attività coordinata e continua dei nostri circuiti nervosi cerebrali. L'esistenza di un principio ordinatore superiore non può essere esclusa senza il ricorso ad assunti metafisici, ma non è assolutamente necessaria per spiegare ciò che accade. Fino adesso niente è successo nella nostra testa, in quella degli animali più studiati o nei circuiti di calcolatori e robot che richieda una spiegazione di tipo diverso. Si osservano soltanto segnali nervosi che percorrono circuiti nervosi, inseguendosi e incrociandosi senza sosta e a ritmo piuttosto sostenuto. Non tanto sostenuto, però, da non richiedere quantità apprezzabili di tempo. Apprezzabili e misurabili. | << | < | > | >> |Pagina 101È proprio la grande varietà e vivacità di contenuti emotivi che ci dà il sapore quotidiano della vita e che in definitiva ci fa vivere. Soprattutto per noi esseri umani, più che di emozioni singole ha senso parlare di vita emotiva. La nostra psiche è infatti costantemente immersa in un «bagno emozionale», nel quale in condizioni normali è assai difficile distinguere emozioni singole, che qualcuno ha chiamato opportunamente «episodio emozionale». Ciò è dovuto a diversi fattori. In primo luogo la vastità del nostro mondo interiore, creato e mantenuto dalla grande ampiezza della nostra memoria che ci permette di confrontare tra di loro eventi diversi, accaduti in tempi diversi e su diversi piani di realtà: eventi reali, raccontati, letti, visti sui media, immaginati, progettati e via discorrendo. L'occhio della nostra mente non ha posa, ma è come il cerchio di luce di un riflettore che spazza in continuazione gli ambienti più diversi in un'illusione di eterno presente prodotta dall'azione incessante della nostra corteccia cerebrale che ci dispiega e ci spiega tutto con continuità, ragionevolezza e buona coerenza.Il dischiudersi di questo vasto orizzonte interiore ci spinge inoltre, anche se non tutti e non sempre, all'ascolto di noi stessi. Noi abbiamo un'altissima capacità di ascolto del nostro mondo interiore, forse oggi ancora più di ieri. Ciò ci rende difficile discernere le varie componenti emotive fondamentali, fuse e confuse in questo mare magnum di interiorità quotidiana – commentato da tutti a ogni angolo di strada e quasi mai sondato in profondità – che ricorda «quel guazzabuglio del cuore umano» di manzoniana memoria. Ciononostante, è possibile distinguere un certo numero di emozioni diverse, dalla più gratificante alla più intollerabile. Individuare ed elencare tutti i tipi di emozione non è un compito facile. Tutto sta nel decidere di quale livello ci vogliamo occupare e quale parametro vogliamo scegliere. Una soluzione è anche quella di riferirsi all'espressione esteriore delle emozioni stesse. In questa ottica c'è un certo consenso sul fatto che le emozioni fondamentali siano sei: rabbia, paura, disgusto, felicità, tristezza e sorpresa, cui qualcuno aggiunge anche l'espressione del disprezzo. Queste sei (o sette) sembrano essere le fondamentali, quelle presenti e più o meno facilmente riconoscibili negli individui di tutte le culture. C'è stata qualche discussione sul fatto che l'espressione di queste emozioni sia assolutamente spontanea e connaturata con ogni essere umano. La risposta sembra sostanzialmente positiva, ma si è notata una certa oscillazione nella produzione e nell'interpretazione di molte di queste espressioni a seconda delle culture e dei contesti sociali. Al punto che si è considerata l'ipotesi che oltre a essere espressioni di stati d'animo interni, in molti casi esse non possano costituire anche una sorta di comunicazione sociale silenziosa, un modo per trasmettere agli altri un nostro stato emotivo, positivo o negativo, e provocare così un qualche tipo di reazione negli astanti. Si tratterebbe quindi di segnali sociali oltre che di un'espressione spontanea di stati d'animo, anche se non si può non notare che queste due funzioni possono essere distinte solo con grande difficoltà da un punto di vista evolutivo e adattivo generale: in ogni caso devo infatti fare i conti con me stesso e nello stesso tempo con gli altri. Un'altra osservazione che si può fare a proposito di questa lista riguarda l'inclusione della felicità nelle emozioni fondamentali. Non c'è dubbio che al livello dell'espressione lo stato di contentezza o di felicità è tra i più evidenti e chiaramente manifestati, ma è dubbio che si possa considerare la felicità come una semplice emozione. Troppo complesso e variegato è il clima psicologico che corrisponde alla designazione di felicità per poterlo liquidare come un semplice stato emozionale. Ci ritorneremo più avanti in sede di consuntivo e conclusione. All'interno di ciascuna delle categorie fondamentali appena riportate ci può essere tutta una serie di gradazioni, ma se consideriamo queste come le emozioni fondamentali o elementari, si può ritenere che ogni stato emotivo sia una loro combinazione. Una buona misura dell'intensità dello stato emotivo si può avere controllando alcuni parametri fisiologici dei soggetti in questione. È noto infatti che uno stato emotivo è ordinariamente accompagnato da fenomeni somatici indicativi di uno stato generale di eccitazione, come l'aumento del battito cardiaco – che si avverte proprio nella regione pericardica, generando la familiare sensazione di «batticuore» – la sudorazione, la congestione o il pallore del volto, il tutto collegato con un maggiore o minore coinvolgimento viscerale. Questo ci porta direttamente alla considerazione delle differenze anatomo-fisiologiche fra il dolore fisico e l'emozione. Un grosso dolore può vedere anche il coinvolgimento del sistema motorio viscerale, ma questo accade relativamente di rado. Un tale coinvolgimento è invece invariabilmente presente in un'esperienza emotiva. Qualunque sia il motivo che l'ha scatenata, un'emozione tira in ballo il sistema nervoso autonomo, soprattutto nei suoi aspetti motori, e la «commozione» viscerale finisce per diventare un sintomo essenziale e un segnale costitutivo dell'esperienza emotiva stessa. Non c'è emozione senza batticuore e non c'è grosso coinvolgimento emotivo senza «sudorini» e «gola secca». È il nostro sistema nervoso autonomo che si fa sentire e impone uno stato di cose che ci trascende e che spesso ci imbarazza o ci induce a rammaricarci. Molte volte faremmo volentieri a meno di questa coorte di sintomi somatici – mirabilmente delineati da Saffo in una sua famosa lirica: «un fuoco / sottile d'un tratto per la pelle mi serpeggia; / con gli occhi non riesco a vedere, rimandano / un rimbombo gli orecchi, / freddo sudore per tutto si spande, / un fremito mi coglie e più livida / dell'erba riarsa mi faccio, da morte ormai / poco lontana» – ma ciò è, in generale, fuori della nostra portata. Il sistema nervoso autonomo, o viscerale, è lì proprio per intervenire in questi momenti. Il ruolo del sistema nervoso autonomo è quello di creare il «clima interno» migliore per affrontare le situazioni esterne che ci si presentano di volta in volta, dalle più tranquille alle più impegnative. Se il sistema nervoso centrale è il mediatore delle azioni che compiamo in risposta alle sollecitazioni delle cose che ci succedono, il sistema autonomo serve a «prepararci» alla messa in atto di queste azioni, regolando lo stato complessivo del nostro corpo attraverso il controllo dello stato di «tensione» o di «rilassamento» dei vari organi interni, primi fra tutti il cuore e il sistema circolatorio nel suo complesso. È questo, tra l'altro, il motivo principale per il quale sentiamo le emozioni forti con il cuore, che si tratti di un sobbalzo o di una stretta. Il cuore insomma, o meglio la regione intorno a esso, è la «spia» principale di tali sommovimenti emotivi. Per ogni stato emotivo di un certo rilievo c'è in sostanza una preparazione del corpo ad affrontare la situazione, cui farà seguito poi una sorta di smobilitazione. Tanto il «richiamo alle armi» quanto la smobilitazione devono essere minuziosamente controllati e a questo provvede il sistema nervoso autonomo con la sua attività. Occorre dire per completezza che se nell'immediato il sistema autonomo è puntuale, veloce ed efficace, deve tuttavia anche rispondere a più lungo termine alle sollecitazioni che derivano dal sistema composto dalla ghiandola ipofisi e dall'ipotalamo, e detto perciò asse ipotalamo-ipofisario, che riversa nel torrente sanguigno le sostanze di volta in volta più opportune per assicurare la costanza dell'ambiente interno qualunque cosa succeda. Gli interventi istantanei del sistema nervoso autonomo, di concerto con quelli più lenti ma più sistematici e duraturi dell'asse ipotalamo-ipofisario, mirano a mantenere sempre e comunque uno stato interno accettabile per il corpo, sia in momenti di eccitazione che in momenti di stanca. Per ottenere questo risultato non è però sempre sufficiente agire soltanto all'interno del corpo. Di quando in quando occorre che quest'ultimo si muova e compia anche delle azioni, come coprirsi se si ha freddo o mangiare se si ha fame. | << | < | > | >> |Pagina 181Molto più variegate e multiformi sono le proposte dei vari autori per quanto riguarda forme più avanzate di coscienza, quale ad esempio quella che Damasio chiama «coscienza estesa», contrapposta a una «coscienza nucleare». Praticamente tutti assumono che per avere coscienza di qualcosa occorra uno stato di veglia e la concorrenza dell'attenzione. Mentre dei meccanismi dell'attenzione sappiamo proprio poco e il suo studio sembra difficilmente distinguibile da quello dei fenomeni stessi di coscienza, sul controllo della veglia e del sonno siamo abbastanza bene edotti. Per essere vigili è necessaria l'attivazione del cosiddetto sistema reticolare ascendente (RAS), una costellazione di neuroni e circuiti nervosi diffusi presenti nel tronco encefalico e che collegano quest'ultimo con l'encefalo vero e proprio e in definitiva con la corteccia cerebrale.Bernard Baars ha anzi proposto un modello della coscienza fondamentalmente basato sull'attivazione del RAS e della sua estensione ad alcuni centri talamici fondamentali per costituire quello che lui definisce ERTAS, extended reticular-thalamic activating system. Per lui, come per altri, la coscienza è giocata su uno spazio di lavoro (workspace) globale cui accedono in determinate condizioni alcuni processi nervosi e mentali, ma non tutti. Per poter accedere alla coscienza estesa di Damasio o alla coscienza esplicitabile condivisa occorre ovviamente il linguaggio, unica vera facoltà mentale che sia esclusivo appannaggio della nostra specie. Ciò è così ovvio che non richiede alcun commento. Solo che il linguaggio non è una facoltà prefabbricata che si presenta già matura all'adulto, anche se molti, troppi, sembrano crederlo. Costoro tessono sperticate lodi del linguaggio e del suo prezioso contributo, ma non ne considerano la genesi e la comparsa in concomitanza con la comparsa della coscienza stessa. Ciò è dovuto probabilmente alla loro intima convinzione che il linguaggio «venga da fuori» e che non sia che una delle tante cose apprese. Non è così. E non perché l'abbia detto Noam Chomsky o chi altro. Non è così perché non è così. Anche se non è chiarissimo quanto spetti all'innato e quanto all'appreso nelle diverse articolazioni dell'uso del linguaggio, non c'è dubbio che questo abbia una genesi e uno sviluppo individuali e che prenda faticosamente forma nel tempo come qualsiasi altra nostra struttura o facoltà biologica. E non è probabilmente un caso che si sviluppi più o meno nello stesso periodo e con gli stessi tempi della coscienza di sé. È abbastanza ragionevole pensare quindi che la forma umana di coscienza di sé possa condividere qualcosa di fondamentale con il linguaggio anche nella sua genesi e nel suo sviluppo. La strutturazione del sé potrebbe richiedere all'individuo parte delle stesse funzioni che permettono la formazione di un linguaggio. Distillare parole e concetti dal nulla, cioè dal mondo subsimbolico della nostra mente, non è un'operazione banale; richiede un apparato fonatorio appropriato, una memoria di lavoro sufficientemente ampia e un repertorio di nomi e di significati che non tutti gli animali potrebbero conservare e consultare, ma non è tutto lì. Per parlare occorre voler parlare, avere un quadro di cosa dire e perché dirlo. Occorre distaccarsi momentaneamente dalla percezione e dall'azione in diretta sul mondo per indulgere in un'operazione che a prima vista è senza senso e che richiede un enorme sforzo, non fosse altro che per allontanarsi dalla usata condizione animale. Non è altresì dubbio che il soggetto parlante (e pensante?) sia lo stesso del soggetto agente. Se la progettazione dell'azione richiede un centro progettante, anche la progettazione di un discorso richiede un centro progettante, con l'aggiunta del fatto che il discorso ha un contenuto astratto indipendente dal semplice fatto di parlare con un certo volume e una certa intonazione e che quindi il soggetto vi deve comparire tanto come originatore dell'azione quanto come produttore di contenuti. Il linguaggio ha in comune con la coscienza l'essere contemporaneamente percezione e azione o almeno progetto di azione, ricezione ed esecuzione, passività e attività. Nello stesso tempo il linguaggio è anche finalizzato alla comunicazione, alla comunicazione con altri esseri umani, in modo da ottenere su questi un certo effetto. Parlare significa quindi anche assumere che gli altri abbiano una coscienza e che siano in grado di capire che cosa diciamo. In parte almeno occorre immedesimarsi in essi in modo da calibrare i propri discorsi. Il linguaggio è produzione di argomenti ma anche cura della loro ricezione. Il Sé che riteniamo gli altri possano avere può quindi fungere da esempio e da «stampo» per l'edificazione del proprio. Nello stesso tempo e probabilmente come parte dello stesso progetto. Chi non ha potuto parlare con altri per i primi anni della sua vita è dubbio che abbia un Sé di livello molto elevato. Linguaggio e coscienza esplicitabile sembrano insomma sempre più strettamente connessi e probabilmente coevi, sia lungo l'arco del processo ontogenetico che di quello filogenetico. | << | < | > | >> |Pagina 213Serialità e parallelismoL'uso continuo del linguaggio può avere spostato quindi con gli anni il baricentro delle nostre attività mentali verso una più accentuata serialità. Non è che negli animali non ci sia proprio serialità. Ogni problema di riconoscimento di cose animate o inanimate implica una certa serialità, e certamente la progettazione di una qualsiasi azione richiede una momentanea forte serialità, ma non sembra esserci in gioco quella continuità che caratterizza la nostra specie e che sostiene la nostra capacità di parlare, con noi stessi e con altri. Da qualche secolo poi l'uomo legge (e scrive). La lettura richiede quasi per definizione una sostenuta serialità, perché occorre seguire la successione delle lettere sul foglio, perché occorre mettere insieme le parole e i loro significati, perché occorre estrarne un senso – proprio come se parlassimo – perché occorre farlo con una certa continuità e assiduità. Da quando legge, l'uomo che legge, adopera abbastanza spesso la sua mente in maniera pesantemente seriale, qualitativamente forse non più che nel parlare, ma quantitativamente certo molto di più. La lettura quindi è un esercizio quotidiano aggiuntivo di serialità e non stupisce che questa nostra nuova facoltà possa aver messo in risalto una serie di nuovi problemi nervosi e mentali che noi facciamo ricadere sotto il titolo generale di dislessie. L'invenzione della scrittura ha introdotto nella nostra attività mentale nuovi elementi e nuove complicazioni. Non è il caso di esagerarne la portata, ma certo il cervello di chi legge, soprattutto se legge spesso, compie una serie di compiti certamente non contemplati all'origine. Per non parlare della nostra capacità di scrivere e di fare di conto, tutte attività che, sebbene esercitate più raramente, contribuiscono in maniera consistente a spostare l'asse della nostra attività mentale sempre più verso il seriale. È un po' tutto lo stile di vita dei nostri tempi che contribuisce a spostare questo asse e a fare di noi degli esseri sempre meno «spensierati». Una parte notevole di quest'azione spetta indubbiamente all'uso sempre più diffuso dei computer e delle sue applicazioni. Il funzionamento del computer è per sua natura seriale, sequenziale, logico e consequenziale. Se ne rende perfettamente conto chi lo ha almeno una volta programmato. L'operatore umano tende a fare un certo numero di «sviste» e a indulgere in un certo numero di distrazioni che il computer proprio non tollera: basta un piccolo errore anche solo di ambiguità e il programma non funziona. I computer funzionano secondo una logica perfetta che non è sempre la nostra. Ma anche chi non ha mai programmato e usa il computer solo strumentalmente come tutti noi avrà notato quanta differenza c'è fra «lui» e noi. Il computer è poco elastico, e questo spesso ci fa infuriare, ma assolutamente logico. E non fa sconti. È proprio usando il computer a diversi livelli che ci accorgiamo quanto imperfetta e lacunosa sia la nostra logica e quanto approssimativo sia il nostro modo di ragionare. Gli elaboratori logici e tutti i computer sono specialmente adatti per «coloro i quali capiscono veramente ciò che stanno cercando di fare», come dichiarò a suo tempo uno dei padri della cibernetica e dei moderni computer. Solo chi sa bene ciò che vuole e ha al proposito le idee chiare può avere interesse a esprimerle in forma di istruzioni codificate per poterle elaborare automaticamente e trarne le logiche conseguenze. Proposizioni vaghe o espresse in modo ambiguo non conducono in questo caso da nessuna parte, come può constatare chiunque di noi quando si trova ad avere un diverbio con il proprio computer: cocciuto e intransigente, ha però sempre ragione lui. Ecco che allora quella dei computer e del loro uso è una scuola di chiarezza e di consequenzialità, una forma di precisione, diciamo qualitativa, che si va ad aggiungere a quella quantitativa che caratterizza per altri versi la nostra epoca. La necessità di chiarezza e di una formulazione non ambigua delle idee rappresenta un'istanza capitale per una parte della nostra cultura e del nostro modo di vedere le cose, che si va ad aggiungere alla familiarità da noi acquisita con il misurare e il quantificare e all'abitudine anch'essa recente di misurare il tempo, di giorno e di notte. Naturalmente questo comporta uno sbilanciamento nel nostro atteggiamento riguardo alle nostre diverse facoltà mentali e intellettuali, privilegiandone alcune piuttosto che altre e questo non a tutti piace. Il pendolo si va spostando decisamente verso un estremo e non è detto che prima o poi non abbia un rimbalzo verso il culto dell'indistinto e dell'ambiguo. L'ambiguo e l'indistinto hanno per noi un fascino irresistibile, che si esprime anche sul piano letterario e più in generale artistico. Il fatto che il collettivo umano abbia di recente adottato in larga parte un atteggiamento volto alla precisione e alla consequenzialità logica non significa che ogni individuo faccia questo senza sforzo, né tanto meno con naturalezza e con entusiasmo. Tutt'altro. La cosa riesce difficile a molti, se non ai più, e lascia spesso un senso di spossatezza, di meccanicità e di aridità. Non si rinuncia a cuor leggero alla nostra naturale propensione verso l'imprecisione e l'ambiguità, propensione che ci deriva in ultima istanza dall'alto grado di parallelismo di tutto il nostro sistema nervoso. Il parallelismo, cioè l'elaborazione contemporanea di un gran numero di segnali nervosi, rappresenta il modo di funzionare normale e la posizione di riposo del nostro sistema nervoso e probabilmente del nostro cervello. Solo al momento della presa di coscienza, della progettazione di un'azione materiale, e ancor più nell'impostazione di un ragionamento o di un calcolo si ha probabilmente un momentaneo abbandono di tale modo di essere per lasciare il posto a un processo seriale, cioè sequenziale. Esprimere verbalmente un pensiero e risolvere un problema sono espressioni di un modo di funzionare seriale della nostra mente – un concetto dopo l'altro, un'affermazione dopo l'altra. È ragionevole pensare che l'ambiguità e la scarsa lucidità siano la caratteristica abituale del modo di procedere parallelo, che affonda almeno in parte le sue radici in quello che oggi si usa chiamare Inconscio. L'ambiguità è spesso il risultato della compresenza nella mente di diversi significati nello stesso termine, significati che possono interessare a volte anche modalità sensoriali e percettive diverse: una astratta e più razionale, una più emotiva, una visiva, un'altra tattile e via discorrendo. La scarsa lucidità e l'imprecisione possono così derivare da una serie di istantanei corti circuiti subliminali fra processi paralleli diversi o di veri e propri slittamenti da un piano a un altro e da un processo a un altro. Tutto ciò va benissimo per quasi tutte le circostanze della vita – soprattutto per quella di una volta – ma è incompatibile con uno sforzo di razionalità e di lucidità. Quest'ultimo è molto redditizio e proficuo, ma pesante e ingrato. Va bene spesso per il collettivo, ma raramente per il singolo. Ha rappresentato un grande vantaggio per la società moderna che ne ha beneficiato negli ultimi secoli, mentre il singolo anche oggi ne soffre, più o meno consapevolmente, e cerca di evitarselo il più possibile. A livello collettivo tuttavia si è andato sempre più sensibilmente affermando un atteggiamento lucidamente consequenziale e poco propenso all'ambiguità e all'imprecisione dei concetti, almeno in alcuni campi della nostra attività. Queste osservazioni sulla analogia-contrapposizione del funzionamento della nostra mente con quello dei computer suggeriscono una considerazione di carattere più generale su alcuni concetti come chiarezza, fascino e profondità. Ci appare chiara un'affermazione che si può seguire almeno momentaneamente con la logica e il suo procedere lineare. Una chiarezza sostenuta per più di qualche episodico sprazzo di consequenzialità implica solitamente la formulazione di definizioni esplicite e una certa coerenza a esse e caratterizza un discorso sequenziale, lucido e razionale, fondamentale per le matematiche e più in generale per un approccio tecnico-scientifico ai problemi. Ciò è molto faticoso, raramente presenta un qualche fascino per chi lo segue e quasi mai aspira a farsi riconoscere un qualche valore artistico. Il fascino di un'espressione di qualsiasi tipo deriva spesso dalla sua ambiguità e ricchezza di significati. È questa riposante immersione in regioni prelogiche che si conquista la nostra predilezione. Oltre che a subirne il fascino, tendiamo di solito anche a ritenere più profondo ciò che è più ambiguo e polisemico, fino a considerare mistico ciò che è spesso solo confuso e contraddittorio. Va da sé che quelle rare volte nelle quali si riesce a conferire una certa chiarezza a qualcosa che conserva solidi legami con il mondo del parallelo e ha ancora vaste risonanze in quello, si giunge veramente al massimo della profondità e del fascino.
L'insieme di queste nostre propensioni ha comportato
da sempre il fatto che noi tendiamo ad assegnare alla metafisica il primato
ideale su tutte le forme di attività intellettuale. Siamo anche portati a
pensare, e qualcuno lo afferma apertamente, che la metafisica sia una conquista
recente della civiltà umana e un punto di approdo della nostra riflessione
intellettuale. Io ritengo che sia vero proprio il contrario: la propensione per
la metafisica è un punto di partenza per la nostra psiche, punto di partenza
abbandonato in parte, e con grande sforzo, solo in tempi relativamente
recenti. Quello che possiamo comprendere del pensiero
primitivo e lo studio della storia della nostra civiltà ci mostrano come le
prime civiltà sono «naturalmente» metafisiche e magiche, cosa che conferisce
loro un fascino eccezionale, mentre la razionalità e soprattutto un
atteggiamento che potremmo definire pragmatico compaiono solo successivamente e
anche saltuariamente. Anche senza scomodare
per queste cose la classica definizione di «pensiero magico»
dei cosiddetti primitivi, dobbiamo notare che le grandi e
piccole mitologie, le religioni documentate e tutto il pensiero «scientifico»
primitivo si ispirano a un atteggiamento
mentale sommamente ambiguo e polisemico, che ci fa
spesso attribuire a queste costruzioni del pensiero un grande fascino poetico e
genera in molti un rimpianto nemmeno tanto nascosto per le civiltà e la
mentalità del passato.
In questa ottica dobbiamo prendere in considerazione le discipline che studiamo come esseri umani e che riscuotono una maggiore o minore simpatia da parte dei diversi soggetti. Se non c'è dubbio che per fare qualcosa bene, di qualsiasi tipo essa sia, occorre capacità e impegno, è anche vero che applicarsi a discipline diverse non richiede necessariamente le stesse doti. Ciò viene spesso negato o tutt'al più attribuito a misteriosi tipi di «intelligenze» diverse: c'è l'intelligenza logico-matematica, l'intelligenza linguistica, l'intelligenza musicale e via discorrendo. A parte il fatto che in nessuno di questi casi è stata definita la parola intelligenza, specialmente se usata come facente parte di un gruppo di facoltà simili ma non identiche, non si chiarisce in nessuna maniera perché sia così. L'opinione che mi sono fatto è che per attività intellettuali diverse si usano facoltà mentali leggermente diverse, soprattutto per quanto riguarda la componente seriale. Per la matematica, la logica e tutte le discipline che richiedono un ragionamento rigoroso e prolungato, si deve più spesso «pescare» nel bacino mentale del seriale che in quello del parallelo o quasi seriale. Per tutte le altre attività, anche se ci si dedica a esse con altrettanto impegno, è richiesta una minore serialità o una serialità meno protratta nel tempo. Non si tratta di una distinzione qualitativa, perché anche per tradurre bene e per scrivere mettendo le parole giuste nel posto giusto è richiesta una sensibile dose di serialità, ma certo l'intensità e la continuità dell'impegno seriale è minore per le discipline cosiddette umanistiche che per quelle cosiddette scientifiche. Se lo si ammettesse apertamente si eviterebbero tutte quelle contorsioni argomentative alle quali si indulge di solito per spiegare perché uno è più portato per una cosa e uno per un'altra. Questo chiarirebbe anche una volta per tutte la questione delle cosiddette «Due culture». La mentalità scientifica e quella umanistica non differiscono solo perché chi ci si dedica e ne coltiva i rispettivi campi deve possedere nozioni diverse e avere quindi due «culture» diverse. Esse differiscono ben più intrinsecamente perché si appoggiano su strumenti mentali un po' diversi e questo spiega perché qualcuno possa avere una preferenza per l'una e qualche altro per l'altra. Dire che sono diverse non significa dire che una è superiore all'altra, come succede in quasi tutti i casi; ma, come succede in quasi tutti i casi, per paura di una classificazione e di una conseguente prevaricazione o discriminazione, si nega la differenza. Occorre smettere di dire che non esistono due culture – chiunque può testimoniare che non è così – e cercare invece di chiarire su che cosa in realtà queste si appoggiano. Se è vero che l'uomo è uno, la mente è una e quindi in senso superiore la Cultura è una, è anche vero che negare le differenze che esistono a tutti i livelli non ha mai portato a niente di buono. Il vero problema è che poi si creano i partiti: di quelli che sostengono che la cultura scientifica è superiore perché più logica e attendibile e di quelli che sostengono che la cultura umanistica è superiore perché coglie la vera essenza delle cose, non si perde nei particolari e parla di più all'uomo totale. In un caso come nell'altro si tratta di vuota retorica, che danneggia una discussione serena sul cammino della civiltà e penalizza i giovani che si affacciano alla vita professionale: ognuno deve poter scegliere la propria strada senza paura di essere classificato e magari ghettizzato. Se uno non ama la matematica, non la ama e non gliela si può facilmente fare amare; se uno non ama le lettere, non le ama. Punto e basta. L'intelligenza, qualunque cosa essa sia, non c'entra niente. Senza contare che esistono moltissime attività e quindi professioni che si trovano «in mezzo al guado», come ad esempio la medicina e l'architettura, che richiedono tanto le doti di un tipo quanto quelle dell'altro. Tra le cose al momento non spiegate, ma che meriterebbero una certa attenzione c'è anche quella delle diverse età di «fioritura» dei cultori più in vista delle diverse discipline. Parlando molto approssimativamente, un matematico dà il meglio di sé a venticinque anni, il fisico a trenta-trentacinque e il biologo a quaranta, per non parlare che delle discipline scientifiche, a proposito delle quali è più facile fare una statistica. Da parte loro, un letterato e un filosofo non sembrano avere limiti di età. Perché? Che cosa c'è nelle diverse discipline che sembra «scattare» a età diverse? E che cosa cambia, insensibilmente, con l'età? Questa è una domanda per la quale non ho mai trovato una risposta soddisfacente, ma che non mi sembra troppo oziosa. Almeno per quanto riguarda le discipline scientifiche, potrebbe sembrare che il meglio si possa dare quando è più forte e stringente la nostra capacità razionale, ma la storia della scienza non sembra dire questo. I grandi creatori, quelli che hanno lasciato un'impronta duratura nel pensiero umano, sono quelli che hanno introdotto significative novità, spesso in contrasto, se non in aperta rottura, con le idee precedenti. La loro celebrità è legata proprio a questa loro carica di «sovversione» nei riguardi delle idee correnti. Trattandosi di scienziati, il rigore scientifico non deve certo fare difetto, ma non basta a decretare l'immortalità di una teoria o di una scoperta. Per usare una metafora figurativa, sembra proprio che più della capacità di camminare con lucidità e tenacia lungo i sentieri già tracciati del pensiero logico, i grandi creatori possiedano la capacità di andarsene di tanto in tanto «per vie traverse», per fare incursioni più o meno proficue nei «pascoli del cielo» della mente, prima di rientrare e di rimettersi disciplinatamente «sulla carreggiata». O non è affatto così, e questa è una falsa impressione, oppure bisogna supporre che queste incursioni, piuttosto rare ma fondamentali, siano più facili da compiere in una specifica età della vita e della mente umana, età che cambia leggermente ma consistentemente da disciplina a disciplina. | << | < | > | >> |Pagina 241«Se non è quello che uno ha perso a dare questa sofferenza insopportabile, allora forse è quello che uno non perderà mai. È quello che preferirebbe morire, piuttosto che mollare.» – «Ma se uno muore, lo molla eccome.» – «Eh no. Se uno muore, non c'è più e basta.» Cormac McCarthy, Sunset Limited Io e la mia coscienza (fenomenica?) A questo punto siamo rimasti con il fiammifero acceso in mano. Tutto quello di cui siamo in grado di parlare si è esaurito ed è stato fatto ricadere in un modo o nell'altro nel mondo delle cose, delle cose separabili intendo. Resto io con le mie sensazioni e la mia presa diretta con me stesso. Qualcosa di cui non dubito e che mi è estremamente presente. Finché sono sveglio. Ma io sono praticamente sempre sveglio. Talvolta più lucidamente e talvolta meno. E lo sarò sempre, in barba a ogni indisposizione del mio corpo o anche alla sua morte. Io sono sempre qui, mi piaccia o no. A che cosa conduce tenere separata la mia sensazione interiore — io — da tutto il resto? In altre parole a che cosa ha portato tutta l'operazione che abbiamo compiuto in questo libro? Secondo me ha condotto a un chiarimento fondamentale riguardo alla coscienza e alla sua esperienza. Io ho una coscienza di cui ho esperienza diretta. Gli altri hanno una coscienza della quale io non ho esperienza ma che non ho nessun motivo di pensare che non abbia in generale le stesse proprietà della mia. È possibile quindi studiare le caratteristiche della coscienza degli altri dal di fuori e la mia tanto dal di fuori, come tutte le altre, quanto dal di dentro. Ma è uno studiare quello che faccio io su di me dal di dentro? Ne dubito: manca proprio l'intercapedine fra il soggetto e l'oggetto che è necessaria per mettere in atto un qualsiasi tipo di studio. Non so se si potrà mai dare scienza delle mie sensazioni, e non so nemmeno dire se questo avrebbe un senso. In primo luogo perché si dà scienza solo dei fenomeni riproducibili – e io non lo sono – e in secondo luogo perché per raggiungere quell'obiettivo occorrono più descrizioni indipendenti degli stessi fatti, e questo è manifestamente impossibile. Insomma io non sono oggettivabile e questo sembra chiudere definitivamente la questione, anche se tutto lascia pensare che io non sia che la sensazione che prova in concreto il mio Sé. Non potrò però mai saperlo con sicurezza. Ciò non significa che io non possa parlare di me e delle mie sensazioni, che poi è quello che fa ciascuno di noi tutte le volte che può e che fa ogni scrittore o letterato, qualche volta anche in termini poetici. Quindi? Quindi è inutile invocare l'ineffabilità della mia sensazione personale e la sua incomunicabilità per giungere a escludere la possibilità di uno studio scientifico della coscienza, se non della mente. Io non c'entro; sono un'altra cosa. Concentriamoci sui vari Sé, che già è un gran lavoro, e lasciamo in pace l'io. Che poi sono io. Ma di me che dico? Io so chi sono e che cosa provo. Qualcuno, e precisamente il filosofo Thomas Nagel, qualche anno fa si è interrogato su Che cosa si prova a essere un pipistrello? Ovviamente non lo so, ma non so nemmeno tantissime altre cose molto meno astruse. Non so che cosa si prova a essere mio fratello, mio figlio, mia moglie o nessuno dei miei amici. Ma non so nemmeno bene che cosa provavo io a vent'anni oppure in questa o quest'altra circostanza. Io sono sempre e solo io, al presente. Talvolta ho l'impressione di sondarmi ed esplorarmi, ovverosia di guardarmi dentro, con uno strumento che usualmente chiamiamo introspezione. È ritenuto un colloquio che io imbastisco con me stesso, ma non è affatto chiaro che cosa possa significare, anche se per secoli gli è stata attribuita un'importanza eccezionale. Il motivo è chiaro. La mia coscienza era considerata allora la via d'accesso alla mente, che non si identifica con l'anima più profonda, così che qualcosa di quest'ultima può essere effettivamente indagato solo con un'introspezione approfondita e più volte riproposta. In quest'ottica, guardarsi dentro vorrebbe dire cogliere qualche elemento essenziale del mio io più profondo, se non della mia anima. Che cosa resta oggi di questa idea? Direi sostanzialmente niente, se non che tenere l'attenzione fissa su di me per un po' di tempo può portare a qualcosa, magari di nuovo, anche se non saprei proprio dire se è più o meno autentico di ciò che mi passerebbe per la testa se non insistessi. E poi che cosa vuol dire «autentico»? Come posso io non essere autentico? Quello dell'autenticità è un altro mito caro ad alcuni pensatori (e agli psicologi) del nostro tempo, senza che nessuno abbia mai chiarito che cosa effettivamente questo voglia dire. Un capo di vestiario Lacoste, o Versace, può essere autentico o contraffatto, poiché c'è qualcuno all'esterno che lo può avere contraffatto, ma me chi mi può avere contraffatto? Potrei averlo fatto da solo, ma ciò implica uno sdoppiamento e questo rientra nelle operazioni del mondo, per giunta anche complesse. Io non posso comunque che essere il risultato di tutto questo.
Posso vivermi, e lo faccio in perpetuo, volente o nolente;
posso raccontarmi con parole quotidiane o narrarmi in parole auliche. Quando il
cuore duole forte posso anche interrogarmi. Su che? Sul perché di un
contrattempo o di una
disfatta – io non ho quasi mai sbagliato; sulla giustizia
del mondo – io sono quasi sempre nel giusto; sul modo migliore di impostare
un'azione – ma esiste un modo migliore? E se esiste, chi lo conosce?; sullo
scopo dell'esistenza – sì,
può esserci per uno scopo, ma non esistere per uno scopo;
sul senso del tutto – ma quale senso e quale tutto? Certo,
sono sempre solo e senza linee guida o falsarighe, se non
posticce – quelle sì non autentiche!
Solo
Il fatto è che nella mia veste di io, sono sempre assolutamente solo e senza
alcuna guida. Ogni evento è nuovo;
non è mai accaduto prima, almeno a me; ma il punto è tutto qui. Gli avvenimenti
della mia vita sono sempre inattesi
e senza precedenti, e senza una trama preordinata. Sono
sempre a chiedermi: come va avanti di solito questa storia?
E come andrà avanti questa mia storia? Quando tutto va
bene, ciò non è rilevante. Ma quando si presentano dei problemi, materiali o
psicologici, ciò ci appare scoraggiante,
quando non angosciante. Certo, posso ragionarci sopra,
posso cercare di richiamare alla memoria qualcosa di simile, accaduto a me o ad
altri, ma non è la stessa cosa. Questo
accade soprattutto nel dolore, fisico o psichico. Non ci sono appigli, punti di
riferimento e neppure colpevoli. Se
una donna non mi vuole, se una donna mi ha lasciato, se
mi ha tradito o semplicemente non mi capisce, che cosa
posso almanaccare? A quale pagina di quale volume mi
posso riferire? Chi o che cosa posso chiamare in causa? Capisco allora tutta la
folla di Forze Superiori, di Mezze Divinità e di Divinità Supreme che l'uomo si
è inventato nella sua storia, come interlocutori, garanti, patrocinatori o
semplicemente corresponsabili di ciò che mi capita e di cui mi
chiedo il perché. Essere convinti della loro esistenza può
talvolta aiutare, come può aiutare condividere i miei problemi con altri esseri
umani conversando con loro, ma il
sollievo è apparente. Anche se sembra più che sufficiente
per la maggior parte delle persone, questo riferirsi ad altri
o ad Altri mi lascia solo esattamente come prima. Il dolore,
il rimorso, l'orgoglio ferito sono miei e solo miei. Posso
passare una giornata a pregare o a divertirmi con gli amici,
ma quando viene la sera e per qualche attimo resto solo con
me stesso non posso non sentire il morso della disperazione
o l'amarezza del dispiacere. La notte non ha i frastuoni del
giorno, come sa bene ogni malato.
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