|
|
| << | < | > | >> |IndiceIn principio era il DNA 7 Il laboratorio del Creatore Una nuova genesi? 11 La vita come ci appare e come è 16 Andate e moltiplicatevi 20 Un colpo di teatro 24 Il secolo della genetica 29 Definire la vita 36 L'importanza dell'errore 41 Dentro la vita I tre parametri fondamentali 47 Informazione e comunicazione 53 Un flusso continuo 60 Energia termica ed energia chimica 64 Il tempo 70 L'alfabeto con cui siamo scritti 74 La grammatica del corpo 79 Dal DNA alle proteine 88 Le istruzioni della vita Dai geni al genoma 97 La mistica del DNA 103 Il «software» che ci governa 106 La «memoria» del genoma 111 L'influenza del caso 113 La vita: un evento unico Una svolta concettuale 121 L'evento della vita 123 La catena universale 127 La prima cellula 131 Storie continue e storie interrotte 136 L'evoluzione biologica 139 La selezione naturale 144 La prospettiva umana 146 Conclusione 157 |
| << | < | > | >> |Pagina 11Una nuova genesi? Nella primavera del 2010 il mondo scientifico e quello dei media furono turbati da un'affermazione dello scienziato-manager statunitense Craig Venter, che, con il suo inconfondibile stile, affermò di essere riuscito a creare in laboratorio un esempio di «vita artificiale». Di per sé questa non era una notizia sconvolgente se accolta da uno scienziato, ma lo era per l'uomo comune e soprattutto per il credente. Venter forse calcò un po' la mano con le sue dichiarazioni, come del resto ha fatto assai spesso, ma l'esperimento in sé fu veramente interessante. Per condurre i suoi studi Venter aveva scelto già da svariati anni un batterio particolarmente semplice, il Mycoplasma. La prova di cui stiamo parlando consisteva essenzialmente nell'estrarre il DNA, ovvero il patrimonio genetico interno alla cellula di un determinato ceppo, chiamiamolo A, e sostituirlo con un altro DNA appartenente a un ceppo affine ma diverso, definiamolo B. Per la precisione, il ceppo A è chiamato Mycoplasma capricolum, mentre il ceppo B è Mycoplasma mycoides. Il DNA di tipo B non era stato prelevato da una cellula vivente, ma sintetizzato interamente in laboratorio sulla base di una sequenza nucleotidica memorizzata in un computer. Il risultato, non sorprendente per un biologo, ma di certo non banale, fu che la cellula di arrivo, originariamente di tipo A, acquisì in pochissimi minuti tutti i caratteri biologici tipici della cellula alla quale apparteneva il genoma che vi era stato inserito; era diventata cioè di tipo B a tutti gli effetti. In definitiva, questo esperimento aveva confermato per l'ennesima volta che è il patrimonio genetico a comandare sulla cellula che lo ospita ed è il solo in grado di imporre tutte le sue condizioni; ovvero era stato creato un organismo che in natura non esiste e che possedeva la cellula di un tipo, A, e il genoma di un altro, B. In breve tempo la cellula diventò integralmente del secondo tipo, cioè B. Il nocciolo della questione consisteva nel riconoscimento della vera natura del DNA, che si dimostra capace di trasformare del tutto la cellula nella quale viene inserito. Si può definire vita artificiale o, come Venter stesso afferma occasionalmente, «vita sintetica» il frutto di quella manipolazione? L'esperimento in sé, da un punto di vista concettuale, era molto semplice anche se tecnicamente piuttosto complicato, perché si trattava di maneggiare un'enorme sequenza di DNA di un milione di caratteri, o nucleotidi, sintetizzata interamente in laboratorio e introdotta in un organismo diverso. Ma come si era arrivati a questo? Non era la prima volta che Venter e il suo staff utilizzavano questo tipo molto elementare di batteri, così semplice da essere vicino al cuore stesso della vita, all'essenza di una cellula che contenga all'interno di sé il più piccolo patrimonio genetico possibile e che sia ancora capace di vita autonoma. In realtà, come ha spesso dichiarato, Venter è interessato all'utilizzo di batteri molto semplici — di cui conosce il genoma in ogni minimo dettaglio — per impiegarli in qualcosa di benefico per l'uomo: digerire materiali inquinanti di cui noi non ci sappiamo sbarazzare, per esempio una chiazza di petrolio vagante nell'oceano; oppure produrre nuove forme di biocarburante. L'idea portante di Venter - che è stato, ricordiamo, uno dei pionieri della decifrazione del genoma umano e che in seguito ha spostato la sua attenzione sui batteri elementari, organismi lontani dall'essere umano -, è quindi impiantare nel futuro prossimo «fabbriche» biologiche alle quali si possa dare l'ordine di eseguire un dato compito. L'intuizione di utilizzare i batteri è di certo fondata, perché sono piccolissimi, crescono molto velocemente e se ne possono produrre miliardi e miliardi in tempi brevi, in uno spazio ridotto e con relativamente poco materiale nutriente. Se questi batteri si comportassero come Venter pensa e spera, si rivelerebbero davvero vantaggiosi. È inutile dire che per raggiungere questo scopo lo staff dello scienziato ha dovuto prima determinare l'intera sequenza del DNA di queste diverse specie di batteri. Tale sequenza è stata poi immagazzinata in un computer e da lì viene estratta ogni volta che la si vuole consultare. Qualche anno prima, nel 2007, Venter aveva portato a termine un primo esperimento, che già lui definì di vita sintetica, aveva cioè prodotto un organismo che in origine non esisteva, estraendo il DNA da una specie e inserendolo in un'altra privata del suo patrimonio genetico. | << | < | > | >> |Pagina 26Quando ci si rese conto, all'inizio del secolo scorso, dell'enorme varietà delle proteine esistenti e della squisita specificità di ciascuna di loro, ci si chiese come tutto questo fosse possibile. A quell'epoca, oltretutto, si riteneva che le proteine avessero una struttura non semplice e lineare (come fu scoperto in seguito) ma ramificata, a lisca di pesce; e nonostante questo, ci si stupiva della loro enorme varietà e peculiarità.La risposta a tale interrogativo era nascosta nella complessità delle combinazioni: una catena proteica composta anche solo di venti elementi può avere 20 elevato alla ventesima potenza composizioni diverse: un numero di quasi trenta cifre, ovvero miliardi di miliardi di miliardi! Il numero aumenta poi considerevolmente se si considera che ogni catena proteica può ripiegarsi e avvolgersi su se stessa in maniera del tutto peculiare, e che può combinarsi produttivamente con altre catene proteiche. Con una combinazione lineare di aminoacidi, dicevamo, si può mettere insieme una quantità enorme di proteine diverse in grado di assolvere a compiti differenti, alcuni strutturali, altri enzimatici. Le proteine strutturali compongono materialmente le diverse parti del nostro corpo: ossa, tendini, muscoli, pelle, ghiandole eccetera. Quelle che svolgono un'attività enzimatica rendono possibili le miriadi dì reazioni biochimiche che hanno luogo in ogni struttura del nostro corpo, dalla respirazione cellulare alla sintesi delle proteine stesse, dalla digestione alla produzione di energia locale per far muovere i nostri muscoli. Le proteine insomma sono il nostro corpo e la loro disposizione e funzione sono d'importanza cruciale. Per questo motivo è essenziale preoccuparsi della precisione della loro sintesi: la successione lineare degli aminoacidi che compongono una determinata proteina è specificata aminoacido per aminoacido dalla sequenza nucleotidica del DNA del corrispondente gene, lineare anch'esso. Ciò avviene, notoriamente, grazie a un altro «colpo di teatro»: ogni aminoacido è specificato da un gruppetto di tre nucleotidi contigui, chiamato colloquialmente «tripletta». Vale a dire che ogni tripletta di nucleotidi contigui presenti nel gene specifica un particolare aminoacido. Alla terna di nucleotidi ATG, per esempio, corrisponde l'aminoacido metionina; alla terna CCC corrisponde la prolina eccetera. Trecento nucleotidi specificano una sequenza di cento aminoacidi e novecento nucleotidi ne specificano una di trecento, che è poi la lunghezza media di una proteina. La tabellina di sessantaquattro caselle che fa corrispondere a ogni determinata tripletta di nucleotidi uno specifico aminoacido viene definita «codice genetico» (si veda p. 28). Il lettore attento si chiederà come sia possibile far corrispondere sessantaquattro triplette a venti aminoacidi. Un'occhiata alla tabellina e il mistero è presto risolto: ogni tripletta specifica un solo aminoacido, il quale, però, può essere indicato da più di una tripletta. La metionina e il triptofano sono specificati da un'unica tripletta ciascuno, ma la serina per esempio da sei diverse triplette e la prolina da quattro. Questa particolarità del codice genetico non genera alcuna confusione o ambiguità, e anzi protegge la composizione delle proteine da possibili errori genetici: se infatti la tripletta CCC si trasforma per errore nella tripletta CCA non succede niente d'irreparabile, perché entrambe fanno riferimento allo stesso aminoacido, la prolina. Per questa sua particolarità si dice che il codice genetico è «degenerato», senza che all'aggettivo in questione venga data una connotazione negativa. La linearità delle proteine è quindi essenziale anche per la loro sintesi, un processo che non può permettersi errori. Grazie alla sua struttura lineare e ripetitiva la macromolecola del DNA può veicolare un vero e proprio messaggio, come fa un qualsiasi testo letterario. Con le lettere dell'alfabeto sistemate nel dovuto ordine si può comporre un'infinità di testi, veicolanti ciascuno la sua informazione. Nel complesso, quindi, il DNA contenuto nella cellula rappresenta un gigantesco volume, e trasmette un gran numero di messaggi significativi. Per ogni molecola chimica è fondamentale la composizione atomica; per le macromolecole, soprattutto per il DNA, più di questa però conta l'ordine dei componenti elementari, per esempio i nucleotidi, che lo costituiscono per la loro funzione squisitamente informativa: il DNA funziona e porta informazione allo stesso tempo. | << | < | > | >> |Pagina 47I tre parametri fondamentali Tutti gli eventi del mondo, animato e inanimato, possono essere descritti in termini di tre parametri fisici fondamentali: materia, energia e informazione. Il primo, quello noto da sempre, è la materia, che si può toccare e se ne può saggiare direttamente il peso, la consistenza o la durezza. L'antichità la contrappose allo spirito, battezzandola a suo tempo res extensa, distinta dalla res cogitans, ignorando così ogni altro aspetto della realtà fìsica, al punto di definire materialista chi si rifiutava di prendere seriamente in considerazione lati diversi del reale. Il materialismo è ritenuto la convinzione per cui si analizza solo ciò che risulta concreto e tangibile, lasciando fuori quanto può esistere di non concreto e che può essere rappresentato dallo spirito in qualsiasi sua forma. In realtà oggi del materialismo come lo si concepiva classicamente è rimasto molto poco. In primo luogo si è scoperto che tutta la consistenza, la resistenza, la durezza della materia è più apparenza che realtà, perché gli oggetti materiali sono composti di molecole, queste di atomi e gli atomi, a loro volta, racchiudono dentro di sé una grande quantità di vuoto. La materia, in qualunque sua forma - solida, liquida, gassosa o, a elevatissime temperature, sotto forma di plasma -, è molto diversa dal concetto classico che se ne aveva fino a cento anni fa. Per cosi dire, la materia ci si è sgretolata tra le mani; ma un colpo ancora più duro a tale teoria è stato incassato qualche decennio fa, quando si è scoperto che tutta la materia che noi conosciamo non rappresenta altro che un 3-4 per cento della materia totale dell'universo. Se vogliamo capire il modo in cui l'universo si comporta e si evolve, dobbiamo supporre che esista un altro 96 per cento di materia - che chiamiamo ancora cosi in mancanza di un termine migliore - invisibile o oscura. Senza materia nulla esiste, eppure essa da sola non si muove né vive. Occorre tirare in ballo un secondo parametro che è appunto quello dell'energia. L'energìa, che è stata prima intuita e poi studiata tra la fine del Settecento e gli inizi dell'Ottocento, è la capacità di compiere lavoro. Quasi tutti gli eventi di questo mondo sono energia che si trasforma in movimento, che è la forma più tangibile dell'effetto di un lavoro. Ma anche un corpo in movimento possiede una sua energia, come si può osservare dalle conseguenze che produce quando si ferma più o meno bruscamente. L'energia meccanica può passare da uno stato all'altro, ma essa non è l'unica forma. Anche il calore per esempio si può trasformare in lavoro, secondo leggi di eccezionale rilevanza per quello che diremo più avanti, chiamate Primo e Secondo principio della termodinamica. Il Primo principio afferma appunto che l'energia può passare da lavoro a calore senza perdite, mentre il Secondo dice che mentre tutto il lavoro può essere trasformato in calore, non tutto il calore a disposizione può essere trasformato in lavoro meccanico: una certa frazione deve necessariamente rimanere sotto forma di calore, anche se a temperatura più bassa. Questo si può osservare quotidianamente, per esempio, nel motore di un'auto: il calore generato dalla combustione della benzina non si può trasformare tutto in lavoro, cioè in movimento, ma una parte deve restare sotto forma di calore irradiato dal motore e dal tubo di scappamento. Se così non fosse, consumeremmo tutti molto meno carburante; invece ogni motore termico ha un rendimento inferiore al 100 per cento. L'energia si conserva e si può solo trasformare, ma in questo passaggio ha una dirczione preferita: spontaneamente ama andare da una forma di più alta qualità a una di qualità minore. Per designare tale fenomeno si dice che l'energia tende a degradarsi o degenerare, sempre e comunque. La qualità dell'energia termica è correlata alla temperatura: più alta è la temperatura, più alta è la qualità. Ciò significa che spontaneamente l'energia passa da una temperatura superiore a una inferiore. La temperatura è a sua volta una misura del grado di agitazione delle molecole all'interno della materia. Si tratta di un concetto molto preciso e concreto, una grandezza che si misura come tutti sanno con i termometri. Questo passaggio spontaneo dell'energia da uno stato ad alta temperatura a uno a bassa temperatura lo possiamo verificare di continuo nel quotidiano. Se si posiziona una barretta di ghiaccio accanto a una pentola d'acqua calda, il liquido si raffredderà e la barretta si scalderà, finendo per sciogliersi. Non succederà mai il contrario, ovvero che la pentola si scaldi e il ghiaccio si raffreddi ulteriormente. | << | < | > | >> |Pagina 97Dai geni al genoma Nel capitolo precedente abbiamo visto come si replicano i geni e come trasferiscono la loro informazione; adesso è arrivato il momento di parlare del genoma nella sua essenza. Per prima cosa è necessaria una precisazione storica: sono stati scoperti innanzitutto i geni e, molto dopo, il genoma, che ha assunto inizialmente il significato del complesso dei geni di un organismo. Fino a dieci anni fa il genoma era appunto l'insieme dei geni presenti in un determinato organismo, all'interno di ciascuna delle sue cellule. Poi è stata tentata l'impresa, davvero titanica, di determinare la sequenza nucleotidica di interi genomi - di batteri semplici, di piante semplici e di animali via via più complessi fino all'uomo - tanto che attualmente abbiamo a disposizione una grande ricchezza di dati che riguardano molte specie diverse. Il genoma è diventato allora il punto cardine della genetica e della trasmissione dei caratteri ereditari. Sarebbe ridicolo oggi parlare del genoma come dell'insieme di tutti i geni; conviene piuttosto considerarlo nella sua interezza come un dato primario, all'interno del quale si può trovare questo o quel gene, perché in realtà di padre in figlio non si trasmettono i singoli geni bensì l'intero genoma. Che cos'è il genoma? È l'insieme, abbiamo visto, delle istruzioni biologiche necessarie e sufficienti per far nascere, crescere, sviluppare e, al momento opportuno, riprodurre un essere vivente. Vale la pena ripetere ancora una volta che, dal punto di vista astratto, il genoma è quindi un gigantesco testo che reca le istruzioni per la vita. Infatti anch'esso ha l'articolazione in lettere dell'alfabeto, è lineare, e suddiviso in capitoli separati. È quindi conveniente considerare piuttosto i geni come capitoli di questo gigantesco testo. Ma tutti sanno ormai che non è cosi semplice, perché sembra che abbiamo molto più DNA del necessario. Se si definisce un gene come quel tratto di DNA o di genoma - che è la stessa cosa - necessario e sufficiente a specificare la struttura di una determinata proteìna, allora si vede che, messi tutti insieme, i geni non occupano più di un 30 per cento del DNA del genoma. Ciò vuol dire che esiste un 70 per cento del genoma che non è fatto di geni. Questo si sa da tempo e poiché riesce difficile immaginare che ci sia qualcosa di biologico senza una funzione precisa, ci si è arrovellati per capire a che cosa potesse servire, fino al punto in cui qualcuno ha sentenziato che non serve a niente, e lo ha soprannominato addirittura «DNA spazzatura». Altri affermano inoltre che i geni veri e propri occupano solo un 3-4 per cento della sequenza del genoma. Perché ci si è accorti appunto che un 3 per cento della sequenza del nostro genoma è sufficiente a specificare la struttura di tutte le proteine presenti nel corpo. E in effetti le regioni direttamente codificanti le proteine non sono più di un trentesimo dell'intero genoma. Ma è altrettanto noto che una regione dieci volte più vasta è necessaria per la corretta attivazione di questi geni. Si arriva così a quel 30 per cento a cui abbiamo fatto riferimento. | << | < | > | >> |Pagina 147Non sarebbe sensato congedare l'argomento evoluzione senza fare cenno a un evento che ci riguarda molto da vicino e che è rappresentato dalla comparsa dell'uomo. Da un punto di vista astratto, potremmo dire che la fiamma della vita, dopo aver prodotto innumerevoli lingue di fuoco, ne ha creata una un po' speciale, che è stata capace di studiare tutto il resto, di concettualizzare e di dare i nomi alle cose. Non sappiamo se il mondo si è accorto di noi, ma il punto è che noi ci siamo accorti del mondo, qualunque cosa questo voglia dire. L'evoluzione si è ripiegata su se stessa divenendo riflessiva: la materia d'ora in poi può rispecchiare se stessa e cogliersi in un orizzonte di senso. Non è chiaro se il mondo sia conoscibile in sé, né se possa essere in qualche maniera contemplato a prescindere dalla presenza dell'uomo. Noi lo viviamo e lo contempliamo a modo nostro, mischiando un approccio oggettivo, nei limiti del possibile, con elementi soggettivi, percettivi e concettuali, alcuni dei quali memorizzabili e comunicabili con un linguaggio articolato del quale deteniamo il brevetto. Almeno dal nostro punto di vista, la comparsa della nostra specie ha una rilevanza tutta particolare e cambia completamente il quadro degli eventi. Ciò è tanto vero che non si sa più quale visuale adottare. Finora è stata adottata quella di una supermente astratta che osserva con distacco gli eventi che si sono succeduti sulla Terra dal momento della sua formazione. Questa ipotetica supermente però usa i concetti e le parole di una mente umana, anche se si avventura a descrivere cose che una mente umana non avrebbe mai potuto descrivere, nemmeno in linea di principio. Personalmente non vedo alternative a una tale procedura, per quanto teoricamente scorretta possa essere. Proprio adottando tale prospettiva non si può non notare che fra prima e dopo la comparsa dell'uomo il modo di raccontare le cose dovrebbe essere radicalmente diverso. Il punto è che non saprei come farlo. In aggiunta a ciò va detto che non è chiarissimo qual è il momento esatto in cui tutto è cambiato: con la comparsa del genere Homo, con la specie Homo sapiens, all'inizio della civiltà, all'inizio della storia o direttamente qui, oggi? Questa domanda, mi accorgo ora, mi offre uno spunto di riflessione senza pari. La storia dell'uomo non è molto lunga; probabilmente l'ultimo anello di congiunzione con i primati superiori non umani è vissuto circa sette-otto milioni di anni fa. Dopo le storie hanno preso due strade separate. I primati non umani hanno dato luogo ai gorilla, agli orangutan, agli scimpanzè e ai bonobo, mentre per quanto riguarda la nostra propria linea evolutiva si è avuto in questi stessi anni un continuo succedersi di forme, molte delle quali, va notato, sono vissute in contemporanea - Homo sapiens, cioè il nostro antenato diretto, l'uomo di Neanderthal, l'uomo dì Denisova e forse Homo Floresiensis, il piccolo abitante dell'isola indonesiana di Flores, sono vissuti nello stesso periodo della storia del pianeta - esattamente come succede per tutte le altre forme viventi. Pensare alla vita come a un albero, col suo tronco principale, rami grandi e rami più piccoli, è una rappresentazione settecentesca un po' semplicistica. Le diverse specie fra loro affini compaiono quasi nello stesso momento, offrendoci un aspetto più simile a un albero con le ultime propaggini di natura cespugliosa. Non è questo il luogo per parlare nel dettaglio della comparsa dell'uomo, ma possiamo dire che una dì queste specie, quella che doveva diventare Homo sapiens, già due milioni e quattrocentomila anni fa progettò e usò un primo rudimentale strumento, cioè un oggetto di natura, più o meno modificato, adoperato consapevolmente per compiere una funzione in vista di uno scopo. Si tratta semplicemente di una pietra appena scheggiata, difficile da distinguere da un'altra che avesse subito una serie similare di modificazioni spontanee e casuali, ma costituisce ciononostante la testimonianza di un evento capitale. Dimostra la capacità di quegli ominidi di vedere al di là della superfìcie delle cose, la loro inclinazione di fondo a guardare il mondo da un punto di vista diverso, non ovvio, ripromettendosi eventualmente di cambiarlo.
L'evoluzione biologica è stata una continua modificazione
dello status quo e un'ininterrotta elaborazione di dati
esistenti, di eventi, di processi e di strutture, ma il
tutto è accaduto in maniera inconsapevole. Anche nel caso
dell'uomo naturalmente l'evoluzione biologica continua — non
potrebbe essere altrimenti - ma si innesta su di essa un
nuovo tipo che noi chiamiamo evoluzione culturale, che fa sì
che ciascuno di noi non debba ripartire sempre da zero,
perché si trova a disposizione fin dalla nascita
un'eccezionale ricchezza di conoscenze strumentali e
concettuali che è stata accumulata nei secoli e che va
continuamente aumentando.
|