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| << | < | > | >> |IndiceLa muraglia e i libri 11 La sfera di Pascal 15 Il fiore di Coleridge 19 Il sogno di Coleridge 23 Il tempo e J.W. Dunne 28 La creazione e P.H. Gosse 33 I timori del dottor Américo Castro 37 Il nostro povero individualismo 44 Quevedo 47 Magie parziali del Don Chisciotte 56 Nathaniel Hawthorne 60 Valéry come simbolo 82 L'enigma di Edward Fitzgerald 85 Su Oscar Wilde 89 Su Chesterton 93 Il primo Wells 97 Il Biathanatos 101 Pascal 106 La lingua analitica di John Wilkins 110 Kafka e i suoi precursori 115 Del culto dei libri 119 L'usignolo di Keats 125 Lo specchio degli enigmi 129 Due libri 134 Annotazione al 23 agosto 1944 139 Sopra il Vathek di William Beckford 142 Su The Purple Land 147 Da qualcuno a nessuno 152 Forme di una leggenda 156 Dalle allegorie ai romanzi 162 Nota su (intorno a) Bernard Shaw 167 Storia degli echi di un nome 171 Il pudore della Storia 176 Nuova confutazione del tempo 180 Sui classici 199 Epilogo 202 Nota al testo 203 Criptogramma dell'angelo di Fabio Rodríguez Amaya 221 |
| << | < | > | >> |Pagina 11He, whose long wall the wand'ring Tartar bounds... Dunciad, III, 76Lessi, giorni addietro, che l'uomo che ordinò l'edificazione della quasi infinita muraglia cinese fu quel Primo Imperatore, Shih Huang Ti, che dispose anche che venissero dati alle fiamme tutti i libri scritti prima di lui. Il fatto che le due vaste imprese - le cinque o seicento leghe di pietra opposte ai barbari, la rigorosa abolizione della storia, cioè del passato - procedessero da una persona e fossero in certo modo i suoi attributi inesplicabilmente mi soddisfece e, al tempo stesso, m'inquietò. Indagare le ragioni di quell'emozione è il fine di questa nota. Storicamente, nessun mistero si cela nelle due misure. Contemporaneo delle guerre di Annibale, Shih Huang Ti, re di Tsin, ridusse in suo potere i Sei Regni e annientò il sistema feudale; eresse la muraglia, perché le muraglie costituivano una difesa; bruciò i libri, perché l'opposizione si appellava a loro per elogiare gli antichi imperatori. Bruciare libri ed erigere fortificazioni è compito comune dei principi; la sola cosa singolare in Shih Huang Ti fu la scala sulla quale operò. | << | < | > | >> |Pagina 15Forse la storia universale è la storia di alcune metafore. Tracciare un capitolo di tale storia è il fine di questa nota. Sei secoli prima dell'èra cristiana, il rapsodo Senofane di Colofone, stanco dei versi di Omero che recitava di città in città, fustigò i poeti che avevano attribuito sembianze antropomorfiche agli dèi e propose ai greci un solo Dio, che era una sfera eterna. | << | < | > | >> |Pagina 16Il poema di Dante ha tramandato l'astronomia tolemaica, che per millequattrocento anni aveva governato l'immaginazione degli uomini. La Terra occupa il centro dell'universo. È una sfera immobile; attorno le girano nove sfere concentriche. Le prime sette sono i cieli planetari (i cieli della Luna, di Mercurio, di Venere, del Sole, di Marte, di Giove, di Saturno); l'ottava, il cielo delle stelle fisse; la nona, il cielo cristallino chiamato anche Primo Mobile. Questo è circondato dall'Empireo, che è fatto di luce. Tutto questo laborioso apparato di sfere vuote, trasparenti e rotanti (un sistema ne esigeva cinquantacinque), era divenuto una necessità mentale; De hypothesibus motuum coelestium commentariolus è il titolo che Copernico, negatore di Aristotele, mise al manoscritto che trasformò la nostra visione del cosmo. Per un uomo, per Giordano Bruno, l'infrangersi delle volte stellari fu una liberazione. Proclamò, nella Cena de le ceneri, che il mondo è l'effetto infinito di una causa infinita e che la divinità è vicina, «giacché sta dentro di noi più ancora di quel che noi stessi stiamo dentro di noi». Cercò le parole per manifestare agli uomini lo spazio copernicano e in una pagina famosa stampò: «Possiamo affermare con certezza che l'universo è tutto esso centro, o che il centro dell'universo sta dappertutto e la sua circonferenza in nessun luogo» (De la causa principio et uno, V).Ciò fu scritto con esultanza, nel 1584, ancora nella luce del Rinascimento; settanta anni dopo, di quel fervore non rimaneva traccia e gli uomini si sentirono perduti nel tempo e nello spazio. Nel tempo, perché se futuro e passato sono infiniti non vi sarà realmente un quando; nello spazio, perché se ogni essere dista ugualmente dall'infinito e dall'infinitesimale, non vi sarà neppure un dove. Nessuno sta in nessun giorno, in nessun luogo; nessuno conosce le dimensioni del proprio volto. Nel Rinascimento, l'umanità credette di aver raggiunto l'età virile, e lo dichiarò per bocca di Bruno, di Campanella e di Bacone. Nel secolo XVII, essa fu oppressa da una sensazione di vecchiezza; per giustificarsi, esumò la credenza di una lenta e fatale degenerazione di tutte le creature, per opera del peccato di Adamo. | << | < | > | >> |Pagina 56È verosimile che queste osservazioni siano già state enunciate, e forse più di una volta; la discussione sulla loro novità mi interessa meno di quella sulla loro possibile verità. Paragonato ad altri libri classici (l' Iliade, l' Eneide, la Farsaglia, la Commedia dantesca, le tragedie e commedie di Shakespeare) il Don Chisciotte è realista; questo realismo, tuttavia, differisce essenzialmente da quello cui dette vita il secolo XIX. Joseph Conrad poté scrivere che escludeva dalla sua opera il soprannaturale, perché ammetterlo equivaleva a negare che il quotidiano fosse meraviglioso: ignoro se Miguel de Cervantes condividesse tale intuizione, ma so che attraverso la forma del Don Chisciotte egli contrappose un mondo immaginario poetico a un mondo reale prosaico. Conrad e Henry James romanzarono la realtà perché la giudicavano poetica; per Cervantes il reale e il poetico sono antinomie. Alle vaste e vaghe geografie dell' Amadigi oppone le polverose strade e le sordide osterie di Castiglia; immaginiamo un romanziere del nostro tempo che desse risalto con intento parodico alle stazioni di rifornimento di nafta. | << | < | > | >> |Pagina 60Darò inizio alla storia delle lettere americane con la storia di una metafora; per dir meglio, con alcuni esempi di tale metafora. Non so chi l'abbia inventata; forse è un errore supporre che le metafore possano essere inventate. Quelle vere, che formulano intimi legami tra due immagini, sono sempre esistite; quelle che ancora possiamo inventare sono le false, che non vale la pena inventare. Questa di cui parlo assimila i sogni a una rappresentazione teatrale. [...] Se la letteratura è un sogno, un sogno guidato e volontario, ma fondamentalmente un sogno, è giusto che i versi di Góngora servano da epigrafe a questa storia delle lettere americane e che la si inauguri con l'esame di Hawthorne, il sognatore. Alquanto prima di lui nel tempo ci sono altri scrittori americani - Fenimore Cooper, una specie di Eduardo Gutiérrez infinitamente inferiore a Eduardo Gutiérrez; Washington Irving, autore di gradevoli spagnolate -, ma possiamo dimenticarli senza timore. Hawthorne nacque nel 1804, nel porto di Salem. Salem soffriva, già allora, di due caratteristiche anomale in America; era una città, benché povera, molto vecchia, era una città in decadenza. In quella vecchia e decaduta città dall'onesto nome biblico, Hawthorne visse fino al 1836; l'amò col triste amore che ispirano le persone che non ci vogliono bene, gli insuccessi, le infermità, le manie; sostanzialmente, non è menzogna dire che non se ne allontanò mai. Cinquanta anni dopo, a Londra o a Roma, continuava a vivere nel suo villaggio puritano di Salem; per esempio, quando disapprovò che gli scultori, in pieno secolo XIX, forgiassero statue nude... [...] Quando il capitano Hawthorne morì, la sua vedova, la madre di Nathaniel, si recluse nella sua camera, al secondo piano. A quel piano c'erano le camere delle sorelle, Louisa e Elizabeth; all'ultimo, quella di Nathaniel. Queste persone non mangiavano insieme e quasi non si parlavano; il pranzo era loro servito su un vassoio, nel corridoio. Nathaniel passava le giornate scrivendo racconti fantastici; all'ora del crepuscolo usciva a camminare. Questo furtivo regime di vita durò dodici anni. Nel 1837 scrisse a Longfellow: «Mi sono recluso; senza alcuna intenzione di farlo, senza neppure sospettare che ciò mi sarebbe accaduto. Mi sono mutato in un prigioniero, mi sono chiuso in una cella, e ora non trovo più la chiave, e se anche la porta fosse aperta avrei quasi paura di uscire». Hawthorne era alto, bello, magro, bruno. Aveva un'andatura oscillante da uomo di mare. In quel tempo non c'era (fortunatamente per i bambini) letteratura per l'infanzia; Hawthorne aveva letto a sei anni il Pilgrim's Progress; il primo libro che comprò coi suo denaro fu The Faerie Queen: due allegorie. [...] È, per citare un esempio evidente di questo male, il caso di José Ortega y Gasset, il cui efficace pensiero è ostruito da laboriose e fortuite metafore; è, spesso, quello di Hawthorne. A prescindere da ciò, i due scrittori sono opposti. Ortega può ragionare, bene o male, ma non immaginare; Hawthorne era uomo di continua e curiosa immaginazione, ma refrattario, diciamo così, al pensiero. Non dico che fosse stupido; dico che pensava per immagini, per intuizioni, come sono solite pensare le donne, non attraverso un meccanismo dialettico. Un errore estetico lo compromise: il desiderio puritano di fare di ogni immaginazione una favola lo induceva ad aggiungervi delle morali e a volte a falsarle e deformarle. [...] Citerò altri due abbozzi, piuttosto curiosi, il cui tema (non ignorato da Pirandello o da André Gide) è la coincidenza oppure confusione del piano estetico e del piano comune, della realtà e dell'arte. Ecco il primo: «Due persone aspettano per strada un avvenimento e l'apparizione dei principali attori. L'avvenimento sta già avendo luogo ed essi sono gli attori». L'altro è più complesso: «Un uomo scrive un racconto e si accorge che questo si sviluppa contro le sue intenzioni; i personaggi non agiscono com'egli voleva; si verificano fatti non prevista da lui e si avvicina una catastrofe ch'egli cerca, invano, di evitare. Il racconto potrebbe prefigurare il suo stesso destino e uno dei personaggi è lui». Tali giochi, tali momentanee confluenze del mondo immaginario e del mondo reale - del mondo che nel corso della lettura fingiamo sia reale - sono, o ci sembrano, moderni. La loro origine, la loro antica origine, è forse in quel passo dell'Iliade in cui Elena di Troia tesse un tappeto e quel che tesse sono battaglie e sciagure della stessa guerra di Troia. L'immagine dovette colpire Virgilio, giacché nell'Eneide si narra che Enea, guerriero della guerra di Troia, arrivò al porto di Cartagine e vide scolpite nel marmo di un tempio scene di quella guerra e, fra tante figure di guerrieri, anche la propria. A Hawthorne piacevano questi contatti tra l'immaginario e il reale, che sono riflessi e duplicazioni dell'arte; si nota anche, negli abbozzi che ho menzionato, come egli propendesse per la nozione panteistica secondo la quale un uomo è gli altri, un uomo è tutti gli uomini. Qualcosa di più grave delle duplicazioni e del panteismo si nota in quegli abbozzi, qualcosa di più grave, intendo dire, per un uomo che vuole essere un romanziere. Si nota che lo stimolo di Hawthorne, il punto di partenza di Hawthorne, erano, per lo più, situazioni. Situazioni, non caratteri. Hawthorne prima immaginava, forse involontariamente, una situazione, e poi cercava i caratteri che le dessero vita. Non sono romanziere, ma credo che nessun romanziere abbia proceduto in quel modo. [...] Da quanto precede si potrebbe dedurre che i racconti di Hawthorne valgano più dei suoi romanzi. Io credo che sia così. I ventiquattro capitoli che compongono La lettera scarlatta abbondano di passi memorabili, scritti in buona e raffinata prosa, ma nessuno di essi mi ha commosso quanto la singolare storia di Wakefield che si trova nei Twice Told Tales. Hawthorne aveva letto in un giornale, o finse per fini letterari di aver letto in un giornale, il caso di un signore inglese che, lasciata sua moglie senza alcun motivo, aveva preso alloggio a due passi da casa sua e lì, senza che nessuno lo sospettasse, aveva trascorso nascosto venti anni. Durante questo lungo periodo, passò tutti i giorni davanti alla casa e la guardò dall'angolo della strada, e diverse volte scorse sua moglie. Quando ormai lo avevano dato per morto, e da un pezzo sua moglie si era rassegnata a essere vedova, l'uomo, un giorno, aprì la porta di casa ed entrò. Semplicemente, come se fosse rimasto assente qualche ora. (Fu fino al giorno della sua morte un marito esemplare). Hawthorne lesse con inquietudine il curioso caso e cercò di comprenderlo, di immaginarlo. Meditò sul tema; il racconto Wakefield è la storia congetturale di quell'esiliato. Le interpretazioni dell'enigma possono essere infinite; vediamo quella di Hawthorne. | << | < | > | >> |Pagina 72Una parabola di Hawthorne, che fu sul punto di essere magistrale e che non lo è, perché l'ha danneggiata la preoccupazione etica, è quella che s'intitola Earth's Holocaust: «L'olocausto della terra». In questa narrazione allegorica, Hawthorne prevede un momento in cui gli uomini, stanchi di accumulazioni inutili, decidono di distruggere il passato. Sul far della sera si riuniscono, a questo scopo, in uno dei vasti territori dell'Ovest d'America. A quella pianura occidentale giungono uomini da tutti i confini del mondo. Nel centro fanno un altissimo falò che alimentano con tutte le genealogie, con tutti i diplomi, con tutte le medaglie, con tutti gli ordini, con tutti i titoli, con tutti gli stemmi, con tutte le corone, con tutti gli scettri, con tutte le tiare, con tutte le porpore, con tutti i baldacchini, con tutti i troni, con tutti i liquori, con tutti i sacchi di caffè, con tutte le casse di tè, con tutti i sigari, con tutte le lettere d'amore, con tutta l'artiglieria, con tutte le spade, con tutte le bandiere, con tutti i tamburi marziali, con tutti gli strumenti di tortura, con tutte le ghigliottine, con tutte le forche, con tutti i metalli preziosi, con tutto il denaro, con tutti i titoli di proprietà, con tutte le costituzioni e i codici, con tutti i libri, con tutte le mitre, con tutte le dalmatiche, con tutte le sacre scritture che oggi popolano e affaticano la Terra. Hawthorne guarda con stupore, e con un certo scandalo, l'incendio; un uomo dall'aria pensierosa gli dice che non deve rallegrarsi né rattristarsi, poiché la vasta piramide di fuoco non ha consumato se non quello che era consumabile nelle cose. Un altro spettatore - il demonio - osserva che gli esecutori dell'olocausto hanno dimenticato di gettare nel rogo l'essenziale, il cuore umano, nel quale è la radice di ogni peccato, e che hanno distrutto solo alcune forme. Hawthorne conclude così: «Il cuore, il cuore, questa è la breve sfera illimitata nella quale ha radice la colpa di cui il crimine e la miseria del mondo sono soltanto simboli. Purifichiamo questa sfera interiore, e le molte forme del male che ottenebrano questo mondo visibile fuggiranno come fantasmi, perché se non andiamo oltre l'intelligenza e cerchiamo, con quello strumento imperfetto, di discernere e correggere quello che ci affligge tutta la nostra opera sarà un sogno. Un sogno di così scarsa sostanza che non importa affatto che il rogo, che ho descritto così fedelmente, sia ciò che chiamiamo un fatto reale e un fuoco che bruci le mani o sia un fuoco immaginato e una parabola». Hawthorne, qui, si è lasciato trascinare dalla dottrina cristiana, e in particolare calvinista, della depravazione congenita degli uomini e non sembra essersi reso conto che la sua parabola di un'illusoria distruzione di tutte le cose è capace di un significato filosofico e non soltanto morale. Infatti, se il mondo è il sogno di Qualcuno, se c'è Qualcuno che ora ci sta sognando e che sogna la storia dell'universo, com'è dottrina della scuola idealista, l'annientamento delle religioni e delle arti, l'incendio generale delle biblioteche, non importa molto di più della distruzione dei mobili di un sogno. La mente che già sognò quelle cose tornerà a sognarle; finché la mente continuerà a sognare, nulla si sarà perduto.[...] In Inghilterra, a metà del secolo XVII, lo stesso proposito risorse fra i puritani, fra gli antenati di Hawthorne. «In uno dei parlamenti popolari convocati da Cromwell,» narra Samuel Johnson «fu proposto con tutta serietà che si bruciassero gli archivi della Torre di Londra, che si cancellasse ogni memoria delle cose passate e che tutto il regime della vita ricominciasse». In altre parole, il proposito di abolire il passato si manifestò nel passato e - paradossalmente - è una delle prove che il passato non può essere abolito. Il passato è indistruttibile; prima o poi tornano tutte le cose, e una delle cose che tornano è il progetto di abolire il passato. Come Stevenson, anch'egli figlio di puritani, Hawthorne sentì sempre che il compito di scrittore era frivolo o, cosa peggiore, colpevole. Nel prologo della Lettera scarlatta, egli immagina le ombre dei suoi antenati che lo guardano scrivere il suo romanzo. Il passo è curioso. «Che cosa starà facendo?» dice un'antica ombra alle altre. «Sta scrivendo un libro di racconti! Che mestiere sarà questo, che maniera di glorificare Dio o di essere utile agli uomini, nel suo tempo e generazione? Tanto varrebbe che questo degenere fosse violinista». [...] Nathaniel Hawthorne risolse tale difficoltà (che non è illusoria) nel modo che sappiamo; compose apologhi morali e favole; fece o cercò di fare dell'arte una funzione della coscienza. [...] Il fatto che Hawthorne perseguisse, o tollerasse, propositi di tipo morale non invalida, non può invalidare, la sua opera. Nel corso di una vita consacrata meno a vivere che a leggere, ho accertato molte volte che i propositi e le teorie letterarie non sono altro che stimoli e che l'opera finale generalmente li ignora e anche li contraddice. [...] Tale mondo di sogni è quello di Hawthorne. Questi si propose una volta di scrivere un sogno, «che fosse come un sogno vero, e che avesse l'incoerenza, le stranezze e la mancanza di fine dei sogni» e si meravigliò che nessuno, fino a quel giorno, avesse fatto qualcosa di simile. Nello stesso diario in cui lasciò scritto quello strano progetto - che tutta la nostra letteratura «moderna» cerca invano di realizzare: impresa, forse, riuscita solo a Lewis Carroll - annotò migliaia di impressioni comuni, di piccole osservazioni concrete (il movimento di una gallina, l'ombra di un ramo sulla parete), che occupano sei volumi, e la cui inesplicabile abbondanza rappresenta la costernazione di tutti i biografi. «Sembrano lettere gradevoli e inutili,» scrive perplesso Henry James «indirizzate a se stesso da un uomo che temesse che venissero aperte e avesse deciso di non dire nulla di compromettente». Per conto mio credo che Nathaniel Hawthorne annotasse, nel corso degli anni, quelle cose comuni per dimostrare a se stesso di essere reale, per liberarsi, in qualche modo, dell'impressione di irrealtà, dell'impressione di essere un fantasma che era solita visitarlo. | << | < | > | >> |Pagina 89Menzionare il nome di Wilde significa menzionare un dandy che fu anche poeta, evocare l'immagine di un gentiluomo votato al povero proposito di stupire con cravatte e metafore. Significa inoltre evocare la nozione dell'arte come gioco eletto o segreto - alla maniera degli arazzi di Hugh Vereker e di Stefan George - e del poeta come laborioso monstrorum artifex (Plinio, XXVIII, 2). Significa evocare lo stanco crepuscolo del secolo XIX e quell'oppressiva pompa di serra o di ballo mascherato. Nessuna di queste evocazioni è falsa, ma tutte corrispondono, sostengo, a verità parziali e contraddicono, o trascurano, fatti evidenti. [...] Come Gibbon, come Johnson, come Voltaire, fu un uomo di ingegno, che per di più aveva ragione. Fu, «per usare una volta per tutte parole fatali un classico». Dette al secolo quel che il secolo esigeva - comédies larmoyantes per i più e arabeschi verbali per i meno - e fece queste cose tra loro dissimili con una sorta di negligente felicità. Gli ha nuociuto la perfezione; la sua opera è tanto armoniosa che può sembrare inevitabile e perfino banale. Si stenta a immaginare il mondo senza gli epigrarnmi di Wilde; questa difficoltà non li rende meno plausibili. | << | < | > | >> |Pagina 97Harris racconta che Oscar Wilde, interrogato su Wells, rispose: «Un Jules Verne scientifico». Il giudizio è del 1899; si indovina che Wilde pensò meno a definire Wells, o a demolirlo, che a passare a un altro tema. H.G. Wells e Jules Verne sono, ora, nomi incompatibili. Tutti noi abbiamo questa sensazione, ma l'esame delle intricate ragioni sulle quali poggia la nostra sensazione può non essere inutile. La più evidente di tali ragioni è di ordine tecnico. Wells (prima di rassegnarsi alla speculazione sociologica) fu un mirabile narratore, un erede delle storie brevi di Swift e di Edgar Allan Poe; Verne, un lavoratore paziente e ottimista. Verne scrisse per gli adolescenti; Wells, per tutte le età dell'uomo. C'è un'altra differenza, denunciata dallo stesso Wells: le narrazioni di Verne trattano cose probabili (una nave sottomarina, una nave più grande di quelle del 1872, la scoperta del Polo Sud, la fotografia parlante, la traversata dell'Africa in pallone, i crateri di un vulcano spento che conducono al centro della terra); quelle di Wells mere possibilità (un uomo invisibile, un fiore che divora un uomo, un uovo di cristallo che riflette gli avvenimenti di Marte), se non cose impossibili: un uomo che torna dall'avvenire con un fiore futuro, un uomo che torna dall'altra vita col cuore a destra, perché lo hanno invertito interamente, come in uno specchio. Ho letto che Verne, scandalizzato dalle libertà che si permette The First Men in the Moon, disse con indignazione: «Il invente!». [...] Coloro che dicono che l'arte non deve diffondere dottrine si riferiscono di solito a dottrine contrarie alle loro. Non è certo il mio caso; condivido e professo quasi tutte le dottrine di Wells, ma deploro il fatto che questi le intercalasse nelle sue narrazioni. [...] Come Quevedo, come Voltaire, come Goethe, come pochi altri, Wells è meno un letterato che una letteratura. Scrisse libri verbosi, nei quali in qualche modo risorge la gigantesca felicità di Charles Dickens, prodigò parabole sociologiche, eresse enciclopedie, ampliò le possibilità del romanzo, riscrisse per il nostro tempo il libro di Giobbe, questa grande imitazione ebraica del dialogo platonico, redasse senza superbia e senza umiltà un'autobiografia assai piacevole, combatté il comunismo, il nazismo e il cristianesimo, polemizzò (con cortesia e mortalmente) con Belloc, narrò il passato, narrò il futuro, registrò vite reali e immaginarie. Della vasta e diversa biblioteca che ci lasciò, niente mi piace più della sua narrazione di alcuni miracoli atroci: The Time Machine, The Island of Dr. Moreau, The Plattner Story, The First Men in the Moon. Sono i primi libri che lessi; forse saranno gli ultimi... Penso che dovranno integrarsi, come il modello di Teseo o di Aasvero, nella memoria generale della specie e che si moltiplicheranno nel suo ambito, oltre i confini della gloria di chi li scrisse, oltre la morte della lingua in cui furono scritti. | << | < | > | >> |Pagina 106I miei amici mi dicono che i pensieri di Pascal servono loro per pensare. Certo, non v'è cosa nell'universo che non serva di stimolo al pensiero; quanto a me, non ho mai visto in quei memorabili frammenti un contributo ai problemi, illusori o veri, che affrontano. Li ho visti piuttosto come predicati del soggetto Pascal, come caratteristiche o epiteti di Pascal. Così come la definizione «quintessence of dust» non ci aiuta a comprendere gli uomini ma il principe Amleto, la definizione «roseau pensant» non ci aiuta a comprendere gli uomini ma un uomo, Pascal. Valéry, credo, accusa Pascal di drammatizzare deliberatamente; la verità è che il suo libro non proietta l'immagine di una dottrina o di un procedimento dialettico ma quella di un poeta perduto nel tempo e nello spazio. Nel tempo, perché se il futuro e il passato sono infiniti non vi sarà realmente un quando; nello spazio, perché se ogni essere si trova alla stessa distanza dall'infinito e dall'infinitesimale non vi sarà neppure un dove. Pascal menziona con disdegno «l'opinione di Copernico», ma la sua opera riflette per noi la vertigine di un teologo, esiliato dal mondo dell' Almagesto e smarrito nell'universo copernicano di Kepler e di Bruno. Il mondo di Pascal è quello di Lucrezio (e anche quello di Spencer), ma l'infinito che inebriò il romano spaurisce il francese. È vero che questi cerca Dio e che quegli si propone di liberarci dal timore degli dèi. [...] Non la grandezza del Creatore ma la grandezza della Creazione commuove Pascal. Questi, quando manifesta in parole incorruttibili il disordine e la miseria («on mourra seul»), è uno degli uomini più patetici della storia d'Europa; quando applica alle arti apologetiche il calcolo delle probabilità, uno dei più vani e frivoli. Non è un mistico; appartiene a quei cristiani denunciati da Swedenborg, che suppongono che il cielo sia un premio e l'inferno un castigo e che, abituati alla meditazione malinconica, non sanno parlare con gli angeli. Dio gli importa meno della confutazione di coloro che lo negano. | << | < | > | >> |Pagina 119Nell'ottavo libro dell' Odissea si legge che gli dèi tessono disgrazie affinché alle future generazioni non manchi di che cantare; l'affermazione di Mallarmé: «Il mondo esiste per approdare a un libro» sembra ripetere, trenta secoli dopo, lo stesso concetto di una giustificazione estetica dei mali. Le due teleologie, tuttavia, non coincidono interamente; quella del greco corrisponde all'epoca della parola orale, e quella del francese a un'epoca della parola scritta. In una si parla di cantare e nell'altra di libri. Un libro, qualunque libro, è per noi un oggetto sacro; già Cervantes, che forse non ascoltava tutto quel che diceva la gente, leggeva peffino «le carte strappate nelle strade». Il fuoco, in una delle commedie di Bernard Shaw, minaccia la biblioteca di Alessandria; qualcuno esclama che brucerà la memoria dell'umanità, e Cesare gli dice: «Lasciala bruciare. È una memoria d'infamie». Il Cesare storico, a parer mio, approverebbe o condannerebbe il giudizio che l'autore gli attribuisce, ma non lo riterrebbe, come noi, uno scherzo sacrilego. La ragione è chiara: per gli antichi la parola scritta non era altro che un succedaneo della parola orale. [...] Clemente Alessandrino lasciò scritta la sua diffidenza nei confronti della scrittura alla fine del secolo II; alla fine del IV cominciò il processo mentale che, dopo molte generazioni, sarebbe culminato nel predominio della parola scritta su quella parlata, della penna sulla voce. Un mirabile caso ha voluto che uno scrittore fissasse l'istante (esagero appena chiamandolo istante) in cui ebbe principio il vasto processo. Narra sant'Agostino, nel libro VI delle Confessioni: «Quando Ambrogio leggeva, faceva scorrere lo sguardo sulle pagine penetrandone il significato con l'anima, senza proferire una parola né muovere la lingua. Molte volte - poiché a nessuno si proibiva di entrare, né v'era l'uso di annunciargli chi venisse - lo vedemmo leggere tacitamente e mai in altro modo, e dopo qualche tempo ce ne andavamo, ritenendo che quel breve intervallo che gli era concesso per ristorare il suo spirito, lungi dal tumulto degli altrui negozi, non voleva egli che glielo occupassero con qualche altra cosa, timoroso forse che un ascoltatore, attento alla difficoltà del testo, gli chiedesse la spiegazione di un passo oscuro o volesse discuterlo con lui, ché con ciò non avrebbe potuto leggere tanti libri quanti desiderava. Io credo che leggesse in quel modo per preservare la voce, che gli diveniva fioca con facilità. A ogni modo, qualunque fosse il proposito di quell'uomo, certamente era buono». Sant'Agostino fu discepolo di sant'Ambrogio, vescovo di Milano, intorno all'anno 384; tredici anni dopo, in Numidia, redasse le sue Confessioni e ancora lo turbava quel singolare spettacolo: un uomo in una stanza, con un libro, che legge senza articolare le parole. Quell'uomo passava direttamente dal segno di scrittura all'intuizione, omettendo il segno sonoro; la strana arte che iniziava, l'arte di leggere silenziosamente, avrebbe condotto a conseguenze meravigliose. Avrebbe condotto, trascorsi molti anni, al concetto del libro come fine, non come strumento di un fine. (Questo concetto mistico, trasferito alla letteratura profana, avrebbe prodotto i singolari destini di Flaubert e di Mallarmé, di Henry James e di James Joyce). | << | < | > | >> |Pagina 167Alla fine del secolo XIII, Raimondo Lullo (Ramón Lull) si accinse a risolvere tutti gli arcani mediante un'armatura di dischi concentrici, disuguali e girevoli, suddivisi in settori con parole latine; John Stuart Mill, al principio del XIX, temette che si esaurisse un giorno il numero di combinazioni musicali e non ci fosse posto nel futuro per indefiniti Weber e Mozart; Kurd Lasswitz, alla fine del XIX, giocò con l'opprimente fantasia di una biblioteca universale, che registrasse tutte le variazioni dei venti e più simboli ortografici, ossia quanto è dato esprimere, in tutte le lingue. La macchina di Lullo, il timore di Mill e la caotica biblioteca di Lasswitz possono essere materia di burla, ma esagerano una tendenza che è comune: fare della metafisica, e delle arti, una sorta di gioco combinatorio. Coloro che praticano questo gioco dimenticano che un libro è più di una struttura verbale, o di una serie di strutture verbali; è il dialogo che intavola col suo lettore e l'intonazione che impone alla sua voce e le mutevoli e durature immagini che lascia nella sua memoria. Tale dialogo è infinito; le parole «amica silentia lunae» significano ora la luna intima, silenziosa e lucente, e nell'Eneide significarono l'interlunio, l'oscurità che permise ai greci di entrare nella cittadella di Troia... La letteratura non è esauribile, per la sufficiente e semplice ragione che un solo libro non lo è. Il libro non è un ente chiuso alla comunicazione: è una relazione, è un asse di innumerevoli relazioni. Una letteratura differisce da un'altra, successiva o precedente, meno per il testo che per il modo in cui è letta: se mi fosse dato leggere una qualsiasi pagina attuale - questa, per esempio - come la leggeranno nell'anno duemila, saprei come sarà la letteratura nell'anno duemila. La concezione della letteratura come gioco formale conduce, nel migliore dei casi, al buon lavoro del periodo e della strofa, a un decoro artigianale (Johnson, Renan, Flaubert), e nel peggiore alle oscurità di un'opera fatta di sorprese dettate dalla vanità e dal caso (Gracián, Herrera y Reissig). | << | < | > | >> |Pagina 169La biografia di Bernard Shaw scritta da Frank Harris comprende una mirabile lettera del primo, dalla quale copio queste parole: «Io comprendo tutto e tutti e sono nulla e nessuno». Da tale nulla (paragonabile a quello di Dio prima che creasse il mondo, paragonabile alla divinità primordiale che un altro irlandese, Giovanni Scoto Eriugena, chiamò «Nihil»), Bernard Shaw dedusse quasi innumerevoli persone, o dramatis personae: la più effimera sarà, sospetto, quel G.B.S. che lo rappresentò davanti alla gente e che prodigò sulle colonne dei giornali tante facili arguzie.I temi fondamentali di Shaw sono la filosofia e l'etica: è naturale e inevitabile che non sia apprezzato in questo paese, o che lo sia unicamente a causa di alcuni epigrammi. L'argentino sente che l'universo non è altro che una manifestazione del caso, che il fortuito concorso di atomi di Democrito; la filosofia non lo interessa. E neppure l'etica: il tema sociale si riduce, per lui, a un conflitto di individui o di classi o di nazioni, nel quale tutto è lecito, tranne essere scherniti o vinti. Il carattere dell'uomo e le sue variazioni sono il tema essenziale del romanzo del nostro tempo; la lirica è la compiacente magnificazione di fortune o sfortune amorose; le filosofie di Heidegger e di Jaspers fanno di ciascuno di noi l'interessante interlocutore di un dialogo segreto e continuo col nulla o con la divinità; queste discipline, che formalmente possono essere ammirevoli, fomentano l'illusione dell'io che il Vedanta riprova come errore capitale. Giocano alla disperazione e all'angoscia, ma nel fondo lusingano la vanità; sono, in tal senso, immorali. L'opera di Shaw, invece, lascia un sapore di liberazione. Il sapore delle dottrine del Portico e il sapore delle saghe. Buenos Aires, 1951 | << | < | > | >> |Pagina 171Isolati nel tempo e nello spazio, un dio, un sogno e un uomo che è pazzo, e non lo ignora, ripetono un'oscura dichiarazione; riferire e pesare quelle parole, e i loro due echi, è il fine di questa pagina. La lezione originaria è famosa. La registra il capitolo terzo del secondo libro di Mosè, chiamato Esodo. Leggiamo in esso che il pastore di pecore Mosè, autore e protagonista del libro, chiese a Dio il Suo Nome, e che Egli disse: «Sono Colui Che Sono». Prima di esaminare queste misteriose parole, non sarà forse inutile ricordare che per il pensiero magico, o primitivo, i nomi non sono simboli arbitrari ma parte vitale di ciò che definiscono. | << | < | > | >> |Pagina 173Moltiplicato per le lingue umane - «Ich bin der ich bin», «Ego sum qui sum», «I am what I am» -, il sentenzioso nome di Dio, il nome che malgrado consti di molte parole è più impenetrabile e saldo di quelli che constano di una sola, crebbe e si rifletté nei secoli, fino a che nel 1602 William Shakespeare scrisse una commedia. In questa commedia intravediamo, molto di lato, un soldato fanfarone e codardo, un miles gloriosus che è riuscito, con l'aiuto di uno stratagemma, a essere promosso capitano. Il trucco si scopre e l'uomo viene degradato pubblicamente; allora Shakespeare interviene e gli mette in bocca parole che riflettono, come in uno specchio capovolto, quelle che la divinità aveva detto sulla montagna: «Non sarò più capitano, ma devo mangiare e bere e dormire come un capitano; questa cosa che sono mi farà vivere». Così parla Parolles e bruscamente cessa di essere un personaggio convenzionale della farsa comica ed è un uomo, è tutti gli uomini.L'ultima versione si produsse verso il millesettecentoquaranta, in uno degli anni che durò la lunga agonia di Swift e che forse furono per lui un solo istante insopportabile, una forma dell'eternità dell'inferno. Di intelligenza glaciale e di odio glaciale aveva vissuto Swift, ma l'aveva sempre affascinato l'idiozia (come avrebbe affascinato Flaubert), forse perché sapeva che la pazzia lo attendeva al varco. Nella terza parte del Gulliver, egli immaginò con minuzioso orrore una stirpe di uomini decrepiti e immortali, dediti a deboli appetiti che non possono soddisfare, incapaci di conversare con i loro simili perché il corso del tempo ha modificato il linguaggio, e di leggere perché la memoria non regge loro da una riga all'altra. [...] La sordità, la vertigine, il timore della pazzia e finalmente l'idiozia aggravarono e resero più profonda la malinconia di Swift. Cominciò a perdere la memoria. Non voleva usare occhiali, non poteva leggere ed era ormai incapace di scrivere. Supplicava tutti i giorni Dio di mandargli la morte. E una sera, vecchio e pazzo e già moribondo, gli udirono ripetere, non sappiamo se con rassegnazione, con disperazione, o come chi si rafforza e si ancora nella sua intima essenza invulnerabile: «Sono ciò che sono, sono ciò che sono». «Sarò una sventura, ma sono» avrà sentito Swift; e anche: «Sono una parte dell'Universo, tanto inevitabile e necessaria quanto le altre»; e anche: «Sono ciò che Dio vuole che sia, sono ciò che m'han fatto le leggi universali»; e forse: «Essere è essere tutto». Qui finisce la storia della frase; basti aggiungere, a modo di epilogo, le parole che Schopenhauer disse, già vicino alla morte, a Eduard Grisebach: «Se a volte mi sono creduto sventurato, ciò è dovuto a una confusione, a un errore. Mi sono preso per un altro, ad esempio per un supplente che non riesce a essere titolare, o per l'accusato in un processo per diffamazione, o per l'innamorato che la fanciulla disdegna, o per il malato che non può uscire di casa, o per altre persone che soffrono simili miserie. Io non sono stato quelle persone; ciò, al più, è stato la stoffa degli abiti che ho vestito e smesso. Chi sono io realmente? Sono l'autore del Mondo come volontà e rappresentazione, sono colui che ha dato una risposta all'enigma dell'Essere, che occuperà i pensatori dei secoli futuri. Questi sono io, e chi potrebbe metterlo in discussione, negli anni che ancora mi restano da vivere?». Proprio perché aveva scritto Il mondo come volontà e rappresentazione, Schopenhauer sapeva bene che essere un pensatore è altrettanto illusorio che essere un malato o un innamorato respinto, e che egli, nel profondo, era un'altra cosa. Un'altra cosa: la volontà, l'oscura radice di Parolles, la cosa che era Swift. | << | < | > | >> |Pagina 180| << | < | > | >> |Pagina 182Nel corso di una vita consacrata alle lettere e (talora) al dubbio metafisicO, ho scorto o presentato una confutazione del tempo, alla quale io stesso nego fede, ma che spesso mi visita la notte e nello stanco crepuscolo, con illusoria forza di assioma. Questa confutazione appare in certo modo in tutti i miei libri: la prefigurano le poesie Inscripción en cualquier sepulcro e El truco, del mio Fervor de Buenos Aires (1923); la affermano una certa pagina di Evaristo Carriego (1930) e il racconto Sentirse en muerte che trascrivo più avanti. Nessuno dei testi che ho enumerato mi soddisfa, neanche il penultimo della serie, meno dimostrativo e ragionato che divinatorio e patetico. Cercherò di dare a tutti un fondamento con questo scritto.Due argomenti mi indussero a questa confutazione: l'idealismo di Berkeley e il principio degli indiscernibili di Leibniz. | << | < | > | >> |Pagina 194Ammesso l'argomento idealista, credo sia possibile - forse inevitabile - andare più lontano. Per Berkeley, il tempo è «successione di idee che fluisce uniformemente e di cui tutti gli esseri partecipano» (Principles of Human Knowledge, 98); per Hume, «una successione di momenti indivisibili» (op.cit.,I,2,2). Tuttavia, negati materia e spirito, che sono continuità, negato anche lo spazio, non so con che diritto terremo per noi quell'altra continuità che è il tempo. Fuori di ogni percezione (effettiva o ipotetica) non esiste la materia; fuori di ogni stato mentale non esiste lo spirito; neppure il tempo esisterà fuori di ogni istante presente.| << | < | |