Copertina
Autore Marta Boneschi
Titolo Milano, l'avventura di una città
SottotitoloTre secoli di storie, idee, battaglie che hanno fatto l'Italia
EdizioneMondadori, Milano, 2007, Le Scie , pag. 428, ill., cop.ril.sov., dim. 14,5x22,5x3,6 cm , Isbn 978-88-04-57263-3
LettoreAngela Razzini, 2008
Classe citta': Milano
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Indice


  3 I   Borromeo, Verri e altri

    – «Non sono questi argomenti adatti a una donna», 6
    – «Un'accoglienza delle più lusinghiere», 15
    – «Tutte le cose nuove quando sono universali debbono
      sempre temersi», 21
    – «Sotto il medesimo tributo», 24
    – «Alcuni avanzi di leggi», 30

 41 II   Il paradiso dei pagnottanti

    – Henri Beyle, l'eterno innamorato, 47
    – Vincenzo Dandolo, milionario tra pecore e patate, 53
    – La fabbrica dei patrioti, 55
    – «Molto portata alla libertà», 60
    – «Più vasta orma stampar», 64
    – 20 aprile 1814, solo un morto e tante vittime, 69
    – Esuli, fuggitivi, defunti, 76

 80 III   Gli studiosi

    – «Qualcosa di straordinario», 85
    – «Sono liberi i soli morti», 91
    – Denaro liquido e mattone solido, 96
    – Cattaneo, amore e statistica, 107

115 IV   Soltanto cinque giorni

    – «Lutti di Lombardia», 120
    – «Si può arrestare una locomotiva con un bastoncino?», 129
    – «Lietamente combattere e lietamente morire», 134
    – «Prestare servigi di questa fatta a un re», 137
    – «Iddio ci salvi d'aver confidenza nei nostri re», 140
    – «Sempre la stessa ostinazione di sacrificare li uomini
      coraggiosi», 146

153 V   Il trionfo del piccone e del mattone

    – «Il delirio dell'unità a qualunque costo», 160
    – «Molte donne sono belle, e quasi tutte ridenti e
      di buon umore», 163
    – Milanes e milanes ariós, 166
    – «Grandiosa rappresentazione», 168
    – Un commercio non si nega a nessuno, 170
    – «Questa tendenza a vedere piccolo», 175

181 VI   Colombo & soci, i padri dell'industria

    – «Benedice l'operaio che gli dà pane e lavor», 190
    – Al libro d'oro dell'industria e del commercio», 196
    – «Il ramo elettrico offre possibilità illimitate», 198
    – «La modesta dote che mi portò mia moglie», 202

206 VII   Il feroce monarchico Bava

    – «Non c'è che un uomo, che viceversa è una donna», 211
    – La chiamano «capitale morale», 218
    – «Abissi plebei», 222
    – «Quelle femmine», 226
    – «Quattromila persone campan la vita coi frutti del loro
      ingegno», 231

238 VIII   Primogenita del fascismo

    – «Un anarchico mancato, un dittatore riuscito», 244
    – «Andé vialter a combatt», 249
    – «La società a delinquere dei fascisti», 255
    – «Mai si è avuto esempio di sì deplorevole deficienza», 265
    – «A tale immenso sacrificio vado incontro con il cuore gonfio,
      ma a testa alta», 268

272 IX   Libri, riviste e altre armi improprie

    – «Una romantica ma accesa avventura», 276
    – «La quercia crudelmente sradicata», 280
    – «Partita chiusa per ogni attività pubblica», 283
    – «La città in cui più rapidamente si compera e si rivende», 286
    – «Le parole che il maestro nero ha scritto sulla lavagna», 291
    – «Ci sono anch'io», 296
    – «Restituire l'Italia a Dio e Dio all'Italia», 301

309 X   Il fuoco e le fiamme

    – «In attesa di tempi migliori», 315
    – «Era impreparato; era leggero e facilone», 318
    – «Di qualsiasi colore o natura», 321
    – «Erano uomini che sapevano il fatto loro», 325
    – Ancora una volta. Se ne vanno i todèsc, 331
    – «Un grido immenso si levò nella notte.
      Tutti si abbracciavano», 336
    – Galantuomini licenziati, burocrati promossi, 339

347 XI   Fabbrica di bellezza

    – «Qualità di forma e di presentazione», 351
    – «Dalla bassa alla haute couture», 355
    – «Seratone piuttosto su», 360
    – «Pure Milano è bella», 364
    – Benedetti i terroni, 368
    – «Attitudine alla politica», 371
    – «In maniera calda e convinta», 378

383 Epilogo

    – «Sa, abbiamo molto da fare», 387
    – «La minaccia incombente», 389

395 Bibliografia
405 Fonti iconografiche
407 Ringraziamenti
409 Indice dei nomi

 

 

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Pagina 134

«Lietamente combattere e lietamente morire»

Gli austriaci si aspettavano una manifestazione da sopprimere con un pugno di morti. Si trovano invece di fronte a un'insurrezione armata dell'intera popolazione. Radetzky decide di ritirarsi in tutta fretta dentro il Castello e così, a mano a mano che i suoi smobilitano le posizioni - appartamenti, caserme, posti di guardia - gli insorti trovano armi, denaro e ogni ben di Dio abbandonato nella fuga frettolosa. Radetzky lascia a casa la sciabola «ch'egli nei grotteschi suoi proclami millantava da sessantacinque anni irresistibilmente vittoriosa», un trofeo che galvanizza i combattenti. I tre colpi di cannone al Broletto allarmano i consoli di Francia, Piemonte, Stato pontificio, Belgio e Svizzera, i quali decidono concordemente di protestare con il feldmaresciallo.

Nella contrada del Monte intanto l'insurrezione viene presa in pugno da Cattaneo e Cernuschi. Quel che ha visto dalla finestra - il popolo combattente per la propria libertà - convince Cattaneo a entrare nella battaglia. Insieme a Cernuschi insiste perché la delegazione comunale con il prigioniero O'Donnell si sposti in un luogo più sicuro. Si stabiliscono perciò tutti a palazzo Taverna nella vicina contrada dei Bigli che offre, in caso di attacco, migliori vie di fuga attraverso i giardini dei palazzi vicini. Con il buio scende sulla città una quiete apparente. In realtà le case formicolano di un lavorio preparatorio: distribuzione degli incarichi, turni di pattuglia, assegnazione delle parole d'ordine, consegna dei viveri ai combattenti, organizzazione delle comunicazioni. Riuniti i fedelissimi - Cernuschi, Manara, il medico Agostino Bertani -, Cattaneo insiste che l'oblettivo prioritario è di carattere militare. La prova di forza è cominciata e, per evitare un bagno di sangue, occorre prima di tutto battere gli austriaci.

Alla mattina della domenica 19 è tornato il sole e le campane suonano senza sosta, i campanari hanno avuto l'ordine di non smettere fino alla cacciata del nemico. Da palazzo Taverna parte l'ordine di arruolamento nella guardia civica di tutti i maschi che hanno superato i vent'anni, perché dalle prove militari è l'ora di passare alla guerra vera sotto il comando dell'aristocratico Pompeo Litta. Da oltre trent'anni i milanesi sono digiuni di quest'esperienza. La notte ha portato consiglio al prudente Casati, il quale si è accorto che le cose sono andate troppo oltre: un conto è destreggiarsi con gli austriaci tra obbedienza e minacce, ben altro conto è un popolo in armi. Scrive dunque un biglietto a Torresani, pregandolo di arruolare subito i milanesi volontari nella polizia, «ben inteso agli ordini degli ufficiali austriaci». Cernuschi, che non lo perde di vista, intercetta la lettera e mette agli arresti il pavido autore. Torresani non ha bisogno dei consigli e delle preghiere di Casati. Provvede a diramare l'ordine di aprire le carceri, che sarebbe un provvedimento giusto per liberare i patrioti (come Manfredo Camperio, tornato da Linz e messo in cella), ma sconsiderato, perché scatenerebbe per la città migliaia di incontrollabili criminali. Alla prigione di porta Nuova, Giovanni Paladini rifiuta di obbedire e non rilascia i 460 detenuti comuni (più tardi, dopo la partenza degli occupanti, in quel carcere scoppia una rivolta, repressa dalla guardia nazionale che trova denaro e armi, forse forniti proprio da agenti austriaci).

In quei giorni si trova di passaggio a Milano un suddito sabaudo, Augusto Anfossi. Nativo di Nizza, esule dopo i moti mazziniani del 1831, ha servito nell'esercito egiziano, che ha lasciato con il grado di colonnello per tornare in patria. Allo scoppio della rivolta si mette a disposizione degli insorti. Insieme a Manara forma un drappello di studenti - ne fa parte Emilio Dandolo - il quale combatte agli archi di porta Nuova e, respinti gli austriaci che sono costretti ad attestarsi al camposanto di San Bartolomeo, al di là del Naviglio, vi issa il tricolore. Il drappello si sposta quindi al palazzo di Brera, dove Anfossi esorta gli ungheresi alla diserzione, ma senza risultato. Al borgo Monforte si ritrovano a combattere quello stesso giorno i Dandolo e Morosini. Nel pomeriggio inizia l'assedio alle caserme, viene riconquistato il Broletto, il palazzo Reale è invaso e saccheggiato. Anfossi è il primo a entrare nella sede della polizia in contrada Santa Margherita, dove trova - insieme a una quantità di armi – i familiari di Torresani, presi subito in ostaggio. Il vile Bolza si è nascosto in solaio, sotto un mucchio di fieno, pronto a denunciare una delle sue spie per guadagnarsi benemerenze. Viene chiesto a Cattaneo che cosa fare dell'ignobile poliziotto: «Se lo ammazzate fate una cosa giusta, ma se gli risparmiate la vita fate una cosa santa», e gli insorti optano per quella santa.

Lunedì 20 marzo si gioca la partita politica. Cattaneo sospetta che il temporeggiare di Casati, tornato agli intrighi, sia frutto di una strategia: tenere a bada gli austriaci in attesa dei piemontesi, tenere buoni gli austriaci in caso di defezione dei piemontesi. Per sottrarre l'insurrezione alla doppiezza, Cattaneo istituisce il Consiglio di guerra – composto da lui stesso, Cernuschi, Giulio Terzaghi e Giorgio Clerici – che guida i milanesi verso l'obiettivo prioritario, cacciare gli austriaci. In questo modo il più fermo avversario delle cospirazioni e della violenza, lo studioso che soffre di reumatismi e si fa tirare la giacca dalla moglie spaventata, diventa il capo militare dell'insurrezione. Quando si discute sul da farsi, emerge una distanza inconciliabile tra le posizioni dei moderati e quelle dei democratici. I rappresentanti dell'oligarchia, con Casati in testa, mirano a cambiare padrone e hanno già inviato a Torino Francesco Arese, che il 19 marzo ottiene da Carlo Alberto la promessa di intervento. I democratici, capeggiati da Cattaneo, puntano sullo scontro militare per vincere. Una volta liberata, la città potrà scegliere il proprio destino.

In ogni scorcio di strada ora i milanesi possono vedere il tricolore che sventola dalla guglia più alta del Duomo. L'acrobazia è opera del giovane valtellinese Luigi Torelli, che si è arrampicato fin lassù per far sapere a tutti che la cerchia dei Navigli è libera. Ricevuto il messaggio, al quartier generale si presenta una processione di cittadini di ogni abito, età e rango che portano denaro, gioielli, oggetti di valore per sostenere la guerriglia. Cernuschi riceve i contributi, tiene la cassa e la contabilità, impianta un servizio di posta usando come messaggeri i martinitt, gli orfanelli ospitati in un edificio annesso all'Oratorio di San Martino, e comunica con la campagna per mezzo di palloni aerostatici.

A palazzo Taverna compare intanto il maggiore Ettinghausen, che porta una proposta di armistizio da parte di Radetzky. Casati è favorevole ad accettare in attesa di notizie dal Piemonte, anche perché teme la presa del potere da parte del popolo guidato dai democratici. Cattaneo vuole respingere la tregua perché ritiene che questa darebbe agli austriaci il tempo di ottenere rinforzi e schiacciare l'insurrezione. Non tutti i nobili sono d'accordo con Casati, qualcuno si rende conto che la rottura con gli austriaci è ormai consumata. Corre voce che il solenne Vitaliano Borromeo Arese abbia detto a Ettinghausen: «Dica al signor maresciallo che i nobili milanesi sapranno farsi seppellire sotto le rovine dei loro palazzi». Il Consiglio di guerra respinge l'armistizio e fa affiggere un manifesto: «Le campane a festa rispondano al fragor del cannone e delle bombe, e vegga il nemico che noi sappiamo lietamente combattere e lietamente morire». Nel pomeriggio ricomincia a piovere, per un po' le armi tacciono; verso mezzanotte gli austriaci attaccano, ma sono respinti.

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Benedetti i terroni

L'architettura poco canonica – ma unica al mondo – del Duomo, risparmiato dalle bombe, incuriosisce sempre i forestieri. Scrive Piovene: gli «stranieri e puristi» che lo visitano «affermano che il gotico ... non è ortodosso, e non può essere citato come esemplare». Questo è tuttora il «grande edificio sentimentale, carico di sospiri, che porta sulla vetta una Madonnina d'oro, con il suo popolo di statue confidenziali tra cui i milanesi salgono come per una scampagnata col cartoccio delle vivande». Come la Scala e altre bellezze locali, anche il Duomo è frutto dell'ingegno e della fatica umana. Dal 1965, sotto il poderoso edificio che sembra volare tra pizzi e merletti in marmo, corre un altro vanto milanese, la metropolitana, la prima in Italia. Ce n'è voluto di tempo per averla: un primo progetto si era arenato nel 1933, quando da Roma il Consiglio superiore dei lavori pubblici aveva precisato che il trasporto sotterraneo doveva essere limitato al solo territorio comunale, molto piccolo. A metà degli anni Sessanta, libertà e democrazia hanno portato finalmente quel che i milanesi desiderano: velocità per l'efficienza, con un pizzico di piacevolezza. La linea rossa è un prodigio: l'arredo delle stazioni, con il pavimento grigio e le scritte in bianco su fondo rosso lacca, firmato da Franco Albini, è quanto di più confortevole si possa immaginare.

Neppure Marinetti e i futuristi avrebbero potuto fantasticare sulla quantità e velocità del trasporto nell'area milanese nella seconda metà del secolo. Rinasce così il crocevia di persone e merci, grazie alla rapida ricostruzione delle ferrovie, alla motorizzazione di massa, all'Autostrada del Sole, alla diffusione del trasporto aereo. Intorno al 1970 funzionano sei stazioni dei treni: oltre alla Centrale, quelle di Lambrate, Garibaldi, Vittoria, Genova e Romana. La rete ferroviaria lombarda è un decimo di quella nazionale, ma trasporta un quarto dei passeggeri (i pendolari sono 300 mila nel 1960). Come ai tempi dell'imperatore Francesco, è più facile andare verso l'Europa che nel resto dell'Italia, e il viaggio per Amsterdam è più breve che quello per Salerno. La Centrale smista 471 treni al giorno e vende 10 milioni di biglietti l'anno.

A questo punto, però, Milano deve fare i conti con l'arretratezza nazionale: gli investimenti sono insufficienti, il materiale rotabile è vecchio, le ferrovie costano, non rendono e non vengono ammodernate con sufficiente rapidità. Fin dal 1963 un terzo della rete autostradale nazionale corre in territorio lombardo. È la via del futuro, perché aumentano le automobili ed è poco costosa la benzina, che cresce a partire dal 1952, quanso la SISI, una società promossa da Fiat, Pirelli, Italcementi e Agip, prepara un progetto e, fortunatamente ma quasi per un caso, un governo transitorio presieduto da Mario Scelba nell'estate del 1953 ne approva il finanziamento. I lavori iniziano nel 1956, nel 1959 è aperto il tratto fra Milano e Bologna, nel 1964 quello per Roma. Pioniera dell'industria aeronautica, Milano conta a metà degli anni Sessanta due aeroporti: Linate vede transitare 2 milioni di passeggeri l'anno, Malpensa 400 mila. Uno è vicino alla saturazione ma non viene ampliato, l'altro in crescita ma non viene adeguato. Purtroppo l'impianto urbano è rimasto quello rigido e chiuso disegnato ai tempi del piano Beruto e della cintura ferroviaria, mancano gli assi di attraversamento (il piano regolatore non li ha previsti) e mancano i parcheggi. Dal 1955, quando la Fiat presenta l'utilitaria del miracolo, la Seicento, che è alla portata di una moltitudine di bilanci familiari (e ancor più dal 1957, quando debutta la Cinquecento), la popolazione di auto esplode e Milano, come altre città, non è in grado di assorbire l'impatto.

Osserva Eugenio Gentili Tedeschi: «La mobilità, ossessione di tutte le metropoli contemporanee, è stata costantemente vista come un problema di polizia urbana, come se bastasse a tenerla sotto controllo l'uso di divieti e di sanzioni». È invece una questione urbanistica, e di sviluppo delle infrastrutture.

Pur con la sua grande densità industriale, Milano rimane il maggiore mercato di smistamento dei prodotti agricoli e alimentari, che raccoglie e redistribuisce in un raggio molto più ampio di quello regionale. Quanto a compravendite, la piazza milanese rimane imbattuta: con il 10 per cento degli addetti realizza il 15 per cento del valore aggiunto del commercio nazionale.

Ma il vero primato milanese negli anni della modernizzazione è quello dell'accoglienza: i nuovi concittadini arrivano a frotte, da ogni direzione ma soprattutto dal Sud (e quando non trovano un posto in città, si sistemano nei comuni vicini, gonfiandone la popolazione da poche a decine di migliaia). Non sono molti i milanesi che assumono un'espressione torva di fronte al terrone, e ancor meno quelli che affiggono sui portoni un cartello «affittasi a settentrionali» (anche perché i danee del Sud sono buoni come quelli del Nord). La città moderna è abituata ai baggiani, ai pagnottanti, ai cosacchi, ai todèsc, e al suono di qualsiasi linguaggio, visto che perfino i cinesi si sono insediati nel quartiere di via Paolo Sarpi con le loro pacifiche attività. A metà del Novecento, come cent'anni prima, la cittadinanza di fatto si acquisisce lavorando, imparando quel poco di lessico lombardo che è necessario a sopravvivere (la colazione è quella di mezzogiorno e il pranzo quello delle otto di sera, la pagnotta si chiama michètta, e così via) e comperando il «Corriere della Sera», segno distintivo della milanesità. Gli abitanti disprezzano solo chi esercita attività illegali: i posteggiatori e i venditori abusivi di fiori, frutta e verdura, i contrabbandieri di sigarette, perché non pagano le tasse.

Nel 1960 i milanes ariós sono giovani, 7 su 10 hanno meno di trentaquattro anni. Cinque anni dopo, un quinto dei nati ha una madre meridionale. A differenza dei genitori, questi bambini sono milanesi a tutti gli effetti, e vanno ad arricchire la già intensa mescolanza di popolazione. Sono anche fortunati, perché la mortalità infantile è di 41 per mille, inferiore al resto del paese (ma era 130 mezzo secolo prima).

È vero, gli immigrati sono un po' diversi: 6 su 10 calabresi giunti a Milano non hanno qualifiche professionali, molti sono analfabeti (ma dal Veneto vengono invece operai specializzati). Due su tre entrano subito in fabbrica, soprattutto metalmeccanica, altri nell'edilizia, pochi nelle professioni intellettuali. Portano le loro usanze, come il caporalato, sconosciuto da queste parti, dove gli uffici di collocamento funzionano da tempo.

Uno su tre abita in una pensione, un altro presso parenti o amici, una minoranza nelle baracche. La casa, una casa vera, si conquista a fatica: l'Istituto delle case popolari costruisce, e anche in fretta, ma la burocrazia rallenta ogni cosa. Nel 1951 metà delle case completate non ha ancora inquilini perché le assegnazioni procedono a rilento, e d'altra parte la commissione assegnatrice è sommersa dalle pratiche: per 432 appartamenti hanno presentato domanda 22.500 famiglie. Nelle periferie, nei terreni incolti fioriscono intorno al 1953 le «coree», grappoli di abitazioni abusive tirate su alla meglio. All'inizio degli anni Sessanta, la corea di Cologno Monzese ospita 49 famiglie, 42 delle quali originarie della Puglia. Nel 1962 la provincia di Milano conta ancora 56 mila abitanti sistemati in «corea». Questi agglomerati hanno spesso un capo, che si fa carico dell'adattamento alla città e della comunicazione con le istituzioni urbane; qualche volta lo chiamano «il ragioniere», un titolo di studio che è come un miraggio. La migrazione è gigantesca, c'è da lavorare per tutti: nel 1963 un quarto delle aziende milanesi fatica a trovare personale. Se l'azienda è all'avanguardia si sta davvero bene: alla Pirelli nel 1969 l'orario è di 40 ore per 5 giorni la settimana (con il tempo parziale, per chi lo vuole).

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«Attitudine alla politica»

Luciano Bianciardi si trasferisce a Milano nel 1954. Un po' come Foscolo, il quale attribuiva ai milanesi «il cuore castrato e grasso, e le fibre del cervello cornee», Bianciardi non ha alcuna simpatia per la città e per i suoi abitanti. Scrive a un amico: «I milanesi, credimi, son coglioni come poca gente al mondo. La gente qui è allineata, coperta e bacchettata dal capitale nordico, e cammina sulla rotaia, inquadrata e rigida. E non se ne lamentano, pensa, anzi credono di essere contenti». Dopo otto anni, questo ambiente ostile, privo di slanci ideali e intriso di operosità prosaica gli ispira un piccolo capolavoro: La vita agra, edito da Rizzoli, che è uno dei successi letterari del decennio. Il protagonista, cioè Bianciardi, subisce una sequela di frustrazioni: quando vive in una camera d'affitto nel quartiere di Brera, incontra pittori e fotografi, mentre vorrebbe conoscere gli operai veri; quando si stabilisce in un appartamento di periferia, sperimenta l'isolamento e la solitudine: «Io avrei voluto conoscere altra gente, diversa, che certamente doveva esserci, in città».

Da giornalista e aspirante scrittore, vorrebbe narrare le sofferenze dei minatori della sua terra, ma la sua mansione è contare righe e correggere bozze. Tutt'al più, gli dicono: «Vuoi farlo o no, questo spoglio della stampa periodica per il settore sociologico?». Si sente sfasato perfino rispetto ai compagni di fede: a una manifestazione politica vede un poveretto «basso e atticciato, col giubbotto di pelle» stretto tra «due poliziotti col viso pallido e cattivo». La compagna Anna non solidarizza con l'arrestato: «A una dimostrazione per la pace non si manda gente vestita in quel modo. ... Vedi, se fosse una dimostrazione pei salari, allora sì che andrebbe bene il giubbotto, ma questa è per la pace, e rivolta, come propaganda, ai ceti medi. Ai ceti medi si deve dare la sensazione che a dimostrare è gente come loro, e che la polizia picchia anche la gente come loro». Tripudia quando gli affidano una traduzione a 300 lire a pagina, mangia in latteria pagando i pranzi a rate, fuma metà sigaretta alla volta, e passa da un licenziamento all'altro perché, confessa a se stesso, non ha quell'«attitudine alla politica» che è necessaria alla vita d'ufficio.

Elio Vittorini, invece, non possiede quell'«attitudine alla politica» che è necessaria per militare nel PCI. Con il suo «Politecnico» entra in rotta di collisione con Mario Alicata, responsabile della cultura del partito, sulla questione dell'autonomia degli intellettuali e dell'egemonia della politica. Togliatti in persona interviene a censurare il desiderio di indipendenza del compagno Vittorini, che chiude la rivista nel 1947 e lascia il PCI nel 1951. Nel 1960 è per breve tempo consigliere comunale, eletto con il PSI, ma soprattutto continua a lavorare nell'editoria, consigliando a Einaudi autori sconosciuti, come Italo Calvino, Beppe Fenoglio, Mario Rigoni Stern, Ottiero Ottieri, e dirigendo la «Medusa» e i «Nuovi scrittori stranieri» di Mondadori.

Al tempo di Maria Teresa, Verri doveva misurare quel che scriveva, per non incorrere nei fulmini imperiali. All'epoca di Napoleone, Foscolo e Gioia potevano essere arrestati per le loro idee. Sotto il regno di Francesco, Di Breme e Confalonieri dovevano fingere di trattare argomenti innocui. Al tempo della Repubblica italiana, con la Costituzione che garantisce libertà di espressione, il rischio di finire in galera è attenuato, e non è indispensabile dissimulare le proprie convinzioni. Occorre però fare i conti con una grande potenza, praticamente dominante nel campo della cultura per la sua capacità di attirare i migliori intelletti, cioè il Partito comunista.

Giangiacomo Feltrinelli dimostra non soltanto quell'«attitudine alla politica» che è necessaria per far fronte al PCI, ma una genialità di imprenditore, editore e organizzatore culturale così grande da lasciare il segno nella formazione di diverse generazioni. A Bianciardi questo singolare padrone non piace: «Poi ci sarebbe il Feltrinelli, detto il giaguaro: ventotto anni, occhiali, baffi, alto e robusto, ignorante come un tacco di frate, e ricco da far schifo. Ha le mani nel legname, nelle costruzioni edili, nei frigoriferi, nella Coca-Cola. Ha atteggiamenti esterni molto cordiali e sbracati: quando ci incontriamo parliamo sempre a base di manate sulle spalle e pacche sullo stomaco».

Detto in modo meno spregiativo, Giangiacomo è l'ultimo rampollo di una dinastia industriale, finanziaria e immobiliare che ha accumulato a Milano una gigantesca fortuna. Giacomo, il primo artefice delle ricchezze di famiglia, nativo di Gargnano, sul lago di Garda, si era arricchito dalla metà dell'Ottocento vendendo legname per le costruzioni ferroviarie e civili. Allo sfruttamento dei boschi lombardi e trentini, aveva presto aggiunto la proprietà di foreste in Carinzia e nei Balcani. Aveva reinvestito sempre il suo denaro, entrando in ogni impresa redditizia della sua epoca: la Edison, la Falck, la Società di navigazione del Garda. Aveva acquistato aree e immobili, e fondato la Banca Feltrinelli (che dal 1918 prenderà il nome di Banca Unione). Alla sua morte, nel 1913, i concittadini avevano forse recitato una preghiera per l'anima del ragguardevole defunto, proprietario su questa terra di un patrimonio personale di 60 milioni di lire.

Carlo, il padre di Giangiacomo, è pronipote ed erede, insieme ai fratelli, del pioniere Giacomo. Nato nel 1881, allarga il giro d'affari del legname, importandone da tre continenti, e reinveste altri profitti, diventando uno degli uomini più abbienti e rispettati della città di Milano, e naturalmente di Gargnano, dove possiede una villa, e dove costruisce ospedale, asilo e casa di riposo. Austero e amante della musica, Carlo aspetta di oltrepassare la quarantina per scegliersi una moglie. Nel 1925 sposa Giannalisa, ventiduenne bella e bizzarra figlia di Mino Gianzana, il primo impiegato assunto alla Banca commerciale di Joel e Toeplitz, che ha percorso una brillante carriera fino a diventare direttore centrale. Il primogenito Giangiacomo nasce il 19 giugno 1926. Orfano a nove anni, dopo la morte improvvisa di Carlo il 7 novembre 1935, è trascinato insieme alla sorella minore Antonella nell'esistenza lussuosa e vagabonda di Giannalisa, che nel 1940 sposa Luigi Barzini, figlio del giornalista che era diventato famoso per il viaggio in automobile fino a Pechino. I ragazzi Feltrinelli subiscono la straordinaria ricchezza della famiglia, compiono studi irregolari in casa e crescono lontani dal mondo della gente comune e dagli auspicabili affetti familiari. Giannalisa non è tenera con loro, e neppure Barzini.

Nell'ottobre 1942 la famiglia si rifugia nella villa dell'Argentario. Nel novembre 1944 Giangiacomo, che si è intanto diplomato a Roma, si unisce al corpo di combattimento Legnano, che risale la penisola insieme alla Quinta armata americana. Nel marzo 1945, quando si trova a Siena, si avvicina al PCI, al quale si iscriverà nel 1947. Nel 1946 a Milano si innamora di Bianca Dalle Nogare, una ragazza bella e impegnata, che sposa nel luglio successivo, nonostante il tentativo di Giannalisa di allontanarli: poiché Giangiacomo è molto ricco, ritiene l'onnipossente madre, è ovvio che sia stato irretito per il suo denaro. Giovanni Pesce, l'ardimentoso partigiano, ricorda il giovanotto in quel periodo di noviziato politico: «Feltrinelli, quando ci vedevamo, soprattutto voleva che io gli spiegassi perché la Resistenza, che pure aveva trionfato, fosse stata semicancellata da interessi politici ed economici che avevano portato al potere le stesse classi dominanti che avevano tenuto fascismo e monarchia in grembo».

Allevato in maniera stravagante, sconquassato come molti giovani dalla guerra, ora Giangiacomo si trova in una condizione strutturalmente infelice, come spesso capita a chi è troppo ricco: malvisto dai suoi pari per nascita e censo, non è ben visto neppure dai compagni che si è scelto. I primi lo considerano un traditore, i secondi un irregolare. Dal 1948, per giunta, è costantemente sorvegliato dalla polizia. A una condizone così infelice è possibile sfuggire soltanto conquistando un'identità più forte, e Giangiacomo è tanto abile da trovare la via d'uscita. Con la curiosità fresca di chi ha vissuto nell'isolamento senza compiere studi regolari, e con la passione di chi non ha ancora conosciuto le proprie più autentiche risorse, si dedica alla raccolta di documenti di storia del movimento operaio, in Italia e in Europa, affiancato da Giuseppe Del Bo. Prepara quella che un rapporto di polizia del 1951 definisce una «piccola università marxista», ma che invece è una biblioteca e un centro di ricerca. Si chiama Istituto Giangiacomo Feltrinelli, come il fondatore, il quale si assume una missione rigeneratrice: restituire agli italiani la memoria e far conoscere le origini e lo sviluppo della questione sociale (proprio nella città che l'ha vista nascere). Come scrive il figlio Carlo, Giangiacomo dà vita a un «centro di ricerca storica e sociale che, in un'Italia appena uscita dal fascismo e dalla guerra, potesse contribuire ad ampliare la memoria e approfondire la conoscenza del movimento operaio e delle proposte di innovazione sociale di cui esso è stato interprete».

Dal 1949 la redazione di «Milano sera», quotidiano di sinistra del pomeriggio, sforna anche i volumi della collana «Universale economica del canguro». Sono libretti da 100 lire l'uno, pilastri del sapere, classici messi insieme con carta di infima qualità, ma estremamente preziosi per chi vuole leggere «un libro alla settimana contro l'oscurantismo», come recita lo slogan. Costano poco a chi li compera ma parecchio a chi li pubblica e li sostiene, cioè al PCI. Per correre ai ripari, viene costituita la Cooperativa del libro popolare, COLIP. Le sue perdite sono ripianate da Feltrinelli, di anno in anno, fino al 1954, quando sono usciti già duecento titoli. Fin dal settembre 1951, però, Giangiacomo ha imparato abbastanza per capire che le case editrici non possono fare beneficenza, ma vivono perché «appoggiano le loro edizioni a basso prezzo al tronco principale di una vasta produzione editoriale».

Di nuovo Feltrinelli è coinvolto nella missione di fondare e divulgare una cultura libera, aggiornata e accessibile. Per questo occorre costruire una casa editrice vera, non un giocattolo da sfaccendati. Il mestiere gli piace, ha talento nella scelta dei testi e delle persone, adopera un pugno di ferro nella conduzione degli affari e ha in mente una strategia (tanto che affianca alla casa editrice una società, la EDA, per l'importazione e la distribuzione dei volumi, e la Feltrinelli Libra per gestire le piccole librerie, in modo da avere il controllo dell'intera catena di produzione e vendita). I primi due titoli della sua casa editrice sono in libreria nel giugno 1955, quando lui ha appena compiuto ventinove anni: Il flagello della svastica di Lord Russell of Liverpool (tradotto da Luciano Bianciardi) e l' Autobiografia di Jawaharlal Nehru, in linea con l'intenzione dell'editore, che è quella di perseguire tre principali filoni: dell'antifascismo, della coesistenza tra paesi liberi e della conoscenza di paesi lontani e poco noti. Del primo ufficio, in via Fatebenefratelli 3, racconta Bianciardi: «La nostra sede è bella, dicono: sembra un negozio di profumi; tutto a base di tavoli moderni, cristalli e materie plastiche colorate. L'arredamento l'ha curato la moglie del padrone, detta la giaguara, ex morta di fame assurta ai fastigi della ricchezza e della potenza: è odiosa e carina».

All'inizio del 1956 Feltrinelli apprende dell'esistenza di un romanzo del russo Boris Pasternak. Quando ha già avviato i contatti con lo scrittore, apprende però che Il dottor Zivago è disapprovato dalle autorità sovietiche e che la pubblicazione è rinviata, forse sarà cancellata. Comunista e leale nei confronti del suo partito, Feltrinelli è tuttavia un editore, e tiene fede alla parola data a Pasternak di pubblicare il volume (tanto più che, se sarà il primo a farlo uscire, ne deterrà i diritti mondiali). Lo affida per la traduzione a Pietro Zveteremich, mentre procede un complesso negoziato che coinvolge, oltre all'autore e all'editore, l'Unione degli scrittori sovietici, il PCUS e il PCI. Quando Zivago va in libreria, il 23 novembre 1957, l'attesa dei lettori è grande come la disapprovazione della gerarchia comunista italiana e di quella sovietica. Il compagno Feltrinelli, che prende molto sul serio la sua identità di editore, sopporta così i rimbrotti del PCI per aver avuto comportamenti «incompatibili con i doveri di ogni militante comunista». Mario Alicata, che non è riuscito a piegarlo, scrive a conclusione della vicenda che «prevalse in quell'editore la cupidigia (non necessariamente mercantile) d'un colpo grosso editoriale».

Eppure Feltrinelli ha agito senza pregiudizi, valendosi della bussola editoriale: Pasternak vince il premio Nobel, le vendite sono alle stelle, l'opera resiste al tempo, ne uscirà un film. È un editore fortunato. Alla fine del 1957 Giorgio Bassani gli consiglia di pubblicare il romanzo di un gentiluomo siciliano, morto nel luglio precedente. Il manoscritto è stato bocciato da varie case: Einaudi lo ha respinto, Mondadori ha temporeggiato, su consiglio di Vittorini, che lo vorrebbe emendato e corretto. I giudizi degli esperti sono negativi: è l'opera di un dilettante, stravolge la storia patria, non risponde ai canoni classici, e così via. Feltrinelli non ha niente da perdere e lo pubblica. Il Gattopardo di Giuseppe Tomasi di Lampedusa esce nel dicembre 1958 e di nuovo il successo è strepitoso e duraturo. Il PCI non smette di rimproverare al compagno editore di indulgere a opere decadenti. La casa editrice e la sua libreria di via Manzoni (un self-service moderno, luminoso e accogliente, ben diverso dai polverosi antri di un sapere stantio che usavano essere i negozi di libri) occupano ormai un posto privilegiato nell'orizzonte di una generazione giovane, che non ha patito né le adunate fasciste né la fame bellica. Al contrario, i baby boomers che nel 1960 entrano al liceo sono liberi, curiosi e voraci.

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EPILOGO



Le mani che posano una borsa di pelle nera sotto il tavolo ottagonale, nel salone centrale della Banca nazionale dell'agricoltura in piazza Fontana il 12 dicembre 1969, restano misteriose come quelle che nel 1928 hanno infilato l'ordigno esplosivo dentro il lampione di piazzale Giulio Cesare. Nell'uno e nell'altro caso l'assassino è competente: colpisce uno dei luoghi più affollati della città, dove il venerdì si danno appuntamento gli agricoltori per conferire sanzione ufficiale ai patti commerciali, già stipulati in campagna con una stretta di mano. Pur avendo lasciato alle spalle la ricchezza della seta, dei cereali e dei latticini, per guadagnare quella metalmeccanica e chimica, Milano è tuttora il principale mercato dei prodotti agricoli della pianura, della collina e qualche volta della montagna (come mostrano i venditori di caldarroste sparsi d'autunno agli angoli delle strade, con le castagne arrostite e fumanti, avvolte in fogli di giornale). Si anima così, ogni settimana, il palazzo grigio costruito all'inizio del secolo, vicino all'arcivescovado, che si affaccia sulla graziosa fontana disegnata dal Piermarini. Qui, dove ora si agita un'onda invernale di cappelli grigi e mantelli scuri, in estati lontane il conte Gabriele Verri sostava per sorseggiare un po' d'acqua.

Alle 16.36 l'esplosione risuona fin oltre la cerchia dei vecchi bastioni, scava una buca profonda 80 centimetri, manda all'aria il tavolo ottagonale e in briciole i vetri, sparando schegge in ogni direzione. Quattordici persone sono dilaniate e uccise subito, altre due muoiono poco dopo, i feriti sono ottantasette (trentatré impiegati dell'istituto di credito, quarantacinque clienti, sette passanti e due persone nel vicino ristorante L'Angelo). Rievocheranno i giudici di Catanzaro parecchio tempo dopo che «fra calcinacci e resti di suppellettili, vari corpi senza vita e orrendamente mutilati, molte persone sanguinanti urlavano il loro terrore».

Il quattordicenne Enrico Pizzamiglio perde una gamba. Corrado Fioravanti, parroco di Cinisello Balsamo, vede due persone volare fuori dalle finestre. Lui è salvo, e va in cerca di feriti da confortare o defunti da benedire. Michele Priore, allievo sottufficiale di polizia, scende dall'autobus al momento dello scoppio. Corre verso la banca, entra nel salone, a terra scorge un uomo, il suo braccio è volato via lasciando un grumo di sangue. Il giovane commissario Achille Serra riceve una chiamata all'autoradio: «È esplosa una caldaia». Quando raggiunge la piazza, si rivolge alla centrale: «Occorrono cento ambulanze». Il novellino ha perso la testa, commentano i colleghi, ma alla fine si mobilitano novantotto mezzi di soccorso.

Quello stesso pomeriggio verso le quattro e mezzo, un commesso della Banca commerciale di piazza della Scala, Rodolfo Borroni, nota una borsa di pelle nera, posata a terra vicino a un ascensore. È particolarmente pesante; la apre e scorge una cassettina metallica. In quel momento sente il botto da piazza Fontana. Più tardi il brigadiere Vincenzo Ferrettino, specialista artificiere, fa sotterrare la borsa e il suo contenuto nel giardino (confinante con quello dove Alessandro Manzoni curava le amate piante). Verso le nove di sera sopraggiunge un perito ingegnere, che la fa brillare, applicando il tritolo alla serratura. Svanisce così una prova preziosa per l'identificazione dei colpevoli. A quell'ora si e ormai capito che si tratta di un attentato, il quale nella versione ufficiale diventa subito «il gesto folle di un anarchico».

Da mesi ormai l'aria è pesante. Nel maggio 1968 le quattro università milanesi sono occupate. L'8 giugno dal «Corriere della Sera», circondato da barricate, non escono i mezzi che distribuiscono il quotidiano. Il 28 novembre alcuni gruppi di studenti prendono possesso dell'hotel Commercio di piazza Fontana, chiuso per lavori. Con il 1969 iniziano gli attentati dinamitardi, i quali non hanno nulla a che fare con l'inquietudine studentesca, ma servono a diffondere la paura. In autunno si prepara il rinnovo dei contratti per i metalmeccanici, chimici, edili, bancari. Lo scontro è duro: i datori di lavoro non intendono concedere e i lavoratori sono decisi a ottenere. Nella capitale del lavoro, gli scioperi si susseguono e i cortei si moltiplicano. Il 19 novembre 1969, dopo uno sciopero per la casa, celebrato con un comizio sindacale al teatro Lirico, la polizia carica con abbondanti caroselli di jeep. Muore il poliziotto Antonio Annarumma, ma non è chiaro se la sua testa sia stata fracassata dallo schieramento avversario oppure sia stata schiacciata in uno scontro tra camionette. Un filmato della RAI che mostra uno scontro tra camionette, forse quello che è costato la vita ad Annarumma, scompare dall'archivio. A sera, nella caserma di piazza Sant'Ambrogio, i colleghi del morto salgono sulle auto, suonano clacson e sirene, vogliono uscire per dare la caccia al sovversivo. Ai tempi di Radetzky le truppe venivano caricate ad acquavite. Ora la loro aggressività, già nutrita dalle durissime condizioni del servizio — lontani dai loro cari, vessati da orari massacranti e da un regolamento feroce —, viene alimentata contro i «rossi», operai o figli di papà. Quella notte alla fine torna la calma.

Al funerale di Annarumma, nella chiesa di San Carlo al Corso, spuntano i gagliardetti della RSI. Mario Capanna, uno dei capi del Movimento studentesco, è assalito e malmenato, come altre 27 persone tra civili e agenti. Dei fascisti arrivati a frotte scrive Arturo Gismondi sul quotidiano romano «Paese Sera»: «Maturi signori e donne della buona borghesia lombarda che avevano fiutato il vento favorevole ed erano accorsi in buon numero avendo finalmente una vittima da fare, e da scagliare contro gli operai, li eccitavano istericamente, applaudivano alle violenze più infami». A peggiorare le cose Giuseppe Saragat, presidente della Repubblica, definisce la morte di Annarumma un «odioso crimine», avendo già deciso che non si è trattato di un incidente.

I «neri» di tutta Italia ricevono l'incoraggiamento del settimanale romano «Il Borghese»: «Se il 19 novembre scorso gli ufficiali delle caserme di Milano avessero deciso di occupare la città ... non avrebbero incontrato resistenza e sarebbero stati applauditi dalla maggioranza della popolazione». Nasce così uno dei luoghi comuni che faranno furore nel decennio successivo: quello dell'esistenza di una maggioranza silenziosa, amante dell'ordine, ossequiosa dell'autorità e insidiata nel suo quieto vivere da una minoranza rumorosa di agitati. All'inizio di dicembre si profila un lungo ponte: venerdì 5 è il secondo e ultimo giorno dello sciopero dei bancari; sabato 6 e domenica 7 - la festa di Sant'Ambrogio, con l'inaugurazione della stagione scaligera - sono impegnati nelle compere natalizie; lunedì 8 è la ricorrenza religiosa dell'Immacolata. Martedì 9 dicembre quando riprende il lavoro, i metalmeccanici dell'industria pubblica firmano il rinnovo del contratto nazionale, aprendo la strada a un accordo anche nel settore privato (raggiunto il 21 dicembre successivo). Giovedì 11 anche i bancari hanno ottenuto il nuovo patto.

Non era dunque la prova generale della rivoluzione, ma una battaglia - dura e decisa - per condizioni di vita e di lavoro eque e dignitose. Eppure il 9 dicembre alla Camera il ministro dell'Interno Franco Restivo riferisce sull'ordine pubblico, affermando che, dei 51 attentati (ma secondo altre fonti sono stati 145) degli ultimi quattro mesi, 28 sono attribuibili alla sinistra e 23 alla destra. Debutta in questa occasione un altro dei luoghi comuni più divulgati negli anni a venire: quello degli opposti estremismi. In questo scenario, ispirato alla propaganda più che alla realtà, la «maggioranza silenziosa» schiacciata tra gli «opposti estremismi» può essere salvata da un pugno forte.

I milanesi credono a quel che vedono: le fotografie dei corpi dilaniati di piazza Fontana, piu tardi vedranno quella della faccia stralunata di Pietro Valpreda, indicato come «il mostro» che ha assassinato tanta brava gente. Sono pochi coloro che non si lasciano abbindolare, non temono il «fango che sale» e detestano le «leggi speciali». Grazie al loro lavoro di scavo verso le verità nascoste, prende forma l'ipotesi che gli attentati siano gli stumenti di una strategia che vuole creare il massimo dell'emergenza per ricorrere a soluzioni straordinarie. Ben lontana dall'essere «il gesto folle di un anarchico», la strage di piazza Fontana appare così l'azione di un'alleanza tra servizi segreti e sicari fascisti. La lezione di Mussolini è stata ben digerita da un apparato dello Stato che non è mai stato riformato: creare disordine per assumersi il merito di riportare l'ordine. Gli alti ranghi delle forze di sicurezza - come del resto molti politici - sono cresciuti nel regime fascista, transitando indenni nella repubblica democratica (all'inizio del decennio, si contano solo un questore e cinque vicequestori che hanno fatto la Resistenza, su parecchie centinaia di quadri superiori).


«Sa, abbiamo molto da fare»

La sera di venerdì 12 nella questura di via Fatebenefratelli - l'antico Collegio Longone dove hanno studiato, tra gli altri, Alessandro Manzoni e Federico Confalonieri - si contano circa tre centinaia di fermati. Tra loro c'è il ferroviere Giuseppe Pinelli, detto Pino. Alle sei e mezzo di quel pomeriggio il giovane commissario Luigi Calabresi era andato a cercarlo al circolo anarchico di via Scaldasole, a porta Ticinese. Lo aveva trovato lì, insieme a Sergio Ardau, e aveva invitato entrambi in questura. Ardau sale sulla Fiat 850 dove siedono anche l'appuntato Oronzo Perrone - al volante -, il brigadiere Vito Panessa e lo stesso Calabresi. Pinelli seguirà in motorino. Una volta arrivato, lo fanno accomodare in uno stanzone dove, a mano a mano che arrivano i fermati, apprende i dettagli dell'attentato e la sua attribuzione agli anarchici. Comincia a preoccuparsi. Alle tre del sabato 13 dicembre, quando è stanco e debilitato, lo chiamano per il primo interrogatorio. Soltanto alle dieci e mezzo della sera può addormentarsi su una branda. È ancora più preoccupato, capisce che intendono usare le sue dichiarazioni per incolparlo insieme a Pietro Valpreda, un ballerino trentasettenne, anarchico anche lui. A conferma della sua ansia, vede rilasciare a uno a uno altri fermati. La mattina di domenica 14 lo aspetta un secondo interrogatorio e un terzo alle otto e mezzo di sera. Scadute le 48 ore del fermo, dovrebbe essere rilasciato o arrestato, invece lo trattengono ancora. Adesso è sfinito - in due giorni ha mangiato solo qualche panino - e frastornato, ma alle sette di sera di lunedì 15 inizia il quarto interrogatorio. Pino non lo sa, ma Valpreda è già stato arrestato al palazzo di Giustizia, dove si trovava insieme agli avvocati Luca Boneschi e Gianluigi Mariani, per essere ascoltato su una vecchia accusa.

Nella stanza al quarto piano della questura si trovano quella notte il vicequestore Antonino Allegra, il tenente dei carabinieri Sabino Lograno, i sottufficiali Carlo Mainardi, Vito Panessa, Giuseppe Caracuta e Pietro Muccilli, oltre a Luigi Calabresi, che per primo comunica: «Valpreda ha confessato». Pinelli non sa se sia la verità o una trappola, e si prepara a rispondere con precisione e coerenza alle domande insidiose che verranno. Secondo la sentenza scritta da Gerardo D'Ambrosio, «l'aria della stanza è greve, insopportabile. Apre il balcone, si avvicina alla ringhiera per respirare una boccata d'aria fresca, una improvvisa vertigine, un atto di difesa in direzione sbagliata, il corpo ruota sulla ringhiera e precipita nel vuoto». Un'ambulanza viene chiamata cinquantotto secondi dopo la mezzanotte. Nel cortile però stazionano alcuni cronisti, i quali asseriscono di aver sentito il tonfo della caduta quattro minuti dopo la mezzanotte. Forse Pinelli si era sentito male prima di cadere? È stato lanciato nel vuoto? Si è buttato?

Un quarto d'ora prima della una, Alberto Malagugini, avvocato, deputato del PCI, avvertito della morte di Pinelli dalla redazione dell'«Unità», si precipita in via Fatebenefratelli. Incontra il questore Marcello Guida (uno delle centinaia di questori che hanno intrapreso la carriera seguendo le regole fasciste), il quale dichiara che Pinelli era «pesantemente indiziato». Aggiunge che ne ammira la coerenza e il coraggio che lo ha spinto al suicidio. Allibito, Malagugini risponde: «Io non potrei ammirare un assassino». Ma era davvero l'assassino? All'una e mezzo Guida mente in una conferenza stampa: Pinelli era stato fermato ed era gravemente indiziato: «Il suo alibi era caduto. Si è visto perduto».

Intanto, pochi minuti dopo la una, in via Preneste 2, dove abita la famiglia Pinelli, due giornalisti del «Corriere della Sera» si presentano a Licia Rognini, la moglie del ferroviere: «Signora, è successa una disgrazia a suo marito». Angosciata, lei telefona a Calabresi: «Dov'è mio marito?». «Al Fatebenefratelli» risponde il commissario. «Perché non mi avete avvertito?» «Perché, sa, abbiamo molto da fare.» Pinelli muore all'ospedale senza che nessuno dei parenti abbia potuto vederlo. L'autopsia si svolge in assenza dei periti di parte e non accerta la causa della morte.

Lunedì 15 si svolgono i funerali delle 16 vittime, celebrati in Duomo dall'arcivescovo Giovanni Colombo (il quale nel 1963 è succeduto a Montini, che è stato eletto papa con il nome di Paolo VI) alla presenza di una folla gigantesca. Sabato 20 dicembre, in un pomeriggio gelido e scuro, il funerale di Pinelli è seguito da poche decine di persone e qualche agente in borghese che prende nota dei presenti nel tetro panorama di Musocco, il cimitero della gente comune. Sventolano bandiere rosse e nere, mentre si alza un piccolo coro di Addio Lugano bella, la canzone degli anarchici. Ormai Pietro Valpreda è additato come il «mostro». Tanto più che un autista di taxi, Cornelio Rolandi, ne ha visto la fotografia sul giornale e ha raccontato agli inquirenti una storia curiosa. Quel venerdì lui era al posteggio di piazza Beccaria, quando era salito un cliente che voleva essere portato in piazza Fontana, alla Banca dell'agricoltura, distante 135 metri. Quel cliente, Rolandi ne è certo, aveva la faccia di Valpreda.

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Era necessario un governo più stabile, con una maggioranza allargata. Un lento processo aveva condotto una parte della DC ad allearsi ai socialisti, e Aldo Moro a varare nel 1963 il primo governo di centrosinistra, dove per la prima volta dal 1947 erano tornati alcuni ministri socialisti. Sono aperte le porte al bolscevismo, alla fine della proprietà privata, al caos? Tale paura è alimentata dagli attentati, e rinfocolata da «giornali pantofola» come il «Corriere della Sera». Dopo una serie di avvisaglie - una si era affacciata nell'estate 1964 quando, caduto il gabinetto Moro, il generale Giovanni De Lorenzo aveva pronto un colpo di Stato, facilitato dall'invalidità del presidente della Repubblica Antonio Segni - esplode la bomba di piazza Fontana.

Milano è divisa tra il vivo desiderio di riforme e la più gretta conservazione. Le prime giovano alla vitalità economica e culturale: quella che porta la data del 1961 ed elimina la legge fascista contro l'inurbamento, o quella che nel 1963 innalza l'istruzione obbligatoria a 14 anni, ma anche le leggi che attuano la parità femminile prevista dalla Costituzione e ignorata dalle norme in vigore, tanto utili per liberare una grande forza di lavoro. Ma è in vista soprattutto l'istituzione delle Regioni, dalle quali la città attende maggiore autonomia amministrativa e politica.

All'altra, alla gretta conservazione, sono attaccati i potentati piccoli e grandi: chi vive di rendita, gli speculatori, l'industria parassitaria, la burocrazia. Come al tempo delle corporazioni, quando Giovanni Borromeo non riusciva a intraprendere un'attività industriale e commerciale, è in gioco la libertà, una libertà sempre più ampia. Ma le aspirazioni all'innovazione utile, nutrite dalla parte migliore della città, si arenano nell'emergenza generata dal terrorismo. Anche se molte riforme vengono attuate, Milano perde la spinta propulsiva che l'aveva contraddistinta dal dopoguerra.

I milanesi vivono abbastanza bene, certamente meglio del resto degli italiani, governati da maggioranze municipali di centrosinistra: lavorano, pagano le tasse e godono di buoni servizi pubblici (dall'ottobre 1969 è aperta la seconda linea della metropolitana). Ma i fiori all'occhiello della città amabile e operosa appassiscono uno dopo l'altro: nel 1966 si erano fuse la Montecatini e la Edison; nel 1967 l'ENI e l'IRI, enti di Stato, ne avevano preso il controllo, aprendo un ventennale capitolo di pasticci industriali e finanziari, e di sperpero delle risorse. Nel 1969 la Rinascente era passata alla Fiat, che nutriva parecchio interesse per la sua liquidità e molto meno per le sorti del grande magazzino. La Pirelli, che si era costruita un elegante grattacielo, lo venderà alla Regione che intende farne la propria sede. Tramonta il primato produttivo della città (mentre è in ascesa la burocrazia pubblica, e infatti il comune di Milano sta per diventare il maggior datore di lavoro con circa 50 mila dipendenti).

Mentre l'anima riformista della città viene messa a dura prova, si apre una di quelle stagioni di ripiegamento e attesa, durante le quali i luoghi più attraenti della città sono quelli dello spirito e dell'intelletto: le università, le biblioteche, i musei, gli studi professionali, le case private. Più amara e un po' meno amabile che in passato, Milano tocca il picco della popolazione nel 1974, con 1,74 milioni di abitanti. Quel numero si riduce, sia pure di poco, negli anni successivi, mentre si diradano i nuovi nati e si moltiplicano gli anziani.

Terreno di sperimentazione delle riforme austriache, capitale della ciclonica innovazione napoleonica, culla della prima insurrezione popolare nel 1848, nido della questione sociale al tempo di Bava Beccaris, laboratorio del fascismo all'indomani della Grande guerra, anche dopo il miracolo economico Milano digerisce lentamente la mortificazione. Sulla destinazione della spesa pubblica, sui nuovi investimenti per la modernità, non si discute, è tutto deciso a Roma, negoziato tra i partiti, i sindacati, i potentati economici e finanziari, che sono le corporazioni del ventesimo secolo. Come aveva già notato Piovene, Milano rimane una grande borgata, incapace di diventare metropoli, incompresa dal resto del paese, e incapace di far valere i suoi primati. Ma è pur sempre una «città conclusiva», come notava Gadda. La maledizione di aver conosciuto per cinque secoli soltanto padroni esterni le ha tolto il gusto del potere e le ha negato l'abilità di gestirlo. Eppure ai milanesi rimane l'orgoglio del lavoro e la gioia di produrre, una bonarietà aliena da strappi e arroganze, uno spirito civico che, se vogliono, sanno trasmettere ai milanes ariós. Quando piegano la testa per circostanze indipendenti dalla loro volontà, è segno che preparano una lunga, formidabile rincorsa.

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