Copertina
Autore Jorge Luis Borges
Titolo L'Aleph
EdizioneAdelphi, Milano, 1998 [1959], Biblioteca 366 , Isbn 978-88-459-1420-1
OriginaleEl Aleph [1949]
CuratoreTommaso Scarano
TraduttoreFrancesco Tentori Montalto
LettoreRenato di Stefano, 1999
Classe narrativa argentina
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Indice


L'immortale                             11
Il morto                                27
I teologi                               33
Storia del guerriero e
    della prigioniera                   42
Biografia di Tadeo Isidoro Cruz
    (1829-1874)                         47
Emma Zunz                               51
La casa di Asterione                    57
L'altra morte                           60
Deutsches Requiem                       68
La ricerca di Averroè                   75
Lo Zahir                                84
La scrittura del dio                    94
Adenkhacàan il Bokharì,
    morto nel suo labirinto            100
I due re e i due labirinti             110
L'attesa                               112
L'uomo sulla soglia                    117
L'Aleph                                123

Epilogo                                139

Nota al teso                           141

"... repitem una trama/eterna y frágil,
    misteriosa y clara"
    di Tommaso Scarano                 155

 

 

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Pagina 11

LIMMORTALE
a Cecilia Ingenieros
    Salomon saith: There is no new thing
    upon the carth.  So that as Plato had
    an imagination, that all knowledge was
    but remembrance; so Salomon giveth his
    sentence, that all novelty is but
    oblivion.
              FRANCIS BACON, Essays, LVIII
A Londra, all'inizio del mese di giugno del 1929, l'antiquario Joseph Cartaphilus, di Smirne, offrì alla principessa di Lucinge i sei volumi in quarto minore (1715-1720) dell'Iliade di Pope. La principessa li acquistò; e in quell'occasione scambiò qualche parola con lui. Era, ci dice, un uomo consunto e terroso, grigio d'occhi e di barba, dai tratti singolarmente vaghi. Si destreggiava con scioltezza e ignoranza in diverse lingue; in pochi minuti passò dal francese all'inglese e dall'inglese a una misteriosa mescolanza di spagnolo di Salonicco e portoghese di Macao. Nell'ottobre, la principessa seppe da un passeggero dello Zeus che Cartaphilus era morto in mare, nel tornare a Smime, e che l'avevano seppellito nell'isola di Ios. Nell'ultimo tomo dell'Iliade trovò questo manoscritto.

L'originale è redatto in inglese e abbonda di latinismi. La versione che offriamo è letterale.

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Pagina 22

Il concetto del mondo come sistema di precise compensazioni influì largamente sugli Immortali. Prima di tutto, li rese invulnerabili alla pietà. Ho parlato delle antiche cave che rompevano la pianura dell'altra riva del fiume; un uomo precipitò nella più profonda; non poteva ferirsi né morire, ma lo ardeva la sete; prima che gli gettassero una corda passarono settant'anni. Neppure il destino personale interessava. Il corpo era un docile animale domestico e gli bastava, ogni mese, l'elemosina di qualche ora di sonno, di un po' d'acqua e di un brandello di carne. Ma non ci si creda asceti. Non c'è piacere più complesso del pensiero e ci abbandonavamo ad esso. A volte, uno stimolo straordinario ci restituiva al mondo fisico. Ad esempio, quella mattina, il vecchio godimento elementare della pioggia. Ma erano momenti rarissimi; tutti gli Immortali erano capaci di quiete perfetta; ne ricordo uno che non ho mai visto in piedi: un uccello gli faceva il nido in petto.

Tra i corollari della dottrina che non c'è cosa che non sia compensata da un'altra, ve n'è uno di scarsissima importanza teorica, ma che c'indusse, alla fine o all'inizio del secolo decimo, a disperderci per la faccia della terra. E' contenuto in queste parole: Esiste un fiume le cui acque danno l'immortalità; in qualche regione vi sarà un altro fiume le cui acque la tolgono. Il numero dei fiumi non è infinito; un viaggiatore immortale che percorra il mondo finirà, un giorno, con l'aver bevuto da tutti. Ci proponemmo di scoprire quel fiume.

La morte (o la sua allusione) rende preziosi e patetici gli uomini. Questi commuovono per la loro condizione di fantasmi; ogni atto che compiono può esser l'ultimo; non c'è volto che non sia sul punto di cancellarsi come il volto di un sogno. Tutto, fra i mortali, ha il valore dell'irrecuperabile e del casuale. Tra gli Immortali, invece, ogni atto (e ogni pensiero) è l'eco di altri che nel passato lo precedettero, senza principio visibile, o il fedele presagio di altri che nel futuro lo ripeteranno fino alla vertigine. Non c'è cosa che non sia come perduta tra infaticabili specchi. Nulla può accadere una sola volta, nulla è preziosamente precario. Ciò che è elegiaco, grave, rituale, non vale per gli Immortali. Omero e io ci separammo alle porte di Tangeri; credo senza dirci addio.

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Pagina 23

(...) Non trova Azevedo Bandeira; verso la mezzanotte, in un fondaco del Paso del Molino, assiste a un alterco tra bovari. Brilla un coltello; Otálora non sa da quale parte stia la ragione, ma lo attira il mero sapore del pericolo, come altri il mazzo di carte o la musica. Para, nella zuffa, una pugnalata bassa che uno dei mandriani assesta a un uomo in cappello nero e poncho. Questi, poi, si viene a sapere che è Azevedo Bandeira. (Otálora, allora, strappa la lettera, perché preferisce dovere tutto a se stesso). Azevedo Bandeira, benché robusto, produce l'inspiegabile impressione di essere deforne; nel suo volto, sempre troppo vicino, si fondono l'ebreo, il negro e l'indio; nel suo aspetto, la scimmia e la tigre; la cicatrice che gli taglia la faccia ne è un ornamento in più, come i neri e ispidi baffi. Proiezione o errore dell'alcol, l'alterco cessa con la stessa rapidità con cui è cominciato. Otálora beve coi bovari e poi va con loro a una festa, e poi in una casaccia della Città Vecchia, che il sole è già alto. Nell'ultimo cortile, che è di terra battuta, gli uomini stendono le selle per dormire. Oscuramente, Otálora paragona la notte trascorsa alla precedente; ormai calpesta terra ferma, è tra amici. Lo inquieta soltanto un po' il rimorso di non provare nostalgia per Buenos Aires. Dorme fino all'avemaria; lo sveglia il mandriano che ha aggredito, ubriaco, Bandeira. (Otálora ricorda che quell'uomo ha diviso con gli altri la notte di tumulto e di allegria e che Bandeira l'ha fatto sedere alla sua destra e l'ha costretto a bere ancora). L'uomo gli dice che il padrone lo vuole vedere. In una specie di studio che s'affaccia sull'ingresso (Otálora non ha mai visto un ingresso sul quale s'aprano porte) lo sta aspettando Azevedo Bandeira, con una bianca e sdegnosa donna dai capelli rossi. Bandeira lo esamina, gli offre un bicchiere di acquavite, gli dice che lo considera un uomo coraggioso, gli propone di andare al Nord con gli altri a condurre una mandria. Otálora accetta; all'alba sono in cammino, diretti a Tacuarembó.

Comincia così per Otálora una vita diversa, una vita di vaste mattine e di giornate che hanno l'odore del cavallo. Quella vita è nuova per lui, e a volte atroce, ma l'ha già nel sangue, perché come gli uomini di altri paesi venerano e presentono il mare, così noi (anche l'uomo che intesse questi simboli) agogniamo la pianura infinita che risuona sotto gli zoccoli. Otálora è cresciuto nei quartieri dei carrettieri e dei cavalli; in meno di un anno diventa gaucho. Impara a domare i puledri, a formare le mandrie, a macellare, a maneggiare il lazo che immobilizza e le corde a palle che atterrano, a resistere al sonno, alle tormente, alla gelata e al sole, a incitare col fischio e col grido. Una volta soltanto, durante questo periodo di tirocinio, vede Azevedo Bandeira, ma l'ha sempre presente, perché essere uomo di Bandeira vuol dire essere considerato e temuto e perché, di fronte a qualsiasi bravura, i gauchos dicono che Bandeira la fa meglio. C'è chi crede che Bandeira sia nato dall'altro lato del Quaraí, in Río Grande do Sul; questo, che dovrebbe sminuirlo, lo arricchisce oscuramente di selve popolose, di paludi, d'inestricabili e quasi infinite distanze. Gradatamente, Otálora capisce che i traffici di Bandeira sono molteplici e che il più importante è il contrabbando. Essere mandriano è essere un servo; Otálora si propone di salire al rango di contrabbandiere. Due dei suoi compagni, una notte, devono passare il confine e tornare con una partita di acquavite; Otálora provoca uno di essi, lo ferisce e prende il suo posto. Lo muove l'ambizione e anche un'oscura fedeltà. Costui (pensa) dovrà finire col capire che io valgo più di tutti i suoi uruguaiani messi insieme.

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Pagina 68

DEUTSCHES REQUIEM


    Seppur egli mi togliesse la vita,
    in lui confiderò.
                        GIOBBE, 13,15
Il mio nome è Otto Dietrich zur Linde. Uno dei miei antenati, Christoph zur Linde, morì nella carica di cavalleria che decise la vittoria di Zorndorf. Il mio bisnonno materno, Ulrich Forkel, fu assassinato nella foresta di Marchenoir da franchi tiratori francesi, negli ultimi giorni del 1870; il capitano Dietrich zur Linde, mio padre, si distinse nell'assedio di Namur, nel 1914 e, due anni dopo, nella traversata del Danubio. Quanto a me, sarò fucilato come torturatore e assassino. Il tribunale ha proceduto con rettitudine; fin dal principio, io mi sono dichiarato colpevole. Domani, quando l'orologio della prigione suonerà le nove, sarò entrato nella morte; è naturale che pensi ai miei maggiori, giacché sono così presso alla loro ombra, giacché in qualche modo io sono loro.

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Pagina 69

Sono nato a Marienburg, nel 1908. Due passioni, ora quasi dimenticate, mi permisero di affrontare con coraggio e persino con letizia molti anni infausti: la musica e la metafisica. Non posso menzionare tutti i miei benefattori, ma ci sono due nomi che non mi rassegno a omettere: quello di Brahms e quello di Schopenhauer. Praticai anche la poesia; a quei nomi voglio unire un altro grande nome germanico, William Shakespeare. Un tempo, m'interessò la teologia, ma da tale fantastica disciplina (e dalla fede cristiana) mi sviò per sempre Schopenhauer, con ragioni dirette; Shakespeare e Brahms, con l'infinita varietà del loro mondo. Sappia, chi indugia meravigliato, tremante di tenerezza e di gratitudine, davanti a un qualunque luogo dell'opera di quei beati, che anch'io, l'abominevole, vi indugiai.

Intorno al 1927 entrarono nella mia vita Nietzsche e Spengler. Osserva uno scrittore del secolo XVIII che nessuno vuol essere debitore dei suoi contemporanei; io, per liberanni di un'influenza che presentivo opprimente, scrissi un articolo intitolato Abrechnung mit Spengler, nel quale facevo notare che il monumento dove appaiono più chiaramente i tratti che l'autore chiama faustiani non è il composito dramma di Goethe, ma un poema scritto venti secoli fa, Il De rerum natura.

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Pagina 73

E' stato detto che tutti gli uomini nascono aristotelici o platonici. Ciò equivale ad affermare che non c'è discussione di carattere astratto che non sia un momento della polemica fra Aristotele e Platone; attraverso i secoli e le latitudini, cambiano i nomi, le lingue, i volti, ma non gli eterni antagonisti. Anche la storia dei popoli registra una continuità segreta. Arminio, quando massacrò in una palude le legioni di Varo, non si sapeva precursore di un Impero Germanico; Lutero, traduttore della Bibbia, non sospettava che il suo fine era quello di forgiare un popolo che distruggesse per sempre la Bibbia; Christoph zur Linde, che una pallottola moscovita uccise nel 1758, preparò in qualche modo le vittorie del 1914; Hitler credette di lottare per un paese, ma lottò per tutti, anche per quelli che aggredì e detestò. Non importa che il suo io lo ignorasse; lo sapevano il suo sangue, la sua volontà. Il mondo moriva di giudaismo e di quella malattia del giudaismo che è la fede di Gesù; noi gli insegnammo la violenza e la fede della spada. Tale spada ci uccide, e noi siamo paragonabili al mago che tesse un labirinto ed è costretto a errarvi fino alla fine dei suoi giorni, o a David che giudica uno sconosciuto e lo condanna a morte e ode poi la rivelazione: Tu sei quell'uomo. Molte cose bisogna distruggere, per edificare il nuovo ordine; ora sappiamo che la Germania era una di quelle cose. Abbiamo dato più delle nostre vite, abbiamo dato il destino del nostro amato paese. Altri maledicano e piangano; io sono lieto che il nostro dono sia circolare e perfetto.

Si libra ora sul mondo un'epoca implacabile. Fummo noi a forgiarla, noi che ora siamo le sue vittime. Che importa che l'Inghilterra sia il martello e noi l'incudine? Quel che importa è che domini la violenza, non la servile viltà cristiana. Se la vittoria e l'ingiustizia e la felicità non sono per la Germania, siano per altri popoli. Che il cielo esista, anche se il nostro luogo è l'inferno.

Guardo il mio volto nello specchio per sapere chi sono, per sapere come mi comporterò tra qualche ora, quando mi troverò di fronte alla fine. La mia carne può aver paura; io, no.

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Pagina 75

LA RICERCA DI AVERROE


  S'imaginant que la tragédie n'est autre
  chose que l'art de louer...
         ERNEST RENAN, Averroès, 48 (1861)
Abulwualid Mohammed ibn Ahmed ibn Mohammed ibn Rushd (un secolo avrebbe impiegato questo lungo nome a divenire Averroè, passando per Benraist e per Avernriz, per Aben-Rassed e Filius Rosadis) stendeva l'undicesimo capitolo dell'opera Tahafut at-tahafut (Distruzione della distruzione) nel quale si afferma, contro l'asceta persiano Ghazali, autore di Tahafut alfalasifa (Distruzione dei filosofi), che la divinità conosce solo le leggi generali dell'universo, quel che si riferisce alla specie, non all'individuo. Scriveva con lenta sicurezza, da destra a sinistra; l'esercizio di formare sillogismi e di concatenare vasti paragrafi non gli impediva di sentire con benessere la fresca e spaziosa casa che lo circondava. Il meriggio risuonava del roco tubare di amorose colombe; da un cortile invisibile si levava il rumore di una fontana; qualcosa nella carne di Averroè, i cui antenati venivano dai deserti d'Arabia, era grato al fluire dell'acqua. In basso erano i giardini, l'orto; in basso, il Guadalquivir percorso da imbarcazioni e l'amata città di Cordova, non meno illustre di Baghdad o del Cairo, simile a un complesso e delicato strumento, e intorno (anche questo sentiva Averroè) si ampliava sino alle frontiere la terra di Spagna, nella quale sono poche cose, ma dove ciascuna sembra stare in modo sostanziale ed eterno.

La penna scorreva sul foglio, gli argomenti si intrecciavano, irrefutabili, ma una lieve preoccupazione offuscò la felicità di Averroè. Non la causava il Tahafut, lavoro fortuito, ma un problema d'indole filologica, connesso con l'opera monumentale che lo avrebbe giustificato davanti al mondo: il commento di Aristotele. Questo greco, fonte di tutta la filosofia, era stato dato agli uomini affinché insegnasse loro tutto ciò che si può conoscere; interpretare i suoi libri, come gli ulema interpretano il Corano, era l'arduo proposito di Averroè. Poche cose registrerà la storia più belle e più patetiche di questo consacrarsi di un medico arabo ai pensieri di un uomo dal quale lo separavano quattordici secoli. Alle difficoltà intrinseche dobbiamo aggiungere che Averroè, non conoscendo il siriaco né il greco, lavorava sulla traduzione di una traduzione. Il giorno prima, due parole dubbie lo avevano arrestato al principio della Poetica. Le parole erano tragedia e commedia. Le aveva trovate, anni prima, nel terzo libro della Rettorica; nessuno, nell'ambito dell'Islam, aveva la più piccola idea di quel che volessero dire. Invano aveva sfogliato le pagine di Alessandro di Afrodisia, invano compulsato le versioni del nestoriano Hunain ibn Ishaq e di Ibn Bashar Mata. Quelle due parole arcane pullulavano nel testo della Poetica; impossibile evitarle.

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Pagina 81

«Con minore eloquenza,» disse «ma con argomenti simili, ho difeso talora l'opinione espressa da Abd-almalik. In Alessandria è stato detto che è incapace di una colpa solo chi l'ha già commessa e si è pentito; per essere liberi da un errore, possiamo aggiungere, è bene averlo professato. Zuhair, nella sua lirica, dice che nel corso di ottant'anni di dolore e di gloria ha visto molte volte il destino colpire all'improvviso gli uomini, come un cammello cieco; 'Abd-al-Malik afferma che questa figura non può più meravigliare. A tale osservazione si potrebbero rispondere molte cose. La prima è che, se il fine della poesia fosse la meraviglia, il suo tempo non si misurerebbe a secoli, ma a giorni e a ore, e forse a minuti. La seconda, che un grande poeta è meno inventore che scopritore. Per lodare Ibn Sharaf di Berja, si è ripetuto che egli soltanto avrebbe potuto immaginare che le stelle all'alba cadono lentamente, come le foglie cadono dagli alberi; se ciò fosse vero, dimostrerebbe che l'immagine è futile. L'immagine che un solo uomo può formare non tocca nessuno. Infinite sono le cose sulla terra; una qualunque di esse può essere paragonata a qualunque altra.

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Pagina 82

I muezzin chiamavano alla preghiera della prima luce quando Averroè fece ritorno alla biblioteca. (Nell'harem, le schiave dai capelli neri avevano torturato una schiava dai capelli rossi, ma egli non l'avrebbe saputo che la sera). Qualcosa gli aveva rivelato il significato delle due parole oscure. Con ferma e curata calligrafia aggiunse al manoscritto queste righe: «Aristu (Aristotele) chiama tragedia i panegirici e commedia le satire e gli anatemi. Mirabili tragedie e commedie abbondano nelle pagine del Corano e nelle iscrizioni del santuario».

Sentì sonno, sentì un po' di freddo. Scioltosi il turbante, si guardò in uno specchio di metallo. Non so quel che videro i suoi occhi, perché nessuno storico ha descritto la forma del suo volto. So che scomparve bruscamente, come folgorato da una vampa senza luce, e che con lui scomparvero la casa e l'invisibile fontana e i libri e i manoscritti e le colombe e le molte schiave dai capelli neri e la tremante schiava dai capelli rossi e Faraj e Abulqasim e i roseti e lo stesso Guadalquivir.

Nella storia che precede ho voluto narrare il processo di una sconfitta. Pensai, al principio, a quell'arcivescovo di Canterbury che si propose di dimostrare che c'è un Dio; poi, agli alchimisti che cercarono la pietra filosofale; in seguito, alle vane trisezioni dell'angolo e quadrature del cerchio. Poi riflettei che è più poetico il caso di un uomo il quale si propone un fine che non è vietato agli altri, ma a lui soltanto. Ricordai Averroè, che chiuso nell'ambito dell'Islam non poté mai sapere il significato delle voci tragedia e commedia. Presi a narrare il caso; a misura che procedevo, sentivo quel che dovette sentire quel dio di cui parla Burton, il quale si era proposto di creare un toro e creò un bufalo. Sentii che l'opera si burlava di me. Sentii che Averroè, che voleva immaginare quel che è un dramma senza sapere che cos'è un teatro, non era più assurdo di me, che volevo immaginare Averroè senza altro materiale che qualche notizia tratta da Renan, Lane e Asín Palacios. Sentii, giunto all'ultima pagina, che la mia narrazione era un simbolo dell'uomo che io ero mentre la scrivevo e che, per scriverla, avevo dovuto essere quell'uomo e che, per essere quell'uomo, avevo dovuto scrivere quella storia, e così all'infinito. (Nell'istante in cui cesso di credere in lui, «Averroè» sparisce).

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Pagina 84

LO ZAHIR


A Buenos Aires lo Zahir è una moneta comune, da venti centesimi; [...]

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Pagina 87

Svoltai; l'angolo oscuro m'indicò, da lontano, che la mescita era chiusa. In calle Belgrano presi un tassì; insonne, invasato, quasi felice, pensai che nulla è meno materiale del denaro, giacché qualsiasi moneta (una moneta da venti centesimi, ad esempio) è, a rigore, un repertorio di futuri possibili. Il denaro è astratto, ripetei, il denaro è tempo futuro. Può essere un pomeriggio in campagna, può essere musica di Brahms, può essere carte geografiche, può essere gioco di scacchi, può essere caffè, può essere le parole di Epitteto, che insegnano il disprezzo dell'oro; è un Proteo più versatile di quello dell'isola di Pharos. E' tempo imprevedibile, tempo di Bergson, non tempo rigido dell'Islam o del Portico. I deterministi negano che ci sia al mondo un solo fatto possibile, id est un fatto che sia potuto accadere; una moneta simboleggia il libero arbitrio.

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Pagina 92

Nelle ore deserte della notte ancora posso camminare per le strade. L'alba suole sorprendermi su una panchina di plaza Garay, mentre penso (mentre cerco di pensare) a quel passo dell' Asrar Nama, dove si dice che lo Zahir è l'ombra della Rosa e lo squarcio del Velo. Metto quella definizione in rapporto a questa notizia; per perdersi in Dio, i sufi ripetono il loro nome o i novantanove nomi divini finché questi non vogliono più dire nulla. Io desidero percorrere tale via. Forse finirò per logorare lo Zahir a forza di pensarlo e ripensarlo; forse dietro la moneta è Dio.

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Pagina 123

L'ALEPH


                            a Estela Canto

    O God, I could be bounded in a nutsheu
    and count myself a King of infinite
    space.
                             HAMLET, II, 2

    But they will teach us that Eternity
    is the Standing still of the Present
    Time, a Nunc-stans (as the Schools
    call it); which neither ttay, nor any
    else understand, no more than they
    would a Hicstans for an Infinite
    greatness of Place.
                         LEVIATHAN, IV, 46
L'incandescente mattina di febbraio in cui Beatriz Viterbo mori, dopo un'imperiosa agonia che non si abbassò un solo istante al sentimentalismo né al timore, notai che le armature di ferro di plaza Constitución avevano cambiato non so quale pubblicità di sigarette; il fatto mi dispiacque, perché compresi che l'incessante e vasto universo già si separava da lei e che quel mutamento era il primo di una serie infinita. Cambierà l'universo ma non io, pensai con malinconica vanità; talora, lo so, la mia vana devozione l'aveva esasperata; morta, potevo consacrarmi alla sua memoria, senza speranza ma anche senza umiliazione.

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Pagina 131

«Si trova sotto la stanza da pranzo» spiegò, la dizione resa più veloce dalla pena. «E' mio, è mio; lo scoprii da bambino, prima che andassi a scuola. La scala della cantina è ripida, gli zii mi avevano proibito di scendervi, ma qualcuno aveva detto che c'era un mondo di cose in cantina. Si riferiva, come seppi in seguito, a un baule, ma io capii che c'era un mondo. Scesi di nascosto, rotolai per la scala vietata, caddi. Quando aprii gli occhi, vidi l'Aleph».

«L'Aleph?» ripetei.

«Sì, il luogo dove si trovano, senza confondersi, tutti i luoghi della terra, visti da tutti gli angoli. Non rivelai a nessuno la mia scoperta ma vi tornai ancora. Il bambino non poteva supporre che quel privilegio gli era accordato perché l'uomo cesellasse il poema! Non mi spoglieranno Zunino e Zungri, no, mille volte no! Codice alla mano, il dottor Zunni proverà che il mio Aleph è inalienabile».

Cercai di ragionare:

«Ma non è buia la cantina?».

«La verità non penetra in un intelletto ribelle. Se tutti i luoghi della terra si trovano nell'Aleph, vi si troveranno tutti i lumi, tutte le lampade, tutte le sorgenti di luce».

«Vengo subito a vederlo».

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Pagina 133

Seguii le sue ridicole istruzioni; finalmente se ne andò. Chiuse cautamente la botola; l'oscurità, nonostante una fessura che in seguito distinsi, mi parve totale. Improwisamente compresi il pericolo che correvo: mi ero lasciato sotterrare da un pazzo, dopo aver bevuto un veleno. Le bravate di Carlos svelavano l'intima paura ch'io non vedessi il prodigio; Carlos, per difendere il suo delirio, per non sapere che era pazzo, doveva uccidermi. Sentii un confuso malessere, che volli attribuire alla rigidità, e non all'effetto di un narcotico. Chiusi gli occhi, li riaprii. Allora vidi l'Aleph.

Arrivo, ora, all'ineffabile centro del mio racconto; comincia, qui, la mia disperazione di scrittore. Ogni linguaggio è un alfabeto di simboli il cui uso presuppone un passato che gli interlocutori condividono; come trasmettere agli altri l'infinito Aleph, che la mia timorosa memoria a stento abbraccia? I mistici, in simili circostanze, sono prodighi di emblemi: per significare la divinità, un persiano parla di un uccello che in qualche modo è tutti gli uccelli; Alanus de Insulis, di una sfera di cui il centro è dappertutto e la circonferenza in nessun luogo; Ezechiele, di un angelo con quattro volti che si dirige contemporaneamente a oriente e a occidente, a nord e a sud. (Non invano ricordo codeste inconcepibili analogie; esse hanno una qualche relazione con l'Aleph). Forse gli dèi non mi negherebbero la scoperta di una immagine equivalente, ma questa relazione resterebbe contaminata di letteratura, di falsità. D'altronde, il problema centrale è insolubile: l'enumerazione, sia pure parziale, di un insieme infinito. In quell'istante gigantesco, ho visto milioni di atti gradevoli o atroci; nessuno di essi mi stupì quanto il fatto che tutti occupassero lo stesso punto, senza sovrapposizione e senza trasparenza. Quel che videro i miei occhi fù simultaneo: ciò che trascriverò, successivo, perché tale è il linguaggio. Qualcosa, tuttavia, annoterò.

Nella parte inferiore della scala, sulla destra, vidi una piccola sfera cangiante, di quasi intollerabile fulgore. Dapprima credetti ruotasse; poi compresi che quel movimento era un'illusione prodotta dai vertiginosi spettacoli che essa racchiudeva. Il diametro dell'Aleph sarà stato di due o tre centimetri, ma lo spazio cosmico vi era contenuto, senza che la vastità ne soffrisse. Ogni cosa (il cristallo dello specchio, ad esempio) era infinite cose, perché io la vedevo distintamente da tutti i punti dell'universo. Vidi il popoloso mare, vidi l'alba e la sera, vidi le moltitudini d'America, vidi un'argentea ragnatela al centro di una nera piramide, vidi un labirinto spezzato (era Londra), vidi infiniti occhi vicini che si fissavano in me come in uno specchio, vidi tutti gli specchi del pianeta e nessuno mi rifletté, vidi in un cortile interno di calle Soler le stesse mattonelle che trent'anni prima avevo viste nel- l'andito di una casa di Fray Bentos, vidi grappoli, neve, tabacco, vene di metallo, vapor d'acqua, vidi convessi deserti equatoriali e ciascuno dei loro granelli di sabbia, vidi a Inverness una donna che non dimenticherò, vidi la violenta chioma, l'altero corpo, vidi un tumore nel petto, vidi un cerchio di terra secca in un sentiero, dove prima era un albero, vidi in una casa di Adrogué un esemplare della prima versione inglese di Plinio, quella di Philemon Holland, vidi contemporaneamente ogni lettera di ogni pagina (bambino, solevo meravigliarmi del fatto che le lettere di un volume chiuso non si mescolassero e perdessero durante la notte), vidi insieme il giorno e la notte di quel giorno, vidi un tramonto a Querétaro che sembrava riflettere il colore di una rosa nel Bengala, vidi la mia stanza da letto vuota, vidi in un gabinetto di Alkmaar un globo terracqueo posto tra due specchi che lo moltiplicano senza fine, vidi cavalli con la criniera al vento, su una spiaggia del Mar Caspio all'alba, vidi la delicata ossatura di una mano, vidi i sopravvissuti a una battaglia in atto di mandare cartoline, vidi in una vetrina di Mirzapur un mazzo di carte spagnolo, vidi le ombre oblique di alcune felci sul pavimento di una serra, vidi tigri, stantuffi, bisonti, mareggiate ed eserciti, vidi tutte le formiche che esistono sulla terra, vidi un astrolabio persiano, vidi in un cassetto della scrivania (e la calligrafia mi fece tremare) lettere oscene, incredibili, precise, che Beatriz aveva scritto a Carlos Argentino, vidi un'adorata tomba alla Chacarita, vidi i resti atroci di quanto deliziosamente era stata Beatriz Viterbo, vidi la circolazione del mio oscuro sangue, vidi il meccanismo dell'amore e la modificazione della morte, vidi l'Aleph, da tutti i punti, vidi nell'Aleph la terra e nella terra di nuovo l'Aleph e nell'Aleph la terra, vidi il mio volto e le mie viscere, vidi il tuo volto, e provai vertigine e piansi, perché i miei occhi avevano visto l'oggetto segreto e supposto, il cui nome usurpano gli uomini, ma che nessun uomo ha contemplato: l'inconcepibile universo.

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