Copertina
Autore Francesca Borri
Titolo Qualcuno con cui parlare
SottotitoloIsraeliani e palestinesi
Edizionemanifestolibri, Roma, 2010, Contemporanea , pag. 160, cop.fle., dim. 14,5x21x1 cm , Isbn 978-88-7285-650-5
LettoreRenato di Stefano, 2011
Classe paesi: Palestina , paesi: Israele , guerra-pace
PrimaPagina


al sito dell'editore


per l'acquisto su IBS.IT

per l'acquisto su BOL.IT

per l'acquisto su AMAZON.IT

 

| << |  <  |  >  | >> |

Indice


Introduzione                                    9

Uno che neppure ha diritto al suo nome          15
Zakariya Zubeidi, da Jenin

Una società di persone, non di individui        21
Mustafa Barghouthi, da Ramallah

La banalità dell'occupazione                    29
Yehuda Shaul, da Gerusalemme

Nessuno è perfetto                              35
David Wilder, da Hebron

Qualcuno con cui parlare                        43
Nurit Peled e Bassam Aramin, dall'area B

Ma questa, è la guerra di chi?                  51
K., da Nablus

Dentro Hamas                                    57
Mariam Saleb, da Tulkarem

La nakbah degli ebrei non sionisti              65
Michel Warschawski, da Gerusalemme

L'umanità del sottosuolo                        73
Kassem Aina, dal refugee camp
di Sabra e Chatila, Beirut

Settanta centimetri                             79
Dall'insediamento di Har Homa,
alla periferia di Gerusalemme

Vedi alla voce: giustizia                       85
John Reynolds, da Dublino

Mi rifiuto, dunque sono                         95
Efi Brenner

Non in mio nome                                101
Rabbi Arik Ascherman, da Gerusalemme

Non capisco e non mi adeguo                    115
Luisa Morgantini, da Strasburgo

Sessant'anni di solitudine                     123
Ezra e Ashraf da Nazareth e Nazerat Illit

Ma deve esserci un equivoco. Io sono libero    133
Marwan Barghouti, dal carcere

Gaza sola andata                               145
Da Dahab, sulla costa egiziana del mar Rosso

I più altri tra gli altri                      151
Gli Jahalin, dal deserto del Negev ad Abu Dis,
discarica di Gerusalemme

Qualcuno con cui parlare.
Israeliani e palestinesi                       157


 

 

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 9

INTRODUZIONE



Era il mio quarto giorno, quando quella Punto mi ha tagliato la strada, e l'unica cosa che sapevo di Jenin è che si trova più o meno nell'emisfero boreale. In Palestina agli sgoccioli di un master, ero al seguito di una inviata della Bbc per un pezzo su donne e Corano. Mai avrei immaginato che il ragazzo nell'auto fosse stato il protagonista di un documentario pluripremiato – e soprattutto, degli attentati suicidi della seconda Intifada. Zakariya Zubeidi era il ricercato numero uno della West Bank: ma voleva raccontare la scelta adesso di dedicarsi ai bambini del Freedom Theatre, fondato dalla sua vecchia maestra: un'ebrea. Ascoltavo Zakariya sgomitolare la sua vita, un mondo, Lucy la sua intervista, e rimasi senza parole nel vederla poi fermarsi al ritorno, duecento metri dal primo checkpoint, e disfarsi di ogni appunto. Scrivo una storia simile mi disse, e domani sono fuori da Israele: dopodomani dalla Bbc. E in effetti: impeccabile introduzione al giornalismo occidentale; niente di più pericoloso di uno su cui non calza lo stampo del fondamentalismo islamico – uno che mina le ragioni del nostro fondamentalismo. E così quella storia, dopo un mese a Jenin, è diventata la mia.


Sono arrivata a Ramallah con poche e vaghe immagini interiorizzate, distratte: questa guerra essenzialmente, come una tragedia greca in cui tutti hanno insieme torto e ragione, il groviglio tra incompatibili – e l'Undici Settembre, e lo scontro di civiltà. Fino al giorno in cui ho incontrato Mustafa Barghouthi. Medico e deputato: ma soprattutto, musulmano e laico: uno, cioè, che secondo la mia laurea in Relazioni Internazionali non esisteva – perché l'Islam, no?, "non consente quella separazione tra stato e religione che è la base della modernità". Quello che i protagonisti di questo libro hanno in comune è semplicemente questo: la capacità e la naturalezza di smentire le narrazioni dominanti. Perché il problema non è solo quello che non ti insegnano, nelle nostre università – ho frequentato sociologia della musica tecno, nella mia vita, non mi sono mai imbattuta in una geopolitica del Medio Oriente: il problema è anche, soprattutto, quello che ti insegnano; e "questa nostra cultura, tutta costruita così, come se il mondo fossimo noi", per dirla con Lorenzo Milani. Non è dunque un ritratto di Israele e Palestina, questo libro: non ha la minima pretesa di esaustività. Non è un libro di interviste, ma piuttosto un libro in forma di interviste, o meglio ancora: interazioni – perché domande e risposte, narrato e narratore continuamente, inavvertitamente si invertono. Non è un libro a sostegno di una tesi. "L'opera che prova qualcosa", contestava Albert Camus, "si ispira a un pensiero soddisfatto: la verità che si crede di possedere, viene dimostrata. Ma le idee sono il contrario del pensiero" – questo è solo un libro a sostegno e tutela del dubbio. E anche per questo ho deciso di mantenere, quasi invariato, l'ordine cronologico delle interviste, senza riverniciare niente – neppure alcune imprecisioni: per riconsegnare tutta la loro evoluzione e, soprattutto, quella immunità che caratterizza lo sguardo della prima volta, la prima luce. Perché aveva ragione Tiziano Terzani: la cosa più triste della guerra è che ci si abitua. All'inizio un checkpoint incendia di indignazione. Ma, rapida, subentra una specie di aritmetica istintiva del male minore: difendere un anziano da uno sputo è regalare il pretesto per una chiusura a tempo indefinito. E si è contaminati così da una gramigna di tolleranza, via via più larga – perché ogni giorno è giorno di infinite ingiustizie minime: fino a riscoprirsi pazienti in fila a un checkpoint, anestetizzati come davanti a un semaforo rosso. Ed è qui che la guerra, invece, vince – quando nessuno si sorprende più. Quando si converte in paesaggio.


Israeliani e palestinesi sembrano condividere a volte solo l'alibi dietro cui trincerarsi – le volte che non abbiamo nessuno con cui parlare, dicono, dall'altra parte del Muro. Eppure con i protagonisti di questo libro, parlare non è affatto difficile: non perché abbiano le stesse idee: ma perché le loro ragioni, anche le più radicali, sono comprensibili. Zakariya non è lo squilibrato animato da odio: è un ragazzo come mille altri, da camionista a terrorista per mancanza di prospettive più che per ideologia. Non si tratta naturalmente di condonare le sue responsabilità – è lui il primo a non negarle: solo di accorgersi che le sue ragioni sono coniugate nello stesso linguaggio delle nostre. Dignità, lavoro, libertà. Poi la guerra, certo, rimane tutta ancora lì: la pace non è questione di conoscersi meglio – è questione di diritti e giustizia. Non si tratta di ricomporre il due in uno: solo di evitare che le distanze precipitino in dismisure – le ragioni in risentimenti e paure. E la traduzione, la convivenza si innesca quando non si è più, semplicemente, "israeliani e palestinesi": ma donne e uomini dalle storie e ustioni le più diverse, e che continuano però a sentirsi prima di tutto persone, rivendicando identità più larghe, e varie e complesse di quelle ammesse dagli entomologi delle guerre. Perché è alla fine nell'incrociarsi di queste identità che questo paese si fa un unico paese: in Ezra e Ashraf, ebreo arabo il primo, arabo israeliano il secondo in un imprevedibile, vertiginoso gioco di specchi – e riconoscimenti, negazioni rimozioni: ripensamenti, smarrimenti. È amaro allora, e icastico di questi tempi di pace e sicurezza attraverso i muri e le esclusioni, che l'intervista più intricata da organizzare sia stata quella a Nurit Peled e Bassam Aramin: inventarsi un luogo in cui potessero arrivare entrambi, israeliana lei, una figlia uccisa in un attacco suicida, palestinese lui, una figlia uccisa a un checkpoint – due vecchi amici che chiacchierano di istinto in arabo e ebraico insieme. Sono nati a pochi chilometri di distanza in due mondi lontani: il titolo della loro intervista è oggi il titolo di questo libro perché le loro vite, rigo a rigo, finiscono per diventare indistinta una sola. E perché quando all'ultima pagina mi sono persa, cercando la strada per Gerusalemme, non mi sono ritrovata dentro che il rabbino Arik Ascherman: beit, arabo e ebraico hanno la stessa parola per dire casa.


E però "qualcuno con cui parlare" è anche, forse soprattutto, il ribaltamento di quel "non aprire mai" che è stato il titolo del mio primo libro, scritto dal Kosovo – meglio: dalla nostra ambasciata in Kosovo, e da quello strano acquario di Nazioni Unite e istituzioni e sigle sparse i cui funzionari avevano in comune un'unica certezza: "se i Balcani non esistessero, non bisognerebbe inventarli": la diversità come ostacolo, invece che ricchezza. Avevo ventiquattro anni e l'aria perplessa, ed era stata impeccabile, l'introduzione alla politica occidentale: perché è semplice non sentire certi sguardi addosso, quel granchio dentro – è sufficiente dicevano, "non aprire mai". Timbrare disciplinati il cartellino in attesa di una promozione altrove, vivere impermeabili tra internazionali: niente serbi né albanesi. Da un diario a interviste: sono io, soprattutto, ad avere trovato qualcuno con cui parlare: questo libro è insieme, il mio sguardo e il mio ritratto. È scomodo allora, e come porta stretta, il passaggio dall'osservare l'Altro a essere l'Altro: per scoprire che non è affatto "la nostra libertà contro la loro oppressione", ma in modo molto più complesso e, come insegnava Norberto Bobbio, forme diverse di oppressione, e in costante evoluzione – non esiste, ammoniva, una libertà conquistata per sempre. Tra tutto, le donne. La Palestina è un paese molto particolare; intanto musulmano e cristiano: e poi gli stranieri, la diaspora, un vicino cosmopolita come Israele – la Palestina per capire non è abbastanza. Ma quale che sia la condizione delle donne nel resto del mondo, quello che so per certo è che è ruvido, dopo cinquant'anni, leggere Simone De Beauvoir e riconoscere che ancora racconta di me. Mariam Saleh non mi ha solo sorpreso, mi ha spodestato. Ministro di Hamas, mi ha spiegato il rapporto tra Corano e democrazia attraverso John Locke – la mia ignoranza della sua cultura: la sua padronanza della mia. Eppure per Henri, mediatore europeo, studi a Princeton, voleva solo ingannarmi: è incompatibile con la democrazia, mi ha assicurato – "non è che a Princeton non siamo capaci di capire un Corano". Molto dipende, ripeto, dalle peculiarità della Palestina e dalle persone scelte – il beduino che cita Kafka è un avvocato: ma in realtà, la commistione delle civiltà è la cosa più immediata da verificare, in Medio Oriente, e però in Occidente più difficile da dire. Forse perché niente è più difficile in guerra, per chi sopravvive, del soldato che all'improvviso ti sorride. Perché ancora, d'improvviso, non è più solo un soldato. E allora forse non è attacco, quello degli Henri, ma difesa: non sicurezza ma paura. Perché come nota uno degli operai che lavorano al nero negli insediamenti, costruendo la propria occupazione con cemento palestinese: "sarebbe tutto più semplice, qui, se davvero avessimo un Muro. Davvero sapessimo chi sta da una parte e chi dall'altra".


Ha in sé l'orma di un altro libro, questo libro, leggera della leggerezza di Italo Calvino, L'alternativa mediterranea di Franco Cassano e Danilo Zolo – in nome di don Tonino Bello e della sua pace come convivialità delle differenze, e non semplice distruzione delle armi, equa distribuzione dei pani a tutti i commensali della terra: "il tentativo di resistere alla deriva fondamentalista dei due opposti monoteismi dell'imperialismo occidentale e dell'integralismo islamico". Perché è un Mediterraneo che è la cultura del limes, non certo la retorica del sole, degli agrumi e dell'ulivo: è il Mediterraneo di Braudel, in cui la tradizione greca e latina interagiscono con la cultura ebraica e il mondo arabo fino a forgiare un'entità unitaria. In cui unitarietà non è uniformità però, ma inclusività: e un mare dunque che non è un mare, "ma un complesso di mari, mari ingombri di isole, tagliati da penisole, circondati da coste frastagliate: mari mescolati alla terra" – è qui il Mediterraneo, "in quella risacca che lascia su ogni sponda il segno dell'altro": nella convinzione che si può combattere l'integralismo altrui solo attraverso la decostruzione del proprio, oggi che non ci riscopriamo che "soggetti consumatori apparentemente liberi, sostanzialmente soli, subdolamente subalterni". Ed è per questo che ho scelto di raccontare Gaza attraverso un israeliano. Perché la droga più diffusa, oggi, a Gaza, è il Tramal: un antidolorifico – non per accelerare, ma addormentarsi e dimenticare: non avrei avuto altro da dire. Ho scelto un veterano di Piombo Fuso non perché le vittime di questa occupazione siano in realtà gli israeliani – i morti rimangono più vittime dei soldati, ma perché Israele è spesso considerata un caso a sé: ed è invece anche il laboratorio di molto di quanto accade nel resto dell'Occidente. Una società fondata con l'obiettivo della sicurezza, e però una sicurezza come esclusione: non più la sicurezza del welfare, ma delle frontiere e dei clandestini – la guerra che si confonde con la polizia. La stratificazione della cittadinanza, frantumazione dei diritti: quel Muro non è una barriera, ha ragione Michel Warschawski: è una filosofia, e nessuno è illeso – si chiama Schengen il nostro Muro. Israele è per me il giorno dell'intervista a David Wilder, tra quei coloni che mi studiavano con sospetto, e paura e ipocondria, loro che erano tutti armati. Forse sarei esplosa da un momento all'altro: fuori intanto, due soldati manganellavano un uomo nell'indifferenza – è incastonata nel paesaggio, ormai, la violenza in Israele. E in questo senso allora, un paese come un paradigma: come un'anticipazione: di queste nostre identità concepite sempre più come negazione, invece che relazione. Forse ha ragione Marwan Barghouti: forse non è lui, il prigioniero.


Ultimi, i beduini. Perché ho riletto gli appunti, un paio di mesi dopo, e mi sono accorta che erano semplicemente inutili: che ero lì per 'spiegare' i beduini: come vivono, cosa pensano, queste domande variamente insensate su chi governa, chi risolve le controversie, l'autorità, il ruolo delle donne. E perché è questo il risultato della nostra cultura: che ti ritrovi in mezzo al deserto, e non ti viene di meglio da fare che arrampicarti a spiegare tutto e, come i personaggi di Italo Calvino, quelli che cercano di trovare un ordine nelle stelle, nelle galassie, nelle finestre illuminate la sera tardi, mentre qualcuno passa la cera al pavimento degli uffici – "giustificate, giustificate se non volete che tutto vi si sfasci". E ho anche chiesto a un ragazzo di descrivermi una sua giornata. Si alza, ho annotato disciplinata, si lava le mani, porta le capre al pascolo anche se l'erba è finita e gli israeliani sparano, e niente: poi si alza, in una nuova giornata e – che domanda idiota: ma perché è la nostra ossessione, no?, tutta occidentale, il bilancio di mezzanotte: stiamo usando al meglio questo nostro poco tempo? E come Hannah Arendt: "il progresso risponde alla sconvolgente domanda: e ora cosa facciamo? Al livello più basso, la risposta è sviluppare quello che esiste in qualcosa di meglio. A sinistra, sviluppare le attuali contraddizioni nella loro intrinseca sintesi. In entrambi i casi, niente di assolutamente nuovo o completamente inatteso può accadere: quanto è rassicurante sapere, per dirla con Hegel, che non verrà fuori nient'altro che quello che esiste già". Perché la verità è che dei beduini ho capito zero, ed è invece proprio questa l'infinita bellezza che mi hanno regalato, le volte che le differenze non sono addomesticate dal logos, diceva Franco Cassano, le volte che sei e rimani radicalmente altro, e non sai spiegare, non sai capire – dominare: solo raccontare. "Di una città non godi le sette o le settantasette meraviglie", scriveva Italo Calvino, "ma la risposta che dà a una tua domanda. O la domanda che ti pone obbligandoti a rispondere" – è in questa relazione, coabitazione con l'Altro, in questo costringermi continuamente al confine delle mie identità, le mie certezze, che Israele e Palestina sono casa mia. Il luogo in cui più mi è naturale sentirmi straniera.

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 21

UNA SOCIETA' DI PERSONE, NON DI INDIVIDUI
Mustafa Barghouthi



Anni di interviste, commenti al volo dirette Cnn, ma è la domanda più ingenua ad arrivargli addosso contromano: perché cosa pensa degli israeliani? Aspetto, romantica, una parola leggera di comprensione, e pace e futuro da quest'uomo che chiamano il Mandela del Medio Oriente, ottengo uno sguardo che si incrina, distanze improvvise che precipitano in dismisure. Niente dice: non penso niente, il silenzio puntellato dal muezzin ed è la prima volta che gli avverto nella voce come la risacca della guerra, la profondità delle ferite. Sembra la domanda più strana, quella più necessaria — il suo nemico, il suo vicino. "Ero a una manifestazione un giorno, sa, una di quelle noi contro i soldati, naso a naso a contenderci ogni centimetro di terra. A un certo punto un'israeliana viene colpita. Sono l'unico medico: e naturalmente la soccorro, i soldati che mi passano gli attrezzi io che spiego, fasciate qui, disinfettate lì. Poi un'ambulanza la porta via, e torno dalla mia parte. I soldati dalla loro. E di nuovo, uno contro l'altro: centimetro a centimetro". Mi guarda difficile, senza sconti. "Le ingiustizie, non le persone. Quello che uno fa e non fa: non le persone, ma le responsabilità".

Mustafa Barghouthi è un uomo così. Colto e gentile e dalla luce chiara, letture larghe e discorsi trasparenti, toni bassi, nessun cedimento alla retorica, ogni idea asciugata all'essenziale come il nome del movimento che guida, Al Mubadara, che in arabo significa semplicemente l'Iniziativa. Ma sono parole brevi per pensieri lunghi, il nome arriva in realtà da Hannah Arendt, la politica diceva, richiede spirito di iniziativa e insieme una dote quasi poetica, l'immaginazione — e allora capisci che con il suo tentativo di una alternativa, di una via terza tra autocrazie arabe e fondamentalismi islamici, quest'uomo è molto più di quello che sembra: e mentre tutti ti chiedono Ma Barghouti chi? Marwan? Che ti seduce ovunque dai muri di Ramallah con le mani ammanettate al cielo e l'aria di sfida, non torni che a Musil e il suo uomo senza qualità: quello che tutti credevano fragilmente inadatto ai tempi, e come disincronico al mondo e che invece, in un secolo che deragliava verso i totalitarismi, si sarebbe rivelato íl solo capace di pensare, essere in autonomia, senza mai agire in modo meccanico e convenzionale — sostantivo prima che aggettivo. Senza mai adeguarsi ai tempi.


La prima domanda è obbligata. Lei era alla conferenza di Annapolis.

Annapolis... Perché non mi chiede di Gaza?, è Gaza, la domanda obbligata. La comunità internazionale celebra a Parigi i suoi donatori, in questi giorni: ma non abbiamo bisogno di carità, abbiamo bisogno di diritti e giustizia, frontiere aperte. Gaza è un campo di concentramento, e Israele ancora infierisce con attacchi, incursioni, invasioni. Negli ultimi sei mesi sono stati uccisi 5 israeliani e 218 palestinesi: sono i soldati ormai, non i civili le vittime incidentali – sono loro gli effetti collaterali di questa guerra. Potrei darle infiniti numeri, statistiche: dirle dell'acqua la sete, le medicine il gasolio, morire perché manca la lampadina in sala operatoria, sopravvivere di aiuti umanitari, umiliarsi di elemosina. E un collasso che è tutto ancora da venire, perché gli agricoltori non hanno più niente da seminare, gli operai più niente da lavorare – e Israele, intanto che spara. Scelga lei: quale inferno preferisce racconti? Tanto non la scalfirò. La cosa più devastante non è il dramma, è l'indifferenza. Lei è italiana come Gramsci. "Quello che avviene", ricorda?, "non avviene perché alcuni vogliono che avvenga, ma perché la massa abdica alla sua volontà, lascia fare: è l'indifferenza la materia inerte della storia, la palude che recinge la vecchia città, e la difende meglio delle mura più salde". Vivere significa essere partigiani. La storia un giorno chiederà conto di Gaza. Chiederà a tutti voi: dove eravate, mentre Gaza spariva? è questa, l'unica domanda obbligata – dove siete? Consumarsi di cancro respinti a un checkpoint. E tutto questo perché? Perché si sono tenute elezioni democratiche. La risposta è stata il massacro collettivo.


Ma ha vinto Hamas. E in Occidente si scrive Hamas e si legge terroristi. Bisogna dialogare o sradicare?

La pace si fa con chi c'è, non chi si vorrebbe ci fosse. E comunque Hamas è monolitica solo nei vostri stereotipi: ha i suoi moderati, i suoi pragmatici. E forse anche i suoi estremisti. Bisogna organizzare i moderati, come nel governo di unità nazionale – penso a un italiano che lei certo ama, Alex Langer: nelle guerre bisogna parteggiare, diceva, per i disertori. Il governo di unità nazionale è stato il migliore dei governi palestinesi, sia nei rapporti con Israele, cui ha offerto un cessate il fuoco reciproco e totale, sia nelle riforme interne. Non è caduto per nostra incapacità: è caduto perché l'Europa ha tagliato gli aiuti economici e Israele ha sequestrato le entrate fiscali. Con cosa dovevamo governare: con le fiches? Minate tutto quello che non è Hamas o Fatah, poi strillate che esistono solo Hamas e Fatah.


Una delle ragioni della popolarità di Hamas è che fornisce servizi sociali, qui che molti ancora neppure hanno l'acqua corrente. Lei ha fondato Medical Relief che oggi garantisce assistenza sanitaria a un terzo dei palestinesi. In un certo senso, è la sua politica dei facts on the ground – aiutare la gente a rimanere dove è, dice: perché se rimane, Israele ha fallito. Solo la concretezza è sovversiva.

Hamas dilaga perché a Oslo l'Occidente ha deciso di concentrare tutto il sostegno finanziario sull'Autorità Palestinese, falciando via la società civile. A Deir Ghassaneh, qui vicino, duemila abitanti, un gruppo di donne aveva aperto un asilo insieme a una associazione di Ginevra. Un piccolo appartamento: cinquanta bambini. Poi da Ginevra hanno trasferito i fondi all'Autorità Palestinese, e l'asilo ha chiuso. Non è rimasto che quello islamico: gestito ovviamente secondo il Corano. Tutto quello di cui avevano bisogno, a Deir Ghassaneh, erano tremila dollari l'anno. La Palestina è questa. Sono questi i nostri bisogni, queste le scelte lungimiranti – di dollaro in dollaro, bambino in bambino. Invece si privilegia un'unica dimensione della sicurezza: la dimensione militare. Ma la sicurezza ha essenzialmente una dimensione sociale. Si ottiene rispondendo alle esigenze delle famiglie. Degli studenti, dei malati, dei disoccupati. Delle imprese. Il fondamentalismo non arriva solo dall'oppressione israeliana ma anche dall'Autorità Palestinese: la sua inefficienza, il suo fallimento. Quando si sostiene l'autocrazia, si sostiene anche il fondamentalismo che reagisce all'autocrazia. Hamas è un prodotto occidentale. Le organizzazioni indipendenti, e laiche, sono ormai al collasso. Ma l'Occidente può dormire sereno: Hamas ha altre fonti di finanziamento. Ricorda quella poesia di Kavafis? L'Occidente avrà í suoi fondamentalisti, i suoi terroristi: come farebbe, d'altra parte, senza i barbari alle sue porte?


Non odia gli ebrei, non ha mai ucciso nessuno: lei è strano. Lei è persino un musulmano laico. All'università mi hanno insegnato che non esiste una cosa come un musulmano laico. Edward Said diceva che la prima sfida, per i palestinesi, era diventare visibili. Lei è invisibile due volte: è un palestinese normale. Ed è proprio con Edward Said – uno che non trovava mai editori nei paesi arabi – che ha fondato Mubadara.

E con Haidar Abdel Shafi, capo delegazione a Madrid. Una delegazione tutta di professionisti e intellettuali: mentre gli israeliani erano guidati da un primo ministro ricercato dagli inglesi, negli anni Quaranta, per l'assassinio del conte Bernadotte, il mediatore delle Nazioni Unite... Quello che direste un terrorista. Ma poi Israele ha ottenuto una nuova e diversa delegazione, scelta proprio per la disponibilità ad accettare quanto noi avevamo escluso da ogni possibile compromesso. E ha ottenuto Oslo. I palestinesi sono stati traditi due volte: dagli israeliani ma anche da altri palestinesi. Mubadara arriva da qui: è il tentativo di una alternativa alla corruzione di Fatah e all'estremismo di Hamas. Ma più che fondare, abbiamo cercato di collegare: creare non un partito quanto una coalizione. Una rete di persone e di associazioni, di idee. La politica per me non è forza, volontà di dominio ma energia di legame, relazioni – connessioni. Il nostro primo obiettivo è l'unità perché il primo obiettivo di Israele è la nostra frantumazione e dispersione: non solo fisica, attraverso muri e barriere, ma politica, fino alla guerra civile. E invece la nostra risposta è l'unità: l'unità e la non violenza. Non perché non abbiamo il diritto di reagire, ma perché la non violenza è la migliore delle reazioni. Consapevoli però che la condizione preliminare perché un accordo di pace trovi seguito concreto e duraturo è essere rappresentati, ai negoziati, da rappresentanti rappresentativi: uomini e donne, cioè, che decidano insieme a chi deve poi vivere le conseguenze delle loro decisioni. Eletti, non nominati. Per questo Mubadara: come movimento per la democrazia. E per una democrazia che non sia solo politica, ma sociale. Non voglio una Palestina qualsiasi, non voglio solo la pace, ma la libertà e la giustizia insieme, perché la Palestina è ferita da molte diseguaglianze, ed è amaro ammetterlo, ma non tutte derivano dall'occupazione. La fine dell'occupazione sarà solo l'inizio di un'altra storia. Voglio modernizzare la Palestina – cosa che, per anticipare la domanda che le leggo addosso, non significa affatto occidentalizzare.


Ma la democrazia è un'invenzione occidentale. Nel mondo arabo avete stati autoritari, una società civile fragile, comunità e tradizioni che impediscono una piena libertà individuale... E poi l'Islam. L'Islam è politica e religione insieme. D'accordo: il Corano può essere interpretato in modo più o meno liberale. Ma la democrazia riguarda i cittadini, non certo i testi sacri.

La democrazia è una combinazione multiforme di principi universali. Ma universali non nel senso di essenze immutabili, identiche ovunque e per chiunque: principi universali perché storicamente sviluppati dall'umanità – e non da quello che voi chiamate umanità, e cioè l'illuminismo europeo, ma una umanità più larga e vera forgiata dallo scalpello di secoli di scambi e interazioni e contaminazioni tra greci, romani, arabi. L'Islam è stato all'avanguardia nell'emancipazione degli schiavi – ma sono certo che non ha mai sentito niente di simile, all'università. La storia è sempre solo la storia dei vincitori. Separazione dei poteri, libere elezioni, accountability, pluralismo, stato di diritto: i princìpi di fondo della democrazia sono uguali per tutti. Invece di chiedersi cosa può esportare qui da noi, perché non si chiede cosa della nostra cultura può arricchire la sua esperienza di democrazia? Non voglio vivere in un paese come gli Stati Uniti, in cui ognuno è abbandonato a se stesso – in cui si organizzano mense, invece che aggiungere posti a tavola. Ma che libertà è la libertà individuale, che povertà è, la libertà della solitudine? L'individuo si afferma differenziandosi da altri individui, le persone diventano tali entrando in relazione con altre persone, con la diversità: riconoscendosi nella comune diversità. Io voglio una società di persone, non di individui.


Lei ha studiato a Stanford. Molti palestinesi ormai considerano il carcere come la loro università. Lei non vive in un refugee camp. Non rischia ogni notte di ritrovarsi in una Sabra e Chatila. La non violenza è un privilegio?

Ho due proiettili nella schiena, conosco lussi più piacevoli. Mi hanno ferito sei volte, frantumato un ginocchio, slogato una spalla e arrestato tante volte che non ricordo più il numero. Hanno ucciso uno dei miei collaboratori a un millimetro da me, con un colpo alla testa. Sa come esplode una testa? Ogni palestinese ha il suo privato rosario di orrore e dolore. Essere non violenti non significa essere meno eroici, ma più efficaci. Significa fare affidamento su se stessi, ingegnarsi: sfidare gli israeliani nelle loro regole e leggi, ogni giorno – opporre ai loro facts on the ground i nostri facts on the ground, alla loro violenza non la nostra disperazione, ma la nostra bellezza. Essere non violenti è insieme etica e strategia. Organizzare azioni militari è semplice – organizzare élites di combattenti, invece che moltitudini di persone. Ordinare di compiere un attacco mentre si rimane sicuri all'estero. Dove erano i leader dell'Olp mentre noi eravamo qui, mentre venivamo uccisi qui? Non ho mai chiesto a nessuno di fare qualcosa a cui non ho poi partecipato – perché è il primo insegnamento di Gandhi: "we must become the change we want to see in the world". Il nostro successo è nel nostro comportamento.


Madrid, Oslo, Annapolis. Lei è un cosmopolita.

Mi manca Gerusalemme.

(come tutti i residenti della West Bank, Barghouthi, parlamentare, non può entrare a Gerusalemme)

L'iniziativa di Annapolis è completamente inutile. Si basa sulla Road Map. E la Road Map è una cosa in cui si chiede per esempio ai palestinesi di fermare gli attacchi terroristici: e in cambio, si dice, Israele non intraprenderà alcuna azione che possa minare la fiducia tra le parti, come – cito testualmente – "gli attacchi contri i civili". La fiducia tra le parti? Assassinare civili non mina la fiducia, mina il diritto: è un crimine di guerra non una questione di cortesia. Semplicemente, si chiede ai palestinesi di diventare i guardiani dell'occupazione. Non si parla del Muro, di Gaza, di Gerusalemme, dei rifugiati; non si parla che di sicurezza. Con il risultato che nel nostro bilancio lo 0,1 percento va alla cultura, il 4 percento all'agricoltura, l'8 percento alla sanità: e il 15 percento alla polizia. Vogliono militarizzare l'Autorità Palestinese contro il suo stesso popolo. Nel tempo, Israele non ha che aumentato le sue richieste, e noi non abbiamo che ridotto le nostre. A Oslo abbiamo accettato il 22 percento della Palestina storica. Abbiamo già firmato il nostro compromesso: tutto quello che va oltre compromette il compromesso. E invece, negli anni successivi l'illusione di due stati lungo i confini del 1967 si è rapidamente dissolta: i coloni sono raddoppiati, e non certo per un'espansione naturale: con una ragnatela crescente di strade e barriere a collegare gli insediamenti e stravolgere la nostra geografia politica e economica e le nostre vite. E i negoziati, allora, si sono concentrati su come ripartire la West Bank. Lo status dei Territori è deciso non alle conferenze internazionali, ma ogni giorno con le ruspe e il filo spinato. La prossima volta saremo qui a parlare dí insediamenti palestinesi. Saremo noi i coloni di una West Bank israeliana.


Dopo Nasser, sappiamo solo del Broader Middle East degli Stati Uniti: e cioè, in sintesi, il Medio Oriente come pompa di benzina dell'Occidente. Qual è la sua visione del mondo arabo?

Il Medio Oriente ha oggi tre necessità. Primo, autonomia politica ed economica. E l'unica strada è la democrazia, perché quando i cittadini hanno la possibilità di partecipare, per conquistare il potere non è più sufficiente comprare ristrette élites dominanti. Secondo, cooperazione e integrazione: perché il mondo non è più adatto a stati minimali e intralci di frontiere. E terzo, soprattutto, soddisfare le esigenze sociali basilari: investire in istruzione e sanità. Ma in ogni caso l'indipendenza palestinese non deve essere connessa alla liberazione del mondo arabo. Vogliamo essere soggetti, non oggetti di cambiamento. Il mio modello è il Sudafrica: una resistenza pacifica, unitaria, di massa. Con il sostegno internazionale. Qualsiasi solidarietà è benvenuta, qui. Non solo quella del mondo arabo.


Noi europei diciamo di essere diversi. Una potenza civile invece che militare, il Mediterraneo – mare tra le terre, crocevia di civiltà – invece che l'Atlantico: l'oceano degli spazi smisurati, del fondamentalismo dei valori occidentali, dell'individualismo e del libero mercato. Dello scontro di civiltà. Quanto è vera la nostra diversità?

Quale diversità? Avete solo una generosa, instancabile eurodeputata palestinese: Luisa Morgantini. Ma non avete mezza politica estera, ogni volta paralizzati dal requisito dell'unanimità. Una potenza civile... Adottate forse sanzioni contro Israele? Comprate armi da Israele. L'unico, incivile embargo lo avete deciso contro di noi. La vostra politica qui è il processo di Barcellona: una retorica di propositi nobili e suggestivi che è solo l'ennesima forma di colonialismo e ortopedia neoliberista. Dialogo, partnenariato, co-sviluppo: siete dei poeti. Più semplicemente, condizionate la vostra cooperazione al coinvolgimento di Israele, convinti che l'economia comprerà prima o poi anche la politica, che dimenticheremo l'occupazione in nome del libero scambio dei cetrioli. Ma la pace non è in vendita. Siete solo complementari agli Stati Uniti. A loro la politica, a voi l'economia. Eppure non sa quanto avremmo bisogno di una Europa europea. Di una Europa mediterranea che conosca, come dice lei, la misura. Che esprima un'altra idea di mondializzazione.


Mondializzazione. Ma qui intanto si combatte una guerra per la terra, una guerra d'altri tempi. Un rapporto con Israele sarà comunque inevitabile. Già ora siete interconnessi: gli stessi tubi per la stessa acqua.

Diciamo di volere due stati: ci offrono ghetti e prigioni. Diciamo allora che è meglio uno stato bínazíonale, ci accusano di mirare alla demografia invece che alla democrazia, di minare l'ebraicità di Israele. Uno stato, due stati – non importa. Preferisco due stati: ma in primo luogo preferisco vivere, non sopravvivere. Vivere, libero e sovrano. Vivere uguale a tutti gli altri. Eguaglianza tra due stati, eguaglianza all'interno di uno stato non importa: importa che finisca l' apartheid. Perché questa non è più semplice occupazione: è apartheid. E l' apartheid è un crimine contro l'umanità.


Secondo Israele, però, il Muro ha fermato gli attacchi suicidi. Buoni steccati, dunque, buoni vicini?

Gli attacchi suicidi non sono stati fermati dal Muro, ma dai palestinesi, che hanno capito che erano inutili. Israele ha il maggiore arsenale di armi di distruzione di massa del Medio Oriente, nucleare incluso: il rapporto degli uccisi è 48 a 1: siamo noi ad avere bisogno di sicurezza, non loro. L'ossessione per la sicurezza ha trasformato Israele – non solo la Palestina: Israele – in una prigione. Ma la nostra sicurezza è mutualmente dipendente, non mutualmente esclusiva, come intrecciate sono le nostre paure, e le nostre sofferenze e gli incubi dei nostri figli. Un conflitto non è solo opposizione: un conflitto è anche interessi comuni. E allora strategia non è tanto la ripartizione di vantaggi e perdite tra avversari, quanto la possibilità che certe decisioni invece che altre siano peggiori o migliori per tutti. Qualsiasi altra cosa si inventi, Israele rimane una goccia di diversità nel mare arabo. Solo attraverso noi può essere accettato come un normale vicino. Non è questione di costruirlo o meno lungo la Linea Verde: il Muro non è che uno strumento per l' apartheid – non va spostato, ma come dice la Corte Internazionale: va abbattuto. Gli israeliani possono dare fondo alla loro immaginazione. Insediamenti, strade muri. Ma noi siamo qui. Siamo noi i primi facts on the ground di questa terra.

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 35

NESSUNO È PERFETTO
David Wilder



David Wilder è un uomo di sole e fiducia. Vive incuneato nel suk arabo di Hebron, alla destra una Smith & Wesson, alla sinistra un telefonino che lo aggiorna, insaziabile, sugli ultimi proiettili, e scontri e incidenti, ma essere qui è per lui "insieme un obbligo e un privilegio". Le sue finestre, dice, sono finestre "motivazionali", respirano larghe bellezza spirituale, ma anche "tutto il lavoro ancora da fare". Fuori, 160mila palestinesi.

Cinquantaquattro anni, sette figli, è il portavoce di quelli che Ha'aretz ha definito "gli hooligans di Israele".


"Hebron è la prima città ebraica. Qui Abramo comprò Ma'arat HaMachpela, una grotta per seppellire la moglie Sara e qui abbiamo sempre vissuto, per millenni. Poi, nel 1267, arrivarono gli arabi, e per sette secoli la Tomba dei Patriarchi fu inaccessibile: fino al 1967. Sostenevano che è una moschea, e che solo i musulmani possono pregare in una moschea. Dopo i massacri del 1929, non rimase mezzo ebreo: bisognava tornare. Un primo gruppo si insediò già nel 1971: dormirono in semplici camere di albergo e al mattino rifiutarono di andarsene. Così nacque Kiryat Arba, in collina. Ma bisognava tornare a Hebron, non creare dei sobborghi. Gli uomini sarebbero stati fermati immediatamente: per cui, di notte, dieci donne e quaranta bambini entrarono in un edificio, e per mesi fu una resistenza sotto assedio, la polizia che impediva a chi usciva di rientrare; l'obiettivo era affamare e sfinire. Ma anche ai peggiori nemici si concedono cibo, acqua e medicine, e così fu anche per loro. L'anno successivo, poi, dopo un attacco terroristico, il governo accettò gli uomini, e ristrutturò e ampliò l'edificio. Fu la fondazione di Beit Hadassah. Oggi Hebron ha quattro comunità ebraiche".


Quali furono le reazioni, all'inizio?

Molti capirono l'importanza di Hebron, Ben Gurion dopo pochi giorni inviò una lettera di sostegno. Israele all'epoca non aveva ancora un progetto per i territori liberati: nessuno, nel 1967, si aspettava una vittoria di quelle dimensioni. Ma alla fine abitavamo qui, non potevano sradicarci. E poi il fronte prioritario era la pace con l'Egitto.


Intendevo: le reazioni della popolazione locale.

Arrivavamo da una vittoria larga e netta. Eravamo forti e ci rispettavano. Ed è sempre stato così: gli arabi ci attaccano quando ci intuiscono deboli. Avevamo normali rapporti economici, e anche personali. Quello che ha cambiato tutto è stata l'Intifada: ci hanno visto deboli, e ci hanno aggredito con violenza crescente. Oggi la separazione è totale.


Per il diritto internazionale, gli insediamenti nei territori occupati sono illegali.

Il diritto internazionale non proibisce agli ebrei di vivere in terra ebraica. Questa non è un'occupazione, ma un ritorno. Un negoziato richiede la presenza di due parti. A chi mai dovremmo 'restituire' questa terra? Non esiste alcun documento legale che certifichi che questa terra apparteneva a qualcuno. Secondo il diritto internazionale, questa era una res nullius. Sono territori occupati, sì... Ma occupati dal nostro passato e dal nostro futuro.


Gli arabi, lei dice, devono accettare di essere nostri ospiti. Perché un palestinese la cui famiglia ha vissuto qui per duemila anni è un ospite, mentre un ebreo la cui famiglia ha vissuto per duemila anni in Francia è un esule?

Nessuno dice che gli arabi devono andarsene, ma Hebron deve essere israeliana quanto Tel Aviv: la sovranità israeliana deve essere piena. Questa non è una guerra politica o economica, è una guerra di religione — e non sono possibili compromessi, sulla religione. Quando nel 1948 abbiamo accettato il Piano di Partizione delle Nazioni Unite, la loro reazione è stata la guerra. Un arabo che vuole vivere a Jaffa non è la stessa cosa di un ebreo che vuole vivere a Hebron. La differenza tra chi vuole tornare qui dopo l'Olocausto e chi ha perso tutto dopo avere perso una guerra di aggressione è abissale. Hanno voluto la guerra: adesso sono affari loro. Devono rimanere fuori.


E se uno volesse essere non un ospite, ma un cittadino?

Esistono ventidue stati arabi nel Medio Oriente.


Sono soprattutto gli arabi israeliani a sentirsi ospiti, qua. E dicono di sentirsi discriminati.

Gli arabi israeliani attraversano una profonda crisi di identità. E certo, siamo preoccupati... Sono prevalentemente dalla parte dei cosiddetti palestinesi. Sono un problema che dobbiamo affrontare.


Ma uno stato può rimanere ebraico e riconoscere a tutti gli stessi diritti?

La democrazia non è un fine, è un mezzo. Il rapporto con le minoranze dipende dall'obiettivo ultimo. La democrazia può essere una cosa positiva, ma può essere anche la repubblica di Weimar, ricordiamolo, o la vittoria di Hamas. Per cui non bisogna essere necessariamente democratici. Il mio obiettivo è uno stato ebraico, non uno stato democratico.


Quindi con una minoranza — non so: con una minoranza di italiani sarebbe uguale.

Le minoranze sono diverse l'una dall'altra. A Hebron combattiamo per tutti voi. L'obiettivo del terrorismo non è la fine di Israele, ma l'islamizzazione dell'intero mondo occidentale. Mohammed è già il nome più diffuso in Gran Bretagna.


Gli avamposti però sono illegali anche per il diritto israeliano.

In terra ebraica non è mai questione di illegalità, al massimo di assenza di autorizzazioni. Le comunità sulle colline sono guidate da giovani pionieri coraggiosi, il miglior esempio del sabra, il nuovo ebreo forgiato dal sionismo. Uno stato per cui i giovani non sono pronti a uccidere e essere uccisi è uno stato precario, uno stato non sostenibile nel lungo periodo.


Eppure la società israeliana oggi appare frammentata. Per la prima volta gli emigrati sono più degli immigrati. E qualcuno comincia a parlare di post-sionismo.

Nel 1948 eravamo devastati da Auschwitz, ma abbiamo trovato la forza di venire qui a combattere e vincere, perché avevamo un obiettivo: lo Stato di Israele, eravamo motivati. Ma raggiunto l'obiettivo, ci siamo persi. Siamo diventati individualisti. La priorità è l'economia, adesso, la ricchezza il consumo, nessuno pensa più che questa è la nostra terra perché è la terra che ci ha dato Dio. Non è solo questione di vivere fisicamente qui. Siamo qui per vivere in Israele come ebrei che vivono nella terra ricevuta da Dio, non come ebrei che accidentalmente vivono in un paese del Medio Oriente chiamato Israele — come fossero svizzeri o americani.


Martin Buber era un sionista, però voleva la convivenza di arabi ed ebrei.

Essere ebreo e essere israeliano sono la stessa cosa.


Alcuni giovani vengono a Hebron e fondano comunità. Altri tornano da Hebron e fondano Breaking the Silence.

Non conosco i problemi psicologici di Yehuda Shaul. In un altro paese sarebbe già stato processato per alto tradimento.


Lei è scettico anche circa il ruolo degli internazionali presenti a Hebron. Dicono che li aggredite.

Sono solo degli antisemiti amici degli arabi che provocano e incitano all'odio. Tentiamo al meglio di ignorarli. Evitino di dimostrare, ed eviteranno anche di essere aggrediti. Interrompano le attività antiebraiche, lascino immediatamente Hebron e non interferiscano più negli affari interni israeliani, e garantisco che non avranno problemi.


Con la seconda guerra mondiale, in Europa abbiamo imparato che la sicurezza non deriva dagli eserciti e dai muri, ma dalla qualità delle relazioni con i propri vicini, che è una sicurezza interdipendente cioè, non mutualmente esclusiva. Israele è il paese più pericoloso al mondo per un ebreo.

L'Undicesimo Comandamento dice: Non dimenticare. Auschwitz in realtà non è mai stata liberata, siamo ancora qui, dietro il filo spinato, come pecore verso le camere a gas, perché il mondo non ha mai riconosciuto il legittimo diritto divino del nostro popolo a questa terra. Nel 1929 siamo stati uccisi dagli arabi con cui vivevamo. Avevamo rifiutato le armi offerte dall'Haganah per non aumentare la tensione, e siamo stati squartati davanti all'indifferenza degli inglesi. Non puoi fidarti degli arabi. Degli arabi e di nessuno, è solo questo quello che abbiamo imparato: dall'Olocausto, dal 1948 dal 1967, da Oslo: di chi non fidarci, da chi non dipendere, in chi non credere. Abbiamo dovuto bombardare da soli il reattore nucleare di Saddam Hussein. Auschwitz non è mai finita, nessuno è cambiato. E neppure noi. Neppure noi abbiamo davvero imparato qualcosa. Abbiamo lasciato Gaza, abbiamo lasciato le nostre case, i nostri negozi, la nostra vita e per cosa?, abbiamo dato Gush Katif e ricevuto missili.


Nel 1948 però avete accettato il Piano di Partizione proposto dalle Nazioni Unite.

Ma la nostra storia non è cominciata alla fine dell'Ottocento con il sionismo. Il 1948 è stato solo l'inizio dello stato di Israele, solo il primo passo, non il raggiungimento del fine ultimo. Le opzioni erano molte: potevamo decidere di fare di Israele uno stato qualsiasi, uno stato aperto a tutti. Uno stato con confini arbitrari. Abbiamo scelto la Bibbia. Il 1948 è stato solo il primo passo: bisogna ancora fare di Israele uno stato credente. Uno stato esclusivamente ebraico.


Il 1967 è stato "un miracolo". Ma poi, lei dice, l'errore: la formula land for peace invece che peace for land.

Con il 1967 è cominciato l'effetto domino: adesso siamo ogni volta chiamati a concessioni per la pace. Ma si inizia con Gush Katif, e si finisce con Gerusalemme. Pensi l'Egitto, quando gli abbiamo dato il Sinai. D'accordo, adesso non temiamo più invasioni, ma non abbiamo ottenuto che una 'pace fredda' che ha consentito ai musulmani di coltivare Hamas. O pensi la Giordania, a cui abbiamo dato tutta la nostra acqua. E in cambio del Libano? Solo Hezbollah. Questa si chiama autodistruzione. Avranno la pace quando non ruberanno più la nostra terra.


Chi è stato Arafat? E cosa è l'Autorità Palestinese?

Arafat ha trasformato il terrorismo in una nobile impresa, in uno strumento legittimo per raggiungere i propri obiettivi: è il padre spirituale di Hamas, Hezbollah. Al Qaeda. Non è un uomo, ma un concetto. Vive ancora: è l'ambizione araba a distruggere Israele – e dunque non importa chi sia il suo successore. Non importa cosa gli arabi decidono di fare o non fare, dire o non dire. Per me potrebbero essere anche il popolo più pacifico dell'universo; la terra di Israele appartiene al popolo ebraico. L'Autorità Palestinese è solo una organizzazione terroristica. Il Quarto Reich.


Alcuni sostengono che il terrorismo palestinese è una reazione alle politiche israeliane in Giudea e Samaria.

Perché, allora, dopo che abbiamo abbandonato Gush Katif, lanciano missili su Sderot?


Cosa le viene in mente alla parola 'palestinesi'?

Che roba è, un test psicologico?


Voglio dire... Sono un popolo? O comunque, lo sono diventato?

Lei vuole farmi dire che sono tutti terroristi... Tutti assassini. Per cui la accontento: no, non sono tutti terroristi. Ma certo non sono un popolo. Sono... Non so cosa sono. Ma c'è questa entità araba nemica, qui.


Dopo Oslo, e quello che lei definisce il peace plan, e ancora più dopo la Road Map e il cosiddetto 'disimpegno' da Gaza, i rabbini che hanno intimato ai soldati di disobbedire agli ordini sono stati bollati come ayatollah. Alcuni qui vedono una guerra non più tra arabi ed ebrei, ma tra moderati ed estremisti.

In Israele non abbiamo una costituzione: la Torah viene prima di tutto. E la Torah non vuole certo la nostra distruzione. Quando la legge contraddice la religione è la religione a prevalere. Quando si estirpano le famiglie dalle loro case, come a Gush Katif, sopravvivere è la prima regola. 'Disimpegnarsi', nel mezzo di una guerra, è folle. Offrire uno stato cosiddetto palestinese, rilasciare centinaia di prigionieri è solo incentivare il terrorismo. Ci sono cose che una democrazia non può decidere. Io non vivo qui per me, ma per l'intero popolo ebraico, di ogni luogo e tempo; sono solo il custode delle chiavi. Stare qui, presidiare la sacralità di questa terra, è insieme un nostro diritto e un nostro dovere. Eretz Yisrael non appartiene a noi, ma alla volontà di Dio. Nessuna elezione, nessun referendum, nessun negoziato: Eretz Yisrael, sia detto e compreso una volta per tutte, non è in vendita, neppure al prezzo più alto. Nessun pezzo, né adesso né mai. Il destino di Hebron è stato deciso quattromila anni fa da Abramo. Obbediremo, ma agli ordini ricevuti sul Sinai.

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 43

QUALCUNO CON CUI PARLARE
Nurit Peled(1) e Bassam Aramin(2)



"Erano arrivati qui dalla Russia, sionisti ma soprattutto socialisti. L'obiettivo era uno stato binazionale, lui in particolare era un amico di Martin Buber: e quindi quando fu loro offerta una bellissima casa espropriata a dei palestinesi, era il 1948, mia madre rifiutò – eravamo sionisti, ma sionisti di minoranza, come clandestini delle narrazioni dominanti; eravamo solo gente del Medio Oriente, senza alcuna distinzione dagli arabi"

"Una famiglia normale, una famiglia sopravvissuta alla nakbah. Sono nato in mezzo al deserto, una grotta come casa, come tanti; sono nato in una vita di povertà, senza alcuna prospettiva. Onestamente non ricordo se ho mai avuto sogni, progetti. A un certo punto semplicemente mi sono ritrovato un combattente, ricordo questo: non sapevo niente della guerra, sapevo solo questi soldati, nel buio, quando ti si catapultavano improvvisi addosso sparando, lacrimogeni, proiettili, manganelli e odiavano quella bandiera nera, verde rossa e bianca. Sapevo solo questo. E però non avevo armi: e allora una volta, un po' di miei vecchi vestiti rappezzati insieme, mi infilai nel cortile della scuola, di notte, e legai la mia bandiera all'albero più alto. E quando i soldati la tolsero, al mattino, la legai di nuovo, e di nuovo i soldati la tolsero e di nuovo la legai, fino a quando una ruspa non spianò via ogni albero"

"Sapevamo della loro esistenza, certo. Ma per quanto fossimo di Gerusalemme, e per quanto fossimo di sinistra non avevamo contatti con loro. La prima volta che ho incontrato dei palestinesi studiavo lettere, e già vivevo a Parigi"

"Poi un giorno, avevo sedici anni, trovammo delle armi abbandonate: granate e una pistola, e pensammo che finalmente Israele sarebbe finito. Avevamo delle armi adesso: un proiettile per ogni israeliano e tutto sarebbe finito. Ma le granate non ferirono nessuno, e i proiettili mancarono la jeep, e ci risvegliammo tutti in carcere; io fui condannato a sette anni, anche se non era stato colpito nessuno, e anche se neppure avevo sparato. Perché zoppico, e quel giorno sarei stato solo di intralcio. E però è così che per la prima volta ho incontrato un israeliano – in carcere"

"Poi fu nominato comandante di Gaza. Alla fine degli anni Cinquanta. E fu allora che decise di studiare l'arabo, perché capì di avere potere di vita e di morte su decine di migliaia di persone di cui non sapeva assolutamente niente, con cui non poteva neppure parlare. Avrebbe fondato il primo partito arabo-ebraico, in seguito, organizzato i primi incontri illegali con Arafat; e di quando ero giovane questo è tutto quello che ricordo: vivevamo nella paura, minacciati perché traditori. Ma mio padre rimase un sionista fino all'ultimo. In fondo, voleva solo realizzare i princìpi della Dichiarazione di Indipendenza, diceva, l'eguaglianza, la libertà per tutti; il suo arabo non era una scelta eversiva: un impegno politico. Mio padre voleva solo chiacchierare con i suoi vicini"

"Fino a quando una sera non proiettarono Schindler's List. E io – adesso mi imbarazza dirlo – ma io non avevo mai sentito dell'Olocausto. Ed ero lì, allora: e vedevo tutti quegli ebrei morire, umiliati, e accatastati e nudi, e per nessuna colpa che fosse loro, solo perché ebrei e vedevo tutte quelle persone, tutti quei palestinesi: umiliati e accatastati e nudi, e per nessuna colpa che fosse loro: ma come poteva, un popolo che aveva conosciuto quella sofferenza, e l'ingiustizia, il razzismo, la deportazione: come poteva adesso quel popolo ripetere contro altri la stessa cosa?"


"Oslo è stata una speranza, ma è svanito tutto: ovunque è la stessa area, la stessa prigione. Spediscono qui migliaia di giovani convinti di essere eroi; non capiscono che sono solo assassini che minano la sicurezza di Israele"

"Ma chi mai può ricacciare Israele in mare?, una potenza nucleare, uno tra i più forti eserciti al mondo. La verità è che questa guerra si combatte ora dopo ora ai checkpoint, non è una guerra di grandi scontri, epiche battaglie ma di ragazzini, soldati il cui ruolo è solo stare li, aspettare che la giornata goccioli via. Ma arriva il momento in cui ti accorgi di cosa è densa quella noia: perché è densa di centinaia di migliaia di persone affamate, disperate cancellate, disposte a esplodere contro tutto questo. E non mi si inganni, ancora, che è per la mia sicurezza: perché sappiamo tutti come aggirare il Muro, e perché le barriere esistono da molto prima degli attentati suicidi. L'obiettivo è solo stremare, e costringere a emigrare, è solo apartheid. E la prova è che a me invece questo Muro non mi tocca – posso vivere senza mai incrociarlo: senza mai neppure vederlo". "Ma è una normalità che è solo un'illusione. La verità è che sono fisicamente liberi, ma mentalmente occupati, la verità è che sono un paese di sfiducia reciproca, paura sospetto, ogni giorno. Abitano, lavorano, respirano blindati, per non parlare dell'economia: perché ormai è un paese povero, solo un nuovo ghetto di ipocondrie; non fabbricano che armi e per ogni mitragliatrice altre emarginazioni e periferie" – "E noi poi: ma come avremmo reagito, se il destino ci avesse sorteggiato dall'altra parte del Muro? Perché sono certa invece che avremmo organizzato la resistenza, combattuto per la libertà – non ho dubbi, e non ho dubbi perché è anche la storia di Israele, la resistenza: la libertà, è la storia di mio padre".


"E quando mi ha detto che sarebbe rimasta da un'amica a giocare, nel pomeriggio, le ho detto: non se ne parla neppure, perché il giorno dopo aveva il compito di matematica. Se ancora potessi dirle qualcosa, direi solo: Vai, vai, gioca, vivi. So quello che sostiene la polizia. Ma che importa se i ragazzi tiravano o non tiravano pietre? Se è stata una granata o un proiettile, e se il soldato voleva o non voleva sparare, se è stato omicidio doloso o colposo; l'unica domanda sensata è perché mai deve esserci la polizia, in una scuola: cosa ci fa una frontiera in una scuola. Cosa ci fa un Muro, tra le aule e il cortile". "E il dramma è quando tutto questo non è l'esito tragico di un errore, ma il risultato della corretta applicazione delle procedure, della banalità del male: diciottenni a cui si affida una mitragliatrice e si insegna che i nostri bambini sono il loro peggiore nemico: l'incubo demografico di Israele. Perché crescono sicuri che qualsiasi cosa accada, allora, non ci sarà nessun processo, e nessun carcere". "Perché Abir aveva nove anni, ed era armata solo di un righello. E hanno detto che avrebbe tirato una granata, Abir, che le sarebbe esplosa tra le mani: ma le sue mani erano intatte, e aveva invece solo questo foro alla nuca, perché è stata colpita alla schiena, che autodifesa è?, un soldato che spara da un blindato alla schiena di una bambina di nove anni? che stato di necessità è, che pericolo è, per la quinta potenza militare al mondo, una bambina con un righello?" "E quando allora quella mattina uscì di casa, aveva lezione di danza io non volevo, perché erano mesi di attentati a Gerusalemme; ma poi lei mi disse Mamma, lasciami vivere"

"Si dice che l'occupazione ci corrompe: ma questa occupazione prima che devastare noi devasta gli altri. Non potrò mai sentirmi sullo stesso piano di una madre che oltre ad avere perso una figlia, sa che non avrà mai giustizia. Non ho che ammirazione per queste donne che in condizioni terribili – causate dal mio esercito, pagato dalle mie tasse – hanno il coraggio di vivere comunque: amare, generare famiglie, futuro, in case bombardate all'improvviso, mentre accompagnano i bambini a scuola attraverso chilometri di macerie, fango, sterpaglie, tra i fucili dei soldati e gli sputi dei coloni. Ma è la sola cosa che qui abbiamo in comune: il dolore. Perché se non fosse esploso, l'assassino di Smadar invece sarebbe stato immediatamente ucciso, e la sua casa demolita sul resto della sua famiglia; e quando sono con Salwa, allora, a ripeterle che siamo vittime della stessa occupazione, so che è solo parte della verità: perché l'assassino di Abir in questo momento probabilmente è tranquillo che gioca a backgammon, perché l'inferno di Salwa è più inferno del mio". "E dopo l'Undici Settembre tutto è diventato ancora più difficile. Perché il nemico, qui, non è il terrorismo, ma la parola terrorismo: questa minaccia, questo ricatto indefinito. Ma in quanti paesi è Undici Settembre ogni giorno? Hamas è tante cose, e anche, per esempio, moltissimi servizi sociali qui che l'alternativa, spesso, è la fame. E comunque qualunque sia, su Hamas, la mia opinione, non posso dimenticare che tutto questo arriva dall'occupazione, e che quando Hamas ha vinto regolari elezioni, avete tagliato ogni dialogo e sostegno. Finanziate la pubblicità della democrazia, invece che la sua attuazione". "Hamas non fa che proporre tregue, ma nessuno ascolta. Non riconoscere Hamas significa non accettare i palestinesi come popolo, negare il loro diritto all'autodeterminazione, alla scelta, anche alla scelta sbagliata. Non amo i movimenti religiosi, ma queste sono decisioni dei palestinesi: non ho il diritto di sostituirmi loro – e poi cosa posso insegnare?, sostenete che vivo in una democrazia, e poi strillate l'Iran e l'Islam, ma qui abbiamo la Torah, invece che una costituzione. Non è uno scontro di civiltà, l'assedio di Gaza: è una civiltà che aggredisce l'altra, è genocidio. Io combatto le ingiustizie, la religione è una questione personale. E invece i ministri israeliani – non è una questione personale, soggettiva: è il diritto internazionale, a certificare che sono dei criminali"


"Mio padre fu uno dei generali del 1967: ma capì presto che quella vittoria così assoluta sarebbe degenerata in cancro, e finì per sostenere il ritiro. Fino a definire l'invasione del Libano, alcuni anni dopo, senza mezzi termini, un crimine contro l'umanità. Ma nella mia famiglia non siamo mai stati pacifisti. Abbiamo sempre pensato che a volte combattere è necessario. Però poi bisogna sapersi fermare: in cambio, ottenere la pace, altrimenti è tutto inutile". "E allora abbiamo fissato un incontro a Betlemme: quattro palestinesi e sette israeliani. Temevamo tutti fosse un'imboscata, ma poi ci siamo guardati... E non è stato facile, davanti a uno che ogni giorno ti umilia al checkpoint, e ti arresta, ti spara contro, ti abbatte la porta di casa, di notte, per perquisire tutto senza preavviso e senza ragione – e eppure adesso ti appare così simile, così fragile e incerto. Ma non è in discussione la loro fedeltà a Israele: siamo stati tutti combattenti, qui, e molti sono ancora riservisti, solo non sono più disposti a servire nei Territori; come non è in discussione la nostra fedeltà alla Palestina: la resistenza armata è un diritto. Ma semplicemente non funziona"

"Ci accusano di antisemitismo, ma non siamo traditori – al contrario: il patriottismo più vero oggi è criticare Israele. È chi si fa scudo dell'Olocausto per giustificare l'oppressione di un altro popolo a profanare l'ebraismo. Il vero antisemitismo è quello di chi si ostina in una guerra che non uccide che noi stessi, non conquista che odio nei nostri confronti – uno stato non può essere insieme ebraico e democratico". "Ma non siamo dei codardi, perché quanto sarebbe stato più semplice odiare: recuperare un fucile e sparare, tre, quattro soldati, al primo checkpoint; vendicarmi. E posso dirlo meglio di altri, perché quando nessun israeliano fu neppure ferito, quella volta, rimasi così deluso: volevamo uccidere, era l'unica soluzione: armi e munizioni, e giù, uno a uno. Ma adesso ho parlato con i miei carcerieri, adesso conosco la loro sofferenza: qui abbiamo tutti sparato, torturato ucciso – ma il solo patriottismo possibile è combattere l'odio tra di noi, il solo modo per fermare quest'onda che ci travolge, il solo coraggio, fermare noi stessi, cercare non la vertigine della vendetta, ma il punto fermo della giustizia, perché è l'odio a costringerci prigionieri più di ogni Muro". "E invece tra Oslo e la seconda Intifada, ai progetti di incontro tra palestinesi e israeliani non è stata destinata che la metà del costo di un singolo carroarmato – oggi che la cosa più difficile non è superare le differenze di idee, ma il Muro: fisicamente, perché noi non possiamo entrare in Israele, loro non possono entrare nei Territori". "La verità è che siamo soli, e invece, come in Sudafrica, l'unica strada è una tenaglia internazionale. Ma vi limitate, pigri, a rispolverare ogni tanto la storia del boicottaggio. Poi boicottare chi? Condannare tutti in modo vago e indistinto, risvegliare il nostro istinto di assedio e paura, stelle gialle – cominciate piuttosto a boicottare i criminali di guerra, arrestateli alle frontiere, usate questa cosa chiamata giurisdizione universale: non colpite a caso, inchiodate le responsabilità al loro nome e cognome"


"Oggi che il terrorismo è la violenza dei poveri e dei deboli, e la guerra al terrorismo la violenza invece dei ricchi e dei forti, noi siamo qui, vittime insieme del terrorismo e della guerra al terrorismo, perché abbiamo titolo per dire che non esiste un modo civile oppure barbaro di assassinare innocenti: solo un modo criminale. Siamo qui perché non è vero che non esiste un partner per la pace, qui per dimostrare che esiste qualcuno con cui parlare, dall'altro lato del Muro; e perché l'obiettivo non è perdonare, dimenticare: solo cominciare a stare insieme. Se insistiamo a rovistare nelle nostre vite, scavare domande, non impileremo che ragioni per scontrarci ancora. Perché tutti abbiamo sangue sulle mani, e dolore alle spalle". "Nessuno contesta il diritto dell'altro a questa stessa terra, ma dobbiamo cominciare a raccontare la storia di qui, imparare a localizzare – perché ormai questa terra appartiene più agli ebrei e arabi di ogni luogo e tempo che a noi che ci abitiamo, e che come tutti voi abbiamo molteplici identità, e sovrapposte: non siamo interamente rappresentati da un'etichetta etnica, o nazionale o religiosa, un'etichetta sola. Io non ho paura dei rifugiati palestinesi – perché mai dovrei preferire a un arabo che conosco da secoli un ebreo sperduto, paracadutato qui a blindarsi diffidente nella sua piccola Russia di plastica in mezzo al deserto, e che neppure parla la mia lingua?" "La parola popolo ci viene sguainata contro come un destino. I giornalisti mi chiedono sempre come posso accettare condoglianze 'dall'altra parte' – ma quando Ehud Olmert, che era sindaco di Gerusalemme, all'epoca, è venuto a trovarci, non gli ho stretto la mano, sono andata via, proprio perché non accetto condoglianze dall'altra parte. Ma questa 'altra parte' per me, sono loro: io distinguo solo, qui, tra criminali e pacifisti. Perché mai il mio 'noi' dovrebbe riferirsi agli ebrei o agli israeliani? La fraternità non si coltiva su astrazioni come la nazione, la razza. Si coltiva su vite in comune in un luogo comune"


"I libri di testo definiscono i palestinesi 'un problema da risolvere' – ed è l'eco di soluzioni terribili che la storia ha già tentato. Sono le scuole ad addestrare i soldati in realtà, non le caserme, perché sono le scuole a insegnare a non dubitare mai della 'verità', a insegnare questa visione del mondo come necessità, causalità in cui ognuno, disciplinato, deve adempiere il proprio ruolo, a insegnare che Israele non si trova negli atlanti, ma nella Bibbia. E ogni cosa, allora, ha un settore ebraico e un settore non ebraico, qui: l'agricoltura ebraica e l'agricoltura non ebraica, le città ebraiche e quelle non ebraiche – ma chi sono, alla fine, questi non-ebrei, questi 'altri'? Non si sa". "D'altra parte i libri sulla Palestina, all'epoca, erano proibiti... Ma nessuno ha bisogno di essere indottrinato, qui: si nasce combattenti perché da quando sei piccolo la normalità è essere umiliati, picchiati; e allora la normalità è reagire, resistere, in ogni modo, strana gente che non parla la tua lingua, che non capisci cosa vuole e arrivano a picchiarti, sai solo questo, e allora è solo istinto di sopravvivenza – resistere". "Sono riassunti cumulativamente come arabi, e non vivono mai in città: giovani che navigano in internet, studiano per un dottorato, sono le mille e una notte, le babbucce ai piedi e un cammello al seguito, il contadino nero di terra dietro l'aratro trascinato dai buoi. E quando sono i cittadini dei Territori, sono il terrorista mascherato. Ed è così, con questo razzismo che non è istruzione ma infezione, che uccidere non è più uccidere, ma evolve in altri nomi altre legittimazioni: operazione, missione, contromisura". "E li inganniamo allora che sono magnifici in uniforme, li chiamiamo martiri, la foto con la mitragliatrice; bisogna cominciare a dire che nessuno è bello vestito di brutalità"

"Eppure l'ebraico ha questo uso bellissimo, la stessa parola per reality e invention. Significa che la realtà è quello che inventiamo, e che dunque può essere cambiata". "Mi chiedono sempre come so essere così forte, ma la mia non è che vulnerabilità, ed è la mia unica ricchezza: questa impossibilità di guarire, perché le ferite non sono al fondo che un'apertura, una disponibilità al mondo all'Altro, una possibilità che ci viene ancora proposta". "Diceva: la luce appare dove non splende il sole" – "Perché so solo che dopo quarant'anni, Israele non è sicuro e la Palestina non è libera. Ma c'è un giardino adesso, nel punto in cui Abir è caduta, perché quella non è l'unica relazione possibile tra israeliani e palestinesi, perché qualcosa di diverso può crescere, lì dove è stato versato il nostro sangue".


NOTE

(1) Nurit Peled, figlia del generale Matti Peled, membro della Palmach e tra i fondatori di Israele, poi del primo dipartimento di letteratura araba, insegna pedagogia all'università di Gerusalemme. Sua figlia Smadar aveva 13 anni il 4 settembre 1997, quando un palestinese è esploso lungo la strada per la sua lezione di danza, in rappresaglia a dieci civili uccisi nella Striscia di Gaza. Nei giorni precedenti, un'imboscata aveva falciato via dieci israeliani. Nei giorni precedenti, Arafat era stato bombardato a Ramallah negli uffici dell'Autorità Palestinese. Nei giorni precedenti, attentati suicidi per un totale di ventisei vittime israeliane avevano seguito l'assassinio di un leader di Hamas.

(2) Bassam Aramin è tra i fondatori di Combatants for Peace, associazione di ex combattenti israeliani e palestinesi. Sua figlia Abir aveva 9 anni il 16 gennaio 2007, quando è stata uccisa da un proiettile sparato a quattro metri di distanza da una pattuglia della polizia di frontiera, all'uscita da scuola. Nonostante un foro alla nuca, secondo l'esercito è stata colpita da una pietra tirata da un compagno di classe. Le indagini – avviate su pressione internazionale – sono state archiviate per insufficienza di prove. Nessuno dei molti testimoni oculari è mai stato ascoltato. 49 giorno, allora, dal momento che ero comunista e bisognava risolvere í pro- blemi invece che fare la carità, vedevo il vecchietto e cambiavo strada. Per anni e anni: dei giri lunghissimi per non passargli davanti. Fino a quando ho deciso no, basta, mentre cerco di risolvere i problemi del mondo, intan- to gli do i soldi per la cena. E con la cooperazione è la stessa cosa. La tua, al fondo, è una politica della testimonianza. Dell'azione sim- bolica. Non i segni del potere, ma il potere dei segni. Sempre lontano dagli apparati, perché "la burocrazia tradisce sempre", come insegnava una a cui un po' somigli: Simone Weil. Lei stessa però avvertiva che "l'azione non organizzata rimane pura, ma anche destinata al fallimento". La testimo- nianza non è anche il rischio di appaltare ad altri, intanto, le scelte vere? In questo sei molto un'icona dell'Unione Europea: una magnifica diver- sità, ma poi decidono gli Stati Uniti. Ma perché alla fine è come scriveva Italo Calvino, le possibilità sono due. Accettare l'inferno, e diventarne parte, fino al punto di non vederlo più, oppure riconoscere chi e cosa, in mezzo all'inferno, non è inferno e dargli spazio. La mia è la sinistra delle piccole cose. Ma perché il futuro, in fondo, non è che una successione infinita di presenti. E la pace, passo a passo, il soldato che rifiuta di servire nei Territori, una ragazza davanti a una ruspa. Un pomeriggio a ripiantare olivi sradicati, un venerdì a prote- stare contro il Muro. Definire l'obiettivo e iniziare a lavorarci: non è ideali- smo, questo, al contrario, è pragmatismo. "Non avevo, oltre me stesso, che un Manifesto e tre o quattro amici". Così Altiero Spinelli, nella sua biogra- fia, ricorda il ritorno a Roma da Ventotene, alla caduta del fascismo. Anche in questo, mi piace pensare, non solo nella sua politica della testimonianza, sono l'emblema dell'Unione Europea. Quella che da Altiero Spinelli ha imparato a dire: Intanto comincio io. 122

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 123

SESSANT'ANNI DI SOLITUDINE
Ezra e Ashraf



A. Non so, come, a volte. Ma è come se il mio popolo fosse in guerra con il mio paese.

E. Il tuo paese?

A. Certo, il mio paese.

E. Israele?

A. Guarda che sono israeliano quanto te.

E. No che non sei israeliano. Guarda che questo è uno stato ebraico. Tu sei, sei un errore di strategia. Anche Benny Morris. Ha ritrattato tutto, ha detto che è stato un errore, il '48. Non arrivare fino in fondo.

A. Non cominciamo con questo '48, io sono qui. E sarò qui anche quando l'occupazione sarà finita e di là da quel Muro esisterà uno stato palestinese indipendente e sovrano. Quel giorno, io sarò ancora qui.

E. Quel giorno, tu sarai su un centimetro di terra impilato su altri diecimila arabi come te. Siete il 20 percento di Israele, e però solo il 3 percento della spesa pubblica. Il 6 percento dei funzionari statali, l'1 percento dei professori universitari. Il 94 percento della terra, qui, è di uso esclusivo degli ebrei. Capisci? Esclusivo. Il 94 percento. Siete sei volte quelli che eravate, e però il tuo paese, mio caro concittadino, in sessant'anni non ti ha concesso un ettaro in più. Sono state fondate settecento nuove comunità ebraiche, in sessant'anni.

A. E zero comunità arabe, non ho bisogno di maestri. Vedi quel fumo, lì? Tra le case? è una vetreria. Area prioritaria di investimento, hanno detto: e hanno espropriato tutto. In nome del lavoro e dello sviluppo. Il vostro lavoro, però, il vostro sviluppo: è Nazerat Illit. Anche se con Nazerat Illit neppure confina, lì che galleggia in mezzo a Nazareth. Ma è esentasse e tutto il resto. Il nostro reddito è un decimo, ma a voi l'investimento e a noi l'inquinamento.

E. Perché questo, ti ho detto, è lo stato degli ebrei. E tu al più, se righi dritto, sei un israeliano con il trattino. Tipo uno in libertà condizionata, uno sospetto. Da sorvegliare. Hai mai sentito sparare, a una manifestazione di ortodossi? Con gli ortodossi si media. Con voi direttamente proiettili e manganelli. Sei solo un ospite, puoi rimanere, ma niente rumore. Perché non esiste nessuna cittadinanza israeliana, qui. Solo 137 nazionalità. E puoi essere georgiano, abkhazio, druso, persino un assiro, tutto, ma non un israeliano. Abbiamo la stessa etichetta, d'accordo. Ma trovami una legge che si riferisca agli israeliani: così, senza altra specificazione. Questo è lo stato degli ebrei.

A. E chi sarebbero gli ebrei?

E. Che significa chi sarebbero gli ebrei?

A. Questi ebrei, chi sarebbero? I tuoi vicini di casa. Quei due russi. Lei ha solo il padre ebreo, e lui neppure quello.

E. E tu cosa ne sai, dei miei vicini?

A. Chi credi abbia costruito casa tua? Mosè? Ogni volta che si rompe un tubo, chiamate noi. Nonostante tutti i Muri. E lei ha solo il padre ebreo, e lui neppure quello. Non capiscono una parola di ebraico. Comprano giornali russi, cucinano cose russe. E non sono mai entrati in una sinagoga. Che hanno di ebraico, quei due, più di me? Sono un milione. E tutti così: il 20 percento del tuo stato ebraico. Gente che è finita qui perché con il tracollo dell'Unione Sovietica non aveva mezza alternativa. Altro che la Bibbia. Questa è gente che cercava la villetta unifamiliare e il televisore al plasma.

E. Il principio non cambia, perché qualsiasi ebreo qui, ha diritto immediato alla cittadinanza. Con uno ad accoglierlo, in aeroporto, e una casa e un lavoro, e persino il biglietto pagato. Perché questo è lo stato ebraico. Mentre chiunque altro

A. E Tel Aviv, allora? Cosa ha di ebraico, Tel Aviv?, è laica. Come Berlino o Barcellona.

E. Berlino, Barcellona? E tu cosa ne sai, di Berlino e Barcellona?

A. Esattamente perché sono israeliano quanto te, e ho un passaporto identico al tuo. Avete sempre questa idea che uno è arabo e quindi è povero, e fuori dal mondo, dalla storia. Il villaggio palestinese e la città israeliana. Poi hanno entrambi ventimila abitanti: ma quello palestinese è ogni volta un villaggio. Con i Flintstones sull'auto a pedali.

E. I che?

A. I Flintstones. Lascia perdere.

E. Che sono i flinson?

A. Non è che uno è arabo e allora sta ancora lì con Sheherazade.

E. Sheherazade è un capolavoro. Ed è la tua cultura.

A. Permetti che sia io, che sono arabo, a definire la cultura araba? A allargarla ai Flintstones, o blindarla e fossilizzarla? Questa è la peggiore forma di orientalismo: l'orientalismo di sinistra. Ibernare tutto a tutela dell'autenticità. E però siete sempre voi a decidere cosa è autentico, cosa puro e cosa no. A decidere io chi sono. Ascolto chill out, sono forse meno arabo? Dovrei imparare a suonare l' oud? Posso guardare Mtv, mentre leggo il Corano?

E. Sono arabo anche io, ragazzo, e ho titolo quanto te per dire cosa è arabo e cosa no.

A. Tu non sei più arabo.

E. E questo lo hai deciso tu per me?

A. No. Lo ha deciso per te Israele. Perché tu sei israeliano.

E. Ancora! Gli israeliani non esistono.

A. E invece siamo tutti israeliani, qui. Tutti e solo israeliani. Sono sessant'anni: e non parliamo che di arabi ed ebrei, ma la verità è che nessuno, qui, sa più dire chi è un arabo e chi è un ebreo. Perché, appunto, è come Tel Aviv. "Una città da costruire per esserne costruiti". Il sionista non è l'ebreo: è l'ebreo bianco e europeo. La parola d'ordine, per tutti gli altri, è stata assimilazione. Gli ebrei arrivati dallo Yemen hanno trovato il DDT, ad accoglierli, non i fiori in aeroporto. E tutti voi ebrei orientali siete stati sradicati, e passo a passo siete diventati un'altra storia. Con il tuo passaporto neppure puoi entrare in un paese arabo. Tu sei israeliano. Un israeliano con il trattino, come me. Un israeliano-ebreo come io sono un israeliano-arabo e come il tuo vicino è un israeliano-russo.

E. Io non sono affatto come te: perché le Leggi Fondamentali di questo stato non includono il principio di eguaglianza. E i suoi simboli sono tutti ebraici: l'inno, le festività, la lingua. Studi i programmi ebraici, religione inclusa. Non esiste una sola università araba. Per la maggioranza delle prestazioni sociali ti viene chiesto se hai assolto l'obbligo del servizio militare. E tu sei esonerato dal servizio militare. La tua Nazareth non può espandersi, per legge: ogni città araba dentro la sua Linea Blu, come foste macchie di petrolio. Finirai come tutti a costruirti una casa abusiva e guardarla un giorno travolta dalle ruspe. Certo, teoricamente sei libero di abitare ovunque. Ma di fatto, hai visto i Qaadan?

A. E la Corte Suprema ha dato loro ragione. Potranno trasferirsi a Qatzir.

E. E ti sembra normale che lo stato costruisca case riservate agli ebrei, in aree riservate agli ebrei?

A. Non lo stato. L'Agenzia Ebraica. E quello che mi interessa è che adesso la Corte Suprema ha chiarito che lo stato non può discriminare tra i suoi cittadini, né direttamente, né attraverso enti che sono formalmente privati, ma che esercitano in realtà funzioni pubbliche. Come l'Agenzia Ebraica. Le cose cambiano.

E. Quello che interessa me invece, è che i Qaadan, alla fine, a Qatzir non sono ancora entrati. E sarà come con i rifugiati di Bir'im e Iqrith. Perché anche loro hanno avuto ragione dalla Corte Suprema. Ma prima che tornassero, l'esercito ha demolito tutto. E sono ancora rifugiati. Ma forse hai ragione tu, le cose cambiano. Perché questo, in fondo, è uno stato ebraico e democratico e loro hanno avuto ragione dalla Corte Suprema. Certo. Nel 1951.


E. Avrei dovuto dire qualcosa, a quel punto: tutti che mi guardavano. Ero suo padre. Ma all'improvviso, ho come dimenticato l'ebraico. Sono nato a Baghdad. La mia vita, la mia cultura – tutto: ho lasciato Baghdad non come un ebreo in fuga dall'antisemitismo, ma un iracheno in fuga dalla guerra. Oggi sembra un ossimoro: un ebreo arabo. Ma il Medio Oriente per secoli è stato insieme cultura ellenica, cultura islamica e cultura ebraica. Maimonide scriveva in arabo. Ma forse avrei dovuto capirlo dal primo giorno, quando da Ezat mi hanno ribattezzato Ezra. Perché essere ebrei, in Israele, significa recidere ogni rapporto e continuità con la propria storia, le sue tradizioni, i suoi valori e ancorarsi invece a un legame essenzialmente astratto con quanto è accaduto duemila anni fa. Ero più ebreo a Baghdad che a Gerusalemme. E lì ai funerali, allora, all'improvviso – ma come un cortocircuito – non ricordavo più l'ebraico. Perché la cosa più difficile è confessarti non solo l'inutilità, della morte di tuo figlio, ma anche: come è finito a Ramallah alle tre di notte?, a arrestare un ragazzino di quindici anni: ma come gli è venuto? Ma non era un assassino. Diceva sempre: siamo costretti a tutto questo. Amava Israele. Anche se era solo uno di seconda classe, qui, come tutti i mizrahi. Perché questo sembra un paese normale, però poi, tra i più ricchi, nove su dieci sono ashkenaziti. Americani e europei. Noialtri siamo qui solo per fare numero. Per fare maggioranza ebraica – quantità, non qualità. In Israele prevalgono le cifre, i simboli, le pietre. Le persone sono un dettaglio. Gli operai che costruiscono il Muro: sono seguiti da archeologi. Tutto si ferma, al minimo rischio di scheggiare un'anfora del cugino del cuoco di Salomone. Ma gli arabi no. Gli arabi si può demolirgli casa con loro dentro. Impossibile sbagliarsi, qui, le comunità palestinesi si fondono al paesaggio, gli insediamenti israeliani sono saldi in cima alle colline. Sembrano divisioni di fanteria: progettati per dominare, non per abitare. A Nazareth sono un terzo più di noi su un terzo della terra. Riciclano l'acqua del bucato, mentre qui si pettina il prato. Solo che ogni risorsa, in questo paese, è destinata al cemento. Al cemento e alle armi. E così, quando mia moglie ha cominciato a consumarsi di distrofia e ho lasciato il lavoro per assisterla, siamo finiti a scegliere tra la cena e le terapie. Ma se non altro eravamo in due, adesso tocca a me. E a volte penso che si accorgeranno della mia morte dopo mesi. Penso agli abitanti di Twani e mi chiedo: chi vorrei avere come vicini di casa?, loro o questi coloni che tirano pietre ai bambini lungo la strada per la scuola? Le mie giornate sono la televisione. Ed è strano realizzare che in questo stato, che doveva essere la mia salvezza, la verità è che sopravvivo solo perché mi aiuta un prete. Giù, a Nazareth. Uno che non mi domanda se sono ebreo, se ho assolto l'obbligo del servizio militare. La parola che definiva l'identità ebraica era b'tochen: fede; oggi viene pronunciata bitachon, sicurezza. Stava per assassinarmi per autodifesa; ho dovuto assassinarlo per autodifesa: sarà raccontata così, un giorno, questa guerra. Ma lui non ha mai avuto dubbi. Dovessi riassumere il mio essere ebreo, direi: sono sempre un po' del parere del mio avversario, perché questo è il Talmud: confronto di idee differenti. Mentre questo è il paese della Bibbia. Dei comandamenti. Si è ebrei per legge, in Israele. Per genetica, non per riflessione e convinzione. Per coerenza con certi valori. Diventava tutto rosso, se gli parlavo in arabo davanti agli amici. Amava Israele. Diceva sempre: questi etiopi. Hanno paura, non sono adatti. Sparano da lontano, e finiscono per prendere anche i civili, non sono adatti. Tutta la sua vita è stata così. Perché sei un bambino, e il maestro è iracheno e il preside polacco. In ufficio, il capo è tedesco. L'infermiera è egiziana, il medico è francese. I marocchini al fronte, i bianchi alla strategia. Tutta la vita. Noi in basso, loro in alto. Eppure diceva sempre: questi etiopi. Perché non è solo questione di arabi ed ebrei, qui, ogni ebreo ha il suo ebreo orientale. No, nessuna maggioranza.

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 133

MA DEVE ESSERCI UN EQUIVOCO. IO SONO LIBERO
Marwan Barghouti



Attraverso i suoi messaggi, lei è rimasto anche dal carcere un protagonista della politica palestinese. Della sua vita però, dei suoi giorni qui non parla mai.

Perché non è solo questione di Marwan Barghouti. Si discute dei prigionieri, ogni volta, e non si discute che di numeri: una media annuale di 11mila detenuti, e un totale di 750mila dall'inizio dell'occupazione inclusi 40 deputati, in questo momento, e – no, non posso accettare che si tiri via così: Marwan Barghouti e 11mila altri, indefiniti. Non sono cifre, queste, sono persone. Sono famiglie, storie ansie, speranze. Alcuni sono dentro da trent'anni: più della sua intera vita. E però non finiscono sui giornali, sulle bandiere, sui manifesti – si consumano, così, di silenzio e solitudine. E poi perché non è solo questione di specifiche violazioni di ogni nostro più minimo diritto. Esistono scaffali interi, ormai, di studi e rapporti denunce: biblioteche di indignazione. Sapete tutti come si viene trattati, qui, torturati, quali sono le nostre condizioni – e quale che sia il carcere, e l'accusa e il nostro nome. Ma così il significato, l'obiettivo di queste migliaia di arresti svanisce diluito nei dettagli. Perché non è solo questione di Dichiarazioni Universali, no – di singole norme e convenzioni: è il sistema giudiziario qui, in sé, a essere un'arma invece che uno strumento di giustizia. Il ragazzino che tira pietre rischia dieci anni, venti se il bersaglio è mobile – vent'anni, per una pietra contro un carroarmato. Ma traslate nei media, le retate di arresti, le statistiche si trasfigurano: si convertono nell'immagine di una terra assediata da minacce alla sicurezza. Questo, semplicemente, è un sistema che definisce un uomo criminale per quello che è: non per quello che fa. Rischiamo il carcere anche se siamo in tre, per strada, a parlare di Palestina: perché per la legge israeliana, siamo un nucleo di resistenza. Tre amici che chiacchierano. Ma quello che arriva, in Occidente, sono tre terroristi.


I suoi sostenitori, tra l'altro, puntualizzano che lei non è stato arrestato, ma rapito.

Perché sono stato arrestato a Ramallah, in una delle rare aree di giurisdizione palestinese esclusiva. Ed ero un deputato: tutelato da immunità parlamentare. Ma l'illegalità di fondo è la mia stessa reclusione qui come un detenuto comune. Mi hanno processato secondo il diritto penale ordinario: come fossi un ladro, uno scassinatore. Vince il più forte, in guerra, non chi ha ragione: ma questa è la conclusione, quando il nemico si traveste da giudice. Sono un prigioniero di guerra: e invece Israele mi qualifica come un "combattente illegale"; categoria che non esiste nel diritto di Ginevra, comunque lo si interpreti – è un'invenzione americana del dopo Undici Settembre. Non sono un civile e non sono un combattente; non si capisce cosa sono: di fatto, uno senza più classificazione, senza più certezza, senza più tutela. Raccontate di esportare democrazia e stato di diritto: non è che un dilagare di anarchia e stato di eccezione. Sono le parole, qui, la più potente delle armi. Quello rapito, nei media, è Gilad Shalit: un soldato catturato nel corso di una normale operazione militare. E invece ripetete automatici "il soldato rapito" – come fossimo banditi, briganti da Mille e una notte. Quanto orientalismo, ancora: quanto inconscio neocoloniale. Non siamo avventurieri. Siamo legittimi combattenti.


Secondo gli Alan Dershowitz, Al Qaeda ha raccolto l'esempio di un terrorismo palestinese che non è stato divelto, ma al contrario – incentivato attraverso il riconoscimento di Arafat e dell'Olp come interlocutori di pace. Cosa è cambiato, qui, con l'Undici Settembre?

L'Undici Settembre ha travolto la questione palestinese. Ma perché ha travolto il diritto internazionale. Ricorda, no?, all'università, anche lei – "il diritto internazionale è il punto di evanescenza del diritto: e il diritto di guerra è il punto di evanescenza del diritto internazionale". L'Undici Settembre ha scardinato anche il poco che avevamo: ogni regola è ora ostaggio di questa nozione indefinita di terrorismo – questa minaccia davanti a cui tutto è lecito, fino all'annientamento. Perché non siamo più tutti uguali e sovrani, questa è la novità, qualcuno è un barbaro, invece, neppure più un criminale – non merita l'Aja, un tribunale, solo Guantanamo: come allo zoo, solo una gabbia. Hamas erano anni che governava, e bene, a livello municipale: e nessuno aveva mai protestato. E invece, blindati nell'Undici Settembre, gli israeliani hanno potuto convincervi che era un'organizzazione terroristica, con cui dunque non negoziare. Ma non esiste alcun rapporto tra le due cose. Resistiamo a un'occupazione, qui: è nostro diritto e dovere. Negli ultimi vent'anni, nessuno ha compiuto attentati fuori della Palestina. Ha mai visto Hamas attaccare occidentali, così, solo perché occidentali? L'unico obiettivo, qui, è la fine dell'occupazione. Ma vi ostinate invece a non specificare cosa intendete per terrorismo: e come distinguere tra terrorismo e resistenza, tra un crimine e un diritto. Perché questa vaghezza vi consente di delegittimare moralmente, e anche giuridicamente la nostra resistenza, e ogni altra rivendicazione che mina i vostri interessi; è il pilastro di questa stabilità egemonica a guida americana. Le detto un comunicato stampa.


Un comunicato che?

Un comunicato stampa. Dovessi un giorno essere ucciso, e Israele rassicurare il mondo con l'ultimo suo successo contro il terrorismo – apra le virgolette. Perché ho sofferto per anni in carcere, sono stato torturato e, come tutti voi, ho un'unica vita a disposizione; e invece non ho potuto crescere i miei figli, dividere il mio tempo con la donna che amo, e solo topi e scarafaggi sono stati compagni e testimoni di mesi interminabili in scatole di un metro e mezzo per due, mesi in cui non avevo una finestra, solo un ventilatore e la luce sempre accesa, e a volte neppure quello, a volte solo l'aria attraverso lo spioncino della porta. Per infinite volte il mio universo è stato largo quanto un cortile, e solo per meno di un'ora al pomeriggio, ammanettato mani e piedi, in isolamento senza una radio, una televisione un libro, e per toilette un foro nel pavimento. Eppure non ho mai odiato nessuno. E ancora adesso, dopo che hanno tentato di assassinarmi con un missile, e dimenticato qui con cinque ergastoli, e altri quarant'anni, dovessi per caso resuscitare, ancora adesso, uomo derubato dell'unica vita che aveva, ancora adesso, dopo Piombo Fuso, ancora sono certo che avremo un giorno coesistenza tra due stati uguali, e indipendenti e sovrani. Ho sostenuto instancabile il processo di pace, quando davvero pensavo che Israele intendesse ritirarsi dal mio paese – nessuno può dire che Israele in me non abbia trovato qualcuno con cui parlare. Io ho parlato, con Israele. Sempre. E ho creduto alle sue parole. Il mio unico problema è l'occupazione. Mi è stato tolto tutto, ma non è possibile togliermi il diritto e la dignità di smentirvi: non voglio distruggere Israele. Non voglio distruggere nessuno. Voglio solo vivere libero.

| << |  <  |