Copertina
Autore Jorge Luis Borges
Titolo Il libro di sabbia
EdizioneAdelphi, Milano, 2004, Biblioteca 453 , pag. 174, cop.fle., dim. 140x220x14 mm , Isbn 978-88-459-1841-4
OriginaleEl libro de arena [1975]
CuratoreTommaso Scarano
TraduttoreIlide Carmignani
LettoreRenato di Stefano, 2004
Classe narrativa argentina
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Indice


IL LIBRO DI SABBIA                    9

L'altro                              11
Ulrica                               20
Il Parlamento                        25
There Are More Things                45
La Setta dei Trenta                  53
La notte dei doni                    57
Lo specchio e la maschera            63
Undr                                 68
Utopia di un uomo che è stanco       74
La corruzione                        82
Avelino Arredondo                    89
Il disco                             95
Il libro di sabbia                   98
Epilogo                             104

ULTIMI RACCONTI (1977-1980)         107

Venticinque agosto 1983             109
La rosa di Paracelso                115
Tigri blu                           120
La memoria di Shakespeare           133

Nota al testo                       143

Un ultimo libro di sogni
di Tommaso Scarano                  159

 

 

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Pagina 20

ULRICA



                                    Hann tekr sverthit Gram ok
                                    leggr i methal theira bert.

                                             VOLSUNGA SAGA, 27



Il mio racconto sarà fedele alla realtà, o almeno al mio ricordo personale della realtà, che è poi la stessa cosa. I fatti sono molto recenti, ma so che il costume letterario è anche il costume di inserire dettagli di circostanza e di enfatizzare. Voglio scrivere del mio incontro con Ulrica (non ho mai saputo il suo cognome e forse non lo saprò mai) nella città di York. La cronaca coprirà una notte e una mattina.

Non mi costerebbe nulla raccontare di averla vista per la prima volta accanto alle Cinque Sorelle di York, quelle vetrate pure da ogni immagine che vennero rispettate dagli iconoclasti di Cromwell, ma il fatto è che ci siamo conosciuti nella saletta del Northern Inn, dall'altra parte delle mura. Eravamo in pochi e lei mi voltava le spalle. Qualcuno le offrì da bere, ma rifiutò.

«Sono femminista», disse. «Non voglio scimmiottare gli uomini. Non mi piacciono né le loro sigarette né i loro liquori».

La frase voleva essere spiritosa e intuii che l'aveva già pronunciata altre volte. Poi mi resi conto che non era da lei, ma quello che diciamo non sempre ci assomiglia.

Spiegò di essere arrivata tardi al museo; quando avevano saputo che era norvegese l'avevano lasciata entrare.

Uno dei presenti commentò:

«Non è la prima volta che i norvegesi entrano a York».

«Proprio così» disse lei. «L'Inghilterra era nostra e l'abbiamo persa, sempre che si possa avere qualcosa e che qualcosa si possa perdere».

Fu allora che la guardai. Un verso di William Blake parla di fanciulle di dolce argento o d'oro furioso, ma in Ulrica c'erano l'oro e la dolcezza. Era alta e lieve, con i tratti affilati e gli occhi grigi. La sua aria di tranquillo mistero mi impressionò più del suo volto. Sorrideva facilmente e il sorriso sembrava allontanarla. Era vestita di nero, cosa rara nelle terre del Nord, dove cercano di rallegrare coi colori i toni spenti dell'ambiente. Parlava un inglese limpido e preciso e calcava leggermente le erre. Non sono un osservatore; queste cose le scoprii a poco a poco.

Ci presentarono. Le dissi che ero professore all'Università delle Ande, a Bogotá. Spiegai che ero colombiano.

Mi chiese con aria pensierosa:

«Cosa vuol dire essere colombiano?».

«Non lo so» risposi. «È un atto di fede».

«Come essere norvegese» confermò.

Non riesco a ricordare altro di quanto si disse quella sera. Il giorno dopo scesi di buon'ora nella sala da pranzo. Vidi oltre i vetri che aveva nevicato; la brughiera si perdeva nella mattina. Non c'era nessun altro. Ulrica mi invitò al suo tavolo. Mi disse che le piaceva uscire a camminare da sola.

Ricordai una battuta di Schopenhauer e risposi:

«Anche a me. Possiamo uscire insieme».

Ci allontanammo dalla casa, sulla neve fresca. Non c'era anima viva nei campi. Le proposi di andare a Thorgate, che è qualche miglio più a valle, lungo il fiume. So che ero già innamorato di Ulrica; non avrei voluto nessun altro al mio fianco.

D'improvviso sentii il lontano ululato di un lupo. Non l'avevo mai sentito, ma so che era un lupo. Ulrica non si turbò.

Dopo qualche istante, come pensando a voce alta, disse:

«Le poche, misere spade che ho visto ieri in York Minster mi hanno commosso più delle grandi navi nel museo di Oslo».

Le nostre strade si incrociavano per poco. Ulrica, quel pomeriggio, avrebbe proseguito alla volta di Londra; io, di Edimburgo.

«In Oxford Street» mi disse «calcherò le orme di De Quincey, che cercava la sua Anna perduta tra la folla di Londra».

«De Quincey» replicai «smise di cercarla. Io invece continuo nel tempo».

«Forse» disse sottovoce «l'hai trovata».

Capii che una cosa insperabile non mi era proibita e le baciai la bocca e gli occhi. Mi allontanò con dolce fermezza e dichiarò:

«Sarò tua nella locanda di Thorgate. Fino allora ti chiedo di non toccarmi. È meglio così».

Per un uomo celibe già avanti negli anni, l'offerta dell'amore è un dono che ormai non ci si aspetta. Il miracolo ha il diritto di imporre condizioni. Pensai alla mia giovinezza a Popayan e a una ragazza del Texas, radiosa e snella come Ulrica, che mi aveva rifiutato il suo amore.

Non commisi l'errore di chiederle se mi amava. Capii che non ero il primo e che non sarei stato l'ultimo. Questa avventura, forse conclusiva per me, sarebbe stata una delle tante per quella splendente e risoluta discepola di Ibsen.

Proseguimmo mano nella mano.

«Sembra tutto un sogno» dissi «ma io non sogno mai».

«Come quel re» replicò Ulrica «che non sognava finché un mago non lo fece dormire in un porcile».

Poi aggiunse:

«Ascolta bene. Un uccello sta per cantare».

Poco dopo sentimmo il canto.

«In queste terre,» dissi «pensano che chi sta per morire preveda il futuro».

«E io sto per morire» annunciò lei.

La guardai attonito.

«Tagliamo dal bosco» la incalzai. «Arriveremo prima a Thorgate».

«Il bosco è pericoloso» ribatté.

Proseguimmo nella brughiera.

«Vorrei che questo momento durasse per sempre» mormorai.

«"Sempre" è una parola che non è permessa agli uomini» affermò Ulrica e, per attenuare l'enfasi, mi chiese di ripeterle il mio nome, che non aveva afferrato bene.

«Javier Otárola» le dissi.

Voleva ripeterlo, ma non ci riuscì. Anch'io fallii con il nome di Ulrikke.

«Ti chiamerò Sigurd» dichiarò lei con un sorriso.

«Se io sono Sigurd» replicai «tu sarai Brynhild».

Aveva rallentato il passo.

«Conosci la saga?» le chiesi.

«Certo» disse. «La tragica storia che i tedeschi hanno rovinato con i loro tardivi Nibelunghi».

Preferii evitare discussioni e risposi:

«Brynhild, cammini come se volessi che fra noi due ci fosse una spada nel letto».

Di colpo ci trovammo davanti alla locanda. Non mi sorprese che si chiamasse, come l'altra, Northern Inn.

Dall'alto della scala, Ulrica mi gridò:

«Hai sentito il lupo? Non ci sono più lupi in Inghilterra. Fai presto».

Mentre salivo al piano superiore, notai che le pareti erano tappezzate di carta da parati stile William Morris, di un rosso molto profondo, con frutti e uccelli intrecciati. Ulrica entrò per prima. La stanza era buia, con il soffitto basso, a due spioventi. Il letto tanto atteso si duplicava in un vetro indistinto e il mogano splendente mi ricordò lo specchio delle Scritture. Ulrica si era già spogliata. Mi chiamò con il mio vero nome, Javier. Sentii che la neve cadeva più fitta. Ormai non c'erano mobili né specchi. Non c'erano spade fra noi. Il tempo se ne andava come sabbia. Secolare, nell'ombra, fluì l'amore e per la prima e ultima volta possedetti l'immagine di Ulrica.

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Pagina 74

UTOPIA DI UN UOMO CHE È STANCO



                                    Llamóla Utopía, voz griega cuyo
                                    significado es no hay tal lugar.

                                                            QUEVEDO



Non ci sono due colline uguali, ma in qualunque posto della terra la pianura è una sola e sempre la stessa. Camminavo su una strada in pianura. Mi chiesi, senza molta curiosità, se mi trovassi nell'Oklahoma o nel Texas, oppure nella regione che i letterati chiamano pampa. Né a destra né a sinistra vidi recinti di filo spinato. Come altre volte, ripetei lentamente questi versi di Emilio Oribe:

    Nel mezzo della panica pianura sterminata,
    là vicino al Brasile,

che vanno crescendo e amplificandosi.

La strada era sconnessa. Iniziò a piovere. A due o trecento metri vidi una luce. Era una casa bassa, rettangolare, circondata da alberi. Mi aprì la porta un uomo così alto da farmi quasi paura. Era vestito di grigio. Intuii che aspettava qualcuno. Non c'era serratura alla porta. Entrammo in una stanza lunga con le pareti di legno. Al soffitto era appesa una lampada dalla luce giallognola. Il tavolo, per qualche motivo, mi stupì. Sopra c'era una clessidra, la prima che avessi mai visto, tranne in qualche incisione su acciaio. L'uomo mi indicò una delle sedie.

Provai diverse lingue, ma non ci capimmo. Quando parlò si espresse in latino. Feci appello ai miei lontani ricordi liceali e mi preparai al dialogo.

«Dai tuoi vestiti» disse «vedo che arrivi da un altro secolo. La varietà delle lingue favoriva la varietà dei popoli e anche delle guerre; il mondo è tornato al latino. C'è chi teme che degeneri di nuovo nel francese, nel limosino o nel papiamento, ma per ora non ci sono rischi. Del resto, non mi interessa né quel che è stato né quel che sarà».

Rimasi in silenzio e lui aggiunse:

«Se non ti dispiace veder mangiare un altro, vuoi tenermi compagnia?».

Capii che avvertiva il mio turbamento e risposi di sì.

Attraversammo un corridoio, con varie porte laterali, che conduceva in una piccola cucina dove tutto era di metallo. Tornammo indietro con la cena su un vassoio: ciotole con fiocchi di granoturco, un grappolo d'uva, un frutto sconosciuto il cui sapore mi ricordò i fichi, e una grande brocca d'acqua. Credo che non ci fosse pane. I lineamenti del mio ospite erano affilati e aveva qualcosa di singolare negli occhi. Non dimenticherò mai quel volto pallido e severo, che non rivedrò più. Mentre parlava, non faceva alcun gesto.

Mi impacciava l'obbligo del latino, ma alla fine riuscii a dirgli:

«Non ti sorprende la mia improvvisa apparizione?».

«No,» rispose «visite del genere ci capitano ogni secolo. Non durano molto; domattina, al più tardi, sarai a casa tua».

La sicurezza della sua voce mi bastò. Mi parve opportuno presentarmi:

«Mi chiamo Eudoro Acevedo. Sono nato nel 1897, nella città di Buenos Aires. Ho settant'anni compiuti. Sono professore di letteratura inglese e nordamericana, e scrittore di racconti fantastici».

«Ricordo di aver letto senza fastidio due racconti fantastici» rispose. «I viaggi di Gulliver, che molti considerano veridici, e la Summa Theologica. Ma non parliamo di fatti. Ormai non interessano più a nessuno. Sono semplici punti di partenza per l'invenzione e il ragionamento. Nelle scuole ci insegnano il dubbio e l'arte di dimenticare. Dimenticare soprattutto quel che è personale e locale. Viviamo nel tempo, che è successione, ma cerchiamo di vivere sub specie æternitatis. Del passato ci restano alcuni nomi, che il linguaggio tende a perdere. Evitiamo inutili precisioni. Non c'è cronologia né storia. E neppure statistiche. Mi hai detto che ti chiami Eudoro; io non posso dirti il mio nome, perché mi chiamano "uno"».

«E come si chiamava tuo padre?».

«Non si chiamava».

Su un muro vidi uno scaffale. Aprii un volume a caso; i caratteri erano chiari e indecifrabili, e tracciati a mano... Le loro linee angolose mi ricordarono l'alfabeto runico, che però veniva usato solo per la scrittura epigrafica. Pensai che gli uomini del futuro erano non solo più alti, ma anche più abili. Istintivamente guardai le dita lunghe e sottili dell'uomo.

Lui mi disse:

«Ora ti mostrerò qualcosa che non hai mai visto».

Mi tese con cura un esemplare dell' Utopia di Moro, stampato a Basilea nel 1518, a cui mancavano pagine e tavole.

Non senza una certa fatuità, replicai: «È un libro stampato. A casa ne avrò più di duemila, anche se non così antichi né così preziosi».

Lessi il titolo a voce alta.

L'altro rise.

«Nessuno può leggere duemila libri. Nei miei quattro secoli di vita non avrò superato la mezza dozzina. E poi l'importante non è leggere, ma rileggere. La stampa, ora abolita, è stata uno dei peggiori mali dell'uomo, perché tendeva a moltiplicare testi superflui fino alla vertigine».

«Nel mio strano passato» risposi «prevaleva la superstizione che ogni giorno, dalla sera alla mattina, accadono fatti che è una vergogna ignorare. Il pianeta era popolato da spettri collettivi: il Canada, il Brasile, il Congo svizzero e il Mercato Comune. Quasi nessuno conosceva la storia di questi enti platonici, ma tutti erano informati dei più infimi particolari dell'ultimo congresso di pedagogia, dell'imminente rottura di relazioni diplomatiche e dei messaggi che si inviavano i capi di stato, redatti dal segretario del segretario con la prudente vaghezza propria del genere.

«Tutto questo si leggeva per dimenticarlo, perché dopo poche ore altre banalità lo avrebbero cancellato. Di tutte le funzioni, quella del politico era senza dubbio la più pubblica. Un ambasciatore o un ministro era una sorta di invalido che bisognava trasportare a bordo di lunghi e rumorosi veicoli, circondato da motociclisti e granatieri e atteso con ansia da fotografi. Sembra che gli abbiano mozzato i piedi, diceva sempre mia madre. Le immagini e la carta stampata erano più reali delle cose. Solo quello che veniva pubblicato era vero. Esse est percipi (essere è essere ritratto) era il principio, il mezzo e il fine del nostro singolare concetto del mondo. Nel passato che è toccato a me, la gente era ingenua; credeva che una merce fosse buona perché così diceva e ripeteva il fabbricante. Anche i furti erano frequenti, benché nessuno ignorasse che il denaro non rende né più felici né più sereni».

«Denaro?» ripeté.. «Ormai nessuno soffre la povertà, che sarà stata insopportabile, né la ricchezza, che doveva essere la forma più scomoda della volgarità. Ognuno fa il suo mestiere».

«Come i rabbini» gli dissi.

Sembrò non capire e proseguì.

«Non ci sono più nemmeno le città. A giudicare dalle rovine di Bahía Blanca, che ebbi la curiosità di esplorare, non si è perso molto. Dal momento che non ci sono proprietà, non ci sono neppure eredità. Verso i cent'anni, l'uomo è ormai maturo e pronto ad affrontare se stesso e la sua solitudine. Ha già generato un figlio».

«Un figlio?» domandai.

«Sì. Uno solo. Non conviene dare impulso al genere umano. C'è chi lo considera un organo della divinità, per prendere coscienza dell'universo, ma nessuno sa con certezza se tale divinità esista. Credo che ora siano in discussione vantaggi e svantaggi di un suicidio graduale o simultaneo di tutti gli uomini della terra. Ma torniamo a noi».

Annuii.

«Compiuti i cent'anni, l'individuo può fare a meno dell'amore e dell'amicizia. I mali e la morte involontaria non sono più una minaccia. Coltiva qualche arte, la filosofia, la matematica, oppure gioca una solitaria partita a scacchi. Quando vuole, si uccide. Padrone della sua vita, l'uomo lo è anche della sua morte».

«E una citazione?» gli domandai.

«Certo. Ormai non ci restano altro che citazioni. La lingua è un sistema di citazioni».

«E la grande avventura del mio tempo, i viaggi nello spazio?» gli chiesi.

«Ormai sono secoli che abbiamo rinunciato a quegli spostamenti, che furono davvero ammirevoli. Non siamo mai potuti evadere da un qui e da un ora».

Con un sorriso, aggiunse:

«Inoltre, ogni viaggio è nello spazio. Andare da un pianeta all'altro è come andare da qua alla fattoria di fronte. Quando lei è entrato in questa stanza, stava compiendo un viaggio nello spazio».

«E vero» risposi. «Si parlava anche di sostanze chimiche e di specie zoologiche».

L'uomo ora mi voltava le spalle e guardava oltre i vetri. Fuori, la pianura era bianca di neve silenziosa e di luna.

Mi azzardai a chiedere:

«Ci sono ancora musei e biblioteche?».

«No. Vogliamo dimenticare il passato, salvo che per comporre elegie. Non ci sono commemorazioni né centenari né immagini di uomini morti. Ciascuno deve creare da solo le scienze e le arti di cui ha bisogno».

«In tal caso, ciascuno deve essere il proprio Bernard Shaw, il proprio Gesù Cristo e il proprio Archimede».

Annuì senza dire parola. Indagai:

«Cosa è successo ai governi?».

«Secondo la tradizione, caddero gradualmente in disuso. Indicevano elezioni, dichiaravano guerre, imponevano tasse, confiscavano fortune, ordinavano arresti e pretendevano di imporre la censura, ma nessuno al mondo obbediva. La stampa smise di pubblicare gli articoli e le effigi dei politici. Questi dovettero cercarsi mestieri onesti; alcuni divennero bravi comici o bravi guaritori. La realtà sarà stata senza dubbio più complessa di questa sintesi».

Proseguì cambiando tono:

«Ho costruito questa casa, che è uguale a tutte le altre. Ho fabbricato questi mobili e questi utensili. Ho lavorato la terra, che altri, di cui non conosco il volto, lavoreranno meglio di me. Posso mostrarti alcune cose».

Lo seguii nella stanza accanto. Accese una lampada, come l'altra appesa al soffitto. In un angolo, vidi un'arpa con poche corde. Alle pareti c'erano tele rettangolari, dove predominavano i toni del giallo. Non sembravano nate dalla stessa mano.

«Questa è la mia opera» dichiarò.

Esaminai le tele e mi fermai davanti alla più piccola, che raffigurava o suggeriva un tramonto e racchiudeva qualcosa di infinito.

«Se ti piace, puoi portarla via, come ricordo di un amico futuro» disse con voce tranquilla.

Lo ringraziai, ma altre tele mi inquietarono. Non voglio dire che erano in bianco, ma quasi.

«Sono dipinte con colori che i tuoi occhi antichi non possono vedere».

Le sue mani delicate suonarono le corde dell'arpa e percepii appena qualche suono.

Fu allora che si sentirono i colpi.

Una donna alta e tre o quattro uomini entrarono in casa. Si sarebbe detto che erano fratelli o che il tempo li aveva resi uguali. Il mio ospite si rivolse prima alla donna.

«Sapevo che stasera non saresti mancata. Hai visto Nils?».

«Qualche volta. È sempre preso dalla pittura».

«Speriamo che abbia maggior fortuna di suo padre».

Manoscritti, quadri, mobili, utensili: non lasciammo niente in casa.

La donna lavorò al pari degli uomini. Mi vergognai della mia debolezza che quasi non mi permetteva di aiutarli. Uscimmo, carichi di tutta quella roba, e nessuno chiuse la porta. Notai che il tetto era a due spioventi.

Dopo aver camminato un quarto d'ora, girammo a sinistra. In fondo scorsi una specie di torre, coronata, da una cupola.

«È il crematorio» disse qualcuno. «Dentro c'è la camera letale. Raccontano che fu inventata da un filantropo chiamato, credo, Adolf Hitler».

Il custode, la cui statura non mi sorprese, ci aprì il cancello.

Il mio ospite mormorò qualche parola. Prima di entrare, si congedò con un gesto.

«Continuerà a nevicare» annunciò la donna.

Nella mia scrivania di calle México conservo la tela che qualcuno dipingerà, fra migliaia di anni, con materiali oggi dispersi sul pianeta.

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