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| << | < | > | >> |IndiceIntroduzione. La mente che studia se stessa VII Parte prima - L'alba Si parte da zero 4 Un cervello gravemente immaturo alla nascita: «hardware» e «software» al lavoro 10 Un clamoroso «effetto collaterale» della neotenìa: l'amore romantico 18 Due ormoni «galeotti» 33 Come si forma il cervello 36 Una piccola spugna: i primi apprendimenti 46 Il riconoscimento dei volti 58 Il riconoscimento di sé 62 I primi ricordi 66 Parte seconda - Lo zenit Il funzionamento del cervello e le moderne neuroscienze 72 Informazione e comunicazione 84 La percezione, ovvero come funzionano i sensi 88 La memoria 103 La sfera emotiva 107 Le motivazioni primarie e il dolore 111 Le emozioni 118 Irrazionalità e razionalità limitata 133 La coscienza: «la madre di tutti i problemi» 138 L'origine storica della nostra coscienza 142 Un modello analogico della coscienza 147 Conscio e inconscio 154 Coscienza e razionalità 158 Coscienza e volontà... e libertà 162 Io e la mia coscienza (fenomenica?) 165 Parte terza - Il tramonto Invecchiare nel corpo (e nella mente?) 170 Vivere più a lungo... 183 La qualità della vita e le nuove frontiere: trapianti, staminali, «fabbriche di tessuti» 186 Uno sguardo «oltre la siepe»: futuro o futuribile? 204 |
| << | < | > | >> |Pagina VIIChiamiamo «mente» tutto quanto accade nella nostra testa, ma anche quel che di ciò percepiamo. I due processi non necessariamente coincidono: c'è il momento dell'accadere e quello del percepire. Ma per noi essi sono inscindibili: la presa di coscienza diretta e l'introspezione non sono in grado, infatti, di distinguere i due eventi, ed è soltanto attraverso l'osservazione e lo studio degli altri e degli animali a noi più vicini che si è compreso che si tratta di due momenti diversi. Questa constatazione introduce un altro elemento fondamentale nella vita della mente e nella sua analisi. Tutte le cose del mondo possono essere studiate esclusivamente osservandole dall'esterno, magari smontandole e poi ricomponendo i vari elementi. Anche la mente, soprattutto quella degli altri. Ma se parliamo della nostra mente, e in particolare del suo studio, abbiamo a disposizione una seconda opzione, che ne rivela la assoluta singolarità rispetto a tutti gli altri oggetti del creato: la mente può essere osservata — e vissuta — sia dall'esterno che dall'interno.
Il fatto che soltanto la propria mente possa essere studiata
dall'interno non altera il quadro: molto di ciò che accade nella
nostra mente accade anche in quella degli altri, e non si tratta soltanto di una
sensazione: una delle nostre funzioni mentali innate
è la cosiddetta «Teoria della mente», espressione che designa la
capacità di ciascuno di noi di rappresentarsi, sia pure approssimativamente,
quello che succede nella mente di un altro. Si tratta di una funzione istintiva
fondamentale — presente anche negli
animali superiori — che ci permette di fatto di sopravvivere, immaginando e
anticipando i pensieri e i comportamenti degli altri,
immedesimandoci in essi, o almeno in alcuni dei loro processi
mentali: processi mentali che non possono pertanto che appartenere anche a
ognuno di noi. È dunque più che lecito assumere
che la propria mente e quella degli altri funzionino allo stesso
modo e che ciò comporti pensieri e stati d'animo molto simili, se
non identici.
Per la mente – e solo per la mente – esistono dunque due vie d'accesso. Fino a poco tempo fa la via «dall'esterno» aveva prodotto scarsi risultati, sicché era convinzione diffusa – e per molti lo è tuttora – che le uniche metodiche efficaci per studiare la mente fossero l'introspezione, la psicologia, e magari la psicoanalisi. Recentemente le cose sono cambiate. Grazie al progresso delle scienze sperimentali e a un certo ri-orientamento della riflessione teorica sulla mente, abbiamo acquisito una mole notevole di conoscenze sul cervello, sulla mente e sulla psiche, che ci hanno consentito di sviluppare nuove tecniche e metodiche di indagine «dall'esterno», accanto allo studio introspettivo e più squisitamente psicologico: sono nate così le neuroscienze.
Con questo non voglio assolutamente dire che sul funzionamento del cervello
e della mente sappiamo tutto. Sono ancora
molte le cose che non conosciamo e sulle quali vorremmo saperne
di più, ma negli ultimi trenta o quarant'anni abbiamo imparato
parecchio, al punto che sembra quasi impossibile aver realizzato
tante scoperte in così poco tempo. Lo studio della mente ha acquistato un altro
respiro e oggi possiamo finalmente affiancare quanto abbiamo appreso
osservandola dall'esterno a quanto nei secoli
si è capito – o si è creduto di capire – studiandola dall'interno. Per
la prima volta possiamo parlare di mente e di cervello in termini
scientifici, o quasi, senza limitarsi alla narrazione psicologica o,
peggio, psicologistica.
In questo libro cerco di ricostruire la vita della mente, vista nella sua evoluzione temporale, analizzando separatamente – per quanto è possibile – la fase dello sviluppo, quella della maturità e quella ancora successiva della vita; una fase, quest'ultima, di cui prima si sapeva assai poco e alla quale si prestava scarsa attenzione, ma che oggi è diventata sempre più importante, stante il notevole allungamento della vita media registrato negli ultimi anni e in quanto parte di un processo che ha tutta l'aria di continuare ancora a lungo. Nel corso del libro vedremo che il cervello del bambino non è quello dell'adulto, e questo – a sua volta – non è sempre quello dell'anziano. I tratti fondamentali rimangono, ovviamente, sempre gli stessi, ma alcune caratteristiche evolvono, prima maturando e consolidandosi, poi decadendo progressivamente, con una velocità che non è fissata inderogabilmente dalla natura, che può essere molto diversa da individuo a individuo, e che è suscettibile di modulazione a opera di interventi esterni. | << | < | > | >> |Pagina 4Nessuno nasce adulto, anche se per molti aspetti tendiamo a pensare di esserlo sempre stati, riservando ai bambini tutt'al più la considerazione di adulti in miniatura. Non è così, ed è difficile concepire un'affermazione più errata. La fase infantile, infatti, è ancor più ricca di eventi di importanza cruciale sia nel nostro corpo sia nella nostra mente. Il periodo di formazione e di strutturazione è fondante, sia in senso puramente materiale che in senso più filosofico. Senza il bambino, l'adulto non ci sarebbe; una mancata evoluzione della fase infantile avrebbe conseguenze catastrofiche per alcuni aspetti chiave della percezione, dell'ideazione e dell'espressione. Quasi tutto quel che conosciamo di noi, riguardo al corpo e alla mente, si riferisce all'individuo adulto o quasi adulto. La nostra maggiore conoscenza della fase adulta ci porta a sottovalutare gli eventi che hanno luogo nelle fasi precedenti, a considerare inevitabile e quasi automatico il raggiungimento dell'età adulta nel corpo e nella mente: occorre aspettare di crescere e basta. Al contrario, corpo e mente nascono entrambe da zero, anche se gli organi implicati sono ovviamente presenti fin dalla nascita e oggetto di continua evoluzione negli anni. Noi compiamo un lungo viaggio durante la nostra prima e seconda infanzia, un viaggio dai confini tutt'altro che chiari e dalla portata smisurata, un viaggio dal nulla al tutto, dall'incoscienza alla coscienza, dall'assenza di memoria alla sua acquisizione. Durante questo periodo si apprende un linguaggio e la mente si popola di parole, si affina la percezione e mille immagini cominciano ad affollare la nostra mente, cresce insensibilmente ma inesorabilmente la nostra capacità raziocinante ed entriamo in contatto con il mondo dell'umano, oltre che con quello della natura. I problemi che riguardano la mente e la sua connessione con il cervello si impongono con una evidenza tutta particolare negli anni della formazione. Se non sappiamo con esattezza che cosa voglia dire vedere, ricordare, immaginare e ragionare, tanto più ci troviamo in difficoltà nel ricostruire come tutto ciò nasca a poco a poco a partire dal nulla, dalla semplice presenza fisica di organi che sono lì dall'inizio, ma ancora palesemente immaturi e imperfetti. Può sembrare una questione di gradi e di entità, ma non è affatto così: il bambino non solo è meno consapevole, meno percettivo, meno pronto e con minori problemi di un adulto; è proprio un'altra cosa, almeno fino a una certa età. [...] Ricapitolando: nasciamo con tutti i neuroni, ma devono ancora accadere due cose fondamentali, ovvero si devono stabilire, e successivamente espandere, i contatti sinaptici che collegano i diversi neuroni e molti dei loro assoni devono rivestirsi di mielina. Questi due eventi fanno crescere il nostro cervello di ben quattro volte, in termini di dimensioni e di peso, nel periodo postnatale. Accade lo stesso per molte specie di animali, ma il fenomeno non è così vistoso come nella nostra specie. Ad esempio, nello scimpanzé, il nostro parente più prossimo, il cervello alla nascita è già il 70% di quello che sarà da adulto e in un paio d'anni la sua maturazione si completa. Il neonato della nostra specie risulta essere complessivamente molto più immaturo dei neonati delle altre specie: vedremo come ciò produca tutta una serie di conseguenze. Ma a cosa è dovuta questa differenza di tempi di maturazione? Durante l'evoluzione dei mammiferi superiori il cervello è andato continuamente aumentando di dimensioni e si è verificata una sua espansione notevole anche nel passaggio dai primi Australopitechi all' Homo sapiens, una crescita esplosiva articolata in due fasi che hanno visto ciascuna quasi il raddoppio della nostra capacità cranica. Cervello grande vuol dire scatola cranica grande, e questo può creare problemi al momento del parto, sia per il nascituro che per la madre. Se non voleva rinunciare ad un cervello di dimensioni considerevoli, la natura doveva escogitare un trucco per evitare che ogni parto si trasformasse per la nostra specie in una «roulette russa». Al tempo dei primi ominidi ha cominciato a rallentare lo sviluppo prenatale della loro testa, in modo che al momento del parto questa avesse sì dimensioni notevoli, ma non tali da costituire una seria minaccia. Questa tendenza è andata accentuandosi sempre più durante il tumultuoso processo evolutivo che ha portato all'uomo attuale, con il risultato che la nostra specie nasce con un cervello ancora non perfettamente sviluppato. In realtà è come se nascessimo con un bel po' di anticipo rispetto a quanto ci si potrebbe aspettare e mostrassimo alla nascita alcune caratteristiche tipiche dello stadio embrionale dei nostri «cugini» primati superiori: corpo privo di pelame, cranio rotondeggiante, mandibola retratta, dentatura e apparato digerente poco specializzati e uno sviluppo cerebrale marcatamente incompleto. Il fenomeno attraverso il quale può venire alla luce e arrivare a riprodursi un animale che ha mantenuto alcune caratteristiche embrionali prende, in biologia, il nome di neotenìa (o neotenizzazione o anche pedomorfosi). L'animale uomo mostra più che chiaramente queste caratteristiche, sicché nel caso specifico si parla anche di fetalizzazione. La neotenìa implica un certo numero di conseguenze che, personalmente, ritengo di capitale importanza per tutta la vita futura, sia sul piano della cognizione e dell'apprendimento, sia su quello dello sviluppo della nostra affettività. Ne prenderò in considerazione essenzialmente due: in primo luogo, i meccanismi che hanno favorito l'evoluzione culturale dell'uomo; in secondo luogo, la comparsa di quell'incredibile sentimento che è l'amore romantico. Né l'una né l'altro hanno alcun riscontro in altre specie, anche se di entrambi si possono osservare innumerevoli segni premonitori nelle specie a noi più vicine. Insieme al possesso di un linguaggio articolato, l'esistenza di un'evoluzione culturale e la capacità di innamorarsi caratterizzano in maniera unica i membri della nostra specie. | << | < | > | >> |Pagina 72Con il raggiungimento dell'età adulta si ha la piena utilizzazione del sistema nervoso e del cervello con tutte le sue facoltà, cui diamo nomi diversi, dalla percezione alla memoria, dalla ragione al sentimento, dall'immaginazione alla consapevolezza. Senza le incertezze dell'età precedente e i tentennamenti dell'età avanzata. È proprio questo il periodo in cui siamo portati a dimenticare l'esistenza di un sistema nervoso e di un cervello in azione, a credere che tutto sia naturale e a invocare l'esistenza di una mente, entità astratta sovramateriale che ci fa pensare, sperare e creare. È un po' come quando nel corpo tutto funziona al meglio e non ci accorgiamo della presenza di ossa o muscoli, presenza che si evidenzia invece quando avvertiamo un doloretto qui e uno strappo o una contusione là. Ma si tratta di un'impressione errata. Anche quando tutto funziona perfettamente e fila liscio, il cervello lavora e compie le sue funzioni, funzioni che affondano le loro radici in processi biologici specifici e coordinati. Su molti aspetti del funzionamento del cervello abbiamo di recente imparato tantissimo, soprattutto grazie a una scienza marcatamente multidisciplinare che prende vari nomi: neuroscienza, neuroscienze, neuroscienze cognitive o anche, per alcuni, scienze cognitive. Si danno oggi questi nomi a un complesso abbastanza vasto ed eterogeneo di metodologie e pratiche sperimentali che si ripromettono di comprendere i meccanismi di funzionamento del sistema nervoso e del cervello, con particolare riguardo per il cervello dell'uomo e le sue capacità cognitive. In questa scienza in rapida evoluzione sono confluite la neurologia, la neurofisiologia, la neurobiologia, la psicologia e alcuni settori dell'intelligenza artificiale e della linguistica, il tutto passato attraverso il vaglio di un'attenta riflessione antropologica e filosofica. A tutto ciò si è di recente aggiunta anche una parte relativamente nuova della riflessione economica, che prende il nome di psicologia della decisione o neuroeconomia. Come si vede, ce n'è per tutti i gusti, probabilmente perché si avverte, una volta tanto, l'angustia di etichette troppo rigide che suddividono il sapere e la ricerca in ambiti disciplinari chiusi e non comunicanti tra loro. Come che sia, abbiamo imparato più cose sul cervello e la sua attività negli ultimi cinque decenni che nei precedenti cinque millenni, anche se alcuni, soprattutto in Italia, non se ne sono ancora accorti. Il momento attuale è eccezionalmente favorevole. Perché? Perché si è realizzata una convergenza pressoché miracolosa di tre linee di ricerca sperimentali illuminate da una linea di ricerca teorica, convergenza che ha fatto germogliare quasi all'improvviso una serie di studi e che ha prodotto una serie di risultati degni di essere raccontati. La prima linea di ricerca è rappresentata dalla cosiddetta psicologia sperimentale. Se si vuole studiare l'essere umano, è necessario porgere delle domande e ascoltare le relative risposte, dobbiamo insomma metterlo alla prova. In parole povere, occorre uno studio psicologico. Il fatto è che la psicologia sperimentale è molto lenta: per arrivare a una qualche conclusione ci vogliono decine di anni; se fosse rimasta l'unica linea di ricerca, ci avrebbe fornito informazioni senz'altro preziose, ma saremmo ancora lì ad aspettare. Per fortuna, contemporaneamente si è registrata l'esplosione della biologia, soprattutto della genetica e della biologia molecolare e, un po' più tardi, della neurobiologia. Lo studio del sistema nervoso e, in particolare, del cervello sono d'altra parte fondamentali per la comprensione approfondita delle facoltà mentali e psichiche. In un caso come nell'altro, si tratta di scienze né nuove né inattese. La terza linea di ricerca, invece, non era assolutamente attesa. È una linea relativamente nuova e come sbocciata dal nulla: un regalo del cielo o, meglio, della fisica moderna. In inglese questo campo di ricerca si chiama brain imaging o neuroimaging, in francese si chiama neuroimagerie, in italiano non ha ancora un nome. Qualcuno parla di neuroimmagini, ma il termine rende poco l'idea. È comunque la più incisiva delle tre linee, quella che ha dato un vero e proprio scossone all'intero settore di indagine e gli ha impartito un'accelerazione inusitata. Parliamo della visualizzazione dell'attività cerebrale mediante l'uso di macchine, il cui nome è oggi a tutti familiare: tomografia ad emissione di positroni (PET), risonanza magnetica nucleare e funzionale (RMN e fMRI). Queste tecniche strumentali permettono di guardare dentro la testa di un essere umano vivo e vegeto, generalmente sano, mentre esegue un compito. Si tratta di un enorme passo avanti rispetto al passato, quando ci si doveva basare quasi invariabilmente sull'osservazione dei deficit cognitivi o comportamentali di individui portatori di lesioni cerebrali più o meno gravi, la cui entità poteva essere stabilita con precisione mediante specifiche analisi anatomiche post mortem. Queste diverse metodiche sono basate sul fatto che, quando un'area cerebrale è particolarmente impegnata in un compito, riceve una quantità di sangue maggiore rispetto al resto del corpo. Sia ben chiaro che il cervello è comunque irrorato dal sangue costantemente e capillarmente in ogni sua parte, e guai se così non fosse! È sufficiente, infatti, che una sua area ne rimanga priva per qualche secondo, a provocare la morte dei neuroni ivi presenti, che vengono persi per sempre. Quando una regione del cervello è particolarmente impegnata, vi è però un po' di sangue in più. La differenza è minima, ma rilevabile strumentalmente. Poiché tutte le immagini registrate con gli strumenti di cui abbiamo appena parlato vengono elaborate da un computer, è sufficiente che questo sottragga il segnale di fondo corrispondente all'irrorazione sanguigna media del cervello, al segnale proveniente da ogni regione, per osservare direttamente le aree che in quel momento ospitano un po' più di sangue delle altre. Chiunque abbia visto queste suggestive immagini, in bianco e nero o a colori, raffiguranti questa o quella regione del cervello «in azione», avrà notato come il sangue sembri essere presente fondamentalmente lì. Le aree così visualizzate sono in verità abbastanza grandi, sicché, allo stato attuale, ci indicano solo approssimativamente la regione implicata, ma le tecniche vanno migliorando di giorno in giorno. In sostanza, tutto è basato sull'afflusso differenziato di sangue in determinate regioni cerebrali. Naturalmente, è stato necessario assicurarsi che il metodo fosse affidabile, sicché risultati e conclusioni sono stati confrontati con quelli già acquisiti per altra via. Si è verificato, per fare un esempio, che quando il soggetto parla si attiva una specifica regione temporale sinistra, chiamata area di Broca; se invece il soggetto sta ascoltando e cerca di capire quello che gli viene detto, si attiva una regione leggermente posteriore alla prima, detta area di Wernicke. Il ruolo di queste due aree cerebrali era già noto da decenni, grazie a studi precedenti condotti su pazienti con specifiche lesioni cerebrali. Una volta che ci si è convinti della affidabilità di ciò che si osservava e si è, per così dire, tarato il metodo, si è passati alla ricerca di nuove localizzazioni cerebrali. Molte di esse hanno avuto inizialmente a che fare con il linguaggio, uno degli aspetti più facili da studiare. Sappiamo, per esempio, che c'è un'area specifica per la prima lingua (per me l'italiano) e un'area per la seconda lingua (che nel mio caso è l'inglese). Stupefacente è il fatto che la distanza tra i centri delle due aree è proporzionale agli anni trascorsi da quando si è imparata la prima lingua a quando si è imparata la seconda. Con l'uso combinato di queste varie tecniche si è appreso che abbiamo un centro cerebrale dedicato ai nomi comuni e un centro per i nomi propri. E una regione per i nomi comuni di oggetti naturali, come le foglie e gli alberi, e un centro un po' diverso per i nomi comuni di oggetti artificiali, come le tenaglie e il martello. Abbiamo poi imparato qualcosa di ancor più interessante: esiste una distinzione fra l'area dei sostantivi e l'area dei verbi. Questa osservazione ha fornito un fondamento biologico a un'intuizione espressa da sempre dai maestri di scuola e dai grammatici: la frase è composta essenzialmente da un sostantivo e da un verbo, che sono ben distinti. Fin dalla nascita il nostro cervello classifica i termini che impara in sostantivi, tanti, e in verbi, pochi. Con le stesse tecniche abbiamo scoperto (cfr. Parte prima) quale area cerebrale è implicata nel riconoscimento delle forme o delle facce, quale area si attiva quando sentiamo la musica, quali altre quando proviamo disgusto, quando dobbiamo prendere una decisione, quando la nostra scelta ci soddisfa oppure no. Conosciamo anche, attraverso un insieme di approcci diversi, qual è la nostra area motoria, cioè quella che si attiva quando compiamo una specifica azione: si trova alla sommità della testa, in una localizzazione più o meno coincidente con la posizione della fascetta di una cuffia radiofonica. Le metodologie in questione presentano tuttavia notevoli problemi tecnici: la risoluzione spaziale e temporale delle diverse immagini è piuttosto bassa. Non si riescono a individuare aree più minute di due-tre millimetri né, più in generale, a mettere in evidenza processi che durino meno di qualche secondo. Si tratta di due gravi difetti, inadeguatezze metodologiche che si spera riusciremo presto a superare, ma che per il momento limitano significativamente l'utilità dell'intera metodica. Ma cosa significa esattamente dire che quando parliamo si attiva una regione temporale sinistra corrispondente all'area di Broca? Significa forse che è quella la regione cerebrale che produce i nostri discorsi, dall'ideazione alla progettazione della frase alla sua pronuncia? Certamente no. Tutto il cervello partecipa probabilmente a queste operazioni, soprattutto se non si tratta di una frase banale e sibillina. Quel che possiamo dire è che l'ultima «stazione» del processo di verbalizzazione risiede nell'area in questione: senza quell'area non si può parlare, perché l'articolazione della frase passa obbligatoriamente per la sua attivazione. Lo stesso vale più o meno per tutte le altre localizzazioni. Le diverse funzioni non sono svolte da un'unica area specifica – sono anzi il risultato dell'attività di buona parte del cervello, se non di tutto – ma possiamo ritenere che quella tal area svolga un ruolo preminente o, meglio, che rappresenti la localizzazione di un passaggio obbligato. Il nostro cervello, in conclusione, non è un mosaico di aree indipendenti e autonome, ma una «federazione di gestori» del passaggio finale per l'esecuzione di questa o quella funzione mentale. D'altra parte, è molto raro che in una determinata circostanza si attivi una sola area. Si tratta di solito di una piccola costellazione di aree, tra le quali una è specifica e fissa, probabilmente dominante, mentre le altre giocano un ruolo di contorno. A questo proposito, si è osservato che, per il nostro cervello, il compiere un'azione e l'immaginare di compierla hanno qualcosa in comune, anzi più di qualcosa. Se svolgere una determinata azione (come può essere anche il solo osservare un oggetto o una situazione) attiva – poniamo – cinque aree cerebrali diverse, immaginare di compiere la medesima azione ne attiva un paio di queste stesse cinque. L' immaginare, in sostanza, ha una base cerebrale comune con il fare effettivamente.
Grazie alla combinazione dei diversi approcci ricordati, abbiamo acquisito
una quantità di informazioni sul cervello e sulla
mente, che ci fanno illudere di avere capito quasi tutto. In realtà,
abbiamo capito ben poco rispetto a quello che ci piacerebbe sapere, ma quel poco
è sempre tantissimo rispetto a ciò che sapevamo
fino a qualche decennio fa.
Parallelamente alle tre linee di ricerca sperimentale illustrate, si è sviluppata anche una linea di riflessione teorica che ha origine dagli sviluppi dell'informatica e dalle realizzazioni della cosiddetta intelligenza artificiale. | << | < | > | >> |Pagina 138E veniamo alla questione della coscienza. Che cosa accade al vertice di tutto quanto abbiamo descritto e che ci fa talvolta percepire qualcosa o un intero mondo con grande evidenza e immediatezza? Che cosa trasforma, per il soggetto, una serie più o meno organizzata di impulsi e messaggi nervosi in uno stato che permette una percezione distinta della realtà esterna e della propria interiorità o, almeno, di una serie di quadri interiori che di volta in volta riempiono l'istante? Che cosa ci fa dire: «penso questo», «credo questo», «sento questo», «voglio questo»? Che cosa ci ricorda chi siamo e che cosa stiamo facendo e quello che ci piacerebbe fare? Che cosa sostiene un ragionamento anche complicato che ci impegna la mente per qualche tempo e da qualche tempo? Che cosa ci permette di pronunciare una frase o di leggere la pagina di un libro?
Non c'è dubbio alcuno che la coscienza si trovi a un livello
integrativo superiore dell'attività psíchíca. Sappiamo con tutta evidenza cosa
significa «funzione integrativa», ma dobbiamo
chiederci cosa vuol dire «superiore» e quante attività superiori
esistano. Questioni già di per sé spinose, che diventano ancor più
intricate se si cerca di paragonare la nostra specie alle altre. Quanto, in
altre parole, è caratteristico della nostra specie e quanto invece abbiamo in
comune con un cane, un lupo o una scimmia? Se
da un lato siamo portati a riconoscere il più spesso possibile una
nostra propria specificità, dall'altro lo studio comportamentale e
fisiologico degli animali ci ha informati della ricchezza di funzioni
che condividiamo con essi a tutti i livelli. Per quanto riguarda la
coscienza o, almeno, una forma particolarmente elevata di coscienza che qualcuno
definisce
autocoscienza,
tendiamo a pensare che sia appannaggio esclusivo della nostra specie. L'intera
faccenda si complica ulteriormente quando ci si interroga sulla possibilità che
anche alcune macchine possano giungere alla coscienza.
Tutto dipende allora dalla definizione di
coscienza.
Per poter essere comunicati, e spesso anche per poter essere perfezionati, stati d'animo e pensieri devono passare per la coscienza. Stiamo parlando ovviamente della coscienza di sé o autocoscienza, il punto più elevato e forse inaccessibile delle nostre attività cerebrali, «il problema dei problemi» per le neuroscienze e per tutta la tematica della mente e del cervello. Un problema che ci impegnerà per molto tempo ancora e non è neppure detto che si riesca mai completamente a vederci chiaro. Ma vale la pena tentare, cominciando innanzitutto a circoscrivere il problema e a darne una descrizione il più possibile operativa e riproducibile. Inizieremo col definirne i possibili significati su una base metodologica, sulla scorta degli strumenti che possono essere utilizzati per studiarli. Sulla base di tale criterio, quello dell'accessibilità, distinguerei almeno tre diversi significati del termine «autocoscienza»: la consapevolezza, l' autocoscienza esplicitabile condivisa e la cosiddetta coscienza fenomenica. Esiste innanzitutto la consapevolezza, la capacità di rendersi conto di dove siamo, di che cosa stiamo facendo e anche di come lo possiamo fare. Qualsiasi essere umano possiede tale consapevolezza, ma questa facoltà caratterizza anche molti animali, che sono più o meno consapevoli di ciò che stanno facendo, che vorrebbero fare o che stanno per fare, che si rendono conto della situazione nella quale si trovano, di ciò che potrebbero fare, con le eventuali conseguenze, e di ciò che conviene loro fare oppure no. Un cane può aver voglia di andare in una stanza, ma se sa che il suo padrone non vuole, non ci va finché questo guarda: appena il padrone non guarda più, quatto quatto vi si dirige. In un caso del genere non possiamo non parlare di consapevolezza. Una tale consapevolezza possiede ovviamente moltissime gradazioni a seconda del livello di complessità del sistema nervoso dell'animale che stiamo considerando. Si tratta di un fenomeno che può essere oggetto di osservazioni comportamentali e di altre indagini condotte con le metodologie delle neuroscienze, ma certamente non di un colloquio. La pura consapevolezza può essere, cioè, studiata solo dall'esterno, con l'osservazione ed eventualmente con la sperimentazione, al pari di un qualsiasi altro fenomeno, naturale o artificiale. Esiste poi una coscienza esplicitabile condivisa dalla maggior parte degli esseri umani adulti. Poiché noi abbiamo la capacità di parlare, questa forma di coscienza può essere studiata comportamentisticamente, allo stesso modo della consapevolezza degli animali e dei bambini piccoli, ma può anche essere oggetto di una conversazione. E in particolare attraverso la parola che possiamo affermare di «avere coscienza di avere coscienza», di avere cioè una coscienza di secondo grado, una facoltà che non potrebbe probabilmente essere inferita dalla sola osservazione del comportamento. Ogni soggetto è in grado di raccontare tantissime cose di sé e della propria interiorità. È evidente che non può esserci autocoscienza senza consapevolezza, ma ovviamente non è vero il contrario. Tuttavia, in noi anche la semplice consapevolezza è influenzata dalla nostra facoltà di parlare e di pensare per parole. Dí più: è probabilmente l'interazione di queste due forme di coscienza che ci rende unici, unitari e individui. Secondo alcuni, infine, esiste una coscienza fenomenica, privata, intrinsecamente incomunicabile e accessibile soltanto al diretto interessato – non è ancora chiaro se si tratti dell'io oppure del proprio Sé – mediante l'introspezione. Osservando alcuni oggetti o vivendo determinati avvenimenti posso provare – e in effetti provo – sensazioni molto personali estremamente difficili da comunicare ad altri. Un orologio, una penna o a maggior ragione una foto possono avere per me, e solo per me, un significato speciale e assolutamente soggettivo. Si tratta di una particolare coloritura cognitivo-affettiva dei miei stati di coscienza, che mi fa dire: «io». Al momento non sappiamo se questa terza forma di coscienza sia effettivamente una coscienza e se sia necessaria perché la nostra mente possa funzionare o perché una qualsiasi intelligenza possa funzionare. È una questione aperta, soggetta a forte ambiguità, ma possiamo momentaneamente assumere che esista. Ovviamente, riferita agli altri Sé sulla base dell'analogia con il mio proprio vissuto. Siamo quindi in presenza di tre forme, o di tre livelli, di coscienza che presentano problematiche e prospettive diverse. Le prime due – la consapevolezza e la coscienza esplicitabile condivisa – possono essere studiate scientificamente, mentre non è chiaro se ciò sia possibile per la coscienza fenomenica, qualunque cosa essa sia. La scienza, infatti, studia ciò che è riproducibile, utilizzando un approccio intersoggettivo e non sappiamo ancora se ciò si possa applicare alla coscienza fenomenica. Prenderemo quindi in considerazione le prime due forme: la consapevolezza, presente in quasi tutti gli organismi superiori, animali e uomini, e la coscienza esplicitabile condivisa, tipica della nostra specie. Per la coscienza fenomenica vedremo poi... Esistono molte altre analisi del termine «coscienza» e diversi tipi di ripartizione della stessa. Se si desidera confrontarle con la presente proposta, sarà necessario tener conto che quest'ultima ha carattere prettamente operativo e metodologico piuttosto che ontologico ed essenzialistico. Le tre forme o livelli che io propongo sono definiti, prima di ogni altra cosa, dalla modalità di identificazione, di verifica e di esplorazione: nel primo caso l'osservazione ragionata, nel secondo la categorizzazione e l'esplorazione linguistica, nel terzo – se esiste un terzo caso – la pura percezione del vissuto. | << | < | > | >> |Pagina 170Con l'avanzare del tempo la mente, al pari del corpo, comincia a sentire il peso degli anni. Perché la mente – lo abbiamo visto – fa parte del corpo, anche se nel suo pieno fulgore sembra discostarsene integralmente e in condizioni normali invecchia più lentamente. La percezione dell'importanza del corpo varia con il trascorrere degli anni. Il corpo è importantissimo quando si è bambini, altrettanto importante quando si ha una certa età, lo diventa assai poco durante la maturità, tant'è che tendiamo a dimenticare di averlo. Quando siamo piccini è il corpo a comandare: se non so parlare, non so camminare, ecc., è il corpo a dominare, e il mio io e la mia psiche possono solo seguire; poi, quando raggiungiamo l'apice della maturità fisiologica e delle nostre prestazioni e ci sentiamo padroni del mondo, ci sembra di poterne fare tranquillamente a meno. A partire da una certa età, eccolo lì di nuovo a comandare: con i suoi ritmi e le sue esigenze, con le cose che ci fa fare e quelle che non ci permette più di fare. Basti pensare che da un certo punto in poi vediamo meno. Il corpo torna alla ribalta, ci appare di nuovo importante, torna ad imporsi a quella mia interiorità che all'età di trenta-quarant'anni si riteneva onnipotente. In condizioni normali, non patologiche, non è affatto detto che la mente, il cervello e il sistema nervoso debbano invecchiare con lo stesso ritmo del corpo: possono invecchiare molto meno, e in genere così accade. Il perché non lo conosciamo, epperò non ci dispiace affatto. Se consideriamo la media delle persone, dobbiamo concludere che, a parte nel caso di alcune patologie delle quali si sente sempre più spesso parlare, la nostra mente invecchia più lentamente del nostro corpo, in un certo senso quasi non invecchia. Ognuno di noi può portare esempi di persone molto provate nel corpo che hanno una mente ancora molto vivace. Ma come ci si accorge che si sta invecchiando? La maggior parte di noi a partire da una certa età lamenta una progressiva perdita di memoria. Abbiamo visto che la memoria consta di tre fasi: l'immagazzinamento, la conservazione, il richiamo. In condizioni non patologiche la conservazione non si perde mai: i ricordi immagazzinati restano tali e perennemente a disposizione. Si verifica invece un rallentamento nella capacità di apprendere cose nuove e soprattutto di richiamare alla mente i ricordi, in particolare quelli che afferiscono a nozioni, termini poco usati, nomi propri. Molti sono ossessionati dal dubbio di stare perdendo cognizioni acquisite da tempo, ma non devono nutrire questa paura. Perdendole, non saremmo in grado di recuperarle mai più, e non è questo che riscontriamo: con pazienza, e senza innervosirsi, avviene sempre, più o meno rapidamente, che si recuperi il nome o il concetto, in realtà tanto più rapidamente quanto meno ci si affanna a rincorrerlo. E finirà per ricomparire sempre, magari quando meno ce lo aspettiamo. Forse non è una gran consolazione, ma tengo a sottolineare che i ricordi, nonostante tutto, non si perdono. Né si perde la capacità di imparare cose nuove e di appassionarvisi. Possiamo dunque essere abbastanza fiduciosi di mantenere il timone della nostra mente. Una cosa è certa: come vedremo, chi più ha usato il cervello durante le età precedenti, meglio poi lo conserva. E allora, come usare il cervello? Come volete voi. Vanno bene anche i cruciverba, gli indovinelli, tutte le pratiche e le tecniche, così come i giochi, che tengono in esercizio il cervello. Purché lo adoperiate. Vero è che non si può decidere a freddo: «Da domani adopererò il cervello», oppure «Ora utilizzo il cervello». Il cervello si adopera in maniera produttiva solo se c'è interesse, motivazione, se c'è una passione. E così dobbiamo concludere – tutto sommato in maniera neppure tanto sorprendente – che per invecchiare bene bisogna avere e coltivare una passione, o due o tre o quattro, magari cambiandole di tanto in tanto. La società di domani dovrà occuparsi di pianificare la vita delle persone anziane, inventando per loro sempre nuove motivazioni: con motivazioni forti si usa il cervello, si mettono in moto í sentimenti e si invecchia meglio. | << | < | > | >> |Pagina 175Gli esseri viventi sono una presenza davvero strana nell'universo, una sorta di scandalo o di paradosso. Non a caso, nell'ambito dell'universo che conosciamo meglio, di esseri viventi se ne trovano solo da queste parti. Naturalmente è possibile che in altri luoghi dell'universo esistano altri organismi viventi, e forse anche intelligenti, ma ancora non ne abbiamo avuto notizia e di certo non si trovano nei paraggi. Il fatto è che la vita non è un fenomeno tanto semplice e scontato come potrebbe sembrare, e di esseri viventi non se ne trovano a ogni angolo. Perché? Perché l'universo, con tutti gli oggetti che contiene, tende al disordine e al decadimento di tutte le strutture ordinate e di tutti i vari processi. Se costruiamo un castello di sabbia sulla spiaggia, dopo qualche giorno lo troveremo appianato e livellato, infine scomparirà. Se tagliamo un qualsiasi materiale in modo da generare spigoli netti e acuti, dopo un po' di tempo i suoi spigoli appariranno smussati, via via sempre più, fino a che l'eventuale dislivello verrà addirittura cancellato. Per sua natura la materia tende spontaneamente all'appiattimento, all'annullamento di qualsivoglia differenza, e quindi di ogni strutturazione.Gli esseri viventi sembrano fare eccezione a questa tendenza generale: in essi tutto deve essere regolato, tutto deve contribuire a un funzionamento, settoriale e complessivo, che nel Settecento veniva paragonato a quello di un orologio meccanico. Gli esseri viventi lottano per qualche tempo contro la tendenza generale all'appiattimento e alla degradazione, impiegando un'enorme quantità di energia, sebbene a noi la vita appaia come un fatto naturale e spontaneo. Ma se osserviamo con attenzione un essere vivente, anche semplice come un batterio o un'alga elementare, noteremo quanta fatica e precisione siano necessarie per far funzionare in maniera accettabile la «macchina», sia al livello delle componenti subcellulari sia al livello delle cellule e infine degli organismi. Appena la natura, per così dire, si «deconcentra», tutto si incammina inevitabilmente sulla strada della degenerazione e della perdita di ordine. Esattamente allo stesso modo fa il nostro corpo nel suo complesso. La vita, dicevamo, rappresenta un piccolo scandalo nell'universo. Rappresenta un'apparente violazione delle leggi della fisica, e più precisamente di una delle leggi più importanti e che non ha mai sofferto eccezioni: il secondo principio della termodinamica. Tutti abbiamo studiato che in un sistema chiuso (e possiamo considerare tale il nostro universo) l'ordine diminuisce sempre e il disordine aumenta sempre. In altre parole, l' entropia di un sistema chiuso cresce sempre, mentre si perde contemporaneamente il suo opposto, cioè l' ordine esistente nel sistema. D'altronde, non può esserci ordine senza informazione, di conseguenza anche l'informazione si va progressivamente perdendo. Che spontaneamente l'informazione non aumenti mai e semmai vada perduta, abbiamo prove significative nella vita di tutti i giorni. Nel gioco del telefono senza fili, per esempio, nel quale devo bisbigliare una frase nell'orecchio di un compagno, che la deve riferire a un altro, che a sua volta deve sussurrarla a un altro ancora e così via, a mano a mano che la frase viene ripetuta si modifica fino a trasformarsi spesso completamente. In tutto o in parte, si è persa così l'informazione originaria. Lo stesso accade a un disco i cui solchi si usurano e generano un fruscio, a una trasmissione radiofonica o televisiva che tanto più viaggia tanto meno si conserva fedele all'originale. L'informazione, che è un altro modo di chiamare l'ordine, lasciata a se stessa, non aumenta mai, al contrario diminuisce spontaneamente e inesorabilmente fino a perdersi. La vita, invece, si comporta tutta a modo suo: se, per esempio, in un brodo nutritivo metto un batterio, dopo un po' ne trovo due, poi quattro, poi otto, fino a raggiungere miliardi e miliardi di cellule batteriche. Da un singolo esseré vivente, che è un grumo di materia organizzata, cioè ordinata, si passa a miliardi su miliardi di copie dello stesso. La vita crea continuamente ordine, ossia informazione. E lo conserva. Per poco o per tanto che sia, ogni essere vivente si mantiene vivo, cioè ordinato, e al momento opportuno può generare altro ordine, riproducendosi, producendo cioè altri esemplari di organismi simili a se stesso e altrettanto ordinati. C'è quindi qualcosa di particolare nella vita? Possiede qualche proprietà diversa da quelle della materia inanimata? Proprietà diverse non ne possiede, ma utilizza al meglio, e a suo vantaggio, ciò che le leggi della fisica e della chimica permettono che accada, senza che si venga a violare nessun principio fondamentale. Dov'è il trucco? La vita è una manifestazione locale di aumento di informazione, o di non-perdita di ordine, a spese dell'ambiente circostante che nello stesso tempo si degrada enormemente. Se non si considerano gli esseri viventi isolatamente, bensì insieme all'ambiente circostante, il secondo principio della termodinamica risulta perfettamente rispettato: nel complesso essere vivente + ambiente circostante, l'entropia aumenta sempre e l'ordine diminuisce, perché la diminuzione di ordine riscontrata nell'ambiente compensa e supera l'aumento locale di ordine che si può rilevare nella vita di quell'essere vivente. In altri termini, il complesso organismo + ambiente degenera e perde ordine: gli esseri viventi lo acquistano e lo mantengono per un po', ma l'ambiente in cui vivono ne perde tantissimo, sicché il bilancio complessivo è sempre a favore della perdita universale di ordine e di informazione. Proprio come accade nell'intero universo. Non c'è quindi nulla di anomalo nella vita, nulla che contraddica i principi fondamentali che regolano il mondo fisico. Gli scienziati che, durante la seconda guerra mondiale, si rivolsero ansiosamente alla biologia nella speranza di scoprire le leggi particolari della vita – e furono in tanti, tutti molto validi – rimasero delusi, perché la vita non ha nulla di peculiare se cerchiamo principi universali; se invece cerchiamo regole pratiche, pragmatiche, la vita ha molto di speciale: è una continua rincorsa alla creazione e al mantenimento dell'ordine.
Difficile, non c'è che dire. Ma la vita ce la fa. In che modo?
Spendendo una quantità enorme di energia e «pompando» continuamente informazione
in tutte le sue strutture o, meglio, espellendo continuamente entropia da se
stessa. La vita nel suo complesso va avanti così, da tanto tempo. Anche i
singoli esseri viventi ce la fanno ma, inevitabilmente, a un certo punto non
più: ogni concentrazione locale di ordine, ossia ogni essere vivente, ha a sua
disposizione un lasso di tempo definito, che può essere brevissimo
o anche molto lungo, oltre il quale non può andare. È come un
giocattolo caricato a tempo: finita la carica, si ferma. Non prima,
però, di aver dato vita, parlando in termini generali, ad almeno un
altro «giocattolo a tempo» che inizia così la sua avventura terrena.
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