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| << | < | > | >> |IndicePremessa. Perché dobbiamo riscoprire cosa vuol dire «umano»? 7 I. Di cose naturali e umane 17 II. Intelligenza e linguaggio 39 III. Essere e dover essere 65 IV. Cosa vuol dire non essere umano 89 V. Pericoli 111 VI. È la scontentezza che ci rende umani? 131 Conclusioni 145 Bibliografia essenziale 151 |
| << | < | > | >> |Pagina 7Solo un essere umano può porsi la domanda su che cosa significhi essere umano. Anche perché è scontento. E potremmo finirla qui. Ma noi non lo faremo. Riscoprire cosa vuol dire «umano» oggi è, infatti, un percorso importante da compiere perché un termine così essenziale come «umano» ha probabilmente bisogno di un aggiornato approfondimento e una continua ridefinizione, come del resto le altre parole di questa collana. Essere umano significa prima di ogni altra cosa conversare, nella doppia accezione di poterlo fare e di essere disposti a farlo. Conversare di tutto con tutti, compreso con sé stessi. Allontanandosi dal conversare si va incontro all'impuntarsi, all'alzare la voce e a divenire via via più violenti in un crescendo di sconvenienze, a rischio magari di abbandonarsi alla più insulsa retorica. Meglio conversare. | << | < | > | >> |Pagina 17Noi, umani, siamo materia. Siamo materia vivente, certo: esseri viventi che reagiscono in ogni istante alle sollecitazioni dell'ambiente, ma comunque materia, e per la precisione materia organica. Siamo parte di quella che noi stessi chiamiamo «natura», termine che adoperiamo continuamente in contesti e significati molteplici, ed è dunque fondamentale, prima di affrontare il concetto di umano, definire quello più ampio di natura, da cui tutto il resto dipende. | << | < | > | >> |Pagina 37Voglio concludere questo capitolo con un'osservazione di carattere generale. Secondo questa ricostruzione, diverse nostre caratteristiche, dall'esistenza dell'amore romantico alla particolare resistenza nella corsa, discendono da un unico fatto: il rallentamento dello sviluppo del nostro cervello, che abbiamo chiamato fetalizzazione, conseguenza a sua volta della sua eccezionale crescita di dimensioni. Verrebbe da credere allora che queste cose siano state causate direttamente dalla fetalizzazione. In parte è vero, ma non è tutta la storia. Il rallentamento dello sviluppo del nostro cervello come í nostri tratti caratteristici a esso associati sono a loro volta causati da qualcosa di altro, un cambiamento genetico per esempio, anche se al momento non sappiamo quale.| << | < | > | >> |Pagina 39È fin troppo evidente, tuttavia, che al sommo di tutto quanto descritto finora stanno due altre nostre facoltà delle quali andiamo molto fieri e alle quali negli anni sono stati dedicati fiumi di inchiostro: quella che noi chiamiamo intelligenza, cioè spiccata intelligenza, e il linguaggio. Cos'è l'intelligenza? Noi chiamiamo intelligenza un certo numero di capacità intellettuali diverse, tra le quali quella di trovare nessi tra cose che sembrano non averne; estrapolare e generalizzare partendo dall'osservazione di pochi elementi; trarre le conclusioni giuste da una serie di premesse e la capacità di risolvere problemi concreti. | << | < | > | >> |Pagina 49[...] abbiamo un cervello abbastanza grande per vedere tante cose, ma non abbastanza per affrontarle tutte con successo. Questo dà l'impressione che i conti non tornino. O che siamo noi che non li sappiamo fare tornare. L'impressione, confermata di giorno in giorno, rappresenta un po' la base di partenza del nostro rammarico, quando avvertiamo un rammarico, ma anche il filo conduttore di una o più possibili spiegazioni del perché il possesso di un cervello di prim'ordine possa rivelarsi anche un problema.Prima possibile spiegazione: nessuno ha mai avuto il nostro cervello e quindi non possiamo sapere cosa questo possa comportare per qualcuno o qualcosa di diverso da noi. Questa risposta è meno banale di quanto possa sembrare. Non solo non c'è nessuno con il nostro cervello, ma non c'è neppure qualcuno che ci racconti come si sente. Per far capire questo un filosofo si è dovuto chiedere: «Che cosa si prova a essere un pipistrello?». Una domanda ad effetto. Non è necessario andare così lontano. Non posso nemmeno sapere cosa si prova a essere mio fratello o mio figlio. Questo la dice già lunga su che cosa possa voler dire essere umano: essere assolutamente solo. | << | < | > | >> |Pagina 54Come nel caso del possesso della coscienza, siamo contenti di avere il linguaggio, ma non è chiarissimo se e quanto questo sia veramente utile. Non abbiamo tirato in ballo la coscienza a caso. Coscienza e linguaggio sono strettamente associati, non fosse altro perché il linguaggio rappresenta la via regia alla coscienza, che non può essere praticamente sondata in nessun altro modo. Abbiamo detto «sondata», non «avvertita» o «vissuta», ovviamente. Sarebbe molto difficile dire qualcosa della coscienza senza l'uso del linguaggio, ma questo non ci sorprende perché sono veramente tante le cose che non potremmo fare senza il linguaggio. Se si prescinde dal fatto che occorra l'udito per sentirlo o la vista (o il tatto) per leggerlo, il linguaggio si muove tutto sul piano del simbolico. Con la sua obbligata natura di aggancio e di scelta casuale concordata. E ovviamente ricordata. Senza memoria infatti non ci può essere linguaggio. E non una memoria qualsiasi, ma una memoria con una sua particolare strutturazione.[...] Coscienza e linguaggio rappresentano un po' un primo nocciolo della nostra vera natura. In questa luce più che uno scimmione intelligente, l'uomo potrebbe essere definito uno scimmione che parla, anzi, che si parla (per dirla con Felice Cimatti ). Essenzialmente per autorimproverarsi e rammaricarsi, aggiungerei io. D'altra parte nel mondo attuale autorimproverarsi è l'unica maniera accettata di rammaricarsi. | << | < | > | >> |Pagina 61[...] Data la nostra inclinazione a spiegare tutto, l'idea dell'esistenza di fondamenti aiuta a inquadrare i fenomeni più diversi.Quando le realtà ultime di cui stiamo parlando sono viste come una sorta di esseri viventi capaci di prendere decisioni, si arriva direttamente a quella visione del mondo che prende il nome di «animismo». Questa visione, presente un po' dappertutto nella storia dei popoli immagina che il mondo letteralmente pulluli di realtà viventi alle quali viene attribuita qualità divina o soprannaturale. Questa visione è priva di fondamento, ma può sicuramente aiutarci a rispondere a tante nostre domande. Un po' diversa dall'animismo ma sostanzialmente affine è la visione che ha portato a riempire il nostro corpo, e in particolare la nostra testa, di condòmini. Sto parlando di anima, spirito, Io, SuperIo, Inconscio, per non parlare di Cuore con la maiuscola. Da questo punto di vista posso anche arrivare a capire chi dice: «Conosci te stesso!». | << | < | > | >> |Pagina 85La tendenza tutta umana di cercare spiegazioni, infine, ci porta più frequentemente di quanto fosse opportuno alla ricerca ed elaborazione di alcune finalità. La finalità non esiste in natura anche se noi a volte diciamo che il rene serve a filtrare l'urina, ma diventa una realtà quando uno ne è più o meno consapevole. Tutti i popoli, anche i più primitivi o supposti tali, hanno l'idea di finalità, come pure l'idea di causa. Causa e finalità non sono la stessa cosa, ma sono due strumenti intellettuali della stessa importanza che permettono a noi esseri umani - ma non solo a noi - di «dominare» il mondo circostante. Tutto questo discorso porta a dire che sembra proprio che ci sia in noi una rappresentazione del mondo anche se una prova inconfutabile non la potremo mai avere.Quindi noi siamo materia, siamo esseri viventi, ed esseri viventi con rappresentazione o, per lo meno, una capacità di rappresentazione del mondo esterno che li agevola nella loro opera di rispondergli a tono. Non siamo sicuri che l'uomo abbia questa rappresentazione, nonostante secoli di filosofia ce lo stiano assicurando, però è l'ipotesi meno sconveniente che si conosca per descrivere come ci comportiamo. La rappresentazione porta con sé, anche se non capiamo bene come, il concetto di finalità e quello di spiegazione. [...] L'uomo è invece un modificatore del mondo, di molti animali e ovviamente anche di sé stesso. Del resto, ci ricorda Hannah Arendt che
Il fatto che l'uomo sia capace d'azione significa che da lui ci si può
attendere l'inatteso, che è in grado di compiere ciò che è infinitamente
improbabile. E ciò è possibile solo perché ogni uomo è unico e con la nascita di
ciascuno viene al mondo qualcosa di nuovo nella sua unicità.
Ma noi, noi uomini, vista la nostra almeno doppia natura, dove ci collochiamo? Amiamo la profondità e lo scavo così che abitiamo un qualcosa di simile a una voragine o a un abisso, ma ne frequentiamo solo la superficie, un po' come ebbe a dire una volta Italo Calvino. | << | < | > | >> |Pagina 91Le due cultureUno dei primi assi, ma la scelta è totalmente arbitraria, è quello tra scienze naturali e scienze umane. Questo argomento mette a confronto due punti di vista che purtroppo nella realtà vengono spesso violentemente contrapposti. Da una parte ci sono gli scienziati, o quelli che capiscono di scienza e la coltivano, dall'altra c'è l'insieme dei dotti che, senza necessariamente disprezzare le scienze, danno valore o più valore alla cosiddetta cultura umanistica che in inglese si chiama humanities. Questa comprende naturalmente la storia, la filosofia, le letterature, le arti e così via. È ovvio che non c'è nessuna contrapposizione tra le due cose tuttavia è altrettanto ovvio che molti ne parlino. Il maggior contrasto secondo me sul concetto di essere umano è il peso specifico o relativo che devono avere l'una o l'altra, senza negarne nessuna. Il mio punto di vista è che vadano coltivate entrambe, se possibile contemporaneamente e con la stessa estensione, se non occorra addirittura fare uno sforzo, duro ma che ripaga certamente, per vedere il lato artistico nelle scienze e quello scientifico nelle arti. Il problema serio viene in parte dall'uso disinvolto che si fa della parola «umanesimo». L'umanesimo, almeno in Italia, è un'epoca storico-letteraria che include buona parte del Quattrocento e tutto il Cinquecento, nella quale l'umanità per così dire si risveglia dal clima medievale e si mette a occuparsi di cose di cui precedentemente si era occupata poco e tutto corrisponde a un risveglio di molte attività incluse quelle commerciali, delle feste, dei viaggi e così via. Quindi quando si usa la parola «umanesimo» come sinonimo di humanities si commette un arbitrio, un arbitrio che è ben difficile far capire non foss'altro che per ragioni di assonanza. E un'assonanza ancora più fuorviante è quella tra umanesimo e umano. L'umanesimo storicamente è stato sì una rivalutazione della storia, della filosofia, delle arti, ma è stato anche un'apertura al mondo che poi diventerà della scienza. A parte il termine «umanesimo» che se fosse possibile dovremmo evitare, ma ho l'impressione che non ce la si faccia, il messaggio di questo discorso è semplice: meglio occuparsi di entrambe le culture, dando a entrambe un giusto peso. Da una parte non ci sono «vili meccanici» che si occupano solo del funzionamento delle cose, dall'altra non ci sono solo «dotti distaccati» dalla vita che sottolineano il bello e l'armonico del mondo. L'espressione «due culture» è stata coniata nel secolo scorso dall'inglese Edgar Snow , che fece notare che ci sono persone che hanno problemi con i logaritmi e ci sono persone che hanno problemi con la Divina Commedia. La maggior parte di chi si esprime in proposito, è di tendenza favorevole alle humanities e che lo si voglia ammettere o meno è più facile avere un debole per le lettere che per la matematica e le scienze. Quello che possiamo dire con certezza è che ci sono due ignoranze, l'ignoranza troppo letteraria e l'ignoranza troppo scientifica, ma non possiamo parlare di due culture, in realtà l'essere umano è quello che è proprio perché si ritrova in entrambi gli aspetti. Quindi due sono le ignoranze ma non le culture. | << | < | > | >> |Pagina 95Uno degli autori più profondi che si sono occupati della storia della civiltà umana, Ian Tattersall , si è chiesto in un suo aureo libretto come mai il cervello umano in due milioni di anni si sia triplicato, sotto quale spinta. Il suo verdetto è duplice: sotto la spinta delle necessità strumentali, cioè pratiche, ma anche delle necessità sociali. Le necessità strumentali le hanno sempre avute chiare tutti perché noi esseri umani siamo animali che sanno fare le cose, sanno costruire le cose e sempre più raffinate e dettagliate, un pochino più difficile potrebbe sembrare capire perché ci è voluta un'abilità sociale. Il problema è che gli animali, come abbiamo già visto, comunicano. Alcune specie animali hanno una socialità più evoluta basata essenzialmente sulla genetica, cioè sul fatto che i parenti condividono una bella fetta del loro patrimonio genetico.Noi esseri umani abbiamo una socialità di alto livello, non basata sulla genetica quanto essenzialmente su una serie di trucchi che abbiamo imparato in tutti questi anni per capire l'altro e per farci capire dall'altro (o per non farci capire dall'altro). Vivere in società richiede notevoli capacità. Questo corrisponde a quello che abbiamo appena detto, perché se ha ragione Tattersall, e io di controproposte valide non ne conosco, noi abbiamo badato, nella nostra storia recente, sia all'abilità tecnica che alla capacità di vivere in società. | << | < | > | >> |Pagina 140Un contrasto irrisolvibileIl fondo secondo me della nostra scontentezza è ancora nel contrasto natura-cultura , in quello che noi abbiamo chiamato contrasto tra valori medi e valori estremi. La natura ha la sua logica, segue i suoi principi (anche se non esiste nessuna Signora Natura o Società Natura, però per parlarne è necessaria una simile antropomorfizzazione, da non prendere troppo sul serio). Anche noi siamo esseri di natura sui quali da tanti secoli si è posata una verniciatura di sociale e di culturale. Anche gli studiosi di teoria dell'evoluzione, in particolare di teoria sociale dell'evoluzione o di teoria psicologica dell'evoluzione - che per altro non sono tanto ben visti - hanno difficoltà a sposare, ad accettare e a condividere le idee della natura, prima fra tutte quella - cui abbiamo già accennato - di abbandonare i vecchi e i malati perché biologicamente sono un fastidio, mentre per noi - giustamente - sono esseri umani come gli altri, a volte addirittura più di altri. Per i bambini questo problema non si pone perché senza bambini non ci sono adulti, però anche su questo tema noi ci mettiamo del nostro. Quindi nessuno ci garantisce che il modo con cui ha ragionato - adesso non diciamo più la natura, ma la forza che ha forgiato gli animali e le piante - sia in sintonia con il nostro modo di pensare, però di fatto noi ce lo aspetteremmo. Soprattutto in Occidente, ma credo in tutto il mondo, noi apprezziamo il più o il meno, apprezziamo il molto di più o il molto di meno. Il discorso che abbiamo fatto sull'intelligenza è tipico: noi apprezziamo persone molto intelligenti, si può dire anche molto sveglie, molto vispe, ognuno ha un termine suo. E tutto questo spesso lo associamo al concetto di merito: ha più merito chi ha più doti, senza renderci conto del fatto che questa affermazione è tremendamente ingiusta perché se uno le doti non ce le ha non è colpa sua come se uno le doti ce le ha non è merito suo. Ma noi ragioniamo in questa maniera e non sarà domani che questo cambierà.
Questo contrasto tra una preferenza per i
risultati medi e una preferenza per i risultati
estremi è secondo me il nocciolo del contrasto che ci fa essere scontenti.
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