Copertina
Autore Paolo Bonetti
Titolo Il purgatorio dei laici
SottotitoloCritica del neoclericalismo
EdizioneDedalo, Bari, 2008, Libelli vecchi e nuovi 7 , pag. 222, cop.fle., dim. 12,5x21x1,6 cm , Isbn 978-88-220-5507-1
PrefazioneEnzo Marzo
LettoreLuca Vita, 2008
Classe politica , relativismo-assolutismo , religione
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Indice


Un laico in piedi                            5
di Enzo Marzo


Premessa
Chi è laico?                                11

Capitolo primo
Liberali veri e falsi                       13

C'est la faute à Rousseau                   15
Servi e padroni                             17
Élites e populismo                          18
Liberalismo invertebrato                    25
Sinistri e destri clericali a ore           27
Economia e ideologia                        29
La guerra etica                             31
Sant'Ambrogio e l'individualismo            33
Catholic chic                               35
I cattolici della domenica                  37
Religione e liberalismo                     39


Capitolo secondo
La religione con gli occhi del laico        47

Chiedere perdono                            49
Il mestiere di papa                         51
Religione o teatro?                         53
La verità è mia e la gestisco io            55
Un papa protestante                         60
Rinascita religiosa                         62
Il papa e il trionfo dell'Illuminismo       64
La fede e le opere                          67
Cattolicesimo inquieto                      69
Il cardinale e la coscienza                 71
La Chiesa è relativista                     73
La retorica dell'amore e della vita         75
Amor di papa                                82
Non nominare il nome di Dio invano          88
Ratzinger e la modernità                    90
Voltaire non abita fra noi                  96
Divorzio dalla realtà                       98
La Chiesa e il suo popolo                  100
La moschea della Provvidenza               102
I muri invalicabili della Chiesa cattolica 104


Capitolo terzo
La scuola dei laici                        111

Scuola e Stato                             113
Quale parità?                              116
Laici o neosacrestani?                     118
Lettera semiseria di un genitore ateo      120
Il ministro e le mantenute                 124
Lo Stato etico                             126


Capitolo quarto
L'eros dei laici                           129

Omosessualità e politica                   131
Il papa e Almodóvar                        133
L'ultima trincea                           135
Omosessualità e laicità                    137
La persecuzione contro i gay               139
Scienza e coscienza                        143
I patti del buon senso                     145
Siamo uomini o chierichetti?               147


Capitolo quinto
Etiche laiche                              151

Perché non possiamo dirci "cristiani"      153
I pericoli della fede                      155
Laicità e frontiere dell'etica             157
Religioni e rispetto                       161
Religione e laicità                        163
Caccia al relativista                      165
Sapere aude!                               167
Il principio di laicità                    169
La pace del laico                          171
Laici buoni e laici cattivi                173
Laicità della bioetica                     178
La fede del laico                          180
Una verità meno splendente                 182
Populismo laico                            184
Essere laici                               186
La doppia morale e l'etica laica           190
Il testamento biologico                    192


Capitolo sesto
Dialoghi                                   197

Dialogo sul laicismo
Norberto Bobbio - Paolo Bonetti            199

La natura dell'uomo è la libertà
Paolo Bonetti - Sergio Belardinelli        207

 

 

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Un laico in piedi
di Enzo Marzo



Questo Journal laico è una medicina salutare in questi tempi di fondamentalismo irragionevole. Il clericalismo nostrano, di fronte alle follie islamiche, non intende esser da meno. E, sentendosi mordere i talloni dalla modernità, accende i toni, si aggrappa a ciò che considera la parte più forte del suo pensiero, diventa sempre più intollerante e attaccato al potere. Si occupa sempre più di politica e sempre meno di fede. Ma con grande astuzia.

La gerarchia della Chiesa romana sa di non avere tra le sue armi il fanatismo disperato dei martiri-suicidi musulmani. Sa che la sua capacità di penetrazione nelle terre di missione non regge al confronto con l'Islam, né con certo evangelismo aggressivo. Sa che la presenza nel nostro paese di sempre più grandi comunità extracomunitarie fa crollare le giustificazioni dei privilegi legati al monopolio religioso. Sa che in Italia, e probabilmente anche nel resto dell'Europa, il processo di secolarizzazione è continuo, non veloce, ma implacabile. Sa che, se l'accresciuta incertezza e instabilità del vivere quotidiano possono alimentare quella paura che porta al "sacro", l'eventuale aumentata religiosità è così influenzata dai modelli occidentali che più facilmente si realizza in una spiritualità individuale e "privata" che taglia fuori la mediazione del prete.

Queste, e altre considerazioni simili, ci hanno portato recentemente a constatare che la Chiesa cattolica è ormai sulla soglia di una crisi di nervi. Con alcune conseguenze sgradevoli. Come accade a tutte le forze nei loro momenti di profonda decadenza, la Chiesa, sentendosi circondata, reagisce con arroganza e si chiude in se stessa diventando sempre più autoritaria. Prima di tutto, si aggrappa al mantenimento e all'allargamento dei suoi privilegi. È noto che nel magistero della Chiesa, costante e duraturo è stato il livore verso la libertà religiosa. Solo il Concilio vaticano II ha costituito una breve parentesi, presto chiusa, nella continua lotta contro la libertà di culto altrui. Se c'è un fenomeno che andrebbe meglio messo in luce dagli analisti della politica vaticana (ma ce ne sono di indipendenti?) è proprio quello della contraddizione plateale tra il "dire" e il "fare". I malevoli possono insinuare che l'ipocrisia è una malattia della Chiesa cattolica talmente antica che è citata ampiamente dalla saggezza popolare. È vero, ma mai come in questi tempi la Chiesa ha approfittato del quasi monopolio nella "propaganda" per percorrere contemporaneamente due rette parallele destinate, come tali, a non incontrarsi mai nella realtà.

La dottrina fa sue le parole d'ordine generalissime della modernità liberale (libertà, diritti, ragione) e nello stesso tempo corre verso il Medioevo del dogma, della morale naturale, degli istituti sociali che vengono "eternizzati" in una visione astorica. È relativistica e "contestualizzatrice" solo quando più le fa comodo.

Se questa è una strada, e abbiamo visto quanto sia contraddittoria in sé, la Chiesa nella pratica e nell'insegnamento di ogni giorno mostra un'altra faccia: più disumana, più rigorosamente clericale.

I laici, anzi i laicisti (per assumere il linguaggio dispregiativo dei clericali), sovente portano l'esempio della pena di morte. È un po' un caso emblematico che fotografa perfettamente sia la "faccia tosta" della Chiesa, che imperturbabile percorre i due binari contraddittori, sia anche (però) la terribile forza mediatica che ha capacità paralizzante del pensiero critico circoscritto in una enclave asfittica. Soltanto così un'indecente menzogna riesce a sopravvivere tranquillamente. Infatti la Chiesa cattolica in tutta la sua dottrina, ha sostenuto per millenni la liceità, anzi la necessità della pena di morte. Essa stessa ne ha fatto abbondante uso per singoli e masse. Senza mai pentirsene. E anche dopo che il pensiero illuminista portò a un sempre più diffuso ripensamento e alle prime legislazioni abrogazioniste, la Chiesa di Roma rimase imperterrita a difendere e ad adottare quel terribile strumento contro la "sacralità della vita". Ancora oggi nel recente Catechismo ufficiale della Chiesa cattolica è prevista la legittimazione della pena di morte, nella pratica e nei princìpi. Il Compendio dello stesso la ribadisce. D'altronde, nella battaglia politica che si sta svolgendo a livello planetario contro quel residuo di antica inciviltà, la Chiesa si defila sempre. Malgrado ciò, è talmente abile (ed è così poco tallonata) che nell'immaginario collettivo, proprio la Chiesa passa per essere la maggiore centrale che difende la vita umana.

Un altro esempio. Proprio in questi mesi è condotta con baldanza una campagna sull'aborto. In prima fila un ateo. In quarta fila mammane e cucchiai d'oro. Il pontefice è intervenuto più volte, ma si è sempre dimenticato di chiedere perdono per la sconsiderata e mortifera campagna politica che fu condotta dalla Chiesa romana e dalle forze cattoliche contro la legge del 1978 per la legalizzazione dell'interruzione volontaria della gravidanza. Eppure la Chiesa non contesta i dati davvero rilevanti (un milione in meno, il 45 per cento, il quasi azzeramento della clandestinità) che ufficialmente vengono forniti dagli organismi preposti sul numero di aborti e di decessi di partorienti che quella legge ha evitato. Quindi è un dato di fatto incontestabile che il referendum del 1982, se avesse abrogato quella legge, sarebbe stato criminogeno e portatore di morte.

Ugualmente mortifera è la criminale campagna contro la contraccezione. Son cose tutte note. Ma spaventa che queste politiche, che un tempo – riferendosi all'AIDS in Africa – un illustre giornalista moderato definì "hitleriane", trovino soltanto complici reticenti. Che la Chiesa le perpetui pure, che continui a mettere in discussione diritti e leggi civili, ma almeno lo paghi lasciandosi giudicare per quel che è e non per un'immagine fasulla e opposta che riesce a dare di sé. E invece, molto abilmente, la gerarchia cattolica si nasconde dietro princìpi che ha sempre detestato, ma che sa oggi essere "invincibili". Nel frattempo conduce con una certa fretta una marcia verso il passato remoto.

Tutta questa premessa serve per sottolineare l'importanza di questo libro di Paolo Bonetti, che raccoglie e arricchisce interventi presenti lungo l'arco di un decennio sul mensile di sinistra liberale "Critica liberale". Noi di "Critica" non apparteniamo al laicismo settario che si piange addosso, rivendichiamo una piena libertà religiosa, ci rifacciamo in modo sfacciato a quell'impegno laico e liberale che negli anni '50 e '60 del secolo scorso fu proprio del "Mondo" di Mario Pannunzio. E Bonetti costituisce uno degli anelli di congiunzione con quella esperienza. Come accadeva per il "Mondo", il diario laico del nostro autore sta sulla realtà, non si perde in astrazioni, denuncia clericalismi concreti. E poiché la nuova ondata integralista risale agli ultimi due pontefici, e si propone con modalità sempre uguali, la sua cronaca è attualissima. In queste pagine si parla dell'oggi. I nodi importanti sono tutti ripresentati con coerenza e pervicacia. La pretesa della Chiesa di imporre per legge statale – e quindi valida per tutti, credenti e non credenti – i dettami della sua particolare morale è un insulto allo stato di diritto. E, diciamolo chiaramente, al nostro liberalismo. Ouello stesso liberalismo di cui Ratzinger, entrando nel Conclave che lo farà papa, ha tenuto a dichiararsi espressamente nemico. Ogni pagina di questo libro si ribella all'idea di uno Stato etico e intollerante. Sollecita la discussione, frusta e deride quelli che Viano ha definito efficacemente "laici in ginocchio", ripropone incessantemente le ragioni della laicità contro il quotidiano pervertimento delle parole e dei significati. Nel purgatorio dei laici di Bonetti molte sono le afflizioni quotidiane e i soprusi da patire, ma certamente tra le punizioni più dolorose c'è questo uso "al contrario" dei concetti. Così il papa pasticcia cercando di conciliare ragione e dogma, la ricerca e la condanna della scienza, i diritti della donna e la sua subordinazione ai precetti ecclesiastici, la libertà religiosa e i privilegi egoistici, l'amore e l'omofobia. Appena ti distrai un attimo, la Chiesa cattolica ti ruba valori e te li restituisce svuotati o ribaltati. Benemerita è l'opera di quei pochi, come Bonetti, che stanno svegli e "in piedi", che non si distraggono mai, che usano costantemente le armi del ragionamento e della critica storica.

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Pagina 165

Caccia al relativista

Il prof. Marcello Pera, un tempo filosofo e poi presidente del Senato, ha certamente qualche indiscutibile merito per la diffusione in Italia di una moderna cultura liberale. Fra l'altro, ha scritto alcuni libri su Popper in tempi non sospetti, quando il pensatore austriaco era dalla cultura italiana o del tutto ignorato o trattato con sufficienza. Aggiungo subito che anch'io, come lui, credo fermamente nella superiorità morale della democrazia liberale occidentale e non mi vergogno di proclamarlo a destra e a manca. Ma credo anche di non essere il solo ad avere questa convinzione, nonostante gli errori e le colpe di cui le società liberali si rendono quotidianamente responsabili. Resta il fatto, però, che la democrazia liberale non è calata dall'alto dei cieli e neppure è uscita, già tutta ben formata, dalla testa di un qualche filosofo, ma è il prodotto di un lungo e faticoso processo storico, che non si è ancora concluso e fortunatamente mai si concluderà. Che cosa potrà diventare in futuro, sotto l'urgere di nuovi bisogni e di nuovi problemi, nessuno di noi lo può prevedere, perché, grazie a dio, è finito il tempo (o almeno così si spera) delle filosofie della storia. A minacciarla restano i sempre risorgenti fondamentalismi, poiché gli uomini temono la libertà non meno di quanto la amino, e cercano sempre qualcuno che li sottragga all'inevitabile precarietà del vivere liberi. Ma per il prof. Pera (si veda un curioso articolo, Per un jihad giudeo-cristiano, apparso recentemente sul "Foglio") il vero pericolo per l'Occidente cristiano e liberale è, in realtà, il relativismo, che ci induce all'equiparazione di tutte le culture e alla sostanziale denigrazione della nostra, fino a un vero e proprio disarmo, che è prima morale e poi politico-culturale. La colpa di questa apocalisse viene questa volta attribuita a Ludwig Wittgenstein (il secondo, quello delle Ricerche filosofiche) e poi anche a Derrida, al decostruzionismo e al cosiddetto pensiero debole.

Ho l'impressione che Pera si lasci fuorviare dall'orgoglio di mestiere e attribuisca alla corporazione dei filosofi un'influenza esagerata nella storia del mondo, specialmente del mondo contemporaneo: ma, al di là delle dotte citazioni, si capisce benissimo che quello che lo preoccupa è la tendenza della cultura occidentale odierna a mettere radicalmente in causa se stessa, con un coraggio che è quello della grande tradizione illuminista alla quale anche il presidente del Senato sembra riallacciarsi. Ma, allora, perché prendersela tanto con il relativismo culturale, se esso in definitiva coincide con l'incessante autocritica che la ragione liberale fa di se stessa? Nonostante le esagerazioni e le fumisterie di qualche filosofo, è proprio nell'umiltà di sentirsi parziale che questa ragione trova la forza di aprirsi al dialogo con il diverso da sé. E se l'altro non accetta il dialogo e risponde con l'aggressività dei fondamentalismi, non ci sarà certamente vietata una giusta difesa, purché i nostri comportamenti siano in coerenza con i valori che proclamiamo. Questo è il punto: non basta sbandierare, nei libri e nei discorsi, l'etica dei diritti umani universali per ottenere il rispetto e magari l'imitazione delle altre culture. L'etica dell'Occidente cristiano è terribilmente impegnativa e difficile da praticare: basti pensare che noi cerchiamo, da molti secoli, di conciliare Cristo con Machiavelli, le ragioni della pietà con quelle del potere e della sicurezza. E, contrariamente a quanto pensa qualche anima candida o fintamente tale, non è possibile sbarazzarsi di Machiavelli con qualche paternostro, laico o religioso che sia, perché la realtà della violenza, che nasce dall'insicurezza, è tale, in noi e negli altri, da non consentire troppe illusioni. Salvare i nostri corpi senza perdere le nostre anime, questa è la nostra tragedia quotidiana, altro che relativismo. Il prof. Pera ammette gli errori, ma poi ci invita a schierarci con Ratzinger per la difesa della nostra identità. Grazie, ma abbiamo già dato, in Campo de' fiori, molto tempo fa.

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Pagina 173

Laici buoni e laici cattivi

Non tutti i laici sono uguali – scrive "Civiltà Cattolica" – ci sono quelli buoni pronti a dialogare con i cattolici su «questioni particolarmente delicate, come l'aborto, le unioni di fatto etero e omosessuali, le questioni di genetica, il finanziamento delle scuole cattoliche», e ci sono quelli cattivi, quelli che praticano «un laicismo aggressivo e virulento», redarguito anche da Norberto Bobbio. I laici buoni, dice sempre la rivista dei gesuiti, per non essere confusi con le pecore nere, preferiscono parlare di "laicità", un termine, a quanto pare, meno aggressivo e anticlericale di laicismo. Sia ben chiaro però, proseguono implacabili i reverendi padri, che i princìpi base del laicismo (che sarebbero il "razionalismo assoluto", il "radicale immanentismo" e la "libertà assoluta") «restano saldi in ogni forma di laicismo, per cui il dialogo fra laici e cristiani risulta in ogni caso problematico». Mi pare che "Civiltà Cattolica" faccia un uso eccessivo dell'aggettivo "assoluto", peraltro assai poco laico. Conosco laici (direi la maggioranza) che professano un razionalismo disincantato e prudente, per nulla portato a mitizzare l'umana ragione, e altrettanti laici che non capiscono neppure che cosa sia la "libertà assoluta", poiché per libertà intendono molto semplicemente l'autonomia della coscienza morale. Infine, si può essere rigorosamente laici pur avendo fede nella trascendenza e respingendo ogni forma di immanentismo. In realtà, non esiste alcuna contrapposizione tra fede religiosa e laicismo né tantomeno fra cristianesimo e laicismo, bensì ne esiste una assai netta fra confessionalismo e laicismo, fra la pretesa di certe chiese di trasformare propri princìpi in norme giuridiche e il rifiuto dei laici di accettare la confusione fra la sfera della fede e quella del diritto. I laici "cattivi" non rifiutano alcuna discussione, ma chiedono fermamente che venga sempre rispettato l'ordinamento giuridico dello Stato come garanzia della pari libertà di tutti. Siamo per questo anticlericali, magari ottocenteschi?

Questa del rinato anticlericalismo è una storia alquanto buffa: ne parlano gli uomini di chiesa, ma ne parlano anche, con grottesca insistenza, intellettuali, giornalisti e politici che si proclamano laici. Eppure, nel nostro paese, mai come oggi la Chiesa cattolica ha goduto di tanta legittima libertà di svolgere, in molteplici forme, la sua opera di apostolato, mai come oggi è stata circondata dal rispetto, peraltro non sempre disinteressato, della classe politica, e dall'ossequio, talvolta smaccatamente servile, del sistema mediatico. Le voci del dissenso laico sono poche, isolate e spesso eccessivamente prudenti. Se si pensa alla dura polemica contro l'ingerenza ecclesiastica nella vita civile e politica di un Croce o di un Salvemini, di un Rossi o di un Pannunzio, bisogna dire che oggi il laicismo è quasi sempre flebile e sovente addirittura insicuro circa la propria legittimità. Capita sempre più frequentemente che siano taluni cattolici a difendere con maggior vigore e convinzione l'autonomia dello Stato e a contrastare l'invadenza del nuovo clericalismo. Quest'ultimo esiste davvero e, per quanto pericoloso e fastidioso, non è certamente un segno di forza spirituale da parte della Chiesa. Se essa fosse convinta della propria capacità di incidere, con la sua predicazione e con il suo esempio, sui costumi della società contemporanea, se insomma avesse fede nell'efficacia della sua opera di cristianizzazione delle coscienze, non chiederebbe, talvolta con protervia, l'aiuto del braccio secolare per imporre, a fedeli e non, comportamenti che questi rifiutano decisamente o sui quali sono perlomeno perplessi e scettici.

Contrariamente a quello che pensano certi studiosi di parte laica, che però sembrano conoscere poco l'attuale complessità del mondo cattolico, non esiste una contrapposizione fra laici e cattolici che starebbe prendendo il posto di quella fra destra e sinistra, ma c'è piuttosto, un conflitto, talvolta aspro, fra chi (laico o cattolico che sia) rifiuta la confusione fra società civile e società ecclesiastica, e chi, invece, ritiene del tutto legittimo (perfino fra certi cosiddetti laici) che, quando si tratta di aborto o di eutanasia, di coppie di fatto o di sperimentazione biologica, le leggi dello Stato recepiscano sostanzialmente i princìpi dell'etica cattolica come quelli che coincidono senz'altro con l' ethos diffuso della nostra comunità. Il laicismo, dunque, ridotto al suo nucleo essenziale, non è altro che la difesa, in ogni circostanza, dell'autonomia morale della coscienza individuale, e questa difesa non ha necessariamente come nemico la fede cattolica, così come non è pregiudizialmente in antitesi con qualsiasi altra credenza religiosa. Il vero credente, d'altra parte, sa bene che l'autenticità e il valore della sua fede sono garantiti soltanto dalla piena libertà della coscienza e che ogni costrizione giuridica, ogni tentativo, anche indiretto, di coartare la coscienza a vantaggio della fede, si risolve in una sconfitta per entrambe. Il conflitto fra laicismo (valore comune a credenti e non credenti) e religione sorge, dunque, quando non la fede dei credenti ma la volontà di potere, spirituale e materiale, di una qualche organizzazione ecclesiastica, cerca di distruggere il fondamento etico delle Stato laico e liberale, la pari libertà di ogni cittadino di vivere secondo le proprie convinzioni morali.

Posta questa essenziale premessa, non si può certo negare che la convivenza dei cittadini all'interno di un ordinamento giuridico che garantisce la pari libertà di ciascuno, si trova spesso alle prese con situazioni delicate e complesse, nelle quali è difficile tutelare i legittimi diritti di tutti; si prenda, tanto per fare un esempio, la recente questione della cosiddetta pillola del giorno dopo. Da una parte c'è chi la considera un normale metodo contraccettivo, che non distrugge alcuna persona umana pienamente formata, e ritiene quindi che debba essere messa a disposizione di ogni cittadino che la richieda, dall'altra ci può essere un farmacista cattolico (e in tanti paesi di farmacie ce n'è una sola) che si rifiuta di svolgere il suo pubblico servizio per imprescindibili motivi di coscienza. È, forse, pensando a situazioni come questa (ma se ne potrebbero elencare altre), che Gian Enrico Rusconi, in un suo libro recente, Come se Dio non ci fosse. I laici, i cattolici e la democrazia, contesta quello che egli chiama il laicismo tradizionale, fondato sulla tolleranza e sul primato delle libere scelte individuali. Per Rusconi, «i temi cruciali che dividono ora laici e cattolici investono esattamente e positivamente "il diritto pubblico" e non si lasciano riportare alla categoria soggettiva della tolleranza reciproca. Aprono un terreno nuovo di costruzione di vincoli collettivi (di leggi) su problematiche che toccano la sfera più intima della coscienza senza che possano essere più affidate semplicemente ad essa». Mi pare, però, che Rusconi dimentichi, così argomentando, che il vero conflitto non è fra laici e cattolici genericamente intesi (ci sono tanti fedeli cattolici che non si oppongono al riconoscimento giuridico delle coppie di fatto e perfino di quelle omosessuali), ma fra lo Stato laico e la Chiesa cattolica che pretende di imporre una legislazione conforme ai propri princìpi: di fronte a simili pretese, nessun discorso accademico sul «ripensamento del funzionamento della democrazia procedurale e discorsiva» può risultare davvero incisivo.

In realtà, uno spazio pubblico comune c'è già, ed è la Costituzione repubblicana voluta da laici e cattolici, una Costituzione che ha consentito, senza eccessivi traumi, l'introduzione, nel nostro ordinamento giuridico, del divorzio e, in determinati casi, dell'aborto. Si dirà che oggi le nuove tecnologie e i mutamenti del costume sociale pongono problemi assai più complessi, sui quali la legge fondamentale della Repubblica non ci offre sufficienti lumi. Non lo credo, quel punto di partenza è ancora valido proprio perché tutela, come valore primario, quella libertà della coscienza individuale, senza la quale ogni ulteriore discorso rischia di trasformarsi in qualche indigeribile e pericoloso pasticcio legislativo, anche con le migliori intenzioni. Lo abbiamo visto recentemente, quando il Parlamento ha affrontato la questione della fecondazione assistita. Dobbiamo, a mio parere, evitare i rischi della iperlegislazione, che in Italia sono sempre incombenti e rendono irrisolvibili problemi che andrebbero affrontati, piuttosto, con spirito di reciproca tolleranza e di fedeltà ai princìpi costituzionali. Resta, poi, inamovibile il macigno di una gerarchia ecclesiastica che, su certe questioni, almeno nel nostro paese, non intende in alcun modo sedersi a quella ideale tavola rotonda di cui parla Rusconi. Preferisce, casomai, patteggiare con lo Stato compromessi più o meno vergognosi sottratti al controllo dell'opinione pubblica, come accade nelle faccende scolastiche, dove la battaglia per la libertà si trasforma facilmente in lotta subdola per il privilegio. Bisogna, quindi, che in ogni circostanza, la classe politica, di destra o di sinistra che sia, tenga ben fermo il principio dello Stato laico e della libertà di coscienza; si intervenga, pure, con nuove norme, a mettere ordine, a fissare qualche criterio orientativo in questioni (penso all'eutanasia, alla sperimentazione sugli embrioni, alle nuove forme di famiglia) che richiedono una maggiore e migliore definizione dei diritti e dei doveri, ma non si pretenda di regolare tutto con norme minuziose che poi si rivelano, spesso, contraddittorie e inapplicabili. Per tornare, ad esempio, alla questione del farmacista cattolico, stabilito che si tratta di un pubblico e indispensabile servizio, non c'è legge che possa risolvere i suoi problemi di coscienza. Questi li deve affrontare e sciogliere soltanto lui, magari con l'aiuto di un confessore che riconosca il valore della tolleranza nei confronti dei "peccatori", che vanno ammoniti e convinti con la persuasione morale e non costretti alla virtù per decreto legislativo. Quando io parlo di "fede dei laici", non intendo certamente la vecchia fede positivista nella ragione scientifica dogmaticamente considerata (troppa acqua è passata sotto quei ponti), ma più semplicemente la fede nel valore primario dell'autonomia morale. Questa fede può essere del credente come del non credente, mentre dubito che possa esistere in una gerarchia ecclesiastica che si ritiene depositaria della verità assoluta. Se avere simili opinioni è segno di anticlericalismo, ebbene sono anticlericale come tanti amici cattolici.

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La fede del laico

Ho letto la lettera di Bobbio a Enzo Marzo a proposito del Manifesto laico e non ne sono rimasto convinto. Anzi, più la leggo e più aumentano le perplessità. Poiché le opinioni di Bobbio non vanno prese alla leggera, cercherò di spiegare perché le sue argomentazioni questa volta non mi convincono. Le tesi fondamentali del filosofo in materia di laicismo si possono riassumere in questa specie di decalogo: 1) l'uomo di ragione si distingue nettamente dall'uomo di fede; 2) il laico ha il dovere di rispettare la coscienza altrui, il credente può farne a meno; 3) il laicismo non ha bisogno di organizzarsi, altrimenti diventa, a sua volta, una chiesa; 4) la laicità esprime un metodo piuttosto che un contenuto; 5) non esiste un'etica laica, ma ci sono molteplici e anche assai differenti etiche laiche, così come ci sono molteplici etiche religiose; 6) la ragione profonda del collegamento fra etica e visione religiosa del mondo sta nell'esigenza di favorirne l'osservanza; 7) non c'è laicità senza spirito critico e lo spirito critico non è eticamente persuasivo; 8) lo Stato laico non può imporre coattivamente una visione del mondo; 9) la visione laica della storia è necessariamente "disincantata"; 10) per un laico non c'è un'etica assoluta e ogni regola presenta infinite eccezioni.

Dirò subito, per cominciare, che la distinzione fra uomo di ragione e uomo di fede mi sembra alquanto astratta. Ognuno di noi, per agire concretamente nel mondo, deve essere uomo di una qualche fede; neppure il razionalista più radicale, neppure lo scettico sistematico, se non vogliono condannarsi all'impotenza, possono fare a meno della "fede". Per vivere bisogna credere, magari credere di poter fare a meno di ogni credo. Se poi il laico crede nel valore prioritario della libertà, egli non solo è tenuto a rispettare le coscienze altrui, ma giustamente esige che gli altri rispettino paritariamente la sua.

Anche i laici (credenti e non credenti in qualche religione positiva) si organizzano, quindi, per difendere l'universale libertà contro coloro che la negano, e debbono anche essere pronti a usare la forza nei confronti di quelli che adoperano la violenza per sopprimerla. La laicità, così intesa, non è un metodo, poiché non si tratta di una disputa scientifica, ma una fede, perduta la quale, si perde irrimediabilmente ogni moralità. Ci sono molte etiche laiche, questo è vero, ma c'è un solo principio che tutte le unifica, quello dell'autonomia morale e della conseguente responsabilità di ogni individuo. Quando manca questo sentimento dell'autonomia non si può parlare di laicità, il politeismo dei valori può esistere solo in riferimento a un valore ultimo, la libertà, che permette la loro convivenza. Se un qualche "valore" nega la libertà, esso si rivela immediatamente come un disvalore. D'altra parte, l'osservanza delle norme morali non è legata alla credenza in qualche religione positiva, come l'esperienza di ogni giorno dimostra. Lo spirito critico (vale a dire lo spirito della libertà) è talmente persuasivo che, nel corso della storia umana, ha riportato infinite vittorie sul dogmatismo, anche se naturalmente mai definitive. Lo Stato laico (liberale) deve imporre coattivamente a tutti il rispetto della uguale libertà e punire coloro che con l'intolleranza e la violenza cercano di disgregare la società. La visione laica della storia non è "disincantata" ma "religiosa", se per religione s'intende la fede nella forza morale degli uomini. Non crediamo più nelle «magnifiche sorti e progressive» del genere umano, ma possiamo e dobbiamo credere che c'è un'oggettiva differenza morale tra torturare e uccidere un uomo oppure aiutarlo a vivere e ad essere libero. Anche per il laico c'è, dunque, nella infinita varietà delle regole e dei costumi, un principio etico assoluto, quello della pari libertà di ogni individuo. Lo si metta coerentemente e coraggiosamente in pratica, e si vedrà come esso risulta più persuasivo di ogni etica eteronoma.

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