Copertina
Autore Giulia Boringhieri
Titolo Per un umanesimo scientifico
SottotitoloStoria di libri, di mio padre e di noi
EdizioneEinaudi, Torino, 2010, , pag. 428, cop.fle., dim. 13,5x20,8x2,5 cm , Isbn 978-88-06-20281-1
LettoreRenato di Stefano, 2010
Classe libri , paesi: Italia: 1940 , storia della scienza , storia della tecnica
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Indice

 VII Premessa
  IX Ringraziamenti


    Per un umanesimo scientifico


    Parte prima - Preludio

  5 I.      Le radici familiari
 16 II.     Paolo della collina
 26 III.    Cicino Balbo amico e maestro

    Parte seconda - Le collane scientifiche Einaudi 1938-49

 43 IV.     Un prestigio colossale
 55 V.      Pietre miliari del pensiero scientifico
 78 VI.     Cinque anni difficili
 93 VII.    La scoperta dell'inconscio
108 VIII.   Quando la scienza prende partito:
            il caso Lysenko e il materialismo dialettico
121 IX.     Il Lysenko è in bozze

    Parte terza - Un biennio di transizione 1950-51

135 X.      Arrivano i nostri
149 XI.     Rinascite e rivoluzioni
163 XII.    Formare o informare? L'Einaudi a un bivio

    Parte quarta - Le Edizioni Scientifiche Einaudi 1951-57

179 XIII.   Le Edizioni Scientifiche Einaudi e l'officina dei libri
193 XIV.    Per un umanesimo scientifico
202 XV.     La caduta del Lysenko
214 XVI.    L'evoluzione del pensiero biologico
227 XVII.   Le esplosioni della fisica novecentesca
248 XVIII.  Divulgazione e storia della scienza fra collana popolare e
            collana azzurra
254 XIX.    Freud scienziato, dunque. E altri libri di psicologia
266 XX.     L'eclettica Azzurra
276 XXI.    Scienza e tecnica per la ricostruzione: i Manuali Einaudi
289 XXII.   La scienza per la fabbrica: i Testi per operai
298 XXIII.  La decadenza della Viola
313 XXIV.   La collana marrone dal liberismo alla programmazione economica

    Parte quinta - Bilanci

331 XXV.    Tirando le somme
343 XXVI.   La repubblica autonoma di via Brofferio
352 XXVII.  Fra libri e politica, il cruciale '56-'57
367 XXVIII. Dallo struzzo al cielo stellato

389 Appendice. Il catalogo delle collane scientifiche dal 1938 al 1957
401 Fonti e riferimenti bibliografici
413 Indice dei nomi

 

 

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Pagina VII

Premessa


I figli di solito scrivono memorie, non storie. Può una figlia raccontare di suo padre e sperare di essere credibile? Il lavoro di ricostruzione storica, già normalmente difficile, può svolgersi correttamente nel caso di un rapporto personale cosí stretto?

L'ambizione era effettivamente molta, e lo sforzo che ne è derivato per esserne all'altezza ancora maggiore. L'obiettività non era mai abbastanza. D'altra parte, dopo le prime ricerche, nei mesi che precedettero e seguirono la morte di mio padre, il 16 agosto del 2006, e l'impulso credo comprensibile a personalizzare il racconto, tutto ciò che andavo scoprendo mi pareva di un interesse molto superiore al mio desiderio di riappropriarmi di un pezzo della sua vita che non conoscevo affatto. Cosí ho cominciato, un po' alla volta, a osservare mio padre dall'esterno, sempre di piú, con sempre piú trasporto per gli argomenti e i personaggi che incontravo e il desiderio di comprenderli, di non travisarli. E piú riuscivo a farlo piú mi sembrava di capire anche lui, di essere lí con lui.

Mio padre non avrebbe mai, per nessun motivo, scritto un libro su di sé. Per ragioni caratteriali e per convinzione era di una riservatezza assoluta, non parlava mai di se stesso e del suo passato. In particolare il periodo giovanile trascorso all'Einaudi, sebbene fosse coinciso con un decennio ormai leggendario della storia della casa editrice torinese, per la sua vivacità culturale e per i nomi dei suoi protagonisti, sembrava un capitolo definitivamente chiuso, sepolto, della sua esistenza sia personale sia professionale. Solo nell'ultimo anno della sua vita, quando era già provato dalla malattia, ha finalmente accettato di rispondere alle mie domande, e le risposte sono quelle poche che qui riporto. Sapeva che cosa avrei voluto farne e non mi ha scoraggiata.

In realtà all'epoca avevo in animo di scrivere qualcosa sulla Boringhieri. Il progetto si è modificato in seguito, per la vastità di documenti e dati che avevo trovato strada facendo sul periodo einaudiano e per quello che mi dicevano: che la redazione scientifica era stata un unicum all'interno dell'Einaudi e che i libri, le persone e i progetti che l'avevano attraversata non costituivano solo le origini dell'avventura editoriale successiva di mio padre ma una tessera importante e meno nota della cultura italiana del dopoguerra, di quella battaglia delle idee la cui intensità, nonostante tutto, continuiamo ad ammirare.

Mi sembrava una storia bella anche questa, prima di raccontare quella successiva. Spero non me ne vorrà.

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Pagina 43

IV.

Un prestigio colossale


Fondata il 15 novembre 1933 da un Giulio Einaudi ventunenne, all'arrivo di Boringhieri nel 1949 l'Einaudi aveva sedici anni di vita, dei quali i primi sette passati sotto il fascismo, i successivi cinque in periodo di guerra e gli ultimi quattro, terminata la guerra, finita la dittatura e la censura culturale, spesi in un grande fervore ideale e pratico, come del resto tutta la cultura italiana.

La casa editrice era nata intorno a tre persone: Giulio Einaudi, Leone Ginzburg e Cesare Pavese, con l'autorevolezza del padre di Giulio, il senatore Luigi, economista di statura internazionale, professore all'Università di Torino e senatore del Regno, a garantire i primi titoli e una consulenza di prestigio. In breve molti esponenti della migliore cultura antifascista torinese vi si erano raccolti intorno andando a formare fra la metà degli anni Trenta e il 1943 il primo nucleo forte della casa editrice: Massimo Mila, Franco Antonicelli, Norberto Bobbio, Franco Venturi, Felice Balbo a Torino, insieme a Giaime Pintor qui di passaggio nel '41-'42; Antonio Giolitti, Carlo Muscetta e Mario Alicata a Roma. A quest'ultimo, allievo di Natalino Sapegno e membro del cosiddetto «soviet romano» - il soprannome che Giaime Pintor aveva dato al gruppo dei giovani antifascisti comunisti della capitale - Einaudi aveva affidato la messa in piedi della prima sede romana in via Monteverdi nell'autunno del '41. A questi nomi di dirigenti interni si affiancavano, sempre in questo periodo, altre figure fondamentali di consulenti esterni, come Federico Chabod, Delio Cantimori e Ludovico Geymonat, e di amici come Carlo Levi.

La condivisione di esperienze fondative, vissute negli stessi anni e negli stessi luoghi, respirando il medesimo humus storico e culturale, faceva di queste persone un gruppo legato da profonde affinità generazionali. Nel nucleo originario degli einaudiani, trentenni negli anni Quaranta, si ritrova una grande fetta del piccolo grande mondo degli allievi del liceo D'Azeglio, poi spesso di Gioele Solari alla facoltà di Legge (come Antonicelli, Bobbio, Balbo e moltissimi altri) o di Ferdinando Neri a Lettere (come Ginzburg e Pavese), cresciuti in famiglie colte e benestanti, figli o nipoti di scienziati, professori, statisti, intellettuali. A cominciare dal padre di Giulio Einaudi che dopo la guerra era diventato prima ministro delle Finanze e del Tesoro, poi ministro del Bilancio, vice-presidente del Consiglio e governatore della Banca d'Italia, e infine nel maggio 1948 primo presidente della Repubblica italiana. Ma anche il padre di Natalia, Giuseppe Levi, era un istologo di fama mondiale; il padre di Bobbio chirurgo; Antonio Giolitti era nipote dello statista Giovanni; Felice Balbo sappiamo che era pronipote di Cesare; Franco Venturi era figlio del famoso storico dell'arte Lionello e nipote dell'ancor piú celebre Adolfo...

Un gruppo di compagni di scuola, di amici, che comprende anche non einaudiani come Giancarlo Pajetta o Vittorio Foa, le cui vicende si incrociano a ogni passo, fra le aule di scuola e di università, nei soggiorni di studio all'estero, nelle villeggiature, al confino, in prigione o in banda partigiana. E la figura del russo Leone Ginzburg, nato a Odessa e arrivato in Italia da ragazzo con la madre e la sorella dopo la Rivoluzione d'Ottobre, che spicca su tutte e per tutti rappresenta uno sprone, un esempio e, malgrado la giovane età - è del 1909 come Bobbio di cui è compagno di classe e amico fraterno - un modello.

Su questa giovinezza comune, trascorsa sotto il fascismo e coltivando l'antifascismo, pagato da ciascuno con mesi o anni di prigione o di confino, si innestano come fatti dirimenti, capitali, la guerra, quindi l'armistizio e la partecipazione di tutti alla Resistenza (Pavese costituisce un'eccezione in questo senso), da cui deriva un mai piú sopito interesse preminente, vivissimo, per i fatti politici. Valgono per tutti loro, come abbiamo visto già per Balbo e i suoi amici della Sinistra cristiana, le parole di Norberto Bobbio quando dice che dopo l'8 settembre «la nostra vita è stata sconvolta. Tutti noi abbiamo conosciuto vicende dolorose: paura, fughe, arresti, prigionia; e la perdita di persone care. Perciò dopo non siamo piú stati come eravamo prima. [...] Quando dico "noi" intendo una generazione di intellettuali che, come me, ha vissuto il passaggio tra due contrapposte realtà italiane».

La ripresa delle attività nel maggio del '45 comincia sotto il segno di un duplice lutto. Leone Ginzburg, la colonna portante della casa editrice, è morto nel carcere di Regina Coeli a Roma il 5 febbraio del 1944 per le torture subite dalla Gestapo; aveva trentacinque anni. Tre mesi prima era morto, a venticinque anni, Giaime Pintor , il 1° dicembre 1943, saltando su una mina nei pressi di San Giovanni Volturno mentre cercava di raggiungere le formazioni partigiane. Due giovani di eccezionale statura intellettuale che lasciavano una traccia profonda e incompiuta. A tenere le fila della casa editrice, con Giulio Einaudi che si riserva l'ultima istanza decisionale, ci sono ora Cesare Pavese e Felice Balbo.

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Pagina 59

La situazione. della divulgazione scientifica in Italia descritta da Boringhieri nel 1963, caratterizzata da un isolamento culturale a doppio senso, in cui lo scienziato non immette il pensiero scientifico nel terreno della cultura generale del suo Paese e viceversa non riceve da questo gli stimoli a farlo, affondava le sue radici nell'Italia neo-idealista e fascista della prima metà del secolo - e ne pagava ancora le conseguenze:

La divulgazione scientifica, secondo me, è il frutto piú delicato di una società in cui è coltivata la scienza. È la pietra di paragone degli scienziati che riescono a comunicare agli altri le idee che stanno alla base della loro ricerca: non tanto il risultato particolare, quanto la struttura mentale che condiziona tutta la ricerca scientifica. Direi che solo se questo obiettivo è raggiunto la scienza diventa un fatto culturale, diventa un elemento che entra nell'orizzonte intellettuale dell'uomo colto, diciamo, comune. E ovviamente, proprio perché è il risultato di una civiltà scientifica con radici profonde, è un risultato difficile da ottenere. [...]

Lo scienziato italiano è soprattutto culturalmente isolato. Cioè il mondo culturale italiano non gli pone nessuna domanda. Mentre la grande divulgazione scientifica straniera è sempre stata sollecitata. Io per esempio vedo che moltissimi libri dei grandi fisici premi Nobel che ho pubblicato, da De Broglie a Heisenberg, sono spesso nati come cicli di conferenze, come risposte a domande dell'ambiente che li circondava. Invece l'ambiente culturale italiano ha chiuso un po' la scienza nei suoi recinti, creando addirittura il mito del rigore.

Come prevedibile riflesso del suo isolamento culturale, nelle librerie e nelle scuole alla fine degli anni Trenta sopravviveva una scienza invecchiata e poco interessante, e i contributi italiani di rilievo erano pochissimi. Nessuna casa editrice nel 1938 aveva in catalogo una collana cosí compiutamente moderna e di alto livello come quella proposta dall'Einaudi. La torinese Bocca, la casa di Lombroso e della scienza positivista, non era piú al passo coi tempi e aveva chiuso temporaneamente i battenti nel 1936. Anche la bolognese Zanichelli, per quanto forte della consulenza proprio di Federigo Enriques, che con la collana Le attualità scientifiche aveva pubblicato nel 1921 la prima traduzione italiana della Relatività speciale e generale di "Alberto" Einstein e la manciata di opere di fisica quantistica e relativistica scritte nei due decenni successivi da Guido Castelnuovo, Enrico Persico e Tullio Levi-Civita, non aveva osato proporsi al pubblico nostrano con una collana specificatamente rivolta a lettori interessati non specialisti. Un contributo importante nel far conoscere al piccolo gruppo di studiosi italiani i nomi piú illustri della scienza mondiale la Zanichelli lo aveva dato invece pubblicando la «Rivista di scienza» dal 1907, poi chiamatasi «Scientia», fondata sempre da Enriques e diffusa anche all'estero, l'organo della Società italiana di fisica «Il Nuovo Cimento», riviste di matematica, e la stampa degli atti dei congressi scientifici internazionali tenuti in Italia. Il resto della produzione Zanichelli era a vocazione prettamente scolastica, tanto che molti dei piú grandi nomi della scienza italiana degli anni Venti e Trenta scrissero per la collana Biblioteca di opere scientifiche della casa bolognese testi a uso delle università e delle scuole superiori, come Fermi con la sua Introduzione alla fisica atomica del 1928. Sempre di Fermi la Zanichelli aveva pubblicato anche nel 1934 un Molecole e cristalli di un previsto trattato generale di fisica a cura del CNR.

La milanese Hoepli, fondata nel 187o dallo svizzero Ulrico Hoepli, era la grande casa editrice dei libri tecnici, in primo luogo i manuali pratici, dal fortunatissimo Manuale dell'ingegnere di Giuseppe Colombo del 1877 a quelli di cucina, navigazione, metallurgia, disegno, coltivazioni, radio e tv... Era stato proprio Hoepli a coniare il neologismo «manuale» per tradurre l'inglese handbook, il libro utile da tenere sempre a portata di mano. Nel 1932 era partita una piccola collana tascabile di opere di sintesi, «che vuole aderire strettamente al tempo di Mussolini», di «divulgazione dignitosa e fedele, in uno stile semplice e pure non piatto» e che al 1942 includeva una decina di titoli di argomento scientifico (tra cui Razzismo di Julius Evola...) Un po' in disparte nel catalogo Hoepli era comparso anche nel 1931 il libro capostipite della psicoanalisi in Italia, gli Elementi di psicoanalisi di Edoardo Weiss.

L'Unione Tipografico-Editrice Torinese (UTET), fondata a Torino da Giuseppe Pomba nel 1854 sulle fondamenta di una tipografia di famiglia esistente già dal 1791, e arrivata a essere negli anni Venti-Trenta una delle tre piú grandi case editrici italiane insieme alla Mondadori e alla Rizzoli, includeva libri di argomento scientifico all'interno di una produzione incentrata esclusivamente sulle opere enciclopediche, sui manuali specialistici e sulle grandi opere, senza concedere nulla alla scolastica o alla divulgazione.

Quest'ultima era proposta invece da Valentino Bompiani, presente sul mercato dal 1929 soprattutto con collane di narrativa, che oltre a essere l'editore della ponderosa Enciclopedia scientifica monografica italiana del XX secolo diretta da E. Castelli, fin dalla metà degli anni Trenta aveva lanciato una collana di divulgazione scientifica facile, popolare, Avventure del pensiero, la cui serie di volumetti gialli in brossura presentava titoli accattivanti che spaziavano dalla vita privata delle piante all'oltretomba a come si scrive un film passando anche per autori come Abetti e Lecomte du Noüy in veste di divulgatori.

In questo panorama, in cui l'editoria scientifica era stretta fra l'enciclopedismo e il tecnicismo da un lato, e una divulgazione di livello schiettamente popolare dall'altro, e mancava quella vera e importante «comunicazione delle idee scientifiche» da parte degli scienziati stessi che - come diceva Boringhieri - rende la scienza un «fatto culturale», la prima scelta di Einaudi fu di fornire non elaborazioni o compendi di seconda generazione delle teorie scientifiche originarie ma l'esposizione al pubblico dalla viva voce dei loro artefici. Tutti i libri, significativamente, malgrado la loro oggettiva difficoltà e novità, erano presentati nudi e crudi, senza prefazioni esterne, introduzioni o note; una scelta, questa, che cambierà solo a partire dal dopoguerra. Per il momento non è prevista nessuna forma di apparato critico, neppure l'indicazione del titolo e dell'anno di pubblicazione dell'originale.

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Pagina 138

[...] In realtà nel 1949 nella Scientifica non vedrà la luce nessuna novità, segno che la situazione rispetto all'anno precedente non solo non era migliorata, ma era perfino peggiorata.

Nel corso dell'anno erano arrivati intanto due nuovi redattori, Paolo Boringhieri e Giulio Bollati.

Bollati entrò in casa editrice poco piú che ventenne, proveniente dalla Normale di Pisa, lo stesso giorno in cui entrai io; fummo messi nella stessa stanza, l'ex cucina dell'appartamento. In poco tempo assunse il ruolo di braccio destro dell'editore, quasi di suo alter-ego: una situazione che però pativa anche, specie nei confronti di Calvino che rispetto a lui era anche uno scrittore.

Giulio Bollati era passato da Torino diretto a Parigi per trovare l'amico Scassellati di cui era stato compagno di università: «Scassellati mi presentò a Einaudi, che mi chiese di lavorare con lui. "Da quando?" "Da lunedí mattina". Non andai piú a Parigi».

Nel giugno del '49 - ricorda Scassellati - arrivò Bollati, diretto in Francia. Era il mio amico del cuore, quello con cui avevo preparato quasi tutti gli esami alla Normale, con cui avevo diviso le sigarette. Ero un grande ammiratore della sua creatività mentale. Appena arrivò Bollati, Einaudi spostò la sua attenzione da me a lui. Bollati inoltre, a differenza di me, aveva la macchina, ed Einaudi che non guidava aveva sempre bisogno di un autista. Cosí Bollati ne approfittava per fare lunghe chiacchierate in auto con lui. La prima cosa che Bollati fece fu di occuparsi di un po' di libri della PBSL.

Boringhieri passa invece dall'ufficio stampa alla redazione scientifica, lasciando il primo nelle mani piú capaci di Calvino.

Il mio primo incarico fu all'ufficio stampa dove mi occupavo della distribuzione dei volumi omaggio ai possibili recensori; dopo qualche mese sono passato alla redazione della collana azzurra. La collana non aveva un curatore scienziato, occuparsene voleva dire parlare con i consulenti, ed io ero l'unico in tutta la casa editrice in possesso di una cultura scientifica.

Ci si era accorti dunque che la cura della collana poteva avvenire solo attraverso una figura interna di formazione scientifica e che l'esperienza di delegare i libri scientifici ai consulenti esterni, culminata nel ruolo di factotum affidato ad Aloisi, non aveva portato i risultati sperati. Dopo la meteora Lucia Corti Ajmone Marsan nel 1943-45, nessuno con uno specifico interesse scientifico era mai piú entrato nella redazione Einaudi; la laurea in Storia contemporanea di Ubaldo Scassellati non era servita allo scopo.

Boringhieri conosceva già Giulio Einaudi di sfuggita attraverso suo fratello Gustavo, suo compagno di classe al liceo. Lo stesso Gustavo aveva brevemente collaborato con la casa editrice nei mesi immediatamente successivi alla fine della guerra. Poiché andava e veniva frequentemente dalla Svizzera in un periodo in cui le frontiere e le comunicazioni erano ancora molto difficoltose, la casa editrice lo aveva usato come intermediario per procurare materiale. Trovo sul Giornale di segreteria alla data del 26 luglio 1945: «Gustavo Boringhieri. Chiediamo ci faccia avere attraverso la Svizzera il volume di Kafka Das Schloss e, se possibile, la fotografia dell'autore». E il 19 settembre: «Boringhieri. Reduce dalla Svizzera, porta un giornale svizzero con ritratto di Kafka. Non ha trovato il libro su [sic] Kafka che l'avevamo pregato di cercare. Invece è diffusissimo un altro libro su Kafka, di un certo Starobinski. Se lo vogliamo, ce lo porta in occasione del suo prossimo viaggio». Piccoli frammenti di storia della cultura europea che spuntano da ogni foglio dell'archivio Einaudi...

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Pagina 163

XII.

Formare o informare? L'Einaudi a un bivio


I1 1950 per l'Einaudi è un anno di transizione da molti punti di vista e non solo per la redazione scientifica. È l'intera casa editrice a essere scossa da due avvenimenti quasi concomitanti: la morte di Pavese e la partenza di Balbo. La loro scelta difficile e condivisa di separare la cultura dalla politica, cementata da un lavoro quotidiano fianco a fianco in redazione, sarà rimessa in discussione, e il problema di come proseguire la Viola sarà uno dei sintomi piú evidenti, ma non l'unico, della nuova situazione di incertezza in cui si verrà a trovare la casa editrice.

Il primo avvenimento dirompente è il dramma del suicidio di Pavese, da tanti, tante volte, raccontato ma ogni volta come la prima terribile a ricordarsi: ventotto dosi di sonnifero assunte nella notte fra il 27 e il 28 agosto 1950 in una stanza dell'hotel Roma a Torino, i Dialoghi con Leucò lasciati aperti sul comodino e le parole «Perdono tutti e a tutti chiedo perdono. Va bene? Non fate troppi pettegolezzi» vergate sul frontespizio. Giulio Bollati e Paolo Boringhieri, appena appresa la notizia, corrono a Cervinia ad avvertire Giulio Einaudi, il quale - dirà Bollati - la prende «in modo strano, come se Pavese gli avesse fatto uno sgarbo, lasciandolo». La morte di Pavese lascia stupefatti tutti, amici giornalisti lettori, spettatori della sua apoteosi alla vittoria del Premio Strega in giugno con La bella estate, che per anni continueranno a interrogarsi sul perché di questo suo gesto.

Anche Boringhieri aveva continuato a pensarci. Nel 1965, in un quaderno dalla copertina azzurra in cui negli anni 1963-70 tenne un diario dei libri letti e dischi ascoltati, a volte con qualche parola di commento, era tornato a riflettere su Pavese e sul suo suicidio. Letti e commentati uno per uno tutti i suoi libri, giunto alla Luna e i falò e riconosciuta in questa un'opera «di grande maturità» (di cui il motto del libro «dimostra che P. ne era cosciente») si chiede: «Ma allora l'imminente suicidio che significa? La condanna da parte della coscienza matura di una debolezza affettiva di carattere che nulla vale a superare? La nevrosi piú forte della ragione e del potere creativo, entrambi rasserenanti?» La risposta gli viene qualche tempo dopo dalla lettura dello Spirito diseredato di Erich Heller:

È un grande monumento (funebre?) alla cultura tedesca, insuperata. Incidentalmente, c'è la risposta alla mia domanda: perché Pavese si suicidò? Cfr. p. 181: «l'amore nel senso erotico non è piú un potenziamento... dell'amore per un mondo... degno di amore, ma un eccitante, che... combatte il disgusto per una vita che ha perso ogni amore, ogni bellezza, ogni santità». Detto nel capitolo su Thomas Mann, il dio di Pavese. Pavese, unico italiano di un decadentismo al livello piú alto della cultura europea, Pavese che non impazzisce come i tedeschi, ma giunto al vertice della sua maturazione deve pur trovare una via d'uscita, e stoicamente si suicida.

La scomparsa di Pavese crea anche un vuoto, una voragine, nell'assetto della casa editrice. Viene a mancare una figura centrale da tutti i punti di vista, come funzione organizzativa, editoriale vera e propria, e di propulsione e mediazione culturale. «Dopo il suicidio di Pavese eravamo completamente persi, secondo me. Perché lui nella casa editrice faceva tutto; aveva una straordinaria facoltà lavorativa, io non ho mai visto una persona lavorare cosí tanto, fare tante cose. Secondo me aveva in mano la casa editrice; e oltre al grande dolore di averlo perduto, c'era questo senso di come avremmo fatto» (Natalia Ginzburg).

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In questa difficile famiglia Paolo Boringhieri sembra riuscire a ritagliarsi un angolo di quiete — almeno apparente — e a non farsi troppo impressionare dalle tensioni psicologiche e di potere.

All'interno della casa editrice c'era un intrico di rapporti in cui io non ho mai voluto addentrarmi, me ne sono sempre tenuto fuori. Molti si risentivano del modo di fare di Einaudi, ma bisognava non badarci. Per quanto mi riguarda, mi ha sempre trattato con rispetto, non mi ha mai messo contro nessuno. Con tutti i rapporti erano cordiali e di stima: con Natalia Ginzburg, redattrice fissa, grande amica dei Balbo, molto simpatica; con Italo Calvino, che viveva in un mondo tutto suo in cui io non avevo parte; con Bobbio, che aveva un'aria molto professorale, gli davo del lei; con Cesare Pavese: con lui stavo ben zitto e ascoltavo...

Non solo con Pavese sta zitto, Boringhieri. In generale, per carattere, parla poco e ascolta. Al contrario degli altri redattori giovani, che invece si pongono rapidamente come interlocutori nei confronti dei piú anziani «senatori» senza precise delimitazioni di ruolo, le lettere e i verbali delle riunioni editoriali lo mostrano concentrato sulle materie e le collane di sua competenza. In realtà il suo arrivo in casa editrice coincide con un momento difficile in cui nessuno è in grado di chiudersi in un angolo e ritagliarsi spazi di calma apparente. Nel 1950-51, prima che il ruolo di Foà e Bollati si definisca meglio, Giulio Einaudi si trova da solo ad affrontare i molti contrasti interni ed esterni che, evidenti fin dai primi anni Quaranta, erano andati via via aumentando, talvolta esplodendo con punte polemiche anche molto accese, specie nei rapporti con il Pci e con la sede di Roma.

Che cosa stesse accadendo dentro la casa editrice ce lo racconta il verbale di una riunione plenaria che fu indetta appositamente per discutere dell'indirizzo generale della Casa il 23 e 24 maggio 1951. Per questa riunione furono convocati a Torino tutti i consulenti interni, anche i non torinesi Balbo, Muscetta, Giolitti, Vittorini, Cantimori, che si unirono a Bobbio, Bollati, Boringhieri, Calvino, Einaudi, Foà (Foa sul verbale, in realtà doveva trattarsi del neo-assunto Luciano Foà), Fonzi, Natalia, Scassellati, Serini, Venturi. È una riunione storica, sfondo e chiave di lettura dell'Einaudi dei primi anni Cinquanta. La prima riunione plenaria senza Cesare Pavese e l'ultima con Felice Balbo, già trasferitosi a Roma e già con un piede fuori dalla casa editrice dopo le recenti, clamorose dimissioni dal partito.

Carlo Muscetta avvia la discussione delineando in pochi tratti essenziali le caratteristiche originarie della Casa e portando come esempio dei risultati raggiunti proprio i libri scientifici:

Richiamandosi all'attività svolta dalle origini fino alla guerra, Muscetta ritiene che la fisionomia peculiare della Casa editrice sia risultata dal suo carattere di Casa antifascista, democratica e laica, particolarmente impegnata nel compito di sprovincializzare e aggiornare la cultura italiana e di aprirla a nuove prospettive e conquiste culturali, come ad esempio nel campo trascuratissimo della ricerca e della conoscenza scientifica.

Tuttavia, prosegue Muscetta, dopo la Liberazione la casa editrice «ha esteso la sua attività a campi ed esperienze culturali non toccati prima ma ha perso in organicità e in linearità di indirizzo» e ha subito «qualche sbandamento» che richiede una «impostazione editoriale omogenea e organica» per la quale lui suggerisce di richiamarsi alla «concezione di una cultura nazionale e popolare» di Gramsci.

In risposta, Venturi ribadisce che è ancora preminente il compito, tutt'altro che concluso, «di sprovincializzare la cultura italiana e di fornirla di strumenti di alta informazione».

Secondo Balbo invece «occorre tener conto da un lato che la Casa editrice ha subito perdite assai gravi, dall'altro, che essa è in fase di crescita, quantitativa e qualitativa, secondo un processo naturale di espansione» e che perciò si rende necessaria una nuova organizzazione del lavoro editoriale affinché «il programma complessivo, con le sue inclusioni ed esclusioni, risulti non piú soltanto dall'esperienza e dalla specifica sensibilità della direzione generale, ma dal lavoro consapevole e coordinato di tutti i collaboratori».

Per Bollati la questione fondamentale rimane l'indirizzo della Casa, che la situazione culturale italiana richiede diverso dalla «fase della lotta condotta sul piano della polemica e dell'azione della pura avanguardia» della cultura antifascista: bisogna «riuscire a concretare una politica di effettiva direzione culturale» e a tal fine «è giunto il momento dei ripensamenti e dei bilanci storico-critici», sui quali Bollati pensa debbano essere sollecitati gli autori italiani e dei quali i classici, le opere fondamentali e i manuali delle biblioteche di cultura costituirebbero gli strumenti principali.

Occorre a tal fine, secondo Serini, evitare «una eccessiva dispersione». E anche lui, come Muscetta, prende le collane scientifiche come modello della strada da seguire: «Richiamandosi all'importantissimo contributo già dato dalla Casa Einaudi nel campo degli studi economici e scientifici, Serini sostiene la necessità di accentuare quell'indirizzo positivo che risponde al bisogno di una piú sicura conoscenza del pensiero economico, scientifico, politico, dei problemi delle tecniche», combattendo quanto nella cultura italiana «c'è ancora di formalistico».

Per Balbo bisogna puntare non piú al «generico» ma alla «specializzazione», dimostrando cosí di «aver sentito il problema del passaggio da una fase di lotta eversiva a una fase di costruzione e di direzione».

Su un punto c'è quindi un'unanime convergenza di vedute fino a questo momento: la constatazione che la fase della lotta antifascista è finita e che si impone un ripensamento dell'indirizzo della casa editrice con la costruzione di un chiaro programma di direzione culturale adatto ai nuovi tempi. Per realizzarlo sono stati indicati finora Gramsci (Muscetta), opere di alta informazione (Venturi), bilanci storico-critici (Bollati), opere di indirizzo positivo (Serini), di specializzazione (Balbo).

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Pagina 184

Tanta severità era giustificata dalla convinzione che la forma del libro dovesse essere all'altezza del suo contenuto, corrispondergli.

La qualità dei libri non era un mio capriccio personale, ma derivava dal rigore scientifico dei libri. Era un rigore editoriale che rispecchiava quello dei contenuti.

Negli anni dell'EsE il primo e principale redattore cui era affidato il perseguimento di questo obiettivo era Boringhieri stesso, che anche in seguito da editore non avrebbe mai smesso di mettere mano di persona alla revisione dei manoscritti, caratteristica tipica del suo modo di lavorare. Ma non poteva fare tutto da solo e senza poter fare miracoli qualche volta la fortuna lo assistette.

Il 22 marzo del 1951 l'Einaudi stipula un contratto di traduzione per il primo volume di Organic Chemistry di Henry Gilman con un chimico diviso fra l'impiego in una fabbrica di vernici di Settimo Torinese e la scrittura, dalla quale fino a quel momento aveva ricevuto scarse soddisfazioni. Cinque anni prima aveva proposto all'Einaudi di pubblicargli un libro da lui scritto di getto subito dopo essere tornato a casa dal lager di Auschwitz, ma l'Einaudi, per bocca di Natalia Ginzburg, lo aveva respinto ritenendolo inadatto al momento, perché troppi libri di tema affine invadevano il mercato. Il libro era uscito nel 1947 per le edizioni De Silva di Franco Antonicelli, che ne aveva apprezzato il valore ma non era riuscito a farne un successo commerciale, a conferma, si direbbe, del presentimento dell'Einaudi. Se questo è un uomo aveva venduto non piú di millecinquecento copie e Primo Levi, deluso, aveva rinunciato a dedicarsi a tempo pieno alla scrittura. Aveva intrapreso la carriera di chimico, ritagliandosi uno spazio per qualche traduzione.

Il lavoro del Gilman commissionatogli dall'ESE è svolto cosí bene che nel giugno del '52 Boringhieri gli propone un accordo di collaborazione esclusiva e continuativa per traduzioni, revisioni, lettura bozze, lettura libri, articoli per il «Notiziario Einaudi», per la quale gli offre un compenso mensile piuttosto elevato. Qualcuno in casa editrice doveva aver sollevato dei dubbi a riguardo, se Boringhieri si trovò a dover giustificare la spesa con una nota dettagliata in cui difendeva la competenza, la precisione, la puntualità, la scrittura (!) di Levi.

Primo Levi.

Dottore in chimica, ed ora chimico in un'industria. La sua competenza si estende ai campi della chimica, della fisica, della tecnica in generale, della biologia e della storia della scienza. Conosce l'inglese, il tedesco e il francese, e la letteratura tecnica in queste lingue. Il suo noto libro Se questo è un uomo dimostra la sua capacità di scrivere bene. Con noi ebbe un contratto in data 22.3.51 che prevedeva la traduzione del volume I del Gilman (pp. 1100), da consegnarsi il 28.2.52, e la revisione del II volume (pp. 900) affidato ad altro traduttore. [...] Il dattiloscritto del I volume venne consegnato puntualmente alla data pattuita in ordine perfetto: curatissimo non solo nella traduzione, ma in tutti i particolari. [...] Mentre in un primo tempo sembrava propenso a fare del traduttore-revisore la sua attività principale, ora penserebbe di lavorare per noi soprattutto di sera, penso che potremmo eventualmente fissargli una rata mensile di lire [...]. È la stessa somma che paghiamo all'ing. Corbi, e l'ESE ha bisogno di un buon revisore (forse ancora di piú che di un buon traduttore)".

Poco dopo, in luglio, Boringhieri si trova di nuovo nella situazione di farsi paladino di Levi, il quale vorrebbe veder ripubblicato da Einaudi il suo libro, uscito dal mercato e mai piú ristampato. È il primo e unico caso in cui troviamo Boringhieri nel ruolo di intermediario per un autore non di sua competenza.

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Pagina 197

In definitiva, per capire a fondo che cosa fu l'ESE dal 1951 al 1957 ci si può affidare solo alla corrispondenza, a qualche altro documento sparso e soprattutto ai risultati ottenuti: i libri. Compito arduo, perché ogni libro contiene mille storie, mille fili dai quali si può partire per indagini infinite, in un processo ermeneutico di immani proporzioni. E questo processo può seguire almeno tre direzioni diverse: una lettura tecnica, che vede il libro come prodotto editoriale e cerca di rintracciarne origini e vicende interne; una lettura soggettiva, per la quale il libro è innanzitutto il protagonista di una propria microstoria, che è quella dell'autore e del contesto da cui è scaturito e a cui si rivolge; una lettura storico-critica, che è interessata al suo significato e al suo valore in un orizzonte temporale e culturale piú ampio e trasversale. Io mi limiterò a seguire alcuni libri, non tutti, per un tratto di strada, alternando le letture come ho fatto finora, perché il quadro generale possa emergere passo dopo passo, frammento dopo frammento, senza naufragare in un mare di dati.

La domanda è: perché? Perché dedicare tanta attenzione a un catalogo vecchio piú di mezzo secolo? Per almeno tre ragioni, mi sembra: perché la prima lettura ci porta a conoscere dall'interno che cos'era il mestiere editoriale in uno dei suoi luoghi e momenti eroici; perché la seconda ci parla di pionieri, di scopritori, di intellettuali che ebbero, per la storia della loro disciplina e della cultura italiana o mondiale, un ruolo non da comprimari ma da assoluti protagonisti; terzo, perché il mondo a cui le collane scientifiche Einaudi appartenevano e a cui hanno dato il loro contributo era quello della nascita dell'Italia repubblicana e democratica in cui viviamo (o vorremmo vivere) noi oggi.

Tale contributo è consistito in un progetto culturale assolutamente unico nell'Italia del dopoguerra, e ciò, se si è d'accordo con tale affermazione, costituisce la quarta e piú importante ragione dell'interesse di questo catalogo, la sintesi di tutte e tre le precedenti. È un progetto che può essere descritto in molti modi: il piú efficace a mio parere è attraverso il concetto a cui accennavo sopra di «umanesimo scientifico dell'epoca moderna», che ho preso in prestito da due materiali editoriali apparentemente minori. La prima volta compare nella presentazione sul «Notiziario Einaudi» della Storia della scienza di Dampier, in cui si dice che l'autore...

[...] non limita la sua attenzione alla cronaca delle scoperte e delle teorie, ma mette costantemente in rilievo i presupposti filosofici della ricerca scientifica nelle varie epoche, - presupposti sempre operanti, anche se misconosciuti dai singoli scienziati, - e immette la storia della scienza nel quadro generale della storia della cultura, nell'intento di contribuire a creare un nuovo umanesimo scientifico.

La seconda volta è impiegato a proposito degli scritti filosofici di Planck, sempre sul «Notiziario»:

Il nuovo umanesimo, l'umanesimo scientifico dell'epoca moderna, non può piú permetterci di conoscere quello che dicono e pensano i filosofi, politici, artisti, ignorando quello che dicono e pensano gli scienziati.

Sono pressoché le uniche presentazioni non firmate sul «Notiziario» e proprio per questo mi sento di ascriverle con sufficiente sicurezza a Boringhieri. L'«umanesimo scientifico dell'epoca moderna» può essere inteso come un doppio nuovo Rinascimento: per la scienza, chiamata a una nuova autoconsapevolezza del proprio ruolo, a una riscoperta dei propri classici, alla demistificazione dei suoi piú recenti pregiudizi, all'accettazione della propria anima filosofica e a una nuova «filosofia naturale» intenta a capire e far capire i molteplici significati di questa strana materia un po' corpuscolare e un po' ondulatoria, di questi atomi immensamente piccoli ma in grado di esplodere uccidendo milioni di esseri umani, di questa specie umana evolutasi attraverso microscopici cambiamenti a livellò molecolare; ed è un nuovo Rinascimento per la cultura filosofico-letteraria, un suo nuovo sodalizio con la scienza, un cessare di trincerarsi dietro le differenze di formazione e di linguaggio e costruire idiomi comuni. Entrambe le cose implicano una trasformazione interna ed esterna, un ripensarsi e un ripensare, e l'avvio di un dialogo nuovo. Implicano la riproposizione di una moderna sapienza a tutto tondo che attinga a ogni dove per descrivere e comprendere l'uomo. Una sapienza a cui, invece, né l'arido tecnicismo e la presunzione di onnipotenza di una scienza "disumana", né le anime belle di una tradizione umanistica solo di nome, sprezzante verso quell' homo scientificus che non riconosce piú come proprio, potrebbero portare alcun contributo. Implicano una fiducia illimitata nel valore della cultura come immenso tesoro dell'umanità e custode della sua razionalità.

In che modo abbia provato l'ESE nei suoi tempi e limiti, nella sua funzione pionieristica, e in che modo poi la Boringhieri, nella sua piena maturità, a contribuire alla costruzione di questo nuovo progetto culturale, potrebbe essere una buona chiave di lettura degli elementi di continuità di una storia editoriale per altri versi caratterizzata da una netta cesura.

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Pagina 222

In realtà la biologia novecentesca - già tradizionalmente suddita della filosofia della fisica che per secoli aveva regnato sulla filosofia della natura estendendo i propri schemi concettuali derivati dal mondo inorganico anche a quello della materia vivente - si trovava particolarmente in ritardo rispetto alla sorella fisica nell'approfondimento degli spunti provenienti dalla ricerca pura. Ed era proprio la ricerca a scombussolare le carte. La biologia stava vivendo in alcuni suoi rami fondamentali come la teoria dell'evoluzione e la genetica una stagione di pieno sviluppo, di ipotesi scientifiche in continuo, frenetico aggiornamento, e perciò le sintesi filosofiche che su di esse si basavano andavano invecchiando altrettanto rapidamente e non era ancora tempo per annunciarne di nuove. In confronto all'ormai saldo terreno della fisica relativistica e quantistica, giunta alla fine degli anni Trenta a uno stadio maturo di varietà e ricchezza di elaborazione concettuale, le scienze biologiche, e particolarmente la teoria della biologia dell'evoluzione che sotto l'aspetto concettuale ne costituiva il punto nodale, erano paragonabili a sabbie mobili su cui pochi biologi azzardavano riflessioni come quelle dei colleghi fisici. «Le scarse preoccupazioni metodologiche del biologo da un lato, e dall'altro le condizioni di meno avanzato sviluppo della nostra scienza rispetto ad altre, fanno sí che assai poco numerose siano le trattazioni metodologiche dei problemi della biologia», spiegava Adriano Buzzati-Traverso nel 1947 (e da ciò - lamentava fra l'altro il genetista milanese - derivavano teorie inquinate da terminologie non scientifiche, come quelle estetiche o etiche introdotte dal Needham).

In questa fase di passaggio Boringhieri comincia partendo non a caso dalla riproposizione di un grande classico, Crescita e forma di D'Arcy Thompson, presentato nel 1954 al consiglio editoriale e pronto a fine '56 (ma che uscirà solo tredici anni dopo!), poi sceglie di privilegiare la voce della fisiologia. Gli altri due libri avviati in questi anni sono entrambi imperniati sul tema delle basi scientifiche dei tradizionali temi filosofici della mente e della coscienza: la soluzione cartesiana del premio Nobel Charles Sherrington in Uomo e natura e quella affatto diversa dell'americano Homer Smith in Dal pesce al filosofo, presentato nella nota editoriale come il libro di un «rigoroso e intelligente evoluzionista» che affronta il tema della nascita della coscienza umana come momento della storia evolutiva, fra certezze (e incertezze) neurofisiologiche e l'inutilità di qualunque teleologia.

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Pagina 227

XVII.

Le esplosioni della fisica novecentesca


La fisica e l'epistemologia ricoprono un ruolo preponderante nella collana, costituendo circa un terzo del suo catalogo. Una ricchezza di titoli che ha una precisa ragione storica, perché oltre all'importanza epocale della rivoluzione sia scientifica sia concettuale portata in pochi decenni da alcuni fisici di tutte le nazionalità, negli anni Cinquanta l'«esplosione di interesse nei riguardi della fisica in seguito alle esplosioni atomiche del 1945» le aveva puntato addosso tutti i riflettori. Le distruzioni di Hiroshima e Nagasaki che avevano cosí drammaticamente posto fine alla seconda guerra mondiale avevano prodotto una nuova, sconvolgente consapevolezza dell'impatto che la fisica era in grado di avere sulla vita umana. I rischi per la popolazione e per la sopravvivenza stessa del pianeta, la corsa agli armamenti, le conferenze sul disarmo, gli eventuali usi pacifici dell'energia nucleare, l'impegno etico e politico degli scienziati implicati nella progettazione di armi di distruzione di massa erano temi da prima pagina. L'ancor piú devastante bomba all'idrogeno aveva ulteriormente amplificato la paura e l'interesse, un interesse collettivo che non riguardava solo la categoria degli intellettuali. Gli uomini si erano ritrovati a vivere in un'era nuova, in cui a fianco dei presidenti e dei generali sedevano fisici e matematici il cui nome pochi conoscevano, e la percezione dell'importanza della ricerca scientifica non era mai stata cosí diffusa dai tempi di Erone di Siracusa.

Ma il sentimento dominante era la paura.

Da quando le scoperte si susseguono alle scoperte, in un ritmo che, pensato, dà le vertigini, e gli scienziati lavorano a gruppi in laboratori sterminati, in città atomiche, isolati dal mondo, subordinando il frutto della loro collettiva ricerca ad un potere estramorale, all'autorità politica e militare che se ne vale per i propri fini, la scienza fisica non appare piú illuminata da alcuna legge etica: procede inerte nel tempo, verso realizzazioni da cui possiamo tutto temere e nulla affatto sperare.

Il tono apocalittico di questo giovane Guido Ceronetti, che null'altro vedeva che una «avvilente marcia verso un oscurantissimo domani» e agli scienziati moderni (Tolansky incluso, di cui faceva qui la recensione) contrapponeva le «grandi e luminose figure di indagatori della natura» di un Galileo o un Leonardo, non era isolato.

Tutto ciò aveva avuto, come spesso succede, un risvolto positivo, perché l'attenzione per la fisica si era riverberata anche sulla comunità scientifica che aveva visto aumentare il numero di ricercatori, l'entità dei finanziamenti, la dimensione delle sue istituzioni, particolarmente nel campo della fisica nucleare che attirava una percentuale di risorse superiore alle discipline sorelle.

In questo contesto, l'Einaudi pubblica una biografia divulgativa di Einstein nella PBSL (1952), un saggio sugli aspetti piú paradossali e sconcertanti del processo di tecnicizzazione della vita americana (Il futuro è già cominciato del giornalista tedesco Robert Jungk, 1955), e L'atomo unirà il mondo? di Angelos Angelopoulos (1956), ipotesi di utopia socialista resa possibile dalla rivoluzione industriale atomica. Non far discutere, non terrorizzare, ma informare è invece l'obiettivo della Biblioteca di cultura scientifica: «Che cosa facciano i fisici nei loro laboratori è problema che, dopo la scoperta dell'utilizzazione dell'energia nucleare, non lascia piú indifferente il profano», comincia la colonna di presentazione del Planck sul «Notiziario Einaudi». Se il vivere nell'era atomica è una delle realtà piú importanti, ancorché tremende, con cui l'uomo contemporaneo si deve confrontare, sua condizione di vita e di futuro, allora non è accettabile per nessuno, né per le persone comuni né per gli intellettuali, non avere la minima idea di come sia fatto un atomo e perché possa dispiegare tanta potenza. Chiudersi nell'ignoranza della scienza e degli scienziati che influiscono così pesantemente sulle sorti dell'umanità è un peccato non solo di intelligenza ma anche civile e morale. Libri per la civiltà delle macchine, il già citato testo di presentazione della collana scritto da Segre con correzioni di Boringhieri, comincia proprio con il richiamo a una tale assunzione di responsabilità:

Se è vero che solo acquistando coscienza dello sviluppo storico, delle prospettive e dei limiti di questa nostra civiltà della tecnica e delle macchine si evita di divenirne schiavi e strumenti passivi, è chiaro che la nostra formazione culturale di uomini moderni richiede un interesse molteplice per i problemi fondamentali della scienza moderna e per il dibattito che ha luogo in campi di lavoro e di ricerca differenti dai propri.

Poiché sempre la schiavitú e l'impotenza sono causate dall'ignoranza dei molti e il sapere dei pochi, è un preciso dovere per gli uomini di cultura che intendono vivere pienamente la modernità cercare di confrontarsi con i problemi che la scienza risolve, e allo stesso tempo pone, alla nostra civiltà. Sfuggire nell'isolamento al fragore dei tempi nuovi è l'alternativa sempre possibile dello studioso, ma non è a questo tipo di studioso che si rivolge la collana azzurra. Come affermava Padoa nella prefazione alla sua Biologia generale a proposito di tutt'altri argomenti (l'embriologia e la dottrina dell'evoluzione), è preciso dovere degli scienziati scrivere con la convinzione che la scienza ha una «funzione liberatrice, per i dogmi che fa crollare», e che se l'uomo conoscendola «applicherà rettamente i risultati della scienza - allora - la tecnologia aumenterà il suo benessere, senza farne uno schiavo, e senza tenerlo sotto la minaccia della distruzione» (p. 8). Per Boringhieri era partita la caccia agli scienziati che scrivevano con tale consapevolezza.

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Pagina 235

Accanto all'esposizione dei contenuti fondamentali della fisica contemporanea, il secondo filone dei libri di fisica della Scientifica continuava la strada aperta dal Planck del 1941, con testi altrettanto fondamentali di filosofia della fisica. La collana azzurra non si sostituiva in questo né ai Saggi né alla Biblioteca di cultura filosofica, dove per iniziativa essenzialmente di Ludovico Geymonat e Norberto Bobbio l'Einaudi introduceva in Italia i testi dei filosofi che si confrontavano con i fondamenti e i linguaggi della scienza novecentesca. La Blu invece presentava le riflessioni filosofiche sulla fisica a opera dei fisici stessi, complemento ritenuto non solo interessante, ma addirittura necessario, del loro lavoro scientifico. Se «in generale, per capire i fisici quando parlano il loro linguaggio ermetico, si richiede un certo grado di iniziazione»...

[...] pure, quali sono le idee generali, non strettamente tecniche, che gli scienziati traggono dalle loro ricerche e che, in ultima analisi, sono alla base di tutta la loro speculazione teorica? Che valore danno, gli scienziati, alle loro scoperte? Molti di essi, e fra i piú grandi, hanno voluto dirlo chiaramente, al di fuori del gergo proprio della loro scienza. [...]

Il nuovo umanesimo, l'umanesimo scientifico dell'epoca moderna, non può piú permetterci di conoscere quello che dicono e pensano i filosofi, politici, artisti, ignorando quello che dicono e pensano gli scienziati.

Ma se «umanesimo scientifico» significa anche riproporre in chiave contemporanea il legame prima classico e poi rinascimentale fra scienza e filosofia, e il ruolo che possono e debbono occupare nella cultura i pensatori in grado di comprendere il peso epocale delle teorie scientifiche inserendole in prospettive culturali e filosofiche di vasta portata (i moderni «filosofi naturali»), tale concetto dà, mi sembra, per acquisito anche un altro aspetto fondamentale del ripensamento del ruolo della scienza in atto nella cultura di questi anni: l'abbandono sia dell'idea positivista di un sapere scientifico universale e progressivo indipendente dai contesti storici e culturali, sia della concezione meramente strumentale della scienza tipica dell'idealismo crociano. Lo scientismo e il tecnicismo - la divinizzazione della scienza come unica forma di vera conoscenza o al contrario la sua riduzione a mera tecnica senz'anima - ne erano stati le conseguenze piú evidenti e perniciose. Divulgare le opinioni filosofiche degli scienziati è allora anche il modo piú semplice ed efficace per mostrarli nella loro piena storicità, soggettività e responsabilità: conclusione, questa, cui sia il marxismo sia la fisica novecentesca erano arrivati per vie diverse.

A trarre le prime conseguenze teoriche dagli assunti della teoria della relatività e della meccanica quantistica, nonché dei loro risvolti etico-sociali, erano stati, del resto, proprio i fisici che a questi sviluppi avevano direttamente contribuito, i primi in grado di tradurre il linguaggio ermetico delle loro scoperte in discorsi di ordine generale, soprattutto stante il carattere anti-intuitivo e contrario al senso comune delle nuove concezioni della fisica rispetto alla fisica classica. Era stato Heisenberg il primo a riflettere sulle conseguenze epistemologiche del «principio di indeterminazione» da lui enunciato nel 1927, che segnò «la fine di una concezione della natura che aveva dominato la scienza per piú di tre secoli [...] la fine di un'illusione, di poter raggiungere una conoscenza completa della natura»; era stato Einstein a chiedersi fin dal principio in che misura la relatività della distanza spaziale e temporale rispetto a un sistema di riferimento fosse ontologica oltre che procedurale e si estendesse alla realtà oggetto dell'esperimento, arrivando a conclusioni opposte a quelle dei colleghi della scuola di Copenaghen (Bohr, Heisenberg); era stato De Broglie a mettere in risalto le grandi questioni filosofiche sollevate «dall'opposizione formale tra la fisica dei fenomeni di grandezza naturale, dove le concezioni classiche di spazio e di tempo, di determinismo e di oggetto individuato sono pienamente valide, e la fisica dei fenomeni di grandezza atomica, dove, per l'intervento essenziale del quanto d'azione, quelle concezioni svaniscono o divengono suscettibili di revisione». E cosí via, in una pluralità di punti di vista che passando dal perché di un dato concetto in ambito scientifico alla sua elaborazione filosofica giungevano a conclusioni personali anche molto contrastanti. Tale pluralità era rappresentata nella collana senza predilezioni per l'una o l'altra scuola di pensiero. Il realismo di Einstein stava accanto all'operazionismo di Bridgman, al determinismo causale di Planck , al probabilismo neo-positivista di Reichenbach ...

Dati gli argomenti, non stupisce che i libri filosofici destinati alla collana azzurra fossero eccezionalmente esaminati in sede di consiglio editoriale, diventando oggetto di decisioni piú collegiali rispetto agli altri delle collane scientifiche. Dopo il Frege del 1948 di cui si è già detto, il libro successivo di epistemologia, il Bridgman, era stato suggerito a Bobbio da Silvio Ceccato, filosofo all'Università di Milano, nell'autunno del 1950, ma subito era intervenuto Balbo che aveva chiesto di poterlo esaminare prima che fosse presa qualunque decisione. Il libro, evidentemente piaciuto anche a Balbo, era stato quindi dato in traduzione da lui stesso a Vittorio Somenzi e già l'anno dopo era nelle librerie, ottenendo un ottimo successo.

Grazie all'interesse di Somenzi per la cibernetica questa avrà uno spazio importante nel futuro catalogo Boringhieri. Intanto la Scientifica era stata pionieristica anche in questo campo presentando il primo testo in italiano sull'argomento, l' Introduzione alla cibernetica di Wiener , l'artefice stesso del termine e della branca di studi. Con queste parole di stupore si assisteva nel 1953 ai prodigi della cibernetica:

Gli straordinari sviluppi dei congegni elettronici caratterizzeranno – secondo il professor Wiener – il futuro del genere umano. I «cervelli elettronici» potranno risolvere rapidamente problemi matematici di estrema difficoltà, eseguire classificazioni complicatissime, azionare macchine utensili e saranno persino dotati di memoria.

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Pagina 352

XXVII.

Fra libri e politica, il cruciale '56-'57


Gli ultimi mesi dell'ESE coincidono con una fase epocale della storia europea. Dopo l'avvio della destalinizzazione al Congresso del PCUS nel febbraio 1956, in giugno l'intervista di Togliatti pubblicata su «Nuovi argomenti» e la rivelazione del rapporto segreto di Kruscëv, nell'estate l'insurrezione operaia nella città polacca di Poznan, ecco arrivare in ottobre la rivolta antisovietica di Budapest e in novembre la sua violenta repressione da parte dell'Armata rossa. Tutto il mondo tiene il fiato sospeso, ma per quella larga fetta di comunisti europei che avevano creduto nell'Urss e in Stalin è un vero e proprio shock anche personale. Per i comunisti italiani, in prima fila gli intellettuali, tutto si gioca sulla reazione di Togliatti: da che parte starà il partito? L'esito è noto. Le parole chiave del «partito nuovo» - pluralità di posizioni, libertà di pensiero, democrazia interna... - sfumano in nome della necessità di tenere compatto il fronte rivoluzionario internazionale minacciato dalla controrivoluzione borghese (degli studenti e degli operai di Budapest...)

L'atteggiamento di Boringhieri davanti ai fatti d'Ungheria me l'ha raccontato Luciano Barca, che lo frequentò di nuovo dal 1953 al 1957 quando tornò a Torino a dirigere l'edizione locale dell'«Unità».

Al mio ritorno a Torino i rapporti con Paolo ripresero, eravamo buoni amici. La casa di Paolo aveva preso il posto di quella di Plinio Pinna Pintor nel 1945 come punto di ritrovo e poi di quella di Cicino Balbo. Ogni domenica pomeriggio si andava a casa sua: si ascoltava musica, si discuteva, si giocava anche. Lui se ne stava lí, con il suo sorriso difensivo, la mano destra nella tasca della giacca, con atteggiamento distaccato, un po' partecipando e un po' no.

L'ambiente intellettuale comunista torinese era molto diverso da quello romano, era piú aperto, per l'Unità scrivevano anche non comunisti come Massimo Mila, Franco Venturi e Augusto Monti. Quando il venerdí usciva il pezzo di critica musicale di Mila le vendite del quotidiano aumentavano di mille copie, e Mila continuava a scrivere per noi anche se gli offrivamo un compenso piú basso rispetto ad altri giornali.

Iscritti al Pci e simpatizzanti avevano l'«Unità» come punto di riferimento, la cellula dell'Einaudi e la cellula del giornale si riunivano insieme da noi in Corso Valdocco, al primo piano (sopra c'era la «Gazzetta»), e Paolo era un partecipante assiduo a queste riunioni. Dopo i fatti d'Ungheria le riunioni diventarono giornaliere e anche Paolo veniva tutte le sere a discutere, era angosciato dai fatti di Budapest e molto critico su come la segreteria del Pci aveva affrontato la questione ungherese. Era piú chiuso degli altri ma quando si trattava di dare battaglia politica non si tirava indietro. Ci fu uno scontro molto duro a casa mia in cui Calvino e Boringhieri affrontarono Giorgio Amendola, Calvino in maniera piú aggressiva e Paolo piú tranquillo. Paolo era uno che parlava poco ma in modo calmo e pacato tirava anche lui delle pietre molto grosse. Rispetto a Calvino era meno politicizzato e quindi aveva anche qualche ingenuità politica; diceva che si doveva sostituire Togliatti con qualcuno di piú giovane, cosa assolutamente impensabile. Io mediavo.

La serata cui allude Barca ebbe luogo il 6 novembre del 1956 dopo un comizio di Giorgio Amendola in piazza San Carlo in commemorazione della Rivoluzione d'Ottobre. Durante il comizio, gremito di operai, Amendola aveva sostenuto la necessità di un rinnovamento del partito dopo le rivelazioni di Kruscëv ma anche l'augurio «che l'Unione Sovietica non lasciasse trionfare la controrivoluzione in Ungheria». Dopo il comizio, durante la cena di cui diceva Barca, telefonate concitate per Amendola da Roma e per Barca dal giornale portarono la notizia dell'intervento sovietico a Budapest: una «mazzata», la definí Calvino. Ricordò Amendola: «Restammo a lungo a discutere a casa di Barca, allora direttore dell'edizione torinese dell'"Unità", con Calvino ed altri amici e compagni. Sentivamo che erano ore cruciali e che avremmo dovuto compiere scelte che avrebbero condizionato le nostre vite».

Una serata «decisiva», dirà Calvino in un'intervista a Scalfari del 1980. Di fronte all'atteggiamento filo-sovietico di Amendola, in cui per qualche mese aveva ancora sperato di poter individuare un punto di riferimento interno di rinnovamento del partito, capí che «il tempo dei cento fiori nel PCI era ancora lontano, molto lontano».

In quell'intervista Calvino disse anche che Amendola «era venuto a Torino per incontrare me e gli altri amici dell'Einaudi: per "tenerci buoni", perché si capiva che le difficoltà stavano arrivando e noi davamo segni di grande impazienza». Fra questi segni c'era stato, ricorda l'amico Paolo Spriano, proprio un ordine del giorno «dell'organizzazione di partito dell'Einaudi» in cui si chiedeva «la rimozione di Togliatti da segretario del partito, un ricambio di dirigenti che faccia largo ai rinnovatori». Di qui la sferzata di Togliatti ricordata da Giulio Einaudi di chiamarli «quei controrivoluzionari della cellula Einaudi del partito», frase contenuta in una lettera a Trombadori del 5 novembre 1956, il giorno precedente la salita di Amendola a Torino.

Tirando le fila delle varie testimonianze, l'autunno del '56 vede perciò Boringhieri proprio al centro del ciclone; fra i promotori, probabilmente, di quell'ordine del giorno della cellula Einaudi sulla necessità di cambiare i vertici del partito, da cui la spesso citata frase di Togliatti. E anche lui, come Calvino, si allontana dal PCI.

Con la crisi del '56 molto cambia anche nel binomio politica-cultura che caratterizzava il decennio appena trascorso. Con il mito di Stalin cade anche ogni residuo zdanovismo e in Italia ci si accorge subito che «quel clima di fervore appassionato e acritico, di attivismo senza riserve, di sacrificio quasi mistico che ha circondato la Cultura di sinistra fino ai primi anni Cinquanta non è riproducibile». Nella battaglia delle idee le parole d'ordine del neo-realismo, della lotta al decadentismo, all'estetismo, al formalismo, del rifiuto della specializzazione e del tecnicismo di marca anglosassone, sono rimesse in discussione, il materialismo dialettico aleggia meno pesantemente sulla scienza, concetti come la produttività e le human relations in fabbrica ora si possono dire, perfino Freud diventa piú presentabile... E naturalmente è sulle pagine del «Contemporaneo» che si sviluppa nel 1956 uno dei primi, piú accesi dibattiti interni alla cultura di sinistra, di autocritica e confronto su questi e altri temi, cui intervengono per diversi mesi Geymonat, Lombardo-Radice, Calvino, Pintor, Rossanda, Alicata, Muscetta, Spriano, Guttuso, Della Volpe, Fortini, Colletti e moltissimi altri.

Norberto Bobbio aveva anticipato questo clima già un anno prima, sempre sul «Contemporaneo», quando nel decennale della Liberazione aveva risposto all'invito del settimanale a fare il punto sullo stato della cultura italiana scrivendo, da osservatore amico ma non comunista:

Quando venne il momento di ricostruire il paese, ci accorgemmo che il nostro genio speculativo non ci serviva. I problemi erano molto piú complicati di quel che le teorie filosofiche della società e dello stato ci avevano fatto credere. Eravamo ricchi di formule. Occorrevano invece esperienze. [...]

Ciò di cui avevamo bisogno era di assimilare (o riconquistare) nuove tecniche di ricerca, dalla logica simbolica all'analisi del linguaggio, dalla psicologia del comportamento alla sociologia sperimentale, dalla sociologia della conoscenza alla storia sociale delle idee, e di rompere il dominio delle tecniche in cui eravamo avviluppati e che erano giochi di bambini spensierati, se non, nella peggiore delle ipotesi, trucchi del mestiere. [...] Proporrei per i prossimi dieci anni una tregua ideologica e che ciascuno si metta a studiare. Dopo dieci anni vedremo chi ha scritto i libri migliori.

E chi ha pubblicato i libri migliori, si potrebbe aggiungere. Boringhieri avrebbe forse tolto dalle tecniche di ricerca nominate da Bobbio un po' di sociologismi e aggiunto il pensiero scientifico e tecnologico, ma per il resto non ho dubbi che avrebbe sottoscritto il senso dell'articolo, che poi ricorda molto da vicino ciò che anche Balbo diceva quasi dieci anni prima.

Per gli intellettuali provenienti dalla militanza comunista non si tratta di cambiare bandiera da un giorno all'altro o di rinunciare a interpretare un ruolo civile, ma di farlo in maniera piú libera, nella speranza di poter comunque continuare a contare: «Credo che sia importantissimo che noi che abbiamo creduto meglio operare "fuori" e voi che credete ancora di dover operare "dentro" non perdiamo i contatti, non dimentichiamo che il nostro scopo comune è di ritrovarci insieme. [...] Qui a Torino, tra gli amici "dentro" e noi "fuori" cerchiamo già di realizzare contatti sistematici e studiare azioni comuni», scriverà Calvino dopo la propria uscita dal partito a Geymonat che era rimasto «dentro».

E Massimo Aloisi, sempre a Geymonat:

È vero, ho dato le dimissioni dal Partito, e di questo potremo – anzi vorrei – parlare distesamente con te – ma ciò non significa che io abbia radicalmente mutato le mie vedute e le mie aspirazioni. Certo, molte supposte certezze si sono tramutate in problemi [...] Il mio schieramento rimane quello di prima, ma non si può sostenere una milizia carica di responsabilità acriticamente accettate. Come al solito le speranze non cadono tutte, poiché non sono tutte illusioni. Penso che il nostro mestiere che ci fa lavorare nella cultura ci imponga di difenderlo.

In questi mesi fatidici di spaesamento e ripensamento a sinistra avviene il passaggio delle Edizioni Scientifiche Einaudi a Paolo Boringhieri. Mentre celebrava la sua storia con il catalogo generale del 1956 l'Einaudi attraversava, infatti, una gravissima crisi finanziaria, che a chi viveva allora la situazione dall'interno, come a chi la rivive oggi attraverso le lettere, non poteva giungere inaspettata.

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Pagina 367

XXVIII.

Dallo struzzo al cielo stellato


Il passaggio dallo struzzo al cielo stellato, la trasformazione delle Edizioni Scientifiche Einaudi nell'Editore Boringhieri, non ebbe episodi di vera e propria rottura ma molti elementi di novità, segni di un chiaro programma di sviluppo e di un'idea forte della nuova identità da costruire. La scelta di farsi affiancare da Giorgio Colli, il ripensamento delle collane di partenza, la preparazione di collane nuove e la messa in cantiere di alcuni progetti di grande impegno, destinati a maturare piú lentamente e venire alla luce qualche anno piú tardi, sono tutti passi che avvennero all'indomani del 1° aprile 1957. Cosí come la ricerca di un nuovo «stemma», che fu trovato dopo mesi di esplorazione infruttuosa e che dalla primavera del 1958 comparve finalmente su tutti i libri nuovi: il globo del «Cœlum stellatum», un disegno tratto dal libro Practica musicae di Franchino Gaffurio del 1496 - le stelle che tanto erano dispiaciute a Giulio Einaudi...

Il 31 dicembre del 1957 esce il primo listino della Boringhieri. Le collane sono sempre quelle, con due piccole modifiche: la Biblioteca di studi etnologici e religiosi ha perso la dizione «psicologici» e i Testi per operai sono diventati la Collana di istruzione e di aggiornamento professionale. L'editore nella brevissima presentazione si dichiara «aderente al programma fin qui seguito, convinto che nel nostro paese occorra promuovere una cultura a largo respiro capace di inserirsi piú vivamente nel grande sviluppo scientifico del mondo moderno».

Intanto però sono in preparazione tre collane nuove che esordiranno l'anno dopo: i Classici della scienza, l'Enciclopedia di autori classici, i Testi della fisica contemporanea. Ciascuna delle tre collane avrà un significato preciso nel definire la nuova casa editrice. La prima, nella proposta di grossi volumi rilegati di veste raffinata e di cura scrupolosa, toglierà ogni dubbio sulla sua ambizione e serietà di intenti; la seconda, l'Enciclopedia, metterà in risalto la capacità progettuale originale della Boringhieri rispetto all'Einaudi e renderà piú tangibile la proclamata fusione di cultura scientifica e cultura umanistica; i Testi della fisica contemporanea, infine, saranno la filiazione specialistica del ramo della fisica all'interno dell'ESE, con il suo peso preponderante e l'interesse particolare che, ormai è evidente, le riserva Boringhieri.

Sia in parte i Classici, sia soprattutto l'Enciclopedia nascono dal connubio tra Boringhieri e Colli. Dopo Felice Balbo, Giorgio Colli è la seconda figura di spicco, nel doppio ruolo di amico e di riferimento culturale, nella storia di Boringhieri. Un altro filosofo, e completamente diverso da Balbo.

Alieno al crocianesimo, alla filosofia americana e alla politica, Colli perseguiva un percorso tutto suo. Era un personaggio speciale, che ammiravo. Mi piaceva perché era il portatore di una voce diversa, fuori del comune.

L'antica amicizia con Balbo, che era stata cosí fondamentale per Boringhieri sia dal punto di vista personale sia come modello di lavoro culturale ed editoriale, non sembrava ora potere o volere portare a una nuova collaborazione. I tempi erano cambiati, le strade di ciascuno anche. L'altrettanto vecchia amicizia con Giorgio Colli al contrario si trasforma in un'opportunità per entrambi. È l'incontro tra un editore che vuole presentarsi immediatamente con una capacità di orientamento propria e di un filosofo che nella costruzione di una collana editoriale ha una possibilità concreta di esprimere il proprio percorso culturale. Le reciproche esigenze, in questo caso, combaciano perfettamente. Sul terreno personale, tanto è essenziale per Boringhieri dare anima filosofica al proprio lavoro editoriale, altrettanto è per Colli trovare sbocco editoriale alle proprie «azioni culturali»; sul terreno culturale, l'anticonformismo di Colli, la sua nietzscheana «inattualità», apre a Boringhieri orizzonti nuovi rispetto all'Einaudi, mentre quello che abbiamo chiamato l'«umanesimo scientifico» del suo programma editoriale, non impolitico ma neppure ideologico, è a sua volta una casa ospitale per gli autori di Colli.

La collaborazione professionale tra il filosofo e l'editore è sancita ufficialmente appena un mese dopo l'acquisto dell'ESE con una lettera in cui Boringhieri conferma per iscritto a Colli «l'accordo verbale, in base a cui la tua opera di direzione culturale sarà compensata con [...] lire mensili». Sappiamo che già da qualche mese Colli aveva immaginato per la nuova casa editrice cinque progetti di collane, che aveva chiamato Classici latini e greci, Classici della filosofia greca, Classici del pensiero scientifico, Universale, Classici della poesia. La prima fu portata avanti per un anno circa finché sembrò che Einaudi potesse essere interessato a una co-edizione, poi sfumò. Della seconda e della quinta non ci sono tracce e probabilmente vennero abbandonate prima ancora di essere approfondite.

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Dopo questo sguardo, rapido e necessariamente incompleto, ai primi anni della Boringhieri si può solo immaginare quanti altri fatti e protagonisti scrissero la storia della casa editrice dopo il 1957, quante vicende ci furono dietro quanti libri. Tutte avventure nell'avventura. Dal primo giorno Paolo Boringhieri aveva potuto contare su Cesare Musatti, Giorgio Colli e Luigi Radicati, i suoi pilastri per la psicoanalisi, la filosofia e la scienza: le tre anime della casa editrice. Il resto era una personale, difficile visione d'insieme, un'idea di editoria a cui non era scontato che i nuovi tempi, e i lettori, avrebbero dato ragione. Volendo esprimerla con le sue parole, scelgo questi suoi appunti sulle opere di Jung buttati giú per un convegno:

Un modo importante con cui un editore può assolvere il suo compito di diffusore della cultura è naturalmente quello di fare il suo lavoro bene. Ciò vuol dire che la cura con cui viene pubblicato un classico moderno - e tale è Jung - è anch'essa uno specchio della serietà culturale di un paese. Devo dire che mi rallegra particolarmente che accanto ai paesi di lingua tedesca e ai paesi di lingua inglese si collochi terza, ma a uguale livello, l'Italia, in questo preciso caso per la dignità della sua edizione di queste Opere. È anche questo un modo di entrare nel vivo della circolazione internazionale delle idee non in una posizione provinciale, dilettantesca, ma con impegno scientifico, con probità intellettuale, qualità queste che, se mancano, indeboliscono i fondamenti stessi di ogni e qualsiasi sapere moderno.

Diffondere la cultura con impegno scientifico e probità intellettuale: su queste basi, altrettanto etiche quanto professionali e tipiche della sua storia e della sua personalità, Boringhieri continuerà a concepire e costruire sempre il proprio lavoro, con Michele Ranchetti nel ruolo dell'amico filosofo quando Colli passerà ad Adelphi, con Elvio Fachinelli a piantare insieme all'editore le fondamenta del linguaggio freudiano e Pier Francesco Galli a costruire il catalogo della psicologia e psicoanalisi, con Luigi Aurigemma a curare l'edizione delle opere di Jung, con i tanti altri consulenti e redattori che si assommeranno o alterneranno, prima in via Brofferio e poi dal 1969 in corso Vittorio Emanuele II, fino alla vendita della maggioranza azionaria nel 1987 e alla sua uscita di scena.

Si potrebbero aggiungere molti altri dettagli al disegno, per esempio prima di tutto la scelta di essere editore di catalogo, di lungo periodo, di opere di assoluto valore culturale, anche a costo di rinunciare a libri di probabile e maggiore successo commerciale. O il particolare senso di responsabilità imprenditoriale che implica il dirigere un'azienda culturale cosí votata, per mantenerla sana e indipendente: un senso e un peso. O la scelta di tenere una linea di stretta aderenza a un'identità precisa e riconoscibile nel mercato, di specializzarsi e non annacquarsi. O l'idea del lavoro di redazione come cura amorevole e severa della conoscenza, da presentare fedelmente nel suo linguaggio, nella sua verità.

Ma l'essenziale del disegno era questo, ed era, adesso lo sappiamo, già ben vivo in Paolo Boringhieri negli anni dell'Einaudi. Tuttavia il contorno che assunse nei trent'anni successivi come editore Boringhieri fu del tutto nuovo, fu la storia di una casa editrice originale per ruolo e carattere e da cima a fondo modellata, nel bene e nel male, sul suo fondatore, esattamente come la Giulio Einaudi Editore lo era stata sul proprio.

La vicenda che questo libro racconta si conclude dunque pienamente nel 1957, l'anno in cui molte altre passioni intellettuali finirono in Italia. Tutto ciò che viene dopo appartiene, per la biografia di mio padre, per la storia dell'editoria e per molto altro ancora, a un'altra epoca.

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